La rinuncia abdicativa e l’ammissibilità alla rinuncia al diritto di credito

La rinuncia abdicativa e l’ammissibilità alla rinuncia al diritto di credito

Il negozio abdicativo rientra nel novero degli atti di rinuncia assieme alla rinuncia traslativa e liberatoria; in particolare, con il negozio abdicativo si dismette la proprietà o la titolarità di un proprio diritto già facente parte del patrimonio del rinunciante.

Il Codice civile non definisce né prevede una disciplina generale del negozio abdicativo, contemplando specifiche ipotesi di rinuncia traslativa o liberatoria. Ad esempio, all’art. 1104 c.c. viene prevista in capo al partecipante la facoltà di rinunciare al proprio diritto per evitare di contribuire alle spese. Ancora all’art. 882 c.c., in tema di riparazioni del muro comune, viene previsto che se il comproprietario del muro rinuncia alla proprietà sullo stesso sarà esonerato dal pagamento delle spese di riparazione, purché il muro non sostenga un edificio di sua spettanza. Comunque, la rinunzia non libera il rinunziante dall’obbligo delle riparazioni a cui abbia dato causa col fatto proprio.

I casi sopra enunciati vengono annoverati quali peculiari ipotesi di rinuncia liberatoria stante il fine che muove il rinunziate: esonerarsi dall’obbligo di pagare le spese o le riparazioni.

Secondo la miglior dottrina, invece, il negozio traslativo sarebbe un vero e proprio contratto, a prestazioni corrispettive, a causa essenzialmente onerosa, rinunciabile e recettizio con ciò differenziandosi dal negozio abdicativo.

La tesi tradizionale ripudiava un negozio puramente dismissivo in ragione anche del principio del divieto di arricchimento imposto e del necessario consenso per la produzione degli effetti giuridici; tuttavia, l’orientamento maggioritario ad oggi lo ritiene ammissibile.

In particolare, sia in dottrina che in giurisprudenza è stato osservato che il negozio abdicativo si differenzia, innanzitutto, dalla rinuncia traslativa già sul pianto effettuale; invero, mentre il primo produce come effetto diretto la mera dismissione di un diritto con effetti solo riflessi verso i terzi, il secondo genera conseguenze dirette proprio verso un soggetto determinato.

Inoltre, la rinuncia abdicativa dal punto di vista strutturale viene annoverata fra i negozi giuridici unilaterali con effetti indiretti ex lege, poiché se lo si annoverasse tra i contratti sarebbe del tutto inutile sia sul piano strutturale che effettuale dato che le parti, nell’esercizio dell’autonomia contrattuale, ben possono anche estinguere effetti giuridici di natura patrimoniale ex art 1321 c.c.

Comunque, si tratterebbe di un negozio unilaterale dai tratti peculiari , poiché caratterizzato dal fatto di essere non recettizio ed irrevocabile in quanto destinato a produrre una mera abdicazione ad un proprio diritto con conseguenze meramente riflesse verso terzi.

Infine, si tratterebbe di un negozio puro che non tollera né condizioni né termini e, al contempo, è irrevocabile.

Secondo la dottrina e la giurisprudenza prevalente la rinuncia abdicativa avrebbe una causa atipica c.d. dismissiva; tuttavia, al fine della sua validità è necessario che sia in concreto meritevole di tutela ex art. 1322 c.c.

Giova rammentare che in tema di rinuncia abdicativa al diritto di proprietà, parte della dottrina ha rilevato che per negozio in questione si deve procedere ad un vaglio sulla liceità dei motivi della rinuncia, e non tanto sulla meritevolezza della causa, poiché ciò che conta è che il privato non abbia rinunciato alla proprietà per esonerarsi dalle spese di manutenzione o di ristrutturazione dell’immobile con ciò traslando tali oneri in capo allo Stato.

Quanto alla forma del negozio si applicano le regole generali e che, pertanto, se riguarda il diritto di proprietà o altro diritto reale minore è necessaria la forma scritta ex art. 1350 nr. 5 c.c. a mente del quale gli atti di rinuncia indicati ai numeri precedenti devono essere redatti per iscritto.

In via simmetrica l’art. 2643 nr. 5 c.c. prevede che gli atti di rinuncia avente ad oggetto diritti reali minori, la proprietà e comproprietà vadano trascritti.

In merito all’oggetto la giurisprudenza rileva che il rinunciante ben possa abdicare da qualsiasi diritto, purché questo sia disponibile; pertanto, non si potrà abdicare a un diritto personalissimo come la salute o la libertà personale né in tutti quei casi ex lege in cui viene vietata la rinunzia come, ad esempio, le ferie e gli alimenti.

Viceversa, il rinunciante si potrà spogliare del diritto di proprietà, di un diritto reale minore, del diritto all’usucapione, purché questa sia già maturata, e anche al diritto di credito.

Proprio sul tema della rinuncia al diritto di credito si è assistito ad un vivido dibattito giurisprudenziale maturato sul rapporto del testé accennato fra negozio con e la remissione del debito.

Secondo un primo orientamento la remissione del debito ex art. 1236 c.c. sarebbe una species del genus “negozi di rinuncia” e che pertanto non sarebbe ammissibile altra rinuncia che non assuma le forme della remissione.

Più nel dettaglio, coloro che aderiscono a tale filone ermeneutico fondano le proprie considerazioni dogmatiche, sistematiche e teleologiche sulla lettera dell’art. 1236 c.c. a mente del quale la dichiarazione del creditore di rimettere il debito estingue il rapporto obbligatorio quando viene comunicata al debitore, salvo che questi dichiari di non volerne profittare entro un congruo termine.

In primo luogo, si rileva che dal tenore letterale della già citata disposizione emerge con chiarezza che la remissione sia un negozio unilaterale come la rinuncia al credito il cui effetto comune è quello di estinguere il rapporto obbligatorio. Del resto, viene altresì precisato che non si potrebbe sostenere la divergenza fra remissione e rinuncia poiché il rapporto obbligatorio si estingue, in ogni caso, sia al venir meno del credito, sia in caso di cessazione del rapporto obbligatorio.

In secondo luogo, anche la remissione del debito sarebbe un negozio caratterizzato dai tratti dell’irrevocabilità e non sottoposto a termine o condizione.

Ancora, l’orientamento in questione evidenzia come in tema di obbligazioni solidali tra rinuncia e remissione non vi sarebbe alcuna differenza in quanto la dichiarazione del creditore di rimettere\rinunciare alla propria prestazione nei confronti di uno dei debitori solidali avvantaggerebbe gli altri. Del pari, se uno dei concreditori abdica al diritto di esigere la prestazione nei confronti del comune debitore, ciò lo esonera di adempiere per la parte rinunciata nei confronti degli altri.

Infine, dal punto di vista sistematico viene osservato come il legislatore, non a caso, abbia utilizzato il termine remissione agli artt. 1236 e 1301 c.c. senza mai far riferimento al generale concetto di rinuncia. Per tale ragione, allora, tra rinuncia e remissione sussisterebbe un rapporto di genus a species con ciò escludendo la possibilità di ipotizzare altra rinuncia al credito che non rientri nell’ipotesi di cui all’art. 1236 c.c.

In senso critico si esprime un secondo orientamento che sostiene l’alterità strutturale tra rinuncia al credito e remissione del debito rilevando che quest’ultima sia, in realtà, un negozio bilaterale recettizio, revocabile e sottoponibile a termini e condizioni.

Più nello specifico, viene evidenziato come gli effetti della remissione si producono solo nel caso in cui il debitore non dichiari, entro un congruo termine, di volerne profittare , con ciò evidenziando che siffatta dichiarazione altro non sarebbe che una accettazione rispetto alla proposta formulata dal creditore. Quanto detto sarebbe ulteriormente avvalorato dalla circostanza che il creditore deve, in ogni caso, comunicare la propria volontà di rimettere il debito.

Ebbene, già alla luce di tali considerazioni emerge con chiarezza la divergenza con la rinuncia al credito che, come è stato osservato, produce i propri effetti indipendentemente dalla volontà del debitore. Ancora, la rinuncia al credito non dovrebbe essere né comunicata né accetta stante la peculiarità di negozio unilaterale con effetti indiretti verso i terzi.

Inoltre, secondo l’impostazione in esame un ulteriore elemento di divergenza fra i testé accennati istituti si ravvisa sul piano volitivo degli effetti: mentre nella rinuncia al credito, il creditore vuole abdicare al proprio diritto già maturato (e solo come effetto indiretto ed ex lege viene liberata la controparte), nella remissione del debito il creditore è mosso dallo scopo specifico di liberare il debitore.

Infine, si rammenta che anche a voler qualificare la remissione del debito quale negozio unilaterale, comunque, esso sarebbe sottoposto a condizione risolutiva ovvero sospensiva della dichiarazione del debitore di non volerne profittare. Pertanto, la remissione del debito non assumerebbe mai le forme di negozio puro proprio dell’istituto della rinuncia abdicativa, essendo tuttalpiù una peculiare forma di rinunzia traslativa.

Nel panorama interpretativo sopra accennato si inserisce una terza tesi di carattere dottrinale che ritiene ammissibile la rinuncia al credito nei rapporti plurisoggettivi.

Innanzitutto, tale approccio dottrinale critica la seconda impostazione sostenendo che la remissione del debito, al pari della rinuncia al credito, sia un negozio unilaterale con effetto abdicativo e purtuttavia operando su un diverso piano della struttura dell’obbligazione. Difatti, mentre la remissione del debito estingue il rapporto obbligatorio, la rinuncia invece mantiene integro il sinallagma contrattuale nonostante l’abdicazione dal diritto di credito da parte del creditore.

Ebbene, nonostante nei rapporti uni-soggettivi le due figure tendono a sovrapporsi in quanto l’effetto ultimo si ravvisa nella liberazione del debitore, nei rapporti pluri-soggettivi la rinuncia al credito ha un effetto radicalmente differente rispetto alla remissione del debito.

Così se uno dei concreditori rinuncia al proprio credito nei confronti dell’unico debitore, la sua prestazione non si ridurrà in maniera proporzionale alla quota di credito oggetto di rinunzia in quanto, come è stato osservato, siffatto istituto opera al di fuori del sinallagma contrattuale.

Viceversa, quando il concreditore rimetta il debito a favore dell’unico debitore opererà l’art. 1301 c.2 c.c. a mente del quale se la remissione è stata fatta da uno dei creditori in solido, essa libererà il debitore verso gli altri creditori solo per la parte spettante al primo. Ciò in ragione del fatto che la remissione opera direttamente sul rapporto obbligatorio estinguendo uno dei fasci che connotano l’obbligazione solidale.

La divergenza fra tali istituti viene altresì ravvisata anche sul piano delle azioni nel caso in cui il debitore adempia al proprio debito. Invero, se vi è stata rinuncia al credito , l’azione per ripetere quanto pagato sarà quella contemplata dall’art. 2041 c.c. in tema di arricchimento senza giusta causa , data la non ripetibilità di un pagamento comunque effettuato in ragione di una obbligazione esistente. Invece, se vi è stata remissione del debito e il debitore adempia comunque, questi potrà ripetere l’intera somma ex art. 2033 c.c.

Nonostante il pregio della ricostruzione testé enunciata, risulta preferibile un quarto orientamento dottrinale di matrice eclettica.

Innanzitutto, si evidenzia come la tesi che sposa l’alterità strutturale fra la rinuncia al credito e la remissione del debito sul piano delle obbligazioni solidali sia valevole solo nel caso in cui si abbracci la teorica dell’obbligazione soggettivamente complessa quale “fascio di obbligazioni autonome”. Difatti, se si aderisse alla seppur minoritaria teoria dell’unicità dell’obbligazione complessa sul piano soggettivo, l’effetto della remissione sarebbe lo stesso della rinuncia al credito.

In ogni caso, per entrambi gli istituti già accennati opererebbe sempre e comunque l’art. 1301 c.2 c.c. in qualità di disposizione a carattere generale valevole per le obbligazioni solidali a prescindere dal nomen juris “remissione”.

In secondo luogo, la remissione del debito è un istituto a struttura variabile potendo assumere sia la forma contrattuale che del negozio unilaterale. Invero, ben potrebbe accadere che il creditore comunichi al debitore che egli rimetterà il debito “se questi vorrà”: in tal caso si tratterebbe di una remissione a costruzione bilaterale. Viceversa, quando il creditore affermi di liberare il debitore se “entro un congruo termine questi non si avvalga della facoltà di rifiutare” allora la remissione avrà la struttura di negozio unilaterale, recettizio e revocabile. Infine, qualora il creditore dismetta il proprio credito, puramente e semplicemente, si tratterà di una rinuncia abdicativa connotata dai crismi della non recettizietà, irrevocabilità e non sottoposta a condizione alcuna.

Pertanto, la remissione del debito, anche nella forma del negozio unilaterale, comunque divergerà dalla rinuncia del credito proprio in ragione del fatto che al debitore non solo deve essere comunicata la volontà di rimettere il debito, ma è altresì data la facoltà di rifiuto postumo che assurge a condizione risolutiva o sospensiva dell’obbligazione.

Sul piano delle azioni esperibili da parte del debitore che abbia pagato nonostante la rinuncia\remissione, tale impostazione adotta un approccio unitario applicando l’azione di indebito oggettivo in ragione del fatto che si tratterebbe di uno spostamento privo di qualsivoglia giustificazione causale.


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