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National Geographic Fest 2023: gli inverni sulle Alpi saranno senza neve?

L’economia e la cultura delle Alpi dipendono dalla neve invernale che è sempre più minacciata dal riscaldamento globale. Il tema sarà oggetto di discussione durante il National Geographic Fest.

DI DENISE HRUBY

pubblicato 09-11-2023

National Geographic Fest 2023: Inverni senza neve

Grand Jorasses, Aiguille du Midi, Alpi francesi. La copertura nevosa delle Alpi, negli ultimi anni, è calata drasticamente. Il riscaldamento ha raggiunto anche le altitudini più elevate. 

FOTOGRAFIA DI GORILLAIMAGES/SHUTTERSTOCK

Circondato da vette frastagliate talmente alte da perforare le nuvole, il gatto delle nevi si allontana da un cumulo di neve compatta alto 13 metri, srotolando un lungo telo bianco. In cima al cumulo sei operai sono impegnati a unire i pannelli di tessuto sintetico con una macchina per cucire industriale portatile. È giugno e mi trovo nell’area del Kitzsteinhorn, in Austria, una delle località sciistiche più fredde e a quota più elevata delle Alpi. L’acqua di disgelo scorre nei burroni sul fianco della montagna. Ma sulla sommità del ghiacciaio la squadra di manutenzione delle piste da sci è già al lavoro per la prossima stagione.

Anche a quota 3.000 metri, fare affidamento solo sulla neve naturale è diventato rischioso. Così il gruppo guidato dal direttore tecnico Günther Brennsteiner sta prendendo le dovute precauzioni. Gli operatori hanno impiegato più di un mese per raccogliere l’ultima neve di quest’anno in otto cumuli di varia altezza, alcuni dei quali sono più grandi di un campo da calcio, e adesso lavoreranno per un altro mese per coprirli con teli isolanti durante l’estate. All’arrivo della nuova stagione, se farà troppo caldo perché nevichi - o non sarà neppure possibile fabbricare la neve artificiale - autocarri e gatti delle nevi spargeranno la vecchia neve sulle piste da sci. «Il riscaldamento globale ha cambiato tutto», afferma Brennsteiner, che ha cominciato a lavorare qui trent’anni fa, in quelli che ormai sembrano i tempi d’oro dello sci.

Gli inverni alpini quasi non esistono più. Dall’Ottocento a oggi, le temperature medie in questa catena montuosa sono aumentate di 2 °C, quasi il doppio della media mondiale. La neve arriva più tardi e fonde più in fretta. Stando agli studiosi che hanno analizzato i dati di oltre 2.000 stazioni meteorologiche, le Alpi nel loro complesso hanno perso circa un mese di copertura nevosa. Per molti dei 14 milioni che vivono in una delle catene montuose più densamente popolate del mondo le implicazioni sono spaventose. L’economia qui dipende dalla neve, che attira 120 milioni di turisti all’anno, molti di più di quelli che visitano gli Stati Uniti. Oltre a lavorare a Kitzsteinhorn, Brennsteiner è il sindaco di Niedernsill, un villaggio pedemontano di 2.800 abitanti. La stagione invernale è una fonte di guadagno cruciale per quasi tutte le famiglie, dice. Senza la neve, qui resterebbero solo un migliaio di persone. «Non avremmo più bambini negli asili», afferma Brennsteiner, descrivendo una situazione preoccupante. «La neve è la nostra risorsa principale».

Le comunità alpine stanno facendo di tutto per salvarsi. Si calcola che attualmente l’industria dello sci sia alimentata da 100 mila generatori di neve, sufficienti per imbiancare in poche ore una superficie vasta come New York. Oltre a stoccare la neve come a Kitzsteinhorn, la gente si è industriata per tentare di ritardare il rapido scioglimento provocato dal riscaldamento globale e ha cominciato a coprire con teli protettivi il ghiaccio di alcuni dei circa 4.000 ghiacciai delle Alpi. Un gruppo di scienziati svizzeri ha ideato un progetto visionario per salvare un ghiacciaio ricoprendone un’area con neve artificiale.

Alcuni di questi metodi sono ingegnosi e interessanti, altri discutibili sotto il profilo ambientale ed economico. Ma tutti sono dettati da una profonda preoccupazione: senza l’inverno, che ne sarebbe della vita qui?

National Geographic Fest 2023: Inverni senza neve

Una veduta delle Alpi di Kitzsteinhorn, in Austria, tra le località sciistiche più ad alta quota dell’intera catena montuosa.

FOTOGRAFIA DI ANDREAS BOHRER/SHUTTERSTOCK

Come Brennsteiner e il fotografo Ciril Jazbec, anch’io ho avuto la fortuna di crescere nelle Alpi in un’epoca in cui la neve era abbondante. Ricordo l’emozione di lasciare le piccole impronte dei miei piedi sulla prima neve della stagione; ricordo le guance arrossate di mio padre che spalava continuamente la neve davanti casa. I miei genitori mi hanno messo gli sci ai piedi per la prima volta che non avevo neppure tre anni.

A quanto pare quel periodo è stato un’anomalia storica. Gli inverni freddi e nevosi sono diventati un vantaggio per le Alpi solo nella seconda metà del Novecento. Prima di allora erano un gravoso fardello che il folclore attribuiva ai demoni malvagi. La mia generazione è una delle ultime ad aver sentito i racconti di chi aveva lottato per sopravvivere da queste parti, quando l’economia era ancora fondata sull’agricoltura. La neve copriva i piccoli appezzamenti di terreno per mesi. Le valanghe precipitavano verso valle seppellendo interi villaggi. Uno dei nove fratelli di mia nonna, Walter, è morto in una circostanza del genere. Aveva 24 anni.

Quando il cibo scarseggiava, e capitava spesso, i ragazzi delle zone più povere delle Alpi erano costretti a trasferirsi nelle località di pianura, dove si offrivano come lavoratori stagionali in appositi “mercati”; di solito l’ingaggio durava da marzo a ottobre. “Un mercato degli schiavi neppure troppo nascosto”, scriveva il Times-Star di Cincinnati nel 1908, descrivendo ciò che avveniva a Friedrichshafen, nella Germania meridionale. Nell’articolo si leggeva che circa 400 bambini, sia maschi che femmine, alcuni dei quali avevano solo sei anni, venivano valutati dai futuri padroni “come fossero vitelli o polli”. La pratica rimase in vigore ancora per molti anni.

Dopo la Seconda guerra mondiale il boom economico favorì lo sviluppo di una fiorente borghesia in tutta Europa, ma non nelle Alpi, per lo meno non all’inizio. Le aziende agricole non potevano espandersi né usare i macchinari moderni, che consentivano agli altri di prosperare, perché i versanti delle montagne erano troppo ripidi, spiega Johann Wolf, nato nel remoto villaggio di Ischgl, in Austria, nel 1929, durante l’inverno più freddo mai registrato.

Wolf e altre persone del posto si resero conto che il turismo invernale era l’unica cosa che poteva salvarli. In un ultimo gesto disperato vendettero il bestiame e diedero in garanzia la loro terra per ottenere un prestito, investendo poi il denaro in una funivia. Ischgl stava per perdere tutto, ma vinse la scommessa. Nel 1963 la funivia cominciò a portare in vetta i turisti e a risollevare le sorti degli abitanti del villaggio. Nel frattempo anche altre località delle Alpi optavano per un cambiamento simile.

Oggi nel sito dove un tempo si trovava l’antica fattoria in cui è nato Wolf c’è un albergo a quattro stelle. Ischgl è pieno di hotel, chalet di lusso con tanto di vasche idromassaggio, ristoranti eleganti e locali che animano la vita notturna con concerti di star come Rihanna, Pink e Lenny Kravitz.

Molti abitanti del posto si considerano ancora semplici agricoltori che amano la loro valle. Il figlio e il nipote ventiseienne di Wolf, Hannes e Christoph, mi presentano i loro quattro animali - il toro Hermann e le mucche Kathi, Gitta e Lilly - che stanno mangiando fieno su uno dei terreni più costosi delle Alpi. La famiglia non ha nessuna intenzione di liberarsene. «Loro rappresentano la nostra tradizione», afferma Wolf.

L’allevamento alpino, tuttavia, non basta più per vivere. «Senza l’inverno, queste valli sarebbero completamente abbandonate e deserte», dice Hannes. Nel 2020 Ischgl ha avuto un assaggio della terrificante prospettiva quando è stato uno dei primi focolai della pandemia di Covid-19. I turisti che sono partiti in fretta hanno contribuito a diffondere il virus in Europa. Ma i cambiamenti climatici pongono una minaccia ancora più seria. Un aumento delle temperature di uno o due gradi può sembrare poca cosa, eppure è sufficiente per determinare se le precipitazioni saranno nevose o piovose. È per questo motivo che le Alpi sono nei guai, afferma Yves Lejeune, lo scienziato che dirige la stazione meteorologica installata a Col de Porte, a 1.325 metri di altitudine, nelle Alpi francesi occidentali.

Andando al lavoro, Lejeune passa ogni giorno da Le Sappey-en-Chartreuse, un piccolo villaggio con una chiesa al centro e piste da sci lungo il fianco della montagna. È lì che Lejeune ha imparato a sciare quando aveva cinque anni. Ma il villaggio sorge a soli 1.000 metri di altitudine. «Adesso è tutto finito», dice lo studioso senza giri di parole. «Avranno ancora un anno buono due, ma non di più».

Lejeune mi indica un grafico in cui i dati relativi alla profondità della neve a Col de Porte degli ultimi 30 anni sono confrontati con quelli di un periodo analogo precedente. La linea precipita verso il basso, mostrando una diminuzione media della copertura nevosa di 37,7 centimetri. «È tanto, è veramente tanto», commenta Lejeune.

Il riscaldamento adesso ha raggiunto le altitudini più elevate. «Se qualcuno in passato mi avesse detto che avremmo avuto bisogno dei generatori di neve, lo avrei preso per matto», afferma Peter Leo, che a Kitzsteinhorn è responsabile della gestione della neve. Oggi «non potremmo vivere senza queste macchine».

Lo stesso direbbe la maggior parte dei gestori dei 1.100 impianti di risalita delle Alpi. La neve delle aree sciistiche ormai è in massima parte artificiale. Solo a Kitzsteinhorn, ci sono 104 cannoni da neve color erba, disposti strategicamente intorno alle piste. Ognuno pesa e costa quanto una piccola automobile.

Leo ne accende uno, il rumore è assordante. I nucleatori presenti a un’estremità del cilindro mescolano aria e acqua creando piccolissimi cristalli di ghiaccio, gli ugelli spruzzano acqua che tende ad addensarsi intorno ai cristalli iniziali; la grossa ventola posta all’altra estremità - «così potente da risucchiarti all’interno», urla Leo - spara a distanza i fiocchi di neve così ottenuti, che aumentano di dimensioni mentre cadono al suolo.

National Geographic Fest 2023: Inverni senza neve

Il ghiacciaio di Morteratsch, negli ultimi 100 anni, si è ritirato di oltre 1,5 chilometri. La valle non è più coperta da uno spesso strato di ghiaccio, come agli inizi del ‘900. Anzi, la vegetazione è sempre più presente.

FOTOGRAFIA DI DANIELE MEZZADRI/SHUTTERSTOCK

Osservando un ghiacciaio come il Kitzsteinhorn si fa fatica a capire come minuscoli fiocchi di neve abbiano potuto formare una massa di ghiaccio tanto immensa. Il processo è durato secoli: ogni strato fresco di neve premeva su quelli sottostanti, finché la neve non si è solidificata in ghiaccio e ha cominciato a scorrere verso il basso sotto il suo stesso peso. Dalla fine dell’Ottocento i ghiacciai delle Alpi si ritirano in maniera pressoché costante.

Il glaciologo svizzero Felix Keller ha avuto un’idea per invertire la tendenza. Keller è cresciuto in un villaggio vicino a St. Moritz, la località delle Alpi in cui è nato il turismo invernale. Quando l’ho incontrato lì, mi ha portato all’Hotel Morteratsch, dove mi ha mostrato una foto in bianco e nero dell’ultimo principe ereditario dell’impero tedesco, Guglielmo di Prussia, scattata nel 1919. Il principe e il suo entourage posano sorridenti sul ghiacciaio del Morteratsch, che all’epoca era proprio fuori l’albergo. Tutta la valle era coperta da uno spesso strato di ghiaccio.

Keller e io siamo andati nello stesso luogo della foto. Negli oltre 100 anni trascorsi dalla visita di Guglielmo, i larici e i pini hanno preso il sopravvento; alla fine dell’estate gli abitanti del posto vengono qui a cercare funghi e mirtilli. Il ghiacciaio del Morteratsch non è più così vicino, si è ritirato di oltre 1,5 chilometri.

Nel complesso, dal 1850 a oggi i ghiacciai alpini hanno perso due terzi del loro volume, e la perdita è sempre più rapida. «Se non agiamo adesso, scompariranno tutti», sostiene Matthias Huss, glaciologo dell’ETH di Zurigo. Per Huss “agire” significa ridurre drasticamente le emissioni di CO2 che causano il riscaldamento globale.

Secondo Keller si può tentare anche qualcos’altro: non si potrebbe fare in modo che l’acqua di disgelo rimanga ad alta quota e si trasformi nuovamente in ghiaccio? «Credevo che nel giro di 10 minuti avrei capito perché l’idea non poteva funzionare», racconta Keller. «Ma non ho trovato ragioni valide».

Il suo amico e collega Hans Oerlemans, che studia il Morteratsch dal 1994, ha aggiunto un dettaglio cruciale: l’acqua di disgelo doveva essere trasformata in neve fresca, che riflette il 99 per cento dei raggi solari e può proteggere il ghiaccio in estate. Oerlemans ha calcolato che coprendo appena il 10 per cento del ghiacciaio, nella zona in cui si registra la perdita maggiore, dopo dieci anni questo comincerebbe ad avanzare di nuovo. Lui e Keller erano emozionati per la semplicità dell’idea.

Keller e Oerlemans ritengono che per salvare il Morteratsch si dovrebbero coprire all’incirca 80 ettari con più di 9 metri di neve ogni anno. Ma fabbricarne più di due milioni e mezzo di tonnellate con i comuni generatori di neve implicherebbe un consumo energetico troppo alto.

Per realizzare il progetto che hanno chiamato MortAlive, Keller e Oerlemans hanno chiesto la collaborazione dei ricercatori delle università svizzere, di un’importante azienda produttrice di funivie e della Bächler Top Track Ag, specializzata in generatori di neve. Il gruppo ha ideato un sistema che prevede l’impiego di sette cavi simili a tubi di gomma, ciascuno lungo circa un chilometro, sospesi tra due morene che fiancheggiano il Morteratsch. L’acqua del lago di disgelo d’alta quota - che si prevede si formerà presto in un ghiacciaio vicino - dovrebbe scorrere attraverso i cavi, essere spruzzata dagli ugelli brevettati dalla Bächler e cadere sotto forma di neve sul Morteratsch. Il tutto funzionerebbe senza elettricità.

Ho assistito al primo collaudo di un prototipo da un parcheggio vicino al ghiacciaio. Il gruppo aveva sospeso tra due pali un solo cavo dotato di sei ugelli. A un certo punto un tubo si è congelato ed è stato necessario sostituirlo, ma il sistema ha funzionato. Quando i primi fiocchi di neve gli sono caduti sulla testa Keller aveva le lacrime agli occhi.

Solo per arrivare a collaudare un prototipo sono stati necessari quattro milioni di dollari, forniti dal governo svizzero, una banca e tre fondazioni. L’installazione del sistema completo costerebbe 170 milioni di dollari, spiega Keller. Per costruirlo si deve ottenere il permesso di scavare un tunnel in un’area protetta e ci vorrebbero circa dieci anni prima di poter spruzzare la prima neve sul Morteratsch. Per allora il ghiacciaio si sarà ritirato di altre centinaia di metri.

Huss, per parte sua, è convinto che i cavi da neve non saranno mai installati, perché i vantaggi sarebbero minimi rispetto ai costi decisamente elevati. Anche in uno scenario moderatamente ottimistico, prosegue lo studioso, le simulazioni effettuate mostrano che il ghiacciaio del Morteratsch sarà quasi del tutto sparito prima della fine del secolo, con o senza MortAlive.

Keller sottolinea che questo genere di simulazioni sono notoriamente imprecise. Ma sa bene che non c’è più molto tempo per intervenire. «Quando sarò sul letto di morte vorrei poter dire ai miei figli e nipoti di avere perlomeno tentato di fare qualcosa di buono», sostiene. «Sarà comunque meglio che essersi limitati a parlare dei problemi».

In gran parte delle Alpi il ghiaccio e la neve sembrano avere il destino segnato. E la cosa può avere ripercussioni giù a valle. Durante le estati asciutte i fiumi più grandi d’Europa - il Rodano, il Reno, il Danubio e il Po - sono in buona parte alimentati dall’acqua di disgelo. La navigazione e l’irrigazione stagionali potrebbero diventare un problema. Le Alpi, tuttavia, continueranno a essere il serbatoio d’acqua dell’Europa - le nuvole continueranno a ingrossarsi e svuotarsi sui fianchi delle montagne - e i paesi ricchi troveranno sicuramente il modo di salvaguardare le loro riserve idriche.

La perdita del turismo invernale potrebbe rivelarsi un problema più serio. Intere comunità adesso devono fare i conti con il fatto che la loro stessa esistenza dipende da un fenomeno talmente effimero da sciogliersi sotto il sole. Molte hanno deciso di investire di più nella stagione estiva: sentieri per la mountain bike o il trekking, spazi per lo slittino estivo e l’arrampicata. A Kitzsteinhorn adesso arrivano molti turisti provenienti da paesi caldi come l’Arabia Saudita. Ma il turismo estivo è sempre esistito sulle Alpi, e ampliarlo al punto da compensare le perdite legate alle attività sciistiche sarà difficile. 

Il Comune francese di Abondance, a 900 metri di altitudine, sta affrontando questa difficile transizione. Quando i suoi impianti di risalita sono stati chiusi, nel 2007, i media lo hanno descritto come la prima località sciistica vittima dei cambiamenti climatici. Ma i suoi 1.400 abitanti non erano pronti a dire addio allo sci. Nel 2008 hanno eletto un nuovo sindaco, Paul Girard-Despraulex, che ha mantenuto la sua unica promessa elettorale e ha riaperto gli impianti di risalita.

Nato in una famiglia di contadini nell’anno in cui era stata costruita la funivia, Girard-Despraulex aveva visto il suo villaggio prosperare grazie al turismo invernale. Malgrado ciò, quando un investitore gli ha proposto un piano di sviluppo per trasformare Abondance in una grande stazione di sport invernali collegandola a un altro centro vicino, il sindaco è rimasto perplesso. Per realizzare il progetto, infatti, si doveva far saltare parte di una montagna e distruggere un’antica foresta di abeti. «Non era questo che volevamo», afferma Girard-Despraulex.

Anche in altre località delle Alpi i piani per espandere il turismo invernale hanno incontrato resistenza. In Austria 160 mila persone hanno firmato una petizione per bloccare un piano analogo per unire le stazioni sciistiche di Ötztal e Pitztal, che anche in questo caso prevedeva la distruzione di parte di una montagna. Gli abitanti di Morzine, un altro paesino francese vicino ad Abondance, sono riusciti a fermare la costruzione di una nuova funivia. Uno studio indipendente aveva dimostrato che il progetto poteva rivelarsi inutile, vista la tendenza verso inverni con poca neve o addirittura senza. 

Ad Abondance, Girard-Despraulex punta a una diversificazione dell’offerta turistica. Oltre alle piste da sci, il paesino adesso propone il pattinaggio su ghiaccio su un lago naturale e corse in slittino durante l’inverno, e maggiori opportunità per la mountain bike e il trekking in estate. Poiché i caseifici locali rimangono una risorsa importante, ad Abondance c’è anche un museo dedicato al formaggio. Di recente, Girard-Despraulex ha fatto ricostruire il tetto di un’abbazia abbandonata risalente al XII secolo, in modo che la struttura possa essere aperta ai visitatori in tutta sicurezza.

«Non abbiamo ancora trovato l’approccio giusto, le idee giuste, ma continuiamo a lavorare, elaborando e sperimentando nuove proposte», dice. Siamo nel chiostro dell’abbazia e il sindaco mi indica un affresco raffigurante le nozze di Cana, durante le quali Gesù trasformò l’acqua in vino. Il restauro, già programmato, farà risplendere di nuovo i colori sbiaditi.

National Geographic Fest 2023: Inverni senza neve

Il comprensorio sciistico di Unterberg fa affidamento solo sulla neve naturale per il suo funzionamento. Negli ultimi anni, i giorni disponibili per poter sciare sono stati sempre meno.

FOTOGRAFIA DI KAREL STIPEK/SHUTTERSTOCK

Nessun miracolo salverà l’inverno sulle Alpi. Fabbricare neve artificiale, conservarla, spruzzarla sui ghiacciai, tutto ciò servirà, al massimo, a far guadagnare tempo ad alcune località.

La bellezza delle Alpi, che suscitavano invidia molto tempo prima che la gente del posto costruisse la propria vita intorno agli inverni nevosi, rimarrà. Ma la sparizione della neve e del ghiaccio rappresenta una perdita emotiva, culturale e identitaria, oltre che economica. Quando il ghiacciaio Pizol si è ridotto al punto da essere eliminato dalle mappe del servizio di monitoraggio dei ghiacciai, la gente del posto ha organizzato un funerale per commemorarlo.

Quando ero bambina, andare a sciare era il passatempo preferito della stragrande maggioranza degli abitanti delle Alpi, indipendentemente dalla condizione sociale o dal reddito. Come me, il mio amico d’infanzia Dominik e la sua compagna Julia sono stati spinti sulle piste da sci in tenera età. Meno di trent’anni dopo, il loro figlio Johann, che ha appena compiuto quattro anni ed è il mio figlioccio, è affascinato dalla neve. Ma la conosce soprattutto grazie alle canzoni e ai libri.

Nel febbraio del 2021, in una bella domenica di sole, siamo andati sull’Unterberg, vicino a Vienna, per vedere la neve vera. Proprio ai piedi della vetta di 1.342 metri abbiamo trovato un po’ d’inverno. «Luccica!», ha urlato Johann, tuffandosi sulla neve, provando poi a leccare guardingo il mucchietto che teneva nel guanto. Voleva costruire un pupazzo di neve, ma lo strato era alto meno di tre centimetri.

Sua madre Julia, 33 anni, qui ha imparato a sciare. «Non ci passava neppure per la testa che gli impianti potessero essere chiusi per mancanza di neve», ripeteva mentre camminavamo accanto agli skilift fermi. Quando nel 2014 si era deciso di chiudere questi impianti per sempre, la gente del posto ha raccolto quasi 75 mila euro per tenerli in funzione. Ma a questa quota fa troppo caldo per investire denaro nei generatori di neve. Così l’Unterberg fa affidamento solo sulla neve naturale, promuovendosi come località sciistica in cui «la neve cade ancora dal cielo».

Questo articolo è stato pubblicato sul numero di marzo 2022 di National Geographic Italia.