Figli, dono di Dio non proprietà dei genitorio

SANTA FAMIGLIA  anno C (30 dicembre 2018) – Letture:  1Sam 1, 20-22.24-28; 1Gv 3, 1-2.21-24; Lc 2, 41-52
Samuele, figlio di Anna («impetrato dal Signore») è segno di un duplice dono: il dono di Dio ad Anna e il dono di Anna al Signore. La prima grande lezione della festa della Santa Famiglia è allora questa: i figli sono dono di Dio e a Lui appartengono, non ai genitori.
In questa luce si può comprendere e meditare la risposta che il Vangelo di Luca pone oggi nella bocca del dodicenne Gesù ritrovato nel Tempio: «Perché mi cercavate? Non sapevate che che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?»
Dicendo «tuo padre», Maria si riferiva a Giuseppe. Rispondendo con quel «Padre mio», Gesù pensava a Dio, rivelando così la sua obbedienza senza riserve a Lui.
In tutto il vangelo di Luca, dalla prima parola sino all’ultima sulla croce («Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito»), Gesù è il Figlio, piena rivelazione del Padre.

Lo smarrimento di Gesù al Tempio, durante il pellegrinaggio annuale a Gerusalemme, non è – come alcuni hanno tentato di leggere – una pagina sulla crisi adolescenziale del dodicenne Gesù che, di testa sua, quindi in aperta contestazione con i suoi genitori, decide di non fare rientro a Nazareth con il resto della carovana per concedersi una fuga in solitaria nella Città Santa.
La narrazione lucana è distante anni luce da questa interpretazione psicoanalitica: cuore del racconto è Gesù «seduto in mezzo ai dottori, mentre li ascoltava e li interrogava».
Gesù, come ogni buon ebreo, a dodici anni entra nella maturità anche nei confronti della Legge e della religione: è quindi la sua prima, grande autorivelazione.
Per Maria inizia quel cammino, spesso duro e difficile, che le farà scoprire il mistero nascosto in questo ragazzo, fino ai piedi della croce. La sua vicenda di madre sarà allora quella di ogni genitore che dove accettare nel proprio figlio un progetto non suo, non potendo mai considerare il figlio un possesso personale a cui imporre un destino già stabilito.

Dominare o considerare come proprietà il figlio (o la moglie o il marito) è prodotto di un’anima gretta e incapace di «meditare nel cuore»: questo è invece lo stile della Santa Famiglia di Nazareth dove la vera autorità è quella di far crescere l’altro: «Bisogna che lui cresca e che io diminuisca».

Della famiglia ha lascia un incantevole affresco il poeta libanese Gibran:

Siete nati insieme nel matrimonio e insieme sarete in eterno.
Sarete insieme quando le bianche ali della morte disperderanno i vostri giorni.
Sarete insieme anche nella silenziosa memoria di Dio.
Ma lasciate che vi sia spazio nel vostro essere insieme e lasciate che i venti del Paradiso danzino fra voi.
Amatevi l’un l’altro, ma non fate dell’amore una catena:
lasciate piuttosto che vi sia un mare in movimento tra i lidi delle vostre anime.
Cantate e ballate insieme e siate gioiosi, ma lasciate che ognuno sia solo.
Anche le corde di un liuto sono sole, eppure fremono alla stessa musica.
Datevi i vostri cuori ma non per possederli, perché solo la mano di Dio può contenere i vostri cuori.
State in piedi insieme, ma non troppo vicini perché le colonne del tempio stanno separate
e la quercia e il cipresso non crescono l’una all’ombra dell’altro. 

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