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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PISA DOTTORATO DI RICERCA IN LETTERATURE STRANIERE MODERNE (IV ciclo, curriculum Letteratura Spagnola) IL DANTISMO NELLA STORIA DI UN POETA TRADUTTORE: IL CASO DI ÁNGEL CRESPO Presidente del corso di Dottorato prof. Mario Curreli Relatore prof. Giulia Poggi Candidata Caterina Isoldi Anno Accademico 2005/2006 A Pilar Purchè sappia riconoscere l’essenza della poesia e voglia attivamente restarle fedele, la traduzione delle poesie è certamente oggi più che mai necessaria. È una delle attività del nostro tempo infelice che potrebbero contribuire a salvare il mondo. Yves Bonnefoy A la poesía cabe, más que comprender el mundo, transformarlo. Ángel Crespo Indice dei capitoli Cap. 1: PRELIMINARI 1. Fortuna di Dante in Spagna 3 2. Il dantismo crespiano: circostanze e ragioni di una scelta 17 3. Poetica crespiana della traduzione 25 Cap. 2: ÁNGEL CRESPO TRADUTTORE DI DANTE 1. L’aspetto tecnico della traduzione: problemi e metodi del tradurre tra fedeltà e interpretazione 40 2. La paternità di Virgilio, l’anelito conoscitivo di Ulisse (Inf. XXVI) 59 3. L’ incontro con Stazio, ovvero un “Parnaso confidencial” (Purg. XXI) 83 4. L’esilio nella profezia di Cacciaguida (Par. XVII) 108 5. La traduzione dei sonetti 122 6. Osservazioni da una lettura comparata di quattro traduzioni spagnole della Commedia 129 Cap. 3: ÁNGEL CRESPO INTERPRETE DI DANTE 1. Articoli e saggi brevi 140 2. Le metamorfosi della specie umana nella Commedia 146 3. Una lettura della Commedia tra spiritualità e impegno civile: l’introduzione alla traduzione 4. La monografia Dante y su obra 156 161 Cap. 4: ÁNGEL CRESPO POETA DI FRONTE A DANTE 1. Dante personaggio della poesia crespiana: “onore e lume” 174 2. La poesia crespiana negli anni della traduzione 184 3. La presenza di Dante nei diarî di Ángel Crespo 213 1. Carteggi 225 2. Fondi danteschi della biblioteca crespiana 244 3. Pilar Gómez Bedate, La medalla de Florencia 259 Appendici: Bibliografia 269 1 AVVERTENZA BIBLIOGRAFICA Tutte le citazioni delle poesie di Ángel Crespo sono tratte dall’edizione postuma della poesia completa: Poesía, 3 tomos, ed. de Pilar Gómez Bedate y Antonio Piedra, Fundación Jorge Guillén, Valladolid 1996. In seguito citata come Poesía 1996, indicando la raccolta, il volume e la pagina in cui si trova la poesia citata. Tutte le citazioni dalla traduzione di Ángel Crespo della Commedia sono tratte dall’edizione: Dante Alighieri, Divina Comedia, introducción traducción prólogo y notas de Ángel Crespo, Planeta, Barcelona 1999; in seguito indicata come Divina Comedia 1999. Per la sua traduzione Crespo seguì l’edizione della Divina Commedia di Natalino Sapegno, La Nuova Italia, Firenze, per l’Inferno la XX ristampa del 1967, per il Purgatorio la XVII ristampa del 1966, per il Paradiso la XIII ristampa del 1966. L’edizione italiana di riferimento della Commedia che ho usato nel mio lavoro è quella curata da Annamaria Chiavacci Leonardi: Commedia, Inferno, con il commento di Annamaria Chiavacci Leonardi, Zanichelli, Bologna 1999; Commedia, Purgatorio, con il commento di Annamaria Chiavacci Leonardi, Zanichelli, Bologna 2000; Commedia, Paradiso, con il commento di Annamaria Chiavacci Leonardi, Zanichelli, Bologna 2001. Si citano inolte i seguenti dizionari di frequente consultazione: Joan Corominas, Diccionario crítico etimológico de la lengua castellana, Francke, Berna 1954; in seguito Corominas; María Moliner, Diccionario de uso del Español, Gredos, Madrid 1998; in seguito Moliner; Siebzehner-Vivanti, Dizionario della Divina Commedia, Feltrinelli, Milano 1965; in seguito Siebzehner-Vivanti. 2 Capitolo 1: Preliminari 1. Fortuna di Dante in Spagna 1 Nella sua Bibliografía hispánica sobre Dante y España entre dos centenarios 2 , Joaquín Arce documenta la conoscenza dell’opera e della figura di Dante Alighieri in ambito ispanico, provvedendo a dare “noticia de todo lo referente a la presencia de Dante o de la obra dantesca en las publicaciones del ámbito lingüistico hispánico”. A questa documentazione bibliografica, l’italianista premette che, nella storia della letteratura spagnola dal sec. XV fino ad oggi, “Dante ha estado siempre presente” secondo diverse modalità, dalle imitazioni quattrocentesche alla sintonia empatica che vibra nei versi di alcuni moderni, per i quali non si tratta più di imitazione ma di memoria poetica che scuote e ravviva la propria creazione originale. Tramite alcune note storiche vorrei delineare il percorso diacronico della fortuna e della diffusione dell’opera 3 dantesca in Spagna, nell’esplicita attenzione all’opera dantesca ed a quegli aspetti di essa che gli intellettuali spagnoli hanno maggiormente sentito vicini alla propria cultura. Secondo quanto afferma Enzo Esposito, il carattere generale del dantismo spagnolo “ha sempre risentito di una condizione culturale particolarmente disposta ai riferimenti di carattere teologico, religioso, biografico, meno propensa invece alle indagini critico-filologiche 4 ”. La storia del dantismo spagnolo si può distinguere in quattro fasi cronologiche, in quanto le tracce più evidenti della presenza di Dante nella cultura spagnola si riscontrano nel Quattrocento e nel Cinquecento, e, dopo un periodo di minore presenza 1 Le informazioni fondamentali cui mi riferisco sono tratte da: Enciclopedia Dantesca s.v. Spagna, Fortuna di dante in Spagna; Werner Paul Friederich, Dante’s Fame abroad 1350-1850, edizioni di storia e letteratura, Roma 1950, cap. 1 Dante in Spain, pp. 13-55; Ángel Crespo, Dante in Spagna, in “L’Albero”, n. 61-62, 1979-1980; Joaquín Arce, Dante y el humanismo castellano, in Literaturas Italiana y Española frente a frente, Espasa Calpe, Madrid 1982, pp. 141-168; ID., Situazione attuale degli studi danteschi in Spagna, in Dante in Francia, Dante in Spagna, atti degli incontri internazionali Danteschi, Bari 1974 – 1975, Oceania, Bari 1978, pp. 99-119; ID., Dante nel novecento spagnolo, in “Il Veltro”, Rivista della Società Dante Alighieri, anno XII, n.6, dicembre 1968; Lecturae Dantis 1990: Dante e la Spagna, in Letture Classensi voll. 20/21, Longo, Ravenna 1992; Dante nel mondo, raccolta di studi a cura di Vittore Branca, Olschki, Firenze 1965. 2 In Dante nel mondo, cit., p. 407. 3 La fortuna e l’influenza di Dante in Spagna si identificano in linea di massima con la fortuna e diffusione della Commedia. 4 Enzo Esposito, La critica dantesca in Spagna dal 1950 al 1970, in Lecturae Dantis 1990, cit., p. 14. 3 del modello culturale dantesco nel Seicento e Settecento, l’Ottocento e il Novecento vedono una nuova auge nella popolarità dell’opera dell’Alighieri. Nell’ambito culturale ispanico, il secolo XV appare marcato dalla sensibilità degli intellettuali al nuovo spirito umanistico rappresentato dagli autori della classicità latina e da quelli italiani, tra cui Dante costituisce, secondo le parole di Arce, un modello supremo, addirittura decisivo nello sviluppo della letteratura spagnola. L’aspetto di Dante che prevale in questo secolo è quello del grande inventore della lingua italiana, la cui lezione appare paradigmatica per la preoccupazione 5 di rinnovamento e arricchimento del castigliano così fortemente sentita nell’operare poetico del Quattrocento spagnolo. Lore Terracini, nel suo saggio a proposito della lingua letteraria nella Spagna del Rinascimento, definisce questo secolo proprio come “uno dei più formativi dell’espressività spagnola […] con la sua ricerca formale inquieta e virtuosistica perché intemperante e tecnicamente insufficiente 6 ”. Nel contesto in cui si colloca l’interesse per l’opera dantesca in Spagna, la scelta del volgare per un poema esteso come la Commedia costituisce un grande modello proprio nel momento della formazione della lingua letteraria e della Sprachbewußtsein nazionali 7 sulla scia patristica del detto agostiniano “melius est reprehendant nos grammatici quam non intelligant populi 8 ” come rapporto dialettico di opposizione al latino, una lingua ormai non più in grado di essere strumento della comunicazione, che a partire dall’esigenza già sentita da Alfonso X di “espaladinar los saberes” attraverso la scelta di Berceo, “quiero fer una prosa en román paladino”, si esprimerà nel Quattrocento nell’opzione linguistica espressa da Juan Manuel nell’anteprólogo al Conde Lucanor, “et por ende, fizo todos los sus libros en romançe, et esto es señal çierto que los fizo para los legos et de non muy grand saber como lo él es”. Il valore attribuito al poeta fiorentino in questo secolo è quello del “sotil elegante / poeta gran decidor / florentino, qu’es el Dante 9 ”. Dante è oggetto di interesse come autore romanzo, padre della lingua italiana, che ha saputo innalzare al rango di lingua 5 Proprio il termine cuidado esprime, secondo Lore Terracini, “l’impegno con cui la Spagna di una certa fase del Rinascimento tenta di disciplinare la propria lingua letteraria piegandola a misura e selezione”. Cfr. Tradizione illustre e lingua letteraria nella Spagna del Rinascimento, in Studi di Letteratura Spagnola, Facoltà di Magistero e Facoltà di Lettere, Roma 1965, p. 91. 6 Ivi, p. 88. 7 Cfr. Ivi, p. 71-73. 8 S. Agostino, Enarrationes in Psalmos 138, 20. 9 Francisco de Ávila, La vida y la muerte, 1508. 4 letteraria. La dantofilia ispanica quattrocentesca è quindi emulazione volta a dotare il “duro y desierto romance castillano” , come lo chiamava Juan de Mena, delle potenzialità espressive con cui Dante aveva saputo arricchire la nascente lingua volgare italiana. Il Cancionero de Baena, raccolta di oltre cinquecento componimenti di poeti di corte, permette di collocare tra la fine del Trecento e la metà del Quattrocento, la prima introduzione del dantismo in Spagna. Infatti accanto al tradizionale tema dell’amor cortese di matrice gagliega e provenzale, o al filone della letteratura didattico-moralista, si sviluppa un’aspetto del fare poetico che promuove strutture linguistiche metriche e retoriche nuove, di cui è massimo rappresentante Francisco Imperial, “renovador de la lengua literaria española al injertar en la misma módulos estilísticos calcados de la Divina Comedia 10 ”, nelle cui opere si trovano versioni letterali di versi danteschi. Genovese, naturalizzato a Siviglia 11 vissuto tra il 1390 e il 1409, “there is no doubt … that to Imperial should go the full credit for having introduced the knowledge of Dante and for having thus stimulated a new development in the allegorical poetry of Spain 12 ”. Per diciassette volte Dante viene citato nel Cancionero, di cui otto soltanto nei componimenti di Imperial 13 . Queste citazioni testimoniano il prestigio culturale attribuito al poeta fiorentino, che è posto come auctoritas accanto ai maggiori poeti dell’antichità. Nel Desir a las syete virtudes Dante è guida del poeta nelle sue visioni oniriche 14 . Nel suo prologo alla prima edizione del 1973 della traduzione dell’Inferno, Ángel Crespo ricorda con queste parole il valore culturale del dantismo di Imperial: “cuando, a principios del siglo XV, el genovés avecindado en Sevilla, Micer Francisco Imperial quiso legarnos la impresión alegórica de su lectura de Dante mediante un retrato literario del poeta, inventó una deliciosa fábula cuyo paisaje nos recuerda al “prato di fresca verdura” del Canto VI del Infierno, en el que las sombras de los grandes 10 Joaquín Arce, Dante y el humanismo castellano, cit., p. 147. “La corriente italianizante que irradia desde Sevilla encuentra su gran maestro en Francisco Imperial, de origen genovés y divulgador afortunado de las visiones dantescas”. Cfr. Giovanni Caravaggi, in Historia de la literatura española, Cátedra, Madrid 1990, tomo 1, p. 273. 12 Werner Paul Friederich, Dante’s Fame abroad 1350-1850, cit., p. 15. 13 Dati di Joaquín Arce, in Dante y el humanismo castellano, cit., p. 147. 14 “Imperial narrates how he fell asleep in a green meadow and how in a vision he suddenly found himself before a magic and wonderful garden surrounded by an emerald studded wall, through whose intricate wonders he was led by a venerable old man, Dante himself. … Dante is to Imperial the great moral teacher, the fount of instruction for the modern world” (Friederich, p. 21- 23). 11 5 hombres gozan el privilegio, no concedido a otros paganos, de conversar entre sí y de mantener su serenidad espiritual 15 . Micer Francisco, quien fue, por todas las señales, el introductor en España del alegorismo simbólico dantesco, se imaginó a si mismo al pie de un «graçiosso» jardín «cercado» de un arroyo, como el «noble castillo» que rodeaba a la mansión eterna de aquellos grandes personajes, «et por muro muy alto de jazmjn». El vergel no tenía entrada, pero Imperial, que no sabía a ciencia cierta si estaba despierto o soñando, descubrió en su florido seto una puerta de rubí que se le abrió misteriosamente. Una vez que hubo entrado, echóse a andar entre «flores et flores» y las vestiduras que llevaba se le volvieron blancas. Sus pasos, que seguían a unas huellas humanas en las que acababa de reparar, le llevaron junto a un rosal. Estaba allí en pie un hombre –Dante– que le saludó con mucha cortesía 16 ”. Cito di seguito le coplas de arte mayor di Imperial che tracciano il ritratto di Dante nel Cancionero de Juan Alfonso de Baena a cui si riferiscono le parole di Crespo: Era en vista benigno et suave et en color era la su vestidura çenisa o tierra que seca se cave, barva et cabello alvo syn mesura; traya un libro de poca escriptura, escripto todo con oro muy fino et començava: En medio del camino; et del laurel corona et çentura. De gran abtoridat avia senblante, de poeta de grant exçelençia 17 . Il ritratto di Dante tramandato dalla visione di Imperial, è considerato proprio da Ángel Crespo ispiratore di un’immagine intellettuale del poeta fiorentino più autentica, di quella di un Dante “a lo tremendo” mutuata dalla diffusa volgarizzazione della prima cantica della Commedia. 15 Questa descrizione crespiana del Limbo dantesco, anticipa già quella che sarà la sua interpretazione della Commedia, che opta decisamente per una laicità tendente a certa visione gnostico-neoplatonica dell’aldilà. Nella visione Crespiana, il Limbo diventa uno stato privilegiato di koinè spirituale e metatemporale tra le più illustri intelligenze umane, una sorta di eterno parnaso dove si gode della sapienza dei grandi del mondo antico, e della loro serenità spirituale. In realtà il Limbo cristiano e dantesco è un luogo di “duol sanza martìri” (Inf. IV, 28), dove i grandi della classicità soffrono dello struggente desiderio di conoscere la rivelazione del Verbo divino, desiderio che “etternalmente è dato lor per lutto” (Purg. III, 42), perché privo di qualsiasi possibilità di soddisfazione (“sanza speme vivemo in disio” Inf. IV, 42). 16 Ángel Crespo, prólogo a Divina Comedia: Infierno, Seix Barral, Barcelona 2004, pp. XIX-XX. 17 Desir de Miçer Francisco Ymperial a las syete virtudes, vv. 97-106, in Cancionero de Juan Alfonso de Baena edición crítica por José María Azáceta, serie de clásicos hispánicos, Madrid 1966, tomo 2, p. 501. Tutto questo desir di Imperial è intessuto di citazioni e reminiscenze dantesche. 6 Menéndez y Pelayo definisce Imperial il primo grande dantista spagnolo, e gli attribuisce il merito dell’introduzione dell’endecasillabo nella poesia spagnola 18 . Nella poesia di Francisco Imperial si riscontrano innovazioni formali, lessicali e stilistiche, e situazioni archetipiche di chiara matrice dantesca. Prosecutori quattrocenteschi del dantismo di Imperial sono Ferrán Manuel de Lando e Ruy Paéz de Ribera, la cui poesia allegorica alla maniera dantesca è inclusa nel Cancionero de Baena. Nonostante non si giunga mai alla formazione di una vera e propria scuola dantesca, questi poeti cancioneriles creano la fama di Dante nel ‘400 spagnolo. Ancora nell’ambito del primo dantismo castigliano/sivigliano si ricorda Fernán Pérez de Guzmán, coetaneo di Francisco Imperial, che ebbe conoscenza diretta dell’opera dantesca. La sua Oración a Nuestra Señora è una ricreazione esplicitamente riconosciuta della preghiera alla Vergine di S. Bernardo in Paradiso XXXIII, e Dante viene chiamato “dulçe poeta vulgar”, con esplicito riferimento al Dante “miglior fabbro del parlar materno”. Il Marqués de Santillana fu un buon conoscitore e grande ammiratore di Dante. Nel Triunfo del Marqués de Santillana di Diego de Burgos, suo segretario, il personaggio-Dante assume il ruolo di guida del poeta, e lo conduce in sogno al tempio dove questi assisterà alla gloria del Marchese. Nella celebrazione della fama di Santillana, l’autore del poema fa affermare al suo personaggio Dante: “si tengo fama y soy conoscido, / es porque él quiso mis obras mirar”. Come testimonia Mario Schiff 19 , la biblioteca del Marqués de Santillana ospitava le opere principali di Dante, Petrarca e Boccaccio, il commento alla Commedia di Pietro Alighieri, e il commento latino al Purgatorio di Benvenuto Rambaldi da Imola tradotto in castigliano da González de Lucena. La stessa biblioteca ospitava la prima traduzione, che si credeva perduta, dell’intera Commedia, opera di Enrique de Villena 20 , un nobile discendente dalla Casa Reale di Aragona, scritta in prosa versificata 21 al 18 La supposta grandezza di Imperial verrebbe ridimensionata nell’opinione di Arturo Farinelli, che nel suo studio del 1922 (Dante in Spagna, Francia, Inghilterra, Germania, Fratelli Bocca, Torino 1922) considera Imperial niente di più che un imitatore della poesia di Dante senza alcun merito poetico originale. Su questa linea anche l’articolo di E.B. Place del 1946 (The exaggerated reputation of Francisco Imperial, in “Speculum”, XXI, 1946) che nega a Imperial il merito di aver creato in Spagna il culto di Dante e anche quello di aver consolidato l’uso dell’endecasillabo. 19 Mario Schiff, La bibliothèque du Marquis de Santillane, Paris, Librairie Émile Bouillon Éditeur, 1905. 20 Mario Schiff, La première traduction espagnole de la Divine Comédie, in Homenaje a Menéndez y Pelayo, Madrid 1889, vol. 1. Per una edizione recente di questa traduzione cfr. Enrique de Villena, Obras completas, edición y prólogo de Pedro M. Cátedra, 3 tomos, Turner, Madrid 1994-2000. 21 Gli endecasillabi sono riprodotti uno per uno e presentati con la stessa numerazione e disposizione grafica della terzina, senza però mantenere il computo delle sillabe. 7 margine di un manoscritto della Commedia: “the first rendering of the triple epic into a modern European language 22 ”, conclusa nel 1428, ma inedita fino al 1878. Villena, traduttore e studioso dell’Eneide, fu condotto tramite gli studi virgiliani allo studio e alla traduzione della Commedia dantesca. La traduzione di Villena è una dimostrazione del plasmarsi della lingua letteraria di Castiglia e del lavorio degli intellettuali nel confronto con il modello del linguaggio poetico dantesco. Si tratta, in effetti, di una vera e propria trascrizione in cui si sostituisce ogni parola italiana con una castigliana, ricorrendo al latinismo dove questa esatta corrispondenza non è possibile. Questo tipo di traduzione ne fa supporre un uso di supporto, come appoggio per leggere il poema dantesco originale senza però avere un dominio adeguato della lingua italiana. Alcune incongruenze testuali della traduzione manoscritta conservata nella Biblioteca Nacional di Madrid, hanno fatto ipotizzare al curatore dell’edizione salmantina del 1974 della prima delle tre cantiche 23 , l’esistenza di un “manoscritto X”, dal quale Don Enrique de Aragón avrebbe dettato la sua traduzione ad un segretario che la trascriveva simultaneamente sul manoscritto della Biblioteca Nacional. Questo misterioso “manoscritto X”, però, non è mai stato trovato. All’amicizia di Enrique de Villena con il Marqués de Santillana si deve l’interesse di quest’ultimo per Dante. Nell’opera di Santillana le influenze dantesche si affiancano a quelle petrarchesche. El sueño e El Infierno de los enamorados, sono strettamente legati alla Commedia, soprattutto il secondo poemetto nel quale Santillana riproduce nell’incontro con il poeta Francisc Macías il dialogo di Dante con Francesca da Rimini, in parte traducendo i celebri versi danteschi. Nei Sonetos fechos al itálico modo, Ángel Crespo individua l’uso dell’endecasillabo dantesco difendendone la perfezione metrica e ritmica, giudicata imperfetta dalla critica perché non corrispondente al canone petrarchesco. Un altro nome del dantismo castigliano del Quattrocento è quello di Juan de Mena, nella cui opera poetica l’Incoronazione dedicata a Santillana, forse più del celebre Laberinto de Fortuna, testimonia la sua conoscenza della Commedia dantesca. Nel 1429, posteriore di un anno soltanto alla traduzione del Villena, la traduzione catalana della Commedia di Andreu Febrer, conferisce alla penisola iberica il 22 Werner Paul Friederich, Dante’s Fame abroad 1350-1850, cit., p.27. José A. Pascual, La traducción de la “Divina Comedia” atribuida a D. Enrique de Aragón, estudio y edición del Infierno, Universidad de Salamanca, 1974 23 8 primato nella storia delle traduzioni europee del poema dantesco, “preceding France by more than a century and Germany and England by more than three centuries 24 ”. La traduzione di catalana è in terza rima e possiede quindi una dimensione artistica propria, che non la riduce, come quella castigliana, all’interesse culturale. Ancora in ambito catalano appaiono in questo secolo due commenti all’Inferno (anonimo) e al Purgatorio (di Bernat Nicolau Blanquer), mentre nelle Rime di Ausias March si trovano echi della Commedia “though he [Ausias March] is mainly celebrated as an imitator of Petrarca, he was also indebted to Dante’s Vita Nuova, surely indirectly through Petrarca, and quite possibly also directly 25 ”. Il culmine dell’imitazione dantesca nella poesia catalana del Quattrocento è rappresentato dalla Comedia de la Glória de Amor di Bernart Hug de Rocabertí, composta intorno al 1467, di cui alcuni canti sono chiamati comédias, e sono composti in terzine di endecasillabi: il poeta è guidato dalla Coneixença nel giardino di Venere, dove dentro il fuoco d’Amore dialoga con la “Francescha del Dant” e incontra lo stesso “Dant con sua Beatrice”. Per quanto riguarda il secolo XVI, nel 1515 vede la luce la prima edizione a stampa dell’Inferno tradotto in coplas de arte mayor (ottave di dodecasillabi) dall’arcidiacono di Burgos Pedro Fernández de Villegas, corredata di ampio commento ispirato a quello del Landino, e di due trattati morali intitolati Disputa della fede e Aversione dal mondo. Secondo gli studi di Joaquín Arce, questa traduzione dantesca costituisce un ampliamento della lingua castigliana, in quanto vi introduce parole oggi entrate nell’uso corrente (“gelatina”, “fétido”, “lívido”, “terceto”) o italianismi quali “testa”, “cántica”, “contrapaso”. Questa traduzione cinquecentesca fu eseguita su richiesta di Juana de Aragón, figlia del re Ferdinando il Cattolico. Nella dedica il Villegas qualifica la nobildonna come “doctísima en muchos autores”, e ne dice la preferenza per Dante di cui “paresce retener a mente la mayor parte”. L’aspetto di Dante che prevale in questo secolo è quello del moralista e teologo. Ancora agli inizi del secolo si pubblica una traduzione di alcuni canti del Purgatorio, anonima, in quintine di ottonari. Nel 1521, Juan de Padilla, El Cartujano, compone Los doce triunfos de los doce apóstoles: petrarchesco nel titolo ma tutto dantesco nella sostanza, il poema tratta di un viaggio attraverso i tre regni del mondo ultraterreno; l’influsso della Commedia vi si 24 25 Werner Paul Friederich, Dante’s Fame abroad 1350-1850, cit., p. 16. Ivi, p.18. 9 coglie anche nel linguaggio, colmo di prestiti lessicali, metafore e paragoni danteschi. Negli stessi anni viene realizzata un’altra traduzione dell’intera Commedia, di cui oggi si conoscono solo sei canti, da Hernando Díaz, e una traduzione anonima del commento del Landino. Per il resto il ‘500 è il secolo in cui si impone in Spagna il culto del Petrarca e del Bembo i quali vengono preferiti a Dante, che, benchè conosciuto, non è più percepito vivo né attuale nella poesia spagnola dei secoli d’oro. Addittura la terzina, strofa dantesca per eccellenza, viene introdotta nell’uso poetico spagnolo intorno al decennio 1530-40, attraverso l’adattamento petrarchista: “en la literatura castellana, el terceto no penetra y no se impone hasta el segundo cuarto del siglo XVI. Ya por entonces la literatura alegórico dantesca está superada y casi olvidada. El terceto dantesco, pues, entra paradojicamente en la poesía española, no gracias a Dante, sino a Petrarca y a los petrarquistas del siglo XVI 26 ”. Con l’eccezione di Francisco de Aldana, vissuto a Firenze dal 1540 al 1567, imitatore della poesia dantesca e delle menzioni di Dante che fa Francisco de Herrera nei commenti ai sonetti di Garcilaso, fino a metà Ottocento non si riscontra in Spagna particolare interesse per l’opera dantesca. Nei secoli XVI-XVII non si hanno testimonianze di traduzioni delle altre opere di Dante. Occorre però notare che nei suoi Sueños, Quevedo scrive di aver avuto quelle visioni “habiendo cerrado los ojos con el libro de Dante”. Nel secolo XIX, Dante è celebrato dai poeti romantici accanto a Shakespeare e Calderón come uno dei maestri della nuova sensibilità poetica27 . Intorno alla metà del secolo un atteggiamento più scientifico di ricerca e studio affianca la semplice ammirazione dell’opera dantesca. Il primo caso è quello di Salvatore Costanzo, esule siciliano residente a Madrid, che nel 1847 pubblica un Ensayo político y literario sobre Italia desde el siglo XI hasta nuestros días, nel quale due capitoli sono dedicati a Dante con uno studio filologico, scientifico e politico della Commedia. In questo saggio si afferma che Dante fu “el fundador de esa literatura exclusivamente europea que 26 Joaquín Arce, Petrarca y el terceto dantesco en la poesía española in Literaturas Italiana y Española frente a frente, Espasa Calpe, Madrid 1982, p. 160. 27 A questo proposito cfr. il contributo di Francisco López Estrada, Presenze ed echi danteschi nel romanticismo spagnolo, in Lecturae Dantis 1990, cit., pp. 61-75. 10 describe nuestra vida contemporánea, y que se ha llamado con mayor o menor propiedad romanticismo 28 ”. Nel 1856, a Barcellona, Milá y Fontanals pubblica otto articoli raggruppati sotto il titolo Dante, primo studio monografico di un critico spagnolo sul poeta fiorentino, che ne traccia la biografia e dà un’interpretazione morale della poesia dantesca. Seguono le ricerche di José Amador de los Ríos, che nella sua Historia crítica de la literatura española (1861-1865) tiene conto di Dante in rapporto ai poeti spagnoli medievali che lo imitarono, dalla scuola di Imperial a Juan de Mena, Santillana e Juan de Padilla, con degli spunti di critica dantesca riguardo a passi scelti della Commedia (gli incontri di Dante con Francesca, Ugolino, Sordello, Stazio, Lia e Cacciaguida29 ). Le ricerche storiografiche di Marcelino Menéndez y Pelayo sui rapporti di Dante con la letteratura castigliana tracciano un panorama degli influssi danteschi che arriva fino all’Ottocento. Nel 1868 si ristampa la traduzione dell’Inferno di Villegas, e nel 1878 quella catalana di Andreu Febrer. Appaiono delle traduzioni in prosa (Aranda y Sanjuán, 1868; Puigbó, 1868; Rosell, 1871-1872; Sánchez Morales, 1875); e traduzioni poetiche: nel 1879 si pubblica quella in terzine dell’intera Commedia di Juan de la Pezuela Conde de Cheste, accompagnata da uno studio sulla vita e l’opera di Dante, visto in una prospettiva prettamente politico-religiosa, di Mariano Roca de Togores, Marqués de Molíns. Ceferino Suárez Bravo traduce nel 1883, in terzine rimate nel primo e terzo verso, ma non incatenate, il I canto dell’Inferno e frammenti del XXXIII. Nel 1894 viene pubblicata la traduzione dell’argentino Bartolomé Mitre. Nel complesso più di venti edizioni della Commedia tradotta furono stampate in Spagna tra il 1868 e il 1900. Oltre ad essere oggetto di studio e di traduzione, l’opera di Dante riprende ad essere fonte di ispirazione artistica nell’ambito della creazione originale per i poeti spagnoli. Francisco López Estrada, nel suo contributo alle Lecturae Dantis ravennati del 1990, dà notizia del progetto, che purtroppo non si sarebbe realizzato, di Gustavo Adolfo Bécquer di far conoscere Dante, e di esserne lui stesso il traduttore per una “Biblioteca de grandes Autores” che avrebbe voluto creare nell’ambito della rivista “La ilustración de Madrid” che il poeta diresse nel 187030 . L’opera poetica bécqueriana presenta citazioni ed 28 Cit. in Joaquín Arce, Situazione attuale degli studi danteschi in Spagna, cit., p. 103. Cfr. ibidem. 30 Cfr. Francisco López Estrada, Presenze ed echi danteschi nel romanticismo spagnolo, in Lecturae Dantis 1990, cit., p. 65. 29 11 evocazioni dantesche, tra le quali emerge il caso della Rima 53/XXIX 31 , che, nel Libro de los Gorriones, porta l’esplicita epigrafe del celeberrimo verso dantesco “la bocca mi baciò tutto tremante” di Inf. V, 136, eliminata poi nell’edizione delle poesie del 1871, e che costituisce un rifacimento dell’episodio di Paolo e Francesca. Particolarmente significativa la presenza della citazione dantesca nelle rime bécqueriane, dove unica protagonista è la vita interiore del poeta, e non sono citati altri poeti ad eccezione di questo caso dantesco e della citazione dell’Ofelia di Shakespeare nella Rima VI. Ancora alla fine del secolo appaiono due opere drammatiche ispirate all’episodio di Paolo e Francesca: la prima del 1885 di Vicente Colorado, titolata Francisca de Rímini in versi, dove accanto ai personaggi dell’episodio dantesco appaiono anche Dante e Beatrice come confidenti dei protagonisti. È da rilevare la presenza del rifacimento in ottonari delle espressioni più salienti del dialogo ultramondano tra Dante e Francesca. Il secondo “poema dramático en tres cantos”, è La tragedia del beso di Carlos Fernández Shaw, rappresentata a Madrid nel 1910. Nell’ambito della creazione poetica ottocentesca la presenza di Dante si trova ancora in una poesia di Gabriel García Tassara, A Dante, e in una intitolata La selva oscura di Núñez de Arce, che nel titolo, nella forma metrica e nell’intenzione simbolica costituisce un tentativo di rifacimento della poesia dantesca. In un’opera di Emilia Pardo Bazán del 1893 (Los poetas épicos cristianos) appare uno studio biografico su Dante. La quarta ed ultima tappa di questa cronologia porta al secolo XX. La critica dantesca spagnola del Novecento ha inizio nel 1919 con l’opera di Miguel Asín Palacios, La escatología musulmana en la Divina Comedia, dove si studia l’influenza nel pensiero dantesco dei moralisti e mistici islamici, in particolare quella di Ben Arabí 31 Riporto la Rima 53/XXIX: Sobre la falda tenía el libro abierto, en mi mejilla tocaban sus rizos negros: no veíamos las letras ninguno, creo, mas guardábamos ambos hondo silencio. ¿Cuánto duró? Ni aun entonces pude saberlo. Sólo sé que no se oía más que el aliento, que apresurado escapaba del labio seco. Solo sé que nos volvimos los dos a un tiempo, y nuestros ojos se hallaron y sonó un beso. ... Creación de Dante era el libro, era su Infierno. Cuando a él bajamos los ojos, yo dije trémulo: ¿Comprendes ya que un poema cabe en un verso? Y ella respondió encendida: — ¡Ya lo comprendo! 12 de Murcia 32 . L’occasione del VII centenario della nascita di Dante, nel 1965, costituisce, nell’opinione di Enzo Esposito 33 , un punto di svolta nel dantismo spagnolo, che mostra finalmente matura la tendenza verso nuove prospettive nello studio dell’opera dantesca, e nello stabilire fertili connessioni tra il messaggio estetico-esistenziale di Dante e la cultura spagnola. In questa circostanza Dámaso Alonso pubblica un Homenaje a Dante, che percorre la storia dell’endecasillabo e ricorda l’emozione personale della lettura del sonetto Tanto gentile e tanto onesta pare, celebre apertura di Poesía Española (Gredos, 1950), che ne include la traduzione commentata. Ancora in questi anni si sviluppa l’attività critica di italianista di Joaquín Arce 34 . Riguardo alla impostazione critica di Joaquín Arce, scrive Enzo Esposito: “Un discorso continuo quello di Arce, mirato all’analisi stilistica applicata alla storia della fortuna, mirato cioè alla rilevazione dei complessi rapporti, di natura linguistica, oltre e più che meramente letteraria, intercorsi tra modello e imitatori, fra autore e traduttori 35 ”. Si tratta di una ricerca filologica delle tracce dantesche come testimonianza e indizio delle aspirazioni culturali delle varie generazioni. I numerosi studi spagnoli di critica dantesca, svolti in occasione del settimo centenario confluiscono nella pubblicazione Dante en su centenario 36 . La memoria poetica di Dante, appare anche come motivo ispiratore nella poesia originale di Rubén Darío, di Juan Ramón Jiménez, di Antonio e Manuel Machado, e di Miguel de Unamuno. Anche Eugenio d’Ors, José Bergamín e José Ortega y Gasset testimoniano nella loro opera la conoscenza e l’assimilazione dell’opera dantesca. Proprio da José Bergamín abbiamo il ricordo dell’affermazione di Ortega, il quale 32 La tesi di Asín Palacios, per cui il Libro della Scala costituirebbe una fonte dell’escatologia dantesca, viene duramente criticata dai dantisti italiani, che la giudicano una congettura storica, e che invece, pur dando per certa la conoscenza di Dante del testo islamico, propendono per conferire maggior preminenza nella formazione intellettuale di Dante al pensiero classico e medievale ed alla conoscenza della Sacra Scrittura, che viene ad essere fonte comune di motivi danteschi e del Libro della Scala. Il Nardi spiega infatti le somiglianze tra l’aldilà dantesco e il pensiero islamico “per mezzo della derivazione del mito dantesco, come di quello islamico, dalle stesse fonti primitive” costituite da elementi cristiani e classici insieme alle dottrine greche e orientali. Cfr. Aldo Vallone, Storia della critica dantesca, Vallardi, Padova 1981, p.890. 33 Cfr. Enzo Esposito, La critica dantesca in Spagna dal 1950 al 1970, in Letture classensi cit., p.14. 34 Per una bibliografia esaustiva e dettagliata riguardo alla diffusione degli studi danteschi in Spagna fino al centenario del 1965, rimando senz’altro allo studio di Joaquín Arce, Bibliografía hispánica sobre Dante y España entre dos centenarios (1921-1965) in Dante nel mondo, cit., pp. 412- 431. 35 Enzo Esposito, La critica dantesca in Spagna dal 1950 al 1970, in Letture classensi, cit., p. 16. 36 Taurus, Madrid 1965. 13 scriveva che chiudendo gli occhi durante la lettura della Commedia sentiamo nella mano il dolce peso di un mucchietto di pietre preziose 37 . Rubén Darío ricorda Dante tra le sue personali letture giovanili, e nella sua poesia la figura e l’opera dantesche appaiono più volte come materia del proprio canto. Anche nel Parnaso privato di Miguel de Unamuno, Dante occupa un posto di elezione per affinità cordiale di passione e di fede, se è vero che nel suo esilio canario, il rettore di Salamanca portò con sé soltanto la Divina Commedia e i Canti di Leopardi 38 . Inoltre la Commedia è citata accanto all’Eneide, fra le opere dei grandi geni dell’umanità nella nivola unamuniana, Niebla, e, nel Sentimiento trágico de la vida, viene commentato un passo del canto XXXIII del Paradiso. Reminiscenze e ricreazioni dantesche affiorano anche nella poesia di Antonio Machado, addirittura come interferenze espressive, mentre Manuel Machado tradusse un sonetto dalla Vita Nuova. Dante, accanto a Leopardi, occupa i vertici dell’arte poetica anche nella gerarchia personale di Juan Ramón Jiménez (secondo quanto afferma Ricardo Gullón nelle sue Conversaciones con J.R.J), nella cui Segunda Antolojía poética (1898-1918) appare una poesia titolata A Dante. A testimonianza di un rinnovato interesse per l’opera dantesca, sta il fatto che una cinquantina di traduzioni della Commedia si pubblicano tra il 1900 e il 1970, e anche la Vita Nuova conta una trentina di traduzioni. Nel 1956 si pubblica l’opera completa di Dante nella “Biblioteca de Autores Cristianos 39 ”. Negli anni ‘20 appaiono in Catalogna la traduzione in endecasillabi sciolti delle prime due cantiche della Commedia di Narcís Verdaguer (1921), la versione in terza rima dell’intero poema del Marqués de Balanzó e negli anni quaranta quella di Josep María de Sagarra. Esiste una versione gagliega del sonetto Tanto gentile e tanto onesta pare di Lousada Diéguez, del 1929 40 . Nel 1939 Juan Ramón Masoliver pubblica una piccola antologia dantesca 41 in 37 Cfr. José Bergamín, Dante, in Fronteras infernales de la poesía, Taurus, Madrid 1959, pp. 33- 52. Cfr. Joaquín Arce, Dante nel novecento spagnolo, in “Il Veltro”, cit., p. 550. 39 Obras completas de Dante Alighieri, versión castellana de Nicolás González Ruiz (traduzione in prosa narrativa) sobre la interpretación literal de Giovanni Bertini. Colaboración de José Luis Gutierrez García, Biblioteca de Autores Cristianos, Madrid 1956. 40 A. Lousada Diéguez, Soneto XV da Vita Nuova, do Dante, en “Nos”, n 71, 1929. 41 Dante Alighieri, traducción y nota biográfica y bibliográfica por Juan Ramón Masoliver, editorial Yunque, Barcelona 1939. 38 14 castigliano, e negli anni ‘60 appare la “degna traduzione 42 ” in endecasillabi sciolti del poeta Fernando Gutiérrez (prima edizione del 1958 43 ) e una in prosa versificata di Antonio J. Onieva, pubblicata nel 1965 44 , in tre volumi illustrati dal pittore Joaquín Vaquero Turcios, il cui contributo grafico costituisce un tentativo di interpretazione del mondo dantesco. Nel 1973 vede la luce la traduzione crespiana, oggetto di questo studio, dell’Inferno, cui seguono nel 1976 e nel 1977 rispettivamente quelle del Purgatorio e del Paradiso. In un rapido, ma esaustivo excursus attraverso cinquecentosessanta anni di traduzioni spagnole della Commedia, nel suo intervento alle Lecturae Dantis del 1990, Manuel Carrera Díaz 45 commenta così la traduzione crespiana: “partendo dall’idea che il principio fondamentale della traduzione è la fedeltà all’opera e alle caratteristiche culturali del momento un cui fu scritta, […], [Crespo] elabora una versione esemplare nel suo genere, aderente al testo dantesco e aliena alla perifrasi, anche se non priva, per le impostazioni formali del verso di forzature verbali, occasionali immissioni di arcaismi e inevitabili, anche se minime deviazioni semantiche”. Successivamente alla traduzione della Commedia di Ángel Crespo, sono state pubblicate in Spagna altre versioni del poema dantesco46 , e non in tutti i casi il traduttore è anche poeta in proprio. L’interesse speciale della traduzione crespiana è dato dal fatto che si tratta di una riscrittura in sintonia empatica ed attiva con il poema dantesco da parte di una grande voce poetica del nostro tempo, oltre che dal caso della totale e fedele ricreazione della forma del poema. Joaquín Arce caratterizza il tratto più significativo del dantismo spagnolo come un “tentativo di una più esatta comprensione della propria cultura nazionale in riferimento al testo di Dante, sia questo la genesi di nuove forme e contenuti della 42 Questo il giudizio di Ángel Crespo sulla traduzione dantesca di Fernando Gutiérrez, espresso in Dante in Spagna, cit., p. 16. 43 Cfr. la Bibliografía di Arce, cit. p. 414. 44 Edizione bilingue, Biblioteca Nueva, Madrid 1965. 45 Manuel Carrera Díaz, Le traduzioni spagnole della “Divina Commedia”, in Lecturae Dantis 1990, Dante e la Spagna, cit., pp. 21-34. 46 Dante Alighieri, Divina Comedia, traducción de Ángel Chiclana Cardona, Espasa-Calpe, Madrid 1979 (traduzione in prosa); Dante Alighieri, Divina Comedia, traducción de Julio Úbeda Maldonado, Libros Río Nuevo, Barcelona 1983 (traduzione in endecasillabo con rima mista assonante/consonante); Dante Alighieri, Divina Comedia, traducción de Luis Martínez de Merlo, Cátedra, Madrid 1988 (traduzione in endecasillabi sciolti); Dante Alighieri, Divina Comedia, traducción poética y notas de Abilio Echevarría, prólogo de Carlos Alvar, Alianza, Madrid 1995 (traduzione in terzine incatenate). Cfr. Carlos Alvar El texto y sus traducciones: a propósito de la Divina Comedia, in Traducir la Edad Media. La traducción de la literatura medieval románica, a cura di Paredes- Rayas, Universidad de Granada 1999, pp. 135-151. 15 poesia spagnola, sia la Commedia il punto d’arrivo della trasmissione letteraria ispanoaraba: in questa ricerca di vie sotterranee tra le due culture si trova il più originale apporto della dantologia ispanica” 47 . Proprio in questa prospettiva di integrazione culturale universale, si pone il lavoro di studio e traduzione dantesca di Ángel Crespo, oggetto di questa tesi, che si svolge secondo una triplice prospettiva: la labor traduttoria pluriennale, porta con sé inevitabilmente l’attenzione critica agli aspetti formali e contenutistici del poema dell’Alighieri, mentre la “larga intimidad” tra i due poeti, dissemina l’opera originale crespiana di una feconda e attuante memoria poetica dantesca. 47 Cfr. J. Arce, Situazione attuale degli studi danteschi in Spagna, in Dante in Francia, Dante in Spagna, cit., p. 119. 16 2. La “larga intimidad” del dantismo crespiano: circostanze e ragioni di una scelta * Scrive Yves Bonnefoy 1 : Una traduzione sono soltanto quelle poche pagine stampate? No, è un dialogo che è iniziato tempo fa, all’epoca delle prime letture, quelle d’abbozzi di traduzione neppure scritti, nei quali decidevamo se avremmo potuto parlare con quel poeta; che è continuato, attraverso malintesi a volte ma con intimità e affetto sempre crescenti; e che proseguirà al di là delle pubblicazioni, perchè il poeta tradotto resterà presente in quello che il suo traduttore a sua volta scrive, ne sarà come un consigliere, come uno dei vertici del suo orizzonte. Infatti, la poesia è sempre stata una conversazione attraverso i secoli, Dante ha parlato a Virgilio, questi lo ha guidato [...]. E la traduzione è di certo l’apporto di un’opera straniera, ma è altresì l’evidenziazione di di questo rapporto tra autore e autore che è, molto più essenzialmente che al livello delle influenze cieche, la vita stessa della creazione poetica. É proprio questo il percorso della storia del dantismo crespiano, dalle prime letture, attraverso la traduzione, fino all’interiorizzazio della poesia dantesca come memoria attiva nel proprio fare poetico. La frequentazione crespiana dell’opera di Dante ha inizio come lettura di un adolescente autodidatta negli anni della posguerra spagnola: En Alcolea, ora en el pueblo, ora en el campo leí a Homero, a Garcilaso y una traducción en prosa, bastante mala de la Comedia de Dante. 2 En mi adolescencia leía a Dante, entendiéndole sólo a medias en una mala traducción en prosa. 3 Così il poeta ricorda un incontro che sa di predestinazione, presentato immediatamente sotto il segno del problema comunicativo, cui la posteriore traduzione corrisponderà come strumento per una profonda comprensione dell’opera dantesca. Il successivo incontro di Ángel Crespo con la Commedia avviene nell’ambito del’esperienza postista, per mezzo di Eduardo Chicharro 4 : 1 Yves Bonnefoy, La comunità dei traduttori, Sellerio, Palermo 2005, p. 51. Ángel Crespo, Notas biográficas a Maresa Bertelloni, manoscritto autografo, Leiden 14 dicembre 1976. Inedito. 3 Ángel Crespo, Los trabajos del espíritu, Seix Barral Biblioteca Breve, Barcelona 1999, 25 de septiembre, 1971, p. 79. 4 Eduardo Chicharro Briones (1905-1964) poeta e pittore, figlio dell’omonimo pittore, fu il firmatario dei tre manifesti postisti ed il principale animatore del gruppo. Compie i suoi studi tra Roma e Parigi. 2 17 Con Carlos (Edmundo de Ory) leía Chicharro la Divina Comedia en italiano. Yo dije que algún día la traduciría al español; se me olvidó, luego lo recordé y ahora está a punto de salir mi traducción de su última cantiga. 5 Recuerdo que a Chicharro y a mí nos gustaba leer en voz alta, y en italiano la Commedia de Dante que luego he traducido yo en tercetos. Sería absurdo decir que se trata de una consecuencia del postismo esta traducción. A los postistas nos gustaban muchas cosas que no eran postistas, ¡no faltaba más! 6 L’avvicinamento all’opera dantesca si iscrive dunque nell’ambito di un rinnovato interesse generazionale dell’avanguardia poetica, la cui ricerca estetica di una propria maniera di fare poesia, percorre con vivo interesse la via della grande poesia dantesca. Crespo parlerà in seguito di un Dante ricompreso alla luce dell’esperienza post-simbolista: No cabe duda que el estilo poético de Dante está hoy más cerca de nosotros, [...] y ello se debe, en especial a los hábitos de lectura e interpretación que han creado en nosotros el simbolismo y el post-simbolismo, escuelas, o más bien tendencias, poéticas que han recuperado buena parte de la visión medieval del mundo como una manifestación del espíritu 7 . In occasione del primo viaggio in Italia del poeta, nel 1963, e del suo soggiorno a Firenze avviene l’incontro poetico con la figura dantesca, che entrerà definitivamente come presenza attuante nell’opera crespiana a partire da Docena Florentina nella cui poesia: Florencia toda, con sus plazas, sus templos y los frescos de sus muros, con la evocación de los grandes artistas que forjaron su historia, es lo que actúa sobre el poeta, suscitando la emoción de quererse y sentirse arraigado en 8 ellos y entre ellos. Al culmine del percorso dantesco di Ángel Crespo, cioè in occasione del conferimento della medaglia d’oro per la sua traduzione della Commedia a Firenze il 18 5 Ángel Crespo, Sobre el Postismo, notas autógrafas para José M. Polo de Bernabé, manoscritto autografo, Leiden 20 marzo 1977. Inedito. 6 Ángel Crespo, Cuestiones sobre el Postismo, preguntas de Salvador Cava para su tesis universitaria, manoscritto autografo, Mayagüez 22 aprile 1986. Inedito. 7 Ángel Crespo, Introdución a Divina Comedia, introducción traducción prólogo y notas de Ángel Crespo, Planeta, Barcelona 1999, p. XLVII-XLIX. 8 Cfr. P.Gómez Bedate, Para un estudio de la poesía comprometida de Ángel Crespo, in AA. VV., Ángel Crespo: una poética iluminante, Biblioteca de Autores Manchegos, Ciudad Real 1999, p. 127-128. 18 maggio 1980, nel suo discorso tenuto al Gabinetto Viesseux, il poeta–traduttore parla cosí della sua raccolta Docena Florentina 9 : Quasi quattordici anni fa, esattamente il 15 giugno 1966 apparve a Madrid il mio libro Docena Florentina –sintesi di latinità in quanto trattava di Firenze, era scritto in castigliano ed aveva in copertina un disegno del Ponte Vecchio del poeta e pittore brasiliano José Augusto Moreira da Fonseca– in questo libro, a dire il vero, cominció a prendere corpo la mia già antica passione per Dante 10 . Per il poeta spagnolo, che viveva profondamente l’inquietudine e l’inadeguatezza delle ristrettezze culturali post-belliche della Spagna dittatoriale, quella “desesperación intelectual del fascismo” di cui parla María Zambrano 11 , l’incontro con la poesia dantesca e con la cultura italiana rappresenta la scoperta di una seria alternativa intellettuale, che, vissuta in termini di definitiva vocazione vitale, determinerà il futuro poetico crespiano, e in cui la traduzione della Commedia si iscrive come tentativo di salvezza della cultura spagnola mediante il suo inserimento nella cultura universale, e salvezza personale di chi, nell’esilio, allora già imminente e forse presentito, vivrà nella poesia quello spazio sacro di irrevocabile libertà e identità personale, ritrovamento della propria forme humaine, che riporta alla luce della conoscenza ed alla coscienza della vocazione poetica. Italia supuso para mi algo más profundo que un simple deslumbramiento. A medida que iba respirando su aire, viviendo su arte y soltándome en el uso de su lengua, sentía que una luz nueva hecha, por así decirlo, a la medida de mis ojos, iba iluminando mi pasado y mi presente, no para que yo los repudiase o aceptase sino para que tratara de interpretarlos. Tomé entonces una decisión de la que nunca me arrepentiré, de entregarme por completo a mi vocación de escritor. [...] La poesía, si fue decisiva para mí durante los años españoles, se ha convertido después de ellos en objeto casi exclusivo de mis inquietudes intelectuales, tal vez por haber sido, tanto en las circunstancias propicias como en las adversas, mi más decisiva señal de identidad y, desde luego, la celadora constante de mi libertad 12 . 9 Docena Florentina del 1966, fu un libro poetico decisivo nell’iter artistico del poeta, “libro fronterizo, que se ha señalado como uno de los iniciadores del culturalismo, un libro que impresionó a los poetas jóvenes de entonces con el insólito esquematismo de sus breves poemas casi arquitectónicos” (Cfr. P.Gómez Bedate, Para un estudio de la poesía comprometida de Ángel Crespo, cit. p.127). Si trova raccolto in Poesía 1996, tomo 1 e costituisce il V libro di En medio del camino. 10 Ángel Crespo, Dante in Spagna, cit., p.5. 11 M. Zambrano, Los intelectuales en el drama de España, ed. Hispamerica, Madrid 1977, p.23. 12 Á.C. Mis caminos convergentes, in AA.VV. El tiempo en la palabra, numero monografico su Ángel Crespo di “Anthropos”, Revista de Documentación Científica de la Cultura, n. 15, giugno 1989, pp. 2627. 19 Nel 1971, quando già da quattro anni il poeta vive autoesiliato a Puerto Rico, tutta l’opera crespiana appare raccolta sotto il titolo dantesco: En medio del camino 13 . L’emistichio non corrisponde al primo verso della posteriore traduzione crespiana della Comedia ma a quella letterale di Francisco Imperial 14 “traýa un libro de poca escriptura / escripto todo con oro muy fino, / et començava: en medio del camino”. La citazione del titolo ha quindi un senso doppiamente evocatore (Dante e Imperial), evocazione di un Dante ormai fatto proprio dalla cultura spagnola. Precede, quindi, la traduzione un’interiorizzazione della figura dantesca, con la cui vicenda biografica di esiliato ingiustamente perseguitato, il poeta spagnolo si pone in forte sintonia. L’ingiustizia dell’esilio come ingratitudine della patria che non premia chi per essa si è sacrificato, ma, anzi, lo perseguita, e la sofferenza del giusto amante della res publica tradito nei suoi ideali, caratterizza l’apertura del ritratto di Dante nel Trattatello del Boccaccio: In luogo di quegli altissimi meriti, ingiusta e furiosa dannazione, perpetuo sbandimento, alienazione de’ paterni beni e maculazione della gloriosissima fama, con false colpe gli fur donate. Chi in contrario sia esaltato giudico che sia onesto il tacere 15 . Nel caso di Ángel Crespo, l’esilio dalla propria terra si pone come scelta integrale di coerenza morale: Yo me fui de España en 1967 porque no podía soportar el ambiente de corrupción moral que se respiraba en ella después de casi treinta años de dictadura. Me había dado cuenta que las muchísimas muertes de la guerra civil y de la postguerra, los encarcelamientos injustos, las persecuciones políticas e ideológicas, la supresión de las libertades, la emigración en masa, la marginación internacional del país, su corrupción administrativa y su prostitución turística, entre otros no menores males, sólo habían servido para que, al amparo de una prosperidad coyuntural del Occidente, que a España le alcanzó de rechazo, y en no grandes proporciones, terminasen por mandar en 13 La pubblicazione di questa prima poesía completa crespiana, si colloca alla fine dell’anno 1971, mentre il poeta è pienamente impegnato nella traduzione dell’Inferno dantesco, e fu concordata da Crespo proprio con il poeta Pedro Gimferrer, allora incaricato della Sezione Letteraria per la casa editrice barcellonese Seix Barral, che pubblicherà poi, tra il 1973 ed il 1977 la traduzione crespiana della Commedia. (Cfr. il carteggio tra Crespo e Gimferrer riportato in appendice a questo volume.) 14 Cfr. supra, p. 7. 15 Giovanni Boccaccio, Trattatello in laude di Dante, in La letteratura italiana storia e testi, vol. 9, Riccardo Ricciardi editore, Milano- Napoli 1965, p. 567. 20 ella quienes siempre habían mandado, es decir, los señoritos, a quienes se empezó a llamar tecnócratas 16 . “Chi ama la res publica, avrà la mano mozzata”, scriveva il poeta lituano Czeslaw Milosz, Nobel 1980 per la letteratura. In una poesia crespiana originalmente raccolta in Docena Florentina, dal titolo eloquente di Savonarola 17 , si propone violentemente il senso di un’interdizione alla terra, al rapporto corporeo con la realtà: vengono bruciate le mani (“el que os quema las manos”), mentre il tatto rappresenta, nell’universo poetico crespiano, una forma privilegiata di conoscenza del mondo. Entre la bestia hirsuta que ventea el futuro y el que os quema las manos para que no beséis al suelo, yendo yendo hacia el negro pasado vosotros – con los puños a la espalda – tomáis noticia de la muerte. Gentes de cuenta y siglo os miráis en silencio – y el hijo que uno lleva se le orina en los brazos. Una specie di Cerbero (“la bestia hirsuta que ventea el futuro”), la bestia che fiuta nel futuro notizie di morte (“tomáis/ noticia de la muerte”), si oppone ai passi di una processione infinita (“yendo yendo”) che cammina retrocedendo (“hacia el negro pasado”) verso un passato connotato negativamente come buio. Nella violenza della sopraffazione diventa impossibile il rapporto amoroso e carnale (“besar”) con la terra (“para que no beséis/ al suelo”) e viene eliminata qualsiasi societas tra uomini chiusi in un alienato silenzio (“os miráis en silencio”), in un’estraneità bestiale che non risparmia neanche il rapporto filiale (“el hijo que uno lleva/ se le orina en los brazos”). Eppure l’esilio viene vissuto anche positivamente come dimensione di cosmopolitismo universale –nos autem cui mundus est patria– un nuovo umanesimo, che Crespo sentì sempre come una delle missioni del poeta nel cercare di “cancellare le differenze che aggruppano e separano gli uomini, ottenendo un ordine estetico con il 16 17 Ángel Crespo, Notas sobre el exilio, manoscritto autografo, Mayagüez, 11 de marzo 1983. Inedito. Da En medio del camino, in Poesía 1996, tomo 1, p. 271. 21 ridurre le diversità ad una superiore unità 18 ”. Il poeta stesso ebbe infatti ad affermare in proposito: “El exilio ha universalizado mi vida 19 ”. La poesia Amici Dantis 20 , pubblicata nella “Revista de Letras 21 ” del 1969, ed inclusa, in seguito, nel V libro di En medio del camino, esprime in modo eccellente l’affinità elettiva e la contemporaneità metatemporale dell’incontro crespiano con Dante, percepito come viva presenza nella sua città natale. Il termine “amici” del titolo non si riferisce solo alle grandi figure della biografia dantesca che popolano questi versi, ma anche al poeta spagnolo, ospite della città di Firenze che con profondo desiderio ed emozione vive l’incontro con il maestro già lungamente frequentato ed ammirato, stringendo con lui un sodalizio tutto umano fondato sul comune destino di poesia ed esilio. Il vortice di volti in cui il poeta è afferrato sono tutti legati all’esilio di Dante, mentre la presenza del poeta spagnolo al centro del vortice dell’affresco che gira, opera un’identificazione tra Dante e Ángel Crespo in nome della poesia che fa vivere il poeta oltre il tempo. In questo testo, contemporaneo alle fasi iniziali della traduzione, la poesia dantesca si fonde già in unisono con la voce poetica crespiana. El Corradino Malaspina, Cangrande della Scala y Guido da Polenta. Ma perché tantos rostros, en gris y en blanco, sobre el fresco que gira, gira, gira? E tremando ciascuno a me si volse y decían: – Si puedes detener este triste ventaglio 22 , si te es dado asir bajo sus pátinas, las voces antiguas que parlamos y si, por fin, piedad o amor tal vez te mueven, entonces, animalia doliente aún de vida, 18 19 Ángel Crespo, Per una generazione realista, in Poesie a cura di Mario Di Pinto, cit., p. 220. Ángel Crespo, Notas sobre el exilio, cit. 20 Da En medio del camino, in Poesía 1996, tomo 1, p. 273. La “Revista de Letras” della Facoltà di Lettere dell’Università di Puerto Rico a Mayagüez, era una rivista di Letterature Comparate, fondata nel 1969 e diretta da Pilar Gómez Bedate. Se ne pubblicarono ventisei numeri fino al 1975. 22 Del termine ventaglio non si trovano occorrenze nella Commedia. Il senso della scelta di questo termine risiede piuttosto nella sua assonanza con il termine viento, a cui si aggiungerebbe, in una neoformazione ancora un po’ di carattere postista, il suffisso peggiorativo –azo. Il significato sarebbe dunque quello di un “triste vientazo”. 21 22 cura, como el de Bella, tus preguntas o cicatrices: él no lo fue, mas nosotros éramos sólo el tiempo. L’occasione concreta che diede inizio al lavoro ingente della traduzione della Commedia fu una necessità didattica. Questo dato biografico, pone quindi il lavoro crespiano sotto il segno del problema della diffusione e della fruibilità dell’opera dantesca per il lettore contemporaneo ispanoparlante. Nel 1968 Ángel Crespo tenne un corso di Introduzione alla Cultura Occidentale, alla facoltà di Humanidades dell’Università portoricana di Mayagüez, per cui scelse di trattare proprio la Divina Commedia. Pilar Gómez Bedate rievoca così quella circostanza decisiva 23 : cominciò per lui un’epoca di entusiasmo ma anche di grandi ire. Entusiasmo perché si dedicava pienamente allo studio dell’opera dantesca, ire nei confronti delle traduzioni che doveva utilizzare. Riteneva impossibile trasmettere agli studenti un’autentica idea di Dante attraverso queste traduzioni. Arrivò un giorno a casa pieno di furia sacra dicendo: “Sarò io a fare la traduzione della Commedia, di cui il nostro tempo ha bisogno, e che sia filologica e segua fedelmente la metrica dantesca”. Non andò a dormire quella stessa notte e si mise subito al lavoro, con l’unico, insufficiente dizionario italiano-spagnolo di cui disponeva. 23 Nell’intervento al convegno tenutosi a Ravenna il 28 settembre 2001, nel contesto della IV rassegna di letture internazionali La Divina Commedia nel Mondo a cura di Walter Della Monica svoltesi dal 1995 al 2004. 23 Cronologia biobibliografica del dantismo di Ángel Crespo: 1945: A Madrid negli anni universitari dell’esperienza postista, e tramite Eduardo Chicharro il futuro traduttore assiste alle letture della Commedia dantesca in lingua originale. 1963: Prima visita a Firenze da cui nascerà il libro di poesie Docena Florentina in cui sono presenti liriche dedicate a Dante Alighieri. 1971: Pubblicazione della prima raccolta di poesia completa che porta come titolo il primo emistichio del primo verso dell’Inferno dantesco: En medio del camino (Poesía 1949-1970), Ed. Seix Barral, Biblioteca Breve, Barcelona 1971. 1973: durante l’esilio portoricano pubblica per i tipi di Seix Barral la traduzione in terzine dantesche dell’Inferno, cui seguiranno le altre due cantiche rispettivamente nel 1976 e nel 1977: Comedia. Infierno, texto original y traducción, prólogo y notas de Ángel Crespo, Seix Barral, Barcelona 1973. Comedia. Purgatorio, texto original y traducción, prólogo y notas de Ángel Crespo, Seix Barral, Barcelona 1976. Comedia. Paraíso, texto original y traducción, prólogo y notas de Ángel Crespo, Seix Barral, Barcelona 1977. Nello stesso anno 1973 pubblica sulla “Revista de Letras” dell’Università di Mayagüez il suo studio , Las metamorfosis de la especie humana en la Divina Comedia. 1975: (12 marzo) partecipa al “Secondo incontro internazionale sulla letteratura e filologia italiana oggi” presso l’Università di Bari con un intervento su “La Divina Commedia: problemas y métodos de traducción”. In questa occasione stabilisce rapporti con Gian Roberto Sarolli e Martín de Riquer. 1977: Presso l’università olandese di Leiden tiene un corso di letteratura medievale e dirige un seminario sull’influenza di Dante in Spagna. 1979: Il Ministero degli Esteri italiano a Madrid gli conferisce il premio “editores y libreros” per la traduzione della Commedia. 1980: (18 maggio) La Società Dantesca Italiana, su iniziativa del Prof. Francesco Mazzoni, gli conferisce la medaglia d’oro per la traduzione della Commedia. In quell’occasione Crespo leggerà il suo intervento Dante in Spagna, che in seguito verrà pubblicato sulla rivista diretta da Oreste Macrí, “L’Albero”, XXX, 61-62 (1980). Nello stesso anno tiene conferenze su Dante presso le università di Firenze, Bologna e Venezia. 1983: Pubblica la raccolta El bosque transparente (Poesía 1971-1981), Ed. Seix Barral, Barcelona 1983. Nello stesso anno partecipa al “International Dante Symposium” della New York University con l’intervento “Translating Dante’s Comedia: terza rima or nothing”. 1984: conferenza su Dante presso la Scuola di Traduttori di Granada. Pubblica un saggio dal titolo Dante escriba de Dios y de la historia, nel volume di Kurt Leonhard, Dante, Salvat, Barcelona 1984, pp. 9-18. 1989: conferenza sulla traduzione della Commedia presso la Universidad de la Laguna a Tenerife. Nello stesso anno partecipa al convegno Dantesco organizzato da Enzo Esposito a Roma. 1990: a Piombino gli viene conferito il premio di traduzione poetica “Carlo Betocchi”. 1995: tiene una lezione inagurale dell’anno accademico presso l’Universitat Pompeu Fabra di Barcellona dal titolo “Un ideal de traducción poética”. Nella raccolta di saggi pubblicata postuma nel 2001 è presente un saggio dantesco: El universo de la Divina Comedia, metáfora moral, en Á. C., Por los siglos, Pre-textos, Valencia 2001. * 24 3. Poetica crespiana della traduzione Nel contesto dell’opera di Ángel Crespo, la traduzione * si colloca in relazione costante 1 e interattiva con la sua creazione originale, sviluppandosi parallelamente, tanto che il poeta stesso considerò sempre la traduzione come parte integrante della sua opera. Anzi il “prestare la voce 2 ” all’opera altrui è condizione necessaria alla sopravvivenza della propria poesia, pena la sua alienazione: la poesía es comunicación, pero no por lo que dicen algunos, sino porque los poemas son los unos respecto a los otros – y a lo Otro – vasos comunicantes. Y ello es tan cierto que, al leer a un poeta, nos demos o no cuenta de ello, no son sus palabras las únicas que estamos escuchando. Consecuencia de este prodigio es, no sólo que al hacer nuestros poemas prestemos distinta pero auténtica voz a los escritos por los demás, sino también que el tener siempre presente la escritura ajena es una manera de evitar que se enajene la nuestra, pues quienes sólo aceptan su proprio juego suelen terminar por hacerse trampas 3 . La traduzione diventa quindi, come scrive il poeta e traduttore Yves Bonnefoy 4 , “una ricerca di sè. Ed è la ricerca di sè come deve compiersi eppure così raramente vi acconsente: attraverso un ascolto attento della parola di un altro”. Una fitta trama di relazioni e mediazioni culturali si costituisce come dimensione vitale dell’opera poetica stessa, terreno di coltura da cui la propria poesia trae nutrimento e forza per aprire nuovi cammini: questo il senso del “parnaso íntimo y 1 Scrive Ángel Crespo: “casi al mismo tiempo que empecé a escribir mis propios versos , inicié una nunca interrumpida actividad de traductor” (Un ideal de traducción poética, lección inaugural del curso para extranjeros, abril 1995, Universitat Pompeu Fabra, Barcelona; in Lliçons inaugurals de Traducció i Interpretació a la Universitat Pompeu Fabra 1992 - 2004, Barcelona 2004, p. 43). In effetti risalgono ad una lettera privata del 1946, da collocarsi quindi al principio della sua attività letteraria, le prime annotazioni riguardo alla traduzione in cui si delinea già la scelta fondante l’attività traduttoria crespiana, che approfondita poi nella teoria e nella prassi manterrà il costante impegno di una fedeltà critica e filologica al testo da tradurre che ne restituisca un’immagine quanto più possibile “veridica”: “En fin he encontrado un librejo en el que venían poemas de estos poetas [Li-Tai-Po e Tu-Fu]. Pasa una cosa: que el traductor no los puso en verso castellano (hizo bien) y, como el chino es monosilábico, los versos resultan – puestos en nuestro idioma – larguísimos. Encontré traducciones en verso de otros poetas chinos, pero el traductor se había lanzado a las consonantes y las rimas parecían del siglo XIX. Ya te mandaré algo de eso. Pero antes quiero mandarte los primeros versos de los que te hablo y una versificación que he hecho yo en romance adaptándome mucho al tema, con muy pocas variantes. (A veces – en el de Li-Tai-Po – he cambiado de metro para seguir ceñido al asunto). Como la rima es asonante, la traducción – adaptación – es más verídica”. Ángel Crespo, 1946, lettera alla sorella Adriana, cit. in Pilar Gómez Bedate, Ángel Crespo, poeta y traductor: el ideal de una vocación, in Traducció i literatura, homenatge a Ángel Crespo, a cura di Soledad González Rodenas e Francisco Lafarga, EUMO, Barcelona 1997, p. 13. 2 “Si te presté mi voz sin desviarme / y sin ahorrar mi lima” è il verso iniziale del sonetto A Francesco Petrarca, da Parnaso Confidencial (1971 - 1995), in Poesía 1996, tomo 2, p. 286. 3 Ángel Crespo, postfazione a Parnaso Confidencial (1971 - ), Arenal, Jérez 1984, p. 84. 4 Yves Bonnefoy, La comunità dei traduttori, cit., p. 51. 25 fatal”, complesso reticolo di scambi e impulsi creativi, che si forma nell’itinere dell’opera crespiana (tanto da essere fissato nella raccolta Parnaso Confidencial del 1984, che porta nel titolo una data d’inizio ma non di fine, a significare una formazione spirituale mai data per conclusa e in costante disponibilità di assimilazione), e di cui la traduzione rappresenta un esempio d’eccezione, per il lavorio che presuppone tanto da trasformarsi in una lunga convivenza con l’opera tradotta e la personalità del suo autore, che a sua volta porta con sé la sua tradizione e le sue stesse mediazioni da altri modelli. La traduzione risponde secondo questa visione a quella che appare un’esigenza ontologica della poesia, la sua imprescindibile relazione sincronica e diacronica con la tradizione culturale universale. Per il poeta Ángel Crespo, la cui vicenda personale è fortemente segnata dalla sua quasi trentennale lontananza forzata dalla patria spagnola, la creazione di una humanitas nel segno dell’arte e della poesia, in grado di varcare le ristrettezze della propria circostanza storica, diventa un sostegno di vitale importanza, un ecosistema privilegiato e più respirabile in cui è possibile la poesía en su aire, poesia come soluzione all’angoscia dell’isolamento e della solitudine, in quanto piena corrispondenza dell’autore con il suo Humanitätsideal, in cui si mostrino le “sottili e salvatrici relazioni che si presentano tra gli elementi più disparati del mondo”. L’umanità intesa nel senso di profonda amicizia terrestre, è l’unico sostegno della pace necessaria per creare un’opera importante. [...] Il compito della poesia consiste, secondo me, nel trovare le sottili e salvatrici relazioni che si presentano tra gli elementi più disparati del mondo. Il dramma dell’uomo non si svolge su un vuoto metafisico, ma su uno scenario pieno di 5 sollecitazioni e contrasti. La traduzione poetica assume quindi, nella visione crespiana, un plusvalore in quanto si lega alla stessa sussistenza della poesia, come lettura attiva dei segni del passato per arricchire le vie creative del presente e del futuro. Una vera e propria bottega artistica di creazione e di attività critica per il poeta (quasi tutti i poeti italiani del nostro tempo sono stati grandi traduttori, da Marinetti a Bodini, Ungaretti, Pavese e Bigongiari, per citarne solo alcuni) in quanto presuppone una lunga e ponderata osmosi linguistica e stilistica con artisti provenienti da altre tradizioni letterarie, e costituisce un veicolo grazie al quale la propria cultura esce dalle ristrettezze nazionali, proiettandosi verso un’universalità che scuote potentemente la lingua e la letteratura del traduttore. 5 Cfr. la postfazione di Crespo alla sua prima antologia italiana di poesie Per una generazione realista, in Poesie a cura di Mario Di Pinto, cit., p. 224. 26 Per Ángel Crespo la traduzione della Commedia assume, quindi, il senso di un trascendere i confini linguistici, nazionali e temporali, per incorporare l’opera di Dante alla contemporaneità della propria tradizione letteraria e della propria creazione originale. Crespo non dedica ampio spazio alla trattazione teorica del fenomeno traduttorio, ma dalle note introduttive alle traduzioni, singoli interventi e studi su poeti traduttori 6 si delinea nella prassi del tradurre un preciso “ideal de traducción poética”, che trova espressione anche in poesia dove l’attività del tradurre assume la sfumatura del cammino iniziatico di chi, nutrendo “fe en la palabra 7 ”, intraprende la ricerca lenta e laboriosa del nombre exacto muovendosi però in una dimensione già di per sé quintessenziata che è l’opera da tradurre, materia intellettualmente depurata: en términos aristotélicos, si la poesía es una imitación de la naturaleza en su más amplio sentido, la traducción es una imitación de esa imitación, pero teniendo en cuenta que ésta última, la obra literaria es ya naturaleza, realidad, y realidad intelectual, conceptualmente más real – por más depurada – que la realidad en bruto 8 . La traduzione è quindi un genere letterario che trascende gli altri avendo come materia creativa un’opera già compiuta. Il traduttore si trova in una situazione analoga a quella del poeta-creatore quando cerca di plasmare linguisticamente la propria ispirazione, con la differenza che il campo della ricerca è un’opera che è già il frutto dell’intuizione altrui. In questo senso si esprime anche Yves Bonnefoy 9 , quando sostiene che la traduzione 6 Segnalo in particolare i titoli consultati per la stesura di questo capitolo: La “Commedia” de Dante: problemas y métodos de traducción, intervento in occasione del Secondo Incontro Internazionale sulla Letteratura e Filologia Italiana oggi: “Dante in Spagna”, Università degli studi di Bari, 12 marzo 1975. In appendice a Divina Comedia 1999; La traducción de la Commedia de Dante: “terza rima” o nada, intervento in occasione del International Dante Symposium, 13-16 novembre 1983, Hunter College, New York. Raccolto in AA.VV. El tiempo en la palabra, cit., suplemento pp. 60-65; Come ho tradotto Dante, in L’opera di Dante nel mondo. Edizioni e traduzioni del ‘900, atti del convegno internazionale di studi danteschi, Roma, 27-28 aprile 1989, a cura di Enzo Esposito, Longo, Ravenna 1992; Chlebnikov por Lentini, in Las cenizas de la flor, Júcar, Madrid 1987, pp. 113-116; Eugénio de Andrade traductor de poesía; en “Cadernos de Serrúbia”, n. 1, dezembro 1996, p. 53-59; Sobre una traducción de Jorge Guillén, separata da Jorge Guillén, el hombre y la obra, actas del I Simposio Internacional sobre Jorge Guillén, Universidad de Valladolid, Valladolid 1993, pp. 283-288; Un ideal de traducción poética, lección inaugural del curso para extranjeros, abril 1995, Universitat Pompeu Fabra, Barcelona; in Lliçons inaugurals de Traducció i Interpretació a la Universitat Pompeu Fabra 1992-2004, Barcelona 2004, pp. 43-52. 7 Ángel Crespo, Délficas II, in Poesía 1996, tomo 3, p. 412. 8 Ángel Crespo, Respuestas a las preguntas de Miguel Feal, manoscritto autografo, Aprile 1988. Inedito. 9 Yves Bonnefoy, La comunità dei traduttori, cit., p. 47. 27 è la ripetizione di quell’atto che dà forma, che crea, che è stato causa dell’opera, che fa parte del meglio, del lato più misterioso del suo senso, e che nessuna interpretazione può restituire né forse neppure comprendere. Il compito che il traduttore si assume è quello di comprendere il vultus animi dell’autore da tradurre per un’empatia con la sua personalità e il suo stile, di compenetrarsi con il pensiero altrui che inizia a circolare nella propria personalità creatrice, la quale giunge ad una consonanza con l’autore del testo di partenza che permette “el logro de una belleza semejante 10 ” nella traduzione, cioè la realizzazione di una nuova opera in cui il volto del poeta tradotto e quello del poeta traduttore si confondono. Infatti, per Ángel Crespo la traduzione è primariamente mimesi ricreativa, transcreazione o, con termine scelto da lui stesso, trasunto. Il termine, che in spagnolo significa “figura o representación que imita con propiedad una cosa”, deriva dal verbo latino TRANSŪMO che significa “prendere da altri”, indicando con il termine “prendere” un’assunzione attiva, rivolta all’appropriazione e all’uso di ciò che si riceve, che comprende anche l’accezione di “rifornire il proprio granaio”. Proprio in questo senso si esprime Ángel Crespo quando afferma: la traducción poética es una parte de la poesía del traductor, siempre que su resultado sea un nuevo poema, y que, en consecuencia, forma parte del acervo literario de su lengua 11 . La metafora patrimoniale del acervo 12 accenna proprio alla poesia come al fondamentale impulso e nutrimento estetico della lingua. Il risultato di una buona traduzione poetica, deve essere una nuova creazione letteraria che imiti il testo di partenza riproducendone tutto il potere di suggerenza, senza disseccarne il potenziale di letture e interpretazioni: una fondamentale preoccupazione del poeta traduttore è dunque quella di non incorrere nella tentazione di una traduzione interpretativa del testo, che costringa il lettore ad attenersi all’esegesi del traduttore. Il testo fonte deve essere presentato nell’integrità del suo potenziale interpretativo. Solo così il testo tradotto è in grado di apportare una vivificante informazione estetica nel contesto dell’opera personale del poeta e della tradizione letteraria della lingua in cui questi traduce. 10 Ángel Crespo, Un ideal de traducción poética, cit., p. 46. Ángel Crespo, Eugénio de Andrade traductor de poesía, cit. p. 53. 12 Il termine acervo indica in spagnolo un “montón de cosas menudas, como simientes o legumbres”. Cfr. Moliner, s.v. acervo. 11 28 Nella sfera dell’opera personale del traduttore, la traduzione è veicolo fondamentale di scambio e di influssi, “perché il poeta tradotto porta con sé la propria tradizione e le sue stesse mediazioni da altri modelli; il poeta che traduce riceve tutte quelle mediazioni e a sua volta dà impulso nella sua versione ad un nuovo cammino attualizzante di influenze e di nuove acquisizioni 13 ”, e allo stesso tempo occasione di ampliare il proprio mondo semantico ottenendo nuovi strumenti di scrittura: el traductor se obliga, en efecto, y en cada caso, a aumentar su instrumental, sus recursos. Un poeta puede, por ejemplo, no haber explorado nunca, o haberlos explorado sólo superficialmente, determinados campos semánticos importantes en la obra que se dispone a traducir. En semejante caso, al iniciar o aumentar las conexiones de un campo semántico nuevo para él, obtiene un nuevo instrumento de escritura, no sólo en el aspecto operativo, sino también debido al probable descubrimiento de temas nuevos que estén relacionados con ese campo y que si no son complementarios a los de su propia poesía pueden, sin embargo sugerirle nuevos caminos. El traductor, al recrear en su lengua los aspectos formales, semánticos y filológicos de la obra traducida, está haciendo en realidad una obra personal, y en consecuencia, original 14 . L’importanza decisiva dell’esperienza della traduzione poetica sta dunque, ancora usando le parole di Bonnefoy, nel fatto che la poesia tradotta mette il traduttore nella condizione di ricavare o ritrovare in sè un luogo di parola. La conseguenza ideale di questa ricreazione originale e parallela nella propria lingua di un’opera appartenente ad un’altra tradizione letteraria, e il suo obiettivo più alto sarà la naturalizzazione dell’opera tradotta nel seno della propria tradizione letteraria: el ideal de la auténtica traducción literaria es la incorporación a la literatura de la lengua de llegada de la imitación de las obras de partida, lo que supone en caso de conseguirlo, un enriquecimiento de la primera de ellas. Debido a esto, la traducción artística tiene interés incluso para los hablantes de la lengua de partida conocedores de la de llegada, pues se encuentran ante una nueva creación literaria, un nuevo producto en que se ha recreado enteramente la elocutio con objeto de mantener la inventio lo más intacta posible 15 . 13 Gaetano Chiappini, La metodologia comparatistica di Oreste Macrí, in Per Oreste Macrí, atti della giornata di studio, Firenze 9 dicembre 1994, Bulzoni, Roma 1996, p. 360. 14 Ángel Crespo, Mis caminos convergentes, cit., p.29. 15 Ángel Crespo, Un ideal de traducción poética, cit., p. 47. 29 Scopo della imitación traduttoria è quello di traslare, transumere, appunto, il messaggio poetico dell’originale intatto. Questo implica quindi la riproduzione fedele delle strutture del significante (pensiamo al valore semantico oltre che strutturale della metrica dantesca, che, nella sua traduzione, Crespo riproduce fedelmente) per realizzare un’opera equivalente, cioè dotata di una forza poetica parallela ed analoga a quella dell’originale, e che può sostenersi autonomamente per le sue qualità linguistiche estetiche e strutturali. Il traduttore è quindi a sua volta creatore: riferendosi ad una nota di Fernando Pessoa del 1930 16 , Crespo descrive la spersonalizzazione cui deve giungere il traduttore per poter ricreare la sua opera parallela in questi termini: “el poeta […] no sólo siente, sino que también vive los estados de ánimo que no tiene directamente”. Questo grado di spersonalizzazione, che Crespo, con Pessoa, considera frutto di un cammino iniziatico, è il risultato di un lungo lavoro di riflessione sulle esperienze letterarie proprie ed altrui, ed è la condizione necessaria per il traduttore “siempre que quiera llevar al huerto de su Melibea, es decir, a la literatura de su lengua, las obras que, pertenecientes a otras, haya procurado entender y sentir de la manera como debieron comprenderlas y sentirlas sus autores 17 ”. Questo ideale crespiano di traduzione poetica trova la sua espressione più emblematica proprio in poesia, nell’ambito di quel dialogo intimo di eletta e cordiale corrispondenza del poeta con il proprio personale parnaso, paradigma artistico e umano d’elezione, la raccolta poetica Parnaso Confidencial, appunto. Questi versi dedicati alla figura di poeta e traduttore di José Bento 18 , tratteggiano il lavoro della traduzione con la colorazione di un’alchimia verbale e coinvolgente elementi della realtà naturale (“pájaro y llama, y agua y aire”) capace di dare nuova vita alla parola trasportata (“llevas y enciendes las palabras”). De voz a voz, de llama a llama llevas y enciendes las palabras. Llevas de un bosque a otro los pájaros y modulan los mismos cantos. 16 Fernando Pessoa, Páginas íntimas e de auto-interpretaçao, Lisboa 1966, cit. in Ángel Crespo, Un ideal de traducción poética, cit., p. 51. 17 Ángel Crespo, Un ideal de traducción poética, cit., p. 51. 18 Da Homenajes in Poesía 1996, tomo 2, p. 309. 30 De un río a otro llevas el agua y en los dos es igual de clara. De un clima a otro llevas el aire y mueve igual los nuevos árboles. Agua y aire, pájaro y llama tu voz se lleva y no los cambia. No los cambia, que los afirma: oro al oro vuelve tu alquimia. Pájaro y llama, y agua y aire cambias de modo que no cambien. O nada cambias ni te llevas al dar al verso una voz nueva. Y nada te llevas ni cambias si otro molino mueve tu agua. Y nada cambias ni te llevas cuando impulsa tu aire otras velas. Pues no cambian nido ni canto en los otros bosques tus pájaros. Ni dan tus llamas luz distinta cuando en otras antorchas brillan. Si individuano un livello universale (aire, pájaro, llama, agua) e un livello mutevole (molino, bosque, antorcha, río): l’ambito di sussistenza della poesia è contingente (“otro molino”, “otro bosque”, “otras antorchas”), così la sua forma, che pure è inscindibile dal suo significato e imprescindibile per la sua sussistenza, come la torcia al brillare della fiamma, anzi ne è materia ed alimento. Ma è la fiamma, l’oro essenziale che riluce immutato nella nuova forma. E la nuova forma è prodotto di alchimia, ricerca lenta e laboriosa di una trasfigurazione nel crogiuolo della ricreazione (sub-creazione). Si ha una sorta di meta-alchimia poetica, la cui materia prima non è costituita dal materiale grezzo dell’intuizione a cui si deve dare forma poetica, ma da materia già intellettualmente depurata e formata artisticamente nell’opera altrui, per cui il compito della nuova alchimia traduttoria sarà quello di restituire “oro al oro”. 31 Sono ancora le parole di Yves Bonnefoy 19 che aiutano a chiarire il concetto espresso qui poeticamente da Crespo: Le parole sono intraducibili, malgrado quel che i concetti hanno d’universale. [...] le parole fanno corpo in una lingua, sono la carne – ma anche i muscoli, i nervi – di quella precisa varietà del linguaggio. Ma le frasi, esse sono traducibili, poichè qui siamo al livello di esperienze già globali che trascendono un poco ciò che ha di particolare, di locale l’area specifica di una parola della loro lingua stessa. E occorrerà quindi che il traduttore, discostandosi quanto più possibile dalle miopie del parola per parola, [...] cerchi di rivivere quanto più possibile quel dato aspetto, universalizzabile, del lavoro dello scrittore, che sperimenta, ma anche ben riflette, da ciò un pensiero per fare la sua opera. Dopodochè il traduttore chiederà alle sue parole, tutte sfalsate rispetto a quelle del testo originale, di parlargli all’incirca della stessa cosa. Il verbo “llevar” si ripete otto volte nella composizione, a modo di basso continuo, a rappresentare la cifra essenziale di quello che Steiner chiama “moto ermeneutico” come “estrazione e trasferimento appropriativo del significato 20 ”, proprio nell’accezione realistica del verbo spagnolo di “tomar consigo una cosa y hacerla llegar a cierto destino 21 ”. La traduzione acquista il senso di un’assunzione, e quindi di un’appropriazione della parola altrui per trasportala in un clima diverso che è il contesto dell’opera del poeta traduttore e della sua tradizione letteraria. Nella dinamica comunicativa di questo trasferimento, la parola si accende rinnovata (“llevas y enciendes las palabras”) in un ambito che la riafferma, cioè la rafforza e la conferma nella sua verità (“que los afirma”). Infatti, il poeta traduttore facendosi tramite attivo del trasmettersi della carica di significato del testo originale, presta la sua voce (“tus pájaros”, “tu aire”, “tus llamas”) all’opera di un altro, che assume così sfumature inedite (“dar al verso una voz nueva”), arricchendosi di un surplus di significato nel risultante testo d’arrivo in cui si fondono il volto del poeta tradotto con quello del poeta traduttore. Questa consonanza che si stabilisce nell’empatia dell’assunzione e comunicazione di senso, avvicina la traduzione alla poesia propria del poeta 19 Yves Bonnefoy, La comunità dei traduttori, cit., p. 48. Cfr. George Steiner, Dopo Babele, Garzanti, Milano 2004, p. 354. (La data della pubblicazione dell’opera, 1975, coincide proprio con gli anni in cui Ángel Crespo è impegnato nella traduzione dantesca, e viene spesso citata dal poeta nelle sue riflessioni teoriche sul tema della traduzione). 21 Cfr. Moliner, s.v. llevar. 20 32 traduttore 22 . Il risultato della traduzione poetica, è quindi, essenzialmente “otro poema”, dotato di un autonomo valore estetico ed artistico. L’idea del tradurre assume qui il suo senso etimologico di condurre il testo oltre i suoi confini linguistici e temporali, una trasposizione da un ambiente culturale a un altro che ripropone il testo in modo attivo e creativo. In questo passaggio il testo “cambia de modo que no cambie”, perchè la sua versione “mostrerà l’originale con risonanze diverse a seconda dell’indole della lingua ospite 23 ” ma contemporaneamente restituirà intatta l’opera fonte, “oro al oro” (“de un río a otro llevas el agua / y en los dos es igual de clara”). Questo concetto porta simbolicamente la traduzione nel raggio d’azione del dio psicopompo e mediatore – appunto colui che tra-duce – Ermes, il cui nome conforma effettivamente il termine greco che designa l’arte del tradurre, hermēneutiké tēchné, come arte di interpretare 24 e penetrare nel mysterium dell’opera poetica 25 , e la inserisce in una dimensione sacralizzata. La poesia Délficas 26 esprime questa profondità che assume l’atto del tradurre: La poesía, de una lengua a otra, viaja con la facilidad de aquel que tiene fe en la palabra … … sólo no viaja la poesía que a los dioses ignora. La “fe en la palabra” viene considerata da George Steiner 27 prima origine del moto ermeneutico, come “atto di fede” nella significatività dell’opera con cui ci si confronta. Questa fede nella parola deriva, secondo Steiner, da una concezione del mondo come fatto simbolico pieno e coerente, cioè, crespianamente dall’intuizione di quelle “sottili e salvatrici relazioni che si presentano tra gli elementi più disparati del 22 Mi pare esemplificativa a tale proposito questa osservazione di Ángel Crespo: “Yo mismo he comprobado como la lectura del Cántico espiritual de San Juan de la Cruz en otras lenguas ha enriquecido mi visión de este poema, lo que quiere decir que en estas traducciones hay algo de original pero que – y este es el misterio – eso que es original no deja de ser, sin embargo, el Cántico espiritual”. (Mis caminos convergentes, cit., p. 29). 23 Cfr. Benvenuto Terracini, Il problema della traduzione in Conflitti di lingue e di cultura, Neri Pozza editore, Venezia 1957, p. 96. 24 Ángel Crespo osserva infatti che “para traducir, es preciso haber interpretado” esprimendo un atteggiamento creativo e critico che rende la traduzione scoperta graduale ed appropriazione dell’opera di partenza, condizione necessaria alla vera ricreazione (Mis caminos convergentes, cit., p. 29). 25 Cfr.la riflessione di Gianfranco Folena sul dinamismo semantico del termine hermēnéus, in Volgarizzare e tradurre, Einaudi, Torino 1991, p.6. 26 Da Délficas, in Poesía 1996, tomo 3, p. 412. 27 George Steiner, Dopo Babele, cit., pp 354-355. 33 mondo 28 ” la cui inventio, intesa etimologicamente come scoperta, costituisce il compito della poesia. “Los dioses” della poesia crespiana sono i detentori di una sintassi “en la que cada cosa tiene un nombre / vedado a los mortales 29 ”, e solo alla poesia– a condizione che non ignori questa dimensione di sacralità – è dato di riscattare la parola postbabelica dalla sua incapacità di cogliere e comunicare la realtà ponendosi come “momento messianico di comprensione ristabilita 30 ” (“de una lengua a otra”). La traduzione diventa allora il veicolo ermetico con cui la poesia “viaja” e si trasmette nel tempo e nello spazio. Illustrata fin qui la riflessione teorica e artistica di Ángel Crespo circa la traduzione poetica, è interessante entrare nel taller del poeta-traduttore attraverso alcuni scritti 31 che illustrano puntualmente i metodi e le fatiche traduttorie nel corso dell’opera di traduzione della Commedia. Non si tratta di trattazioni scientifiche o precettistiche, ma di riflessioni a posteriori sulle problematiche e le preoccupazioni insite nel misurarsi con quell’“arte esatta” che è la traduzione, come la definisce Steiner. Da una lettura comparata degli interventi crespiani in merito alla traduzione dantesca, la prima e fondamentale preoccupazione che emerge è quella dell’impegno di fedeltà stilistica e ideologica del traduttore al testo originale. Da quanto detto finora risulta subito chiaro che la fedeltà è qui ben lontana dal poter essere intesa come letteralità: “il traduttore … è fedele al proprio testo, dà una risposta responsabile, soltanto quando cerca di ristabilire l’equilibrio delle forze … il traduttore è responsabile della mobilità diacronica e sincronica e della conservazione delle energie del significato 32 ”, la fedeltà è quindi da intendersi, ancora secondo Steiner, come il raggiungimento di un complesso “equilibrio dinamico” che restituisca attraverso il tempo e in codici culturali diversi l’interezza del significato del testo originale. L’idea di Crespo è che la forma del sacrato poema possiede un imprescindibile valore semantico e simbolico. Dante ha “pensato in terza rima” secondo le parole di 28 Ángel Crespo, Per una generazione realista, cit., p. 224. Ángel Crespo, Orillas del Meno, in Poesía 1996, tomo 2, p. 88. 30 George Steiner, Dopo Babele, cit., p. 89. 31 I testi di Ángel Crespo cui mi riferisco qui in particolare tra quelli citati all’inizio del capitolo sono: La “Commedia” de Dante: problemas y métodos de traducción, cit.; La traducción de la Commedia de Dante: “terza rima” o nada, cit. e Come ho tradotto Dante, cit. 32 George Steiner, Dopo Babele, cit., p. 361. 29 34 T.S. Eliot 33 , quindi il rispetto della struttura del poema dantesco è necessario se si vuole restituire intatta la carica di significato originale del testo. Il problema formale costituisce, come vedremo, un fulcro importante del problema del tradurre, ed assume una rilevanza che trascende la forma proprio nel rispetto dell’intentio Dantis, per cui l’architettura del poema si pone come responsabile e cosciente costruzione del significante, e quindi costituisce un aspetto imprescindibile della lettura e dell’esegesi della Commedia. La forma metrica del poema dantesco, la sua struttura numerico-simbolica, e la sua architettura sono oggetto di una profonda e documentata riflessione da parte del poeta traduttore, la cui perizia tecnica nella ricreazione della forma poetica dantesca è fortemente motivata da una personale ricerca estetica e gnoseologica, dove la dimensione formale della poesia, la ricerca della sua proporzione armonica costituiscono uno strumento decisivo per il cammino conoscitivo del poeta – di cui il pellegrinaggio ultraterreno di Dante è paradigma – e nel tentativo di auto-prodursi la rivelazione del significato del cosmo. Il rispetto della struttura formale del poema dantesco è imprescindibile quindi proprio per il suo valore allegorico di matrice biblica. Secondo il detto sapienziale per cui “omnia in mesura, numero et pondere disposuisti” (XI, 21), nella forma e nella proporzione delle cose del mondo – che si rispecchiano nella forma della sub-creazione artistica– è racchiusa la formula misteriosa dell’atto creatore divino, e la possibilità di una loro comprensione. Questo valore della fedeltà stilistica e ideologica al testo dantesco, che il poeta attribuisce agli “hábitos de lectura de la poesía simbolista y post-simbolista” emerge chiaramente dalle parole scritte in una lettera al poeta ed editore della Comedia, Pedro Gimferrer al termine della traduzione del Paradiso: Terminé el Paraíso y creo que he conseguido una lectura y una traducción muy fieles y sin pérdida de valores poéticos. [...] He mantenido el uso dantesco de las palabras según un aura semántica que no cabe en los diccionarios pero que es maravillosamente poética. [...] He transformado sus neologismos (y quedan muy bien en castellano) y estoy admirado de ver que Dante puede quedar aquí como un poeta moderno simplemente siéndole fiel. Comprendo que antes del simbolismo era difícil entenderle; ahora, en 33 Cfr. Cosa Dante significa per me, da Criticare il critico in T.S.Eliot, Opere, Bompiani, Milano 1986. 35 cambio, después del simbolismo, es claro y transparente como estilista. No es pues mérito mío sino de los tiempos 34 . Il problema più importante che la traduzione presenta, quello della restituzione stilistica dell’originale, si risolve in Crespo in una fedeltà di aura semantica, che non significa una semplice equivalenza letterale delle parole, ma un cogliere l’atmosfera che irradia il significato, assumendo il vultus animi dell’autore per plasmare l’opera nella lingua della traduzione come se fosse stata composta dall’autore stesso. In questo modo, il risultato del processo osmotico del tradurre sarà un equilibrio dinamico di fedeltà e originalità, perché il riflesso del mondo poetico dantesco giunge al lettore spagnolo della Commedia ricreato attraverso l’anima del poeta traduttore in un’opera nuova in cui si fondono il volto dell’autore e quello del traduttore. In una lettera ad Ángel Crespo del novembre 1976, Oreste Macrí chiamerà la traduzione della Commedia “trabajo de poesía dantesca fiel-original 35 ”, mentre l’anno successivo commenterà la traduzione del Paradiso con queste parole: me he apresurado a leer su traducción de la III Cántica, con la cual se concluye su excelente trabajo, por cierto la mejor traducción de la Divina Commedia en cualquier lengua. Aquí la conmutación léxico-rítmicosintagmática de su extraordinario computer mental-cordial ha llegado al máximum de sus posibilidades, logrando rara fluidez de melos coincidiendo exactamente letra y espíritu. Si el temple de su verso vibra tan suelto y feliz, es que algo esencial dantesco pertenece al núcleo vivo de su poesía original; Dante, sí, pero también Crespo, a esa altura de la poesía occidental en conformidad metacrónica de lenguas hermanas y respectivos individuos poéticos 36 . Ciò che emerge dalle parole di Macrí è proprio la constatazione del raggiungimento di un perfetto parallelismo strutturale e concettuale – “letra y espíritu” – attuato in una consonanza empatica dell’animo del traduttore con quello dell’autore, in una sorta di osmosi in cui convivono le rispettive individualità poetiche. Conseguenza del parallelismo metrico e concettuale dei due testi è la naturalizzazione del testo-fonte nell’ambito linguistico del traduttore. Ancora secondo le 34 Ángel Crespo, lettera a Pedro Gimferrer, Mayagüez 8 gennaio 1975 (inedita). Cfr. il carteggio riprodotto in appendice al volume. 35 Ángel Crespo e Oreste Macrí, lettere inedite a cura di Laura Dolfi, in Lettere a Simeone, sugli epistolari a Oreste Macrí, a cura di Anna Dolfi, Bulzoni, Roma 2002, p. 457. 36 Ivi, p.460. Lettera del 4 dicembre 1977. 36 parole di Macrí, il testo dantesco diventa un classico castigliano: “ya me parece un clásico 37 ”. Il linguaggio traduttorio mantiene sempre una “coerenza viva” (Arce) con lo stile e la lingua danteschi in tutta la ricchissima gamma delle sue sfumature. In effetti ciò che mirabilmente si verifica in questa traduzione, è un rapporto diretto di sintonia del traduttore con il poeta faber e maestro della lingua italiana, che è lingua di identità europea da cui il poeta spagnolo si sente a sua volta interpretato 38 . Secondo l’osservazione di Thomas Stearns Eliot, l’incontro con la lingua di Dante è l’incontro con una lingua “universale” in quanto l’italiano di Dante è prodotto del latino, lingua universale. Il latino medievale tendeva a presentarsi come veicolo di pensiero quando uomini di razza e terra diverse si trovavano riuniti. Un certo carattere di questa lingua universale mi sembra appartenga alla parlata fiorentina di Dante, e la localizzazione (la parlata di Firenze) sembra addirittura che sottolinei l’universalità, poiché esclude il moderno concetto di divisione nazionale. [...] Dante, pur essendo un italiano e un uomo di parte, è prima di tutto un europeo 39 . L’interlinguismo e la comune radice dei volgari romanzi è del resto teorizzata da Dante stesso nel De Vulgari Eloquentia: Tutto quello de la Europa che resta tenne un terzo Idioma; avegna che’ al presente tripartito (tripharium) si veggia; perciò, che volendo affirmare, altri dicono oc, altri oì et altri sì, cioè Spagnuoli, Francesi et Italiani. Il segno adunque che i tre volgari di costoro procedessero da un medesimo idioma è in pronto; perciò che molte cose chiamano per i medesimi vocaboli, come è Dio, Cielo, Amore Mare, Terra e vive, muore, ama et altri molti 40 . Il termine tripharium, altrove anche trisonum (De V. E. I, X, I), indica nel suo valore etimologico una triplice modalità di pronunciare uno stesso idioma, “variazione, che intervenne al parlare, che da principio era il medesimo” (De V. E. I, IX, I) 41 . In quest’ottica la traduzione crespiana costituirebbe un riscatto della frammentarietà delle 37 Ivi, p. 458. Lettera dell’11 novembre 1976. Mi riferisco qui ad una osservazione in merito di Gaetano Chiappini nell’intervento in occasione del convegno tenutosi a Ravenna il 28 settembre 2001, cit. 39 Cfr. T.S. Eliot, Dante[II], in Opere 1904-1939, Bompiani, Milano 2001, p. 828. 40 De Vulgari Eloquentia, I, VII (trad. di Gian Giorgio Trissino), in Dante Alighieri, Tutte le opere, edizione del centenario, Mursia, Milano 1965. 41 Specificamente sulla questione cfr. Ruggero M. Ruggieri, Area linguistica e area geografica della Spagna di Dante nell’ambito dell’idioma trifario, in Dante in Francia, Dante in Spagna, atti degli incontri internazionali Danteschi, Bari 1974 – 1975, Oceania, Bari 1978, pp. 239-264. 38 37 lingue conseguente alla caduta di Babele (De V. E. I, VII) e la naturalizzazione spagnola del poema dantesco un atto di reintegrazione della cultura occidentale, nell’economia di quella “unidad del Occidente 42 ” di cui Crespo ritiene Dante grande modello culturale. A concludere queste osservazioni sull’arte crespiana del tradurre, mi pare pregnante la citazione del parere che Jorge Guillén espresse al poeta traduttore in una lettera personale da Cambridge, Massachussets, il 5 aprile del 1974 43 : Mi querido y admirado Ángel Crespo: por mucho que yo le diga y pondere esta carta no llegará a estar a la altura de esta circunstancia – dantesca nada menos. He abierto y leído no sé cuantas veces este Infierno doble: el de Dante y el de usted. Se trata mi muy querido Poeta de una hazaña, una gran hazaña. El verso, la estrofa verso a verso, cada canto; y siempre sale usted victorioso de la dificultad, que se presenta siempre o casi siempre. Y cuando pienso que todo va rimado como Dios manda … ¡Una hazaña, que se multiplica en hazañas innumerables! El texto, extraordinario, suena perfectamente en este español justo, rico flúido, a secas con una sencillez increíble. La supuesta sencillez señala el logro absoluto. ¡Y cuánto hay que saber para entender de modo preciso tantos pasajes que, sin erudición, permanecerían oscuros! Celebro de veras que un poeta amigo, poeta admirable, acometa esta labor ingente, sí señor, ingente y salga victorioso. La traduzione crespiana della Commedia è dunque l’opera dove si realizza quell’ideale di traduzione poetica come ricreazione imitativa-originale del testo fonte in un’opera poetica nuova e parallela in “conformità metacronica di lingue sorelle e rispettivi individui poetici”. Creazione, quindi, di un nuovo poema dove convivono le individualità artistiche dell’autore e del traduttore, e che riporta viva nella contemporaneità della tradizione letteraria spagnola l’opera del poeta fiorentino del sec. XIII. La poesia dantesca giunge a penetrare e vivificare la lingua poetica del traduttore e quella della tradizione culturale a cui egli appartiene, entrando a far parte della sua opera e del patrimonio letterario della sua lingua. Si realizza così l’oikuménè artistico, unica patria in cui il poeta riconosce la propria forma umana. 42 43 Á. C., Los trabajos del espíritu, cit., p. 79. Inedita. Cfr. il carteggio riprodotto in appendice al volume. 38 * NOTA BIBLIOGRAFICA DELLE TRADUZIONI DI ÁNGEL CRESPO: Dal latino: Virgilio, Georgiche, III, vv. 215-249. Dal portoghese, poesia: Fernando Pessoa, Poemas de Alberto Caeiro, Rialp, Madrid, 1957; Antología de la nueva poesía portuguesa, Rialp, Madrid, 1961; Ocho poetas brasileños, El Toro de Barro, Carboneras de Guadazaón, 1966; Antología de la poesía brasileña (desde el Romanticismo a la Generación del 45), Seix Barral, Barcelona, 1973; Eugénio de Andrade, Antología poética: 1940-1980, Plaza & Janés, Barcelona, 1981; Fernando Pessoa, El poeta es un fingidor (Antología poética), Espasa Calpe, Madrid, 1982; Antología de la poesía portuguesa contemporánea, Júcar, Madrid, 1982, 2 vols.; Antonio Osorio, Antología poética, Olifante, Zaragoza, 1986; Eugénio de Andrade, Vertientes de la mirada y otros poemas, Júcar, Madrid, 1987; Jõao Cabral de Melo Neto, Antología poética, Lumen, Barcelona, 1990; Fernando Pessoa, Noventa poemas últimos (1930-1935), Hiperión, Madrid, 1993; y Jõao Cabral de Melo Neto, A la medida de la mano, Univ. de Salamanca, 1994. Prosa: Jõao Guimarães Rosa, Gran sertón: veredas, Seix Barral Barcelona, 1963; Nélida Piñón, Tebas de mi corazón, Alfaguara, Madrid, 1978; Dinis Machado, Lo que dice Molero, Alfaguara, Madrid, 1981; Fernando Pessoa, Libro del Desasosiego, Seix Barral, Barcelona, 1984; Fernando Pessoa, El regreso de los dioses, Seix Barral, Barcelona, 1986; Fernando Pessoa, Cartas de Amor a Ofelia, ed. B, Barcelona, 1988; Fernando Pessoa, Fausto, Tecnos, Madrid, 1989; Mario de Sá-Carneiro, La confesión de Lucio, Trotta, Madrid, 1991. Nelle pagine delle riviste letterarie a cui Ángel Crespo partecipó o che diresse, come “Poesía de España” (19601963) con la sua rubrica “Poesía del mundo”, o la “Revista de Cultura Brasileña” (1962-1970) appaiono traduzioni di poeti portoghesi e brasiliani tra cui Mário Dionísio, Egito Gonçalves, Alexandre O’Neill, Fernando Pessoa, Vinícius de Moraes, António Ramos Rosa, Jõao Cabral de Melo Neto, Jorge de Sena, José Gomes Ferreira, Eugénio de Andrade, Nélida Piñon, Mauro Mota, Manuel Bandeira, Carlos Drummond de Andrade, Mário de Andrade, Cecília Meireles, Cassiano Ricardo, Jorge de Lima, Murilo Mendes, Augusto Federico Schmidt, Joaquim Cardozo, Oswald de Andrade, Henriqueta Lisboa. Dall’italiano oltre alla Commedia e i sonetti di Dante analizzati nel capitolo seguente: Francesco Petrarca, Cancionero, Bruguera, Barcelona, 1983; Poetas italianos contemporáneos, Círculo de Lectores, Barcelona, 1994; in prosa: Giacomo Casanova, Memorias de España, Planeta, Barcelona, 1986; Gabriele D’Annunzio, El placer, Ed. B, Barcelona, 1990; Cesare Pavese, El oficio de vivir, Seix Barral, Barcelona, 1992. Nel saggio Conocer Dante y su obra, Dopesa, Barcelona, 1979 si trova la traduzione del sonetto di Guido Cavalcanti I’ vegno ‘l giorno a te ‘nfinite volte. Inoltre: Un siglo de poesía retorromana, El Toro de Barro, Carboneras de Guadazaón, 1976; Joan Maragall, Poesía, Planeta (col. Clásicos Universales, 223), Barcelona, 1993; Turoldo, Cantar de Roldán, Seix Barral, Barcelona, 1983; poesie di Clive Branson e Albert Brown. 39 Capitolo 2. Ángel Crespo traduttore di Dante 1. L’aspetto tecnico della traduzione: problemi e metodi del tradurre: tra fedeltà e interpretazione In questo capitolo non si pretende una rendicontazione esatta dei limiti o dei successi traduttorii, esercizio che sarebbe tanto ovvio quanto vano, perchè la traduzione, soprattutto nel caso di una traduzione poetica, è inevitabilmente una riscrittura interpretativa dell’opera di cui il traduttore vuole essere tramite di diffusione nell’orbita linguistica a cui appartiene. I due testi, l’originale e la traduzione, verranno considerati come testi omologhi ognuno nel suo proprio sistema linguistico e dotato delle sue proprie energie semantiche e implicazioni critiche. Etimologicamente il poeta che scopre (INVENIO) l’opera che traduce ai lettori della sua lingua ne è, in un certo senso, l’inventore. “Cada traducción es, hasta cierto punto, una invención, y así constituye un texto único” scriveva Octavio Paz 1 , nel 1971, anno in cui Ángel Crespo intraprende la traduzione della Divina Commedia. Il fascino della traduzione poetica consiste nel fatto che essa è una lettura attiva, creativa e critica del testo di partenza, dove nel testo d’arrivo si produce realmente un incontro di personalità poetiche che giungono a prestarsi mutuamente la voce pur restando distinte individualità. La traduzione entra così, paradossalmente, a far parte dell’opera poetica originale del traduttore. Come scrive Gaetano Chiappini, “una traducción realizada por un señalado poeta, sugiere, anima y consiente significativas hipótesis acerca del carácter y la validez de una experiencia que viene a desarrollar sin ninguna duda un papel destacado en el ejercicio mismo de hacer su propia poesía 2 ”. Come accennato nel precedente capitolo, Ángel Crespo, nell’intraprendere l’opera di traduzione, espone due fondamentali esigenze: quella di dotare la sua epoca di una traduzione della Commedia “filologicamente fedele e propria per gli uomini del nostro tempo 3 ”, e quella di riprodurre esattamente la terza rima, considerando la 1 Octavio Paz, Traducción, imitación, originalidad in “Cuadernos Hispanoamericanos”, n. 253-254, gen.feb. 1971, p. 9. 2 Gaetano Chiappini, Ángel Crespo, traductor de la Divina Comedia in AA.VV. El tiempo en la palabra, cit., suplemento p.186. 3 Sono parole di Pilar Gómez Bedate nell’intervento al convegno di Ravenna il 28 settembre 2001, cit. 40 costruzione metrica del sacrato poema parte significante imprescindibile per riprodurne la globalità di significato e riproporre lo spessore del messaggio dantesco. Il traduttore concepisce il verso come un complesso linguistico costruito su leggi particolari che non coincidono con quelle degli altri sistemi di comunicazione orale o scritta, in quanto costituisce una semantica che segue le sue proprie leggi di sviluppo 4 . No hay que olvidar que la literatura es un lenguaje artificial y que la artificialidad de la poesía es distinta de la artificialidad de la prosa; no es lo mismo el cursus de la prosa medieval al que tan afecto fue Dante cuando creó la prosa vulgar italiana, que el mucho más elaborado del verso coetáneo de aquélla y, en especial, el de los tercetos encadenados, invención dantesca. Teniendo esto en cuenta, no cabe sino pensar que un cambio de medio en la traducción – prosa por verso, o verso blanco por verso rimado – habría supuesto, de llevarse a cabo, un cambio de sentido realmente violento del pensamiento dantesco [...] entre otras cosas porque la prosificación altera la semántica del original en verso y porque en la prosa no hay lugar, en casos como él que nos ocupa, para las funciones semánticas y musicales de la rima. 5 La riproposizione della metrica originale dantesca in traduzione, coincide quindi per il poeta traduttore con la riproduzione del sistema di pensiero che impronta la costruzione della Commedia. Pertanto il traduttore segue lo schema compositivo originale, riproduce esattamente la quantità dei versi e ne ricrea la varietà. La “scommessa interpretativa 6 ” crespiana, che privilegia il livello metrico, rimico e ritmico del testo dantesco, porta l’inevitabile conseguenza che le esigenze della rima dettino tante volte le scelte semantiche traduttorie. Come si vedrà in seguito, questa “scommessa” non preclude l’esegesi del testo, e d’altra parte costituisce di per sé di una scelta che dice della lettura del testo dantesco operata dal traduttore. L’alta considerazione del valore significante della struttura metrica del discorso poetico corrisponde alla profonda convinzione del poeta traduttore, che l’impulso ritmico della poesia sia il veicolo per accordarsi con il ritmo interiore del cosmo in cui viviamo e penetrarne il significato meno apparente. Scrive, infatti, Ángel Crespo 7 : si en mis poemas, incluso en los escritos en prosa – et pour cause – procuro siempre el ritmo, y no necesariamente el de las formas codificadas, es 4 Cfr. Ángel Crespo, La “Commedia” de Dante: problemas y métodos de traducción, cit., p. 599. Ángel Crespo, La traducción de la Commedia de Dante: “terza rima” o nada, cit., p. 60. 6 Umberto Eco, Dire quasi la stessa cosa, Bompiani, Milano 2003, p. 53. 7 Ángel Crespo, Entre el temor y la esperanza, Notas acerca de mi poesía, in AA.VV. Ángel Crespo, una obra completa, numero monografico di “Quimera”, n. 254, marzo 2005, p. 12. 5 41 porque creo que la naturaleza, en su nivel más profundo y creador, es ritmo, una infinita serie de ritmos acordados, y por eso debe tener cada poema uno que no sólo trate de acordarse exteriormente con su materia poética, sino que ayude también a penetrar más profundamente en ella. El ritmo del poema es vehículo de una magia que trata de conseguir que el nuestro personal, nuestro ritmo vital, espiritual, intelectual, sentimental se contagie del de esa verdad trascendente que está dentro, y no fuera, del mundo. Nell’ambito dell’attenta valutazione dell’importanza del metro e dell’architettura estremamente calcolata e coerente del verso, rientra anche la considerazione del valore simbolico e allegorico della numerologia dantesca: la simbologia numerica della Commedia è parte del significato totale dell’opera, e una traduzione che voglia riproporne tutto lo spessore non può prescindere da questo aspetto. Gli studi di Gian Roberto Sarolli 8 , e la sua scoperta della serie simbolica del numero dei versi che compone ogni canto della Commedia, sono il fondamento di questa opzione traduttoria. Strettamente correlato al senso trascendente della matematica, è quello della musica come specchio dell’ordine del creato, quindi rimando alla sapienza divina, creatrice di bellezza. Di fatto, come spiega Piero Beltrami 9 “la connessione tra poesia e musica è antichissima e costitutiva”, tanto che Dante stesso, nel Convivio 10 , asserisce che la struttura metrica delle canzoni (“lo numero delle parti”) “si pertiene a li musici”, dove si intenda la musica nel senso intellettualistico corrente nella cultura medievale di arte delle armonie più che di esecuzione dei suoni musicali. Nella Divina Commedia l’ossatura musicale risulta dalla struttura metrica, ma l’indole musicale della poesia 8 Secondo il Sarolli (Analitica della Divina Commedia. Struttura numerologica e poesia, Adriatica, Bari 1974) il numero dei versi che compongono i canti oscillano sempre tra i 115 e i 160. Eseguendo quella che Crespo chiama la “somma esoterica” delle cifre che compongono questi numeri si ottengono sempre i risultati di 4, 7, 10, o 13 ognuno dei quali ha un valore simbolico-sacrale. Il 4, è simbolo delle cose temporali. Quattro sono le stagioni, gli elementi e i punti cardinali. Quattro sono le virtù cardinali e Dante si definisce “tetragono ai colpi di ventura” (Par. XVII, 24), il 4 è dunque anche il simbolo della fermezza morale, e il simbolo di Dante stesso. Il 7 è, tra l’altro, il numero delle virtù cardinali e teologali insieme, dei sacramenti e dei peccati capitali, cioè dell’agire umano al cospetto di Dio e dell’agire divino sull’uomo – che costituisce specificatamente l’argomeno della Commedia; il 10 oltre ad avere la sua perfezione dal fatto di essere risultato della somma dei primi quattro numeri (1+2+3+4=10), è il numero dei comandamenti, cioè della Legge e della Giustizia divine, tema principale della Commedia. Il numero 13 rappresenta la Legge (10) e la Trinità (3), ed è anche il numero di S. Paolo, tredicesimo apostolo, grande patrono del pellegrino ultramondano in quanto suo predecessore (“io non Enea, io non Paulo sono” Inf. II, 32). Gli studi danteschi citati in queste pagine, che risalgono in maggior parte agli anni 70-80, costituiscono la bibliografia critica di cui si correda il lavoro di approfondimento di Crespo che accompagna il suo lavoro di traduzione. (Cfr. l’appendice sul fondo bibliografico dantesco della biblioteca crespiana). 9 Cfr. La metrica italiana, il Mulino, Bologna 2002, p. 72. 10 “O uomini, che vedere non potete la sentenza di questa canzone, non la rifiutate però; ma ponete mente a la sua bellezza ch’è grande sì per costruzione, la quale si pertiene a li grammatici, sì per l’ordine de lo sermone, che si pertiene a li rettorici, sì per lo numero de le sue parti che si pertiene a li musici” (Conv. II XI 19). 42 (eredità della tradizione poetica occitana, di quella innologica delle laudes, ed ancora prima della grande poesia grecolatina e biblica) ne è fondamento costitutivo: il discorso poetico è concepito come canto, cantiche le tre parti del grande poema e canti i cento capitoli che lo compongono, mentre il termine latino RITHIMOS descrive le terzine 11 . Inoltre, sostiene ancora Sarolli, come testimonia l’episodio di Casella nel Purgatorio, “non è dubbio che Dante pensasse di avere le sue canzoni cantate 12 ”. La scansione musicale nella Commedia costituisce quindi un valore poetico primario ed espressamente intenzionale, che il traduttore non può trascurare. Un’altra istanza fondamentale del tradurre, per non incorrere nell’unilateralità di una particolare interpretazione del testo e riproporre un’opera depauperata della sua capacità polisemica di suggerenza, è quella di rinunciare a qualsiasi ambizione interpretativa per riprodurne tutta la densità: una obligación que me he impuesto desde el principio de mi trabajo es procurar ser fiel al texto y evitar toda veleidad exegética del mismo mientras se está realizando la versión. La traducción no debe aclarar, en principio, los sentidos más o menos ocultos del texto: su mayor o menor acierto deberá depender de su mayor o menor paralelismo formal con el original; cuanto mayor sea dicho paralelismo, tanto más posible será obtener de la lectura sentidos alégoricos o de otro género semejantes a los que se deducirían de la consideración del original. Por otra parte si el traductor cae en la tentación de poner de manifiesto en su traducción el sentido que ha creído descubrir en un pasaje de la obra, se expone no sólo a equivocarse, sino también a hacer imposible que el futuro lector descubra otros tal vez importantes, ya sean estéticos o de otro género 13 . Il punto d’arrivo del poeta traduttore di poesia è, come abbiamo visto, la composizione di un testo analogo a quello originale. La costante preoccupazione della fedeltà al testo non sfocia, quindi mai nella letteralità della traduzione; rispetto a questa il traduttore privilegia il parallelismo metrico-concettuale, creato in profonda consonanza poetica con lo stile dantesco. È esemplare il caso del verso 148 in Par. XXVII 14 : “e vero frutto verrà dopo ‘l fiore”, che viene tradotto come “y Pomona vendrá 11 “Prima divisio est, qua totum opus dividitur in tres canticas. Secunda, qua quaelibet cantica dividitur in cantus. Tertia, qua quilibet cantus dividitur in rithimos.” (Ep. Cani Grandi XIII, 26) 12 Come scrive Piero Beltrami, “interi generi poetici, alcuni dei quali decisivi per la storia della poesia e della metrica italiana, sono effettivamente destinati all’esecuzione musicale, sono poesia per musica.” Cfr. Beltrami, La metrica italiana, cit., p. 72. 13 Ángel Crespo, Prólogo a Divina Comedia, Infierno, Seix Barral, Barcelona 2004, p. XXX. 14 In Purg. XXVII i versi di riferimento sono 124-126 e 142-148: “Ben fiorisce ne li uomini il volere; / ma la pioggia continua converte / in bozzacchioni le sosine vere. / […] Ma prima che gennaio tutto si sverni / per la centesma ch’è là giù negletta, / raggeran sì questi cerchi superni, / che la fortuna che tanto l’aspetta, 43 detrás de Flora”, dove la cosa stessa è sostituita dalla sua dea tutelare 15 , con un procedimento stilistico ricorrente nella poesia dantesca. Ad un’attenta lettura, pur apprezzando la perizia stilistica del poeta traduttore, si vede come il tono del discorso di Beatrice, amara osservazione sull’incapacità umana di vero bene e vera virtù, fioritura sempre rovinata dalla pioggia incessante del peccato, appare essenzialmente cambiato dalla trasposizione mitologica della traduzione. Nella conclusione intrisa di sapiente speranza e di fede in un cambiamento dei tempi, sembra inopportuna l’introduzione di un metalinguaggio classico e del campo semantico della religiosità pagana, dove la metafora originale ha tutta la matericità del riferimento al ciclo della natura sostentatrice dell’uomo, e implica quindi anche la drammaticità del raccolto rovinato in un’economia prettamente rurale come quella del Medio Evo. In traduzione inoltre, si perde la rilevante specificazione di “vero” apposto al frutto, in contrasto con i “bozzacchioni” del verso 126, frutti degenerati, nati dai fiori sciupati dalla pioggia. Per riprodurre la ricchezza del linguaggio dantesco, il suo plurilinguismo, i neologismi e l’elasticità interna nell’uso delle parole che il poeta inventore della lingua italiana forgia e deforma con ingegno senza remore, il traduttore spagnolo ricorre al modello linguistico dei siglos de oro. La scelta stilistica di prendere a modello i poeti dei secoli d’oro, risulta motivata dal fatto che questi sono nella letteratura spagnola i veri “fabbri del parlar materno” come Dante lo è per la lingua italiana. La coscienza matura e programmatica di una poesia che si sa costruttrice della lingua letteraria del proprio paese plasma la trattatistica dantesca del De Vulgari Eloquentia, mentre raggiunge in Spagna la sua più compiuta espressione nel dibattito rinascimentale circa le possibilità dell’illustrazione del volgare castigliano 16 . Quel momento di innovazione della storia linguistica e letteraria spagnola coincide del resto con la forte presenza dei modelli poetici italiani, infatti, anche nella traduzione del Canzoniere petrarchesco 17 , Crespo ricorre al linguaggio della poesia aurea spagnola dove il Petrarca ha lasciato una traccia manifesta 18 . Il ricorso alla tradizione linguistica classica si fonda quindi sul riconoscimento dei secoli d’oro come momento culminante della fissazione della lingua / le poppe volgerà u’ son le prore, / sì che la classe correrà diretta; / e vero frutto verrà dopo ‘l fiore. 15 La coppia mitologica Flora e Pomona, costituisce, nell’ambito della poesia spagnola, una reminiscenza gongorina (tra le altre, occorrenze in Polifemo I, 138 e Soledades I, 96). 16 Cfr. Lore Terracini Tradizione illustre e lingua letteraria nella Spagna del Rinascimento, cit. 17 Francesco Petrarca, Cancionero, Alianza, Madrid 1995. 18 Cfr. Ángel Crespo, introduzione a Francesco Petrarca, Cancionero, cit. p.125-126 44 letteraria spagnola, che più corrisponde storicamente alla paternità dantesca della lingua italiana. La riproduzione del verso dantesco pone una problematica che viene affrontata dal traduttore con piena consapevolezza filologica e critica 19 . L’endecasillabo spagnolo è di matrice petrarchesca, e presenta quindi lo schema accentuativo a tre accenti ritmici 20 dell’endecasillabo canonico, mentre quello medievale dovrebbe leggersi con quattro accenti ritmici divisi da una cesura21 . Nella versificazione dantesca sono presenti endecasillabi riconducibili ad entrambi gli schemi accentuativi; si tratta quindi di un endecasillabo di transizione 22 , in quanto “appare probabile che il sistema accentuativo fosse sentito da Dante e dai suoi contemporanei come non rigorosamente fissato 23 ”. Questa ambivalenza della scansione dell’endecasillabo dantesco detta infine la scelta del traduttore per l’endecasillabo classico della poesia spagnola consacrato dall’uso dei siglos de oro. Nella storia della versificazione spagnola, il Marqués de Santillana scandisce l’endecasillabo in modo inusuale rispetto alla maniera canonica. Vi si riscontrano, infatti, presenza di cesura in quinta posizione, accumulazione di accenti che conferisce durezza del suono, rime tronche, versi ipermetri. Crespo considera l’uso di Santillana come una trasposizione e adattamento al castigliano del verso dantesco, e quindi un possibile modello. L’intenzione del traduttore è, però, quella di ricreare versi che siano familiari alle abitudini di lettura dell’ispanofono; sceglie quindi di attenersi all’endecasillabo e alla terzina canonici della letteratura spagnola. 19 Cfr. La “Commedia” de Dante: problemas y métodos de traducción, cit., pp. 604-612. L’endecasillabo canonico è accentato sulla 4a , 8a e 10a oppure sulla 4a, 7a e 10a nelle forme a minore, sulla 6a e 10a nelle forme a maiore. Gli endecasillabi danteschi sono quasi tutti canonici (come afferma Beltrami in La metrica italiana, cit., p.181). 21 Questo tipo di endecasillabo è ancora fortemente improntato alla struttura bipartita del décasyllabe galloromanzo da cui deriva, e appartiene ad una fase storica della versificazione italiana ancora legata ai modelli galloromanzi fino a Dante compreso, prima dell’affermazione definitiva dell’endecasillabo canonico. (cfr. P. Beltrami, ivi, p. 187). 22 “Il fatto che Dante in alcuni versi adotti un sistema di accenti lontano dai tre tipi più frequenti, fa ritenere che la canonizzazione di quei tre tipi appunto sia petrarchesca, o postpetrarchesca; anche se poi in realtà l’endecasillabo dantesco appare su quei tre tipi fondamentali saldamente incardinato”. (Ignazio Baldelli, Enciclopedia Dantesca, s.v. endecasillabo). “In Dante non c’è alcuna obbligatorietà di cesura: il suo verso appare piuttosto organismo fortemente unitario che non risulta dalla somma di due unità ritmiche. … Il discorso comunque sulla cesura in Dante non può essere ridotto ad astrattezza di schemi. Dante s’è foggiato un suo verso, animato da un ritmo personalissimo e vario, che è l’atteggiamento musicale del suo sentimento che adegua lo schema all’interna necessità espressiva.”(Gian Luigi Beccaria, Enciclopedia Dantesca, s.v. cesura). 23 Cfr. Enciclopedia Dantesca, s.v. endecasillabo. 20 45 Il fondamentale molde expresivo della Divina Commedia risulta essere la terzina 24 , che effettivamente “responde a exigencias conceptuales y formales del espíritu medieval y a la peculiar concepción poética de Dante: triple distribución de versos y triple distribución de rimas en un sucesivo alternarse, mediante el cual cada estrofa, sin renunciar a su autonomía rítmica, permite el eslabonamiento con todas las siguientes, dando el desarrollo narrativo temporal que requiere una obra de gran aliento 25 ”. Nella letteratura spagnola è ancora il Marqués de Santillana il primo a codificare la strofa dantesca, senza però farne uso nella sua opera 26 . Secondo quanto si afferma negli studi di Joaquín Arce, la strofa dantesca entra nell’uso spagnolo filtrata dalla tradizione petrarchista: en la literatura castellana, el terceto no penetra y no se impone hasta el segundo cuarto del siglo XVI. Las poéticas y preceptivas no tratarán de esta forma estrófica de modo sistemático hasta el último cuarto del siglo. Si queremos rastrear las posibilidades que había para su incorporación, tenemos que fijarnos fundamentalmente en las traducciones de tres obras significativas italianas: la Divina Comedia, los Triunfos, y la Arcadia. Ya por entonces, la literatura alegórico-dantesca está superada y casi olvidada. El terceto dantesco, pues, entra paradójicamente en la poesía española, no gracias a Dante, sino a Petrarca y a los petrarquistas del siglo XVI. 27 Non esiste quindi nella poesia spagnola un modello strofico equivalente alla terzina dantesca; ma i secoli d’oro hanno comunque dotato l’arte poetica spagnola di una capacità raffinatissima nell’uso dell’endecasillabo. Questo tipo di perizia metrica funge da sistema di riferimento per il traduttore, dato che l’endecasillabo di matrice galloromanza composto di due misure divise da cesura è ormai lontano dalle ragioni strutturali del verso e dalle abitudini di lettura contemporanee. Per tradurre il modo dantesco di usare il verso Crespo ricorre quindi al codice linguistico spagnolo dei secoli d’oro, una lingua illustre, stabilizzata e consacrata dall’uso letterario dei più grandi maestri del fare poetico. Del resto Dante entra come modello letterario in Spagna in pieno secolo XV (la traduzione del Villena è del 1428), 24 Dai calcoli del Lisio, a cui il traduttore spagnolo fa riferimento, risulta che nel 90% dei casi il limite metrico della terzina coincide con il limite sintattico del periodo. (Cfr. Enciclopedia Dantesca, s.v. terzina). 25 Joaquín Arce, Petrarca y el terceto dantesco en la poesía española in Literaturas Italiana y Española frente a frente, Espasa Calpe, Madrid 1982, p. 157. 26 Questo dato è rilevato dal Farinelli in Dante in Spagna-Francia-Inghilterra-Germania, cit.; cfr. Joaquín Arce, Petrarca y el terceto dantesco en la poesía española, cit., p. 158. 27 Ivi, p. 160. 46 vessillifero di una nuova epoca culturale: “esta grandeza y originalidad, esta nueva y penetrante visión, es de suyo más que suficiente para que se vea en él no sólo un representante de los grandes autores clásicos sino un representante de una nueva edad cultural 28 ”. Concretamente il traduttore introduce, nella sua lettura e appropriazione del testo dantesco, varie allusioni stilistiche ai maestri della poesia spagnola, che, ammiccando al lettore per fargli sentire familiare la poesia di Dante, corrispondono al desiderio del traduttore di naturalizzare la Commedia nelle lettere spagnole: “incorporar con la mayor dignidad posible a la literatura española el incomparable poema dantesco, bajo una forma inequivocamente clásica 29 ”. Nella presentazione del suo lavoro al congresso di Bari del 12 marzo 1975 30 , Crespo stesso ricostruisce 31 una mappa delle allusioni stilistiche e delle suggestioni liriche che fanno parte del suo vissuto culturale alle quali fa esplicito ed intenzionale riferimento in precise scelte stilistiche che di seguito ripercorro. La sonorità aspra della poesia del Marqués de Santillana ispira la resa traduttoria dei versi di Farinata: in Inf. X il verso 33 “da la cintola in sù tutto il vedrai”; “de la cintura arriba le verás”, diventa in traduzione un endecasillabo tronco ed è leggibile con cesura, possiede quindi una durezza del timbro conferitagli dall’allitterare della vibrante, che contribuisce a dare rilievo alla figura rappresentata. Vorrei osservare che nel testo originale il suono allitterante è la dentale sorda t che sottolinea il participio dritto del verso precedente e l’avverbio tutto nei quali è specialmente concentrata, dove si condensa la rappresentazione della protervia e della statura fisica e morale di Farinata. Nel porre gli esempi delle allusioni stilistiche create, Crespo parla esplicitamente del proposito di rendere i versi tradotti “fácilmente relacionables con su modelo castellano 32 ”. Nel tradurre alcune immagini di pianto il traduttore indica come modello di riferimento la poesia elegiaca garcilasiana. In Inf. II, nel verso 116 “li occhi lucenti lagrimando volse”; “volvió su rostro en lágrimas bañado” si presentano effettivamente clausole ricorrenti negli endecasillabi garcilasiani – e la parola “rostro” è tipicamente 28 Joaquín Arce, Dante y el humanismo castellano in Literaturas Italiana y Española frente a frente, cit., p. 145. 29 Cfr. La “Commedia” de Dante: problemas y métodos de traducción, cit., p. 609. 30 Si tratta, come già spiegato supra di La “Commedia” de Dante: problemas y métodos de traducción. 31 Ivi, p. 609-610. 32 Ivi, p. 609. 47 garcilasiana – così il traduttore fa propria la rappresentazione del pianto di Beatrice commossa per il traviamento di Dante. Qualcosa di analogo si opera nella trasposizione dell’immagine del pianto eterno grottesco e raggelante di Lucifero in Inf. XXXIV, 53 “con sei occhi piangëa”; “de seis ojos sus lágrimas brotando”; per la figura del dolore dei principi di Francia a causa della corruzione della loro terra, dove il dolore stesso diviene lancia che trafigge gli spiriti in Purg. VII, 111 “e quindi viene il duol che sì li lancia”; “y así los está el duelo traspasando”; nella resa delle parole di Beatrice che rievocano le lacrime della scena del limbo – dove in traduzione le lacrime si sostituiscono alle preghiere – in Purg. XXX 141 “li prieghi miei, piangendo , furon porti”; “vio mi rostro de lágrimas cubierto”: tutte queste immagini di pianto ultramondano entrano nel capitale poetico spagnolo riferendosi al tema delle lacrime in Garcilaso. Mi pare utile notare che in tutti questi casi la traduzione sostituisce ai verbi danteschi il sostantivo “lágrimas” (Inf. II, 116 “lagrimando”; “en lágrimas”; Inf. XXXIV, 53 “piangëa”; “sus lágrimas brotando”; Purg. XXX 141 “piangendo”; “rostro de lágrimas cubierto”), dove il passaggio dal verbo dantesco al sostantivo materializza il pianto rendendolo un oggetto percepibile dai sensi. Ancora, motivato dal fatto che nella Commedia abbondano l’invenzione sintattica e verbale, ci sono occasioni in cui il traduttore giunge a “acuñar versos de corte culterano 33 ” che ben rispondono alla risoluzione di rime non facili. È il caso del verso 56 di Inf. XIV, l’invettiva di Capaneo, “in Mongibello a la focina negra”; “en la de Mongibelo fragua negra”; ancora in Purg. x, 131 dove il richiamo alle cariatidi serve per descrivere la condizione dei superbi “per mensola talvolta una figura / si vede”; “por ménsula se mira una figura”; al verso 46 di Purg. XIX dove si dice di un angelo che ha “l’ali aperte che parean di cigno”; “Casi de cisne abrió sus alas de ave”. Qui vorrei però osservare che la similitudine dantesca perde in vigore e in perfezione della coincidenza delle ali dell’angelo con le ali del cigno: l’avverbio “casi” introduce infatti una distanza nell’approssimazione delle immagini, mentre l’ulteriore termine di paragone “alas de ave”, pur fatto salvo per esigenze rimiche, allontana ulteriormente l’immagine delle ali dell’angelo, inoltre l’angelo dantesco si presenta ai pellegrini in maniera statuaria nel pieno splendore delle ali aperte, dove quello crespiano è colto nel momento in cui apre le ali. Ancora in Par. 33 XXX, 10-11 “Non altrimenti il triunfo che lude / sempre dintorno Ivi, p. 609. 48 al punto che mi vinse”; “No de otro modo aquel que se descierra, / triunfo, en torno del punto que vencióme” si crea un forte iperbato che appartiene solo alla traduzione e non al testo dantesco. Crespo evidenzia ancora due esempi di passi difficili nei quali crea versi che ritiene “de corte conceptista 34 ”, per cui risulta imprescindibile la memoria dello stile dei classici del siglo de oro. Il primo in Inf. XXX i versi 136-141, descrivono il turbamento di Dante per il rimprovero di Virgilio davanti al suo indugiare nell’ascolto della discussione tra Sinone e Maestro Adamo: Qual è colui che suo dannaggio sogna, che sognando desidera sognare, sì che quel ch’è, come non fosse, agogna, tal mi fec’io, non possendo parlare, che disiava scusarmi, e scusava me tuttavia, e nol mi credea fare. Como él que un sueño malo está teniendo, que, soñando, soñar desearía lo que cree que no es y ya está siendo, no pudiendo yo hablar, tal me ocurría, que querría excusarme, y me excusaba en realidad y no me lo creía. Ancora in Par. XX al verso 105 “quel d’i passuri e quel d’i passi piedi”; “uno en no y otro en ya clavados pies” la traduzione si sforza di rendere la complessità del verso dantesco, che con i due participi latini futuro e passato descrive la fede in Cristo venturo e in Cristo già venuto di Traiano e Rifeo 35 . I maestri della poesia seicentesca sono evocati anche con espliciti riferimenti “con la intención de hacer un guiño al lector para que se sienta como en su casa dentro de este canto de la Commedia 36 ”: in Purg. VII 113 “el de la nariz superlativa” è citazione letterale da Quevedo per tradurre “colui dal maschio naso”, mentre l’emistichio di Inf XXXI, 41: “cual Montereggión, con una cerca / se defiende, de torres coronada”, mostra la forte traccia delle “torres coronadas / de honor, de majestad, de gallardía” del sonetto gongorino A Córdoba. La riproduzione del sistema rimico della Commedia costituisce la difficoltà maggiore per il traduttore, ma anche una priorità incrollabile della traduzione, anzi suo punto originario. Come dichiara Pilar Gómez Bedate, testimone privilegiata di tutto il farsi dell’opera crespiana, il traduttore inizia costruendo il suo rimario: 34 Ivi, p. 610. Si tratta dell’imperatore Traiano e dell’eroe troiano Rifeo menzionato da Virgilio nell’Eneide come uomo iustissimus. Dante ne fa un convertito prima della venuta di Cristo secondo le parole di S.Tommaso per cui “multis gentilium facta fuit revelatio de Christo” (Summa). 36 Cfr. La “Commedia” de Dante: problemas y métodos de traducción, cit., p. 610. 35 49 Faceva lunghe liste di parole, su lunghi fogli in cui alla fine di quella che doveva essere la riga metteva le rime; faceva tutte le rime poi riempiva i versi. 37 Una rima mancata implica l’invalidazione di tutto il sistema delle rime incatenate: si deshacía una de aquellas rimas, ésta como el punto de un tejido de media, arrastraba consigo a todas las de los tercetos anteriores que había ido encadenando. 38 Fondamentale è infatti il valore significante della struttura rimica della Commedia, che arriva fino al punto che la rima può svolgere una funzione orientatrice su alcune questioni dottrinali del poema. Ne è un esempio il caso della parola Cristo, che, quando si trova in posizione finale del verso, rima soltanto con se stessa ternariamente, evidente simbolo trinitario. La varietà tipologica delle rime dantesche viene riproposta in traduzione non in modo identico, ma seguendo un equilibrio compensatore che recupera dove possibile le perdite in un parallelismo creativo globale. Ripropongo di seguito la mappatura di esempi che Crespo stesso percorre attraverso il complesso e variato sistema di rime che sceglie di utilizzare 39 . Il traduttore parla dell’utilizzo di “rimas compuestas 40 ” prevalente nella seconda e terza cantica, per esempio in: Purg. XVII, 55 “Es un divino espíritu, que de la” dove anche il verso dantesco presenta la stessa rima (“Questo è divino spirito, che ne la”), le particelle de la formano un’unica parola il cui accento dèla cade sulla decima sillaba del verso e rima con vela e cela; ancora in Purg. XX, 4 “Movíme y mi maestro movióse a do” dove la rima è con agrado e almenado; ancora in Par. XVII, 70 “Deberás tu refugio primero a la” in rima con gala e escala, e in Par. XXI, 38-39 “Y se ve a otras volviendo y a otras que se” in rima con ocurriese. 37 Così nell’intervento ravennate cit. . Pilar Gómez Bedate La medalla de Florencia, in “Cuadernos de la Huerta de San Vicente”, n. 5–6, Granada, verano 2002. Il racconto è riprodotto in appendice a questo volume. 39 Non riporto sempre in questi esempi il testo dantesco a fronte, perché non si tratta della stessa rima, quanto della riproduzione di una tendenza stilistica. 40 Cfr. Ángel Crespo, La “Commedia” de Dante: problemas y métodos de traducción, cit., p. 612. Questa tipologia rimica corrisponde alla “rima composta” italiana, detta anche “spezzata” o “franta” o “rotta”, che si ha quando “una parola in rima è ottenuta artificiosamente sommando due o più parole distinte e ponendo questo cumulo sotto l’accento che cade sulla sillaba che caratterizza la misura del verso.” (P. Beltrami, La metrica italiana, cit., p. 217). 38 50 Anche le rime “paronomásicas” o equivoche 41 vengono prodotte in traduzione. Crespo porta come esempio il caso di Inf. XXXI, 37-43 dove la parola cerca assume rispettivamente il ruolo di avverbio (vicino), poi di sostantivo (cerchia di mura), e infine di verbo (circonda). … de ese modo, horadando el aura oscura, del borde, poco a poco, me vi cerca y huyó mi error y vino mi pavura, pues cual Montereggión, con una cerca se defiende, de torres coronada, la torre que al profundo pozo cerca está por medios cuerpos torreada Un caso particolarmente felice di parallelismo rimico, nella ricreazione di rime “aspre e chiocce”, è rappresentato dalla resa delle tre terzine di Inf. XXXII, 1-9, dove il timbro duro dei versi è rafforzato in traduzione dalle allitterazioni. Imprescindibile qui il valore significante della fonetica del testo per la sua corrispondenza con il senso del discorso dove l’espressività delle terzine è accentuata dalla sonorità aspra delle rime, che sono anche portatrici, secondo il traduttore, della “ironía dantesca de asegurar que carece de lo que está mostrando poseer 42 ”. Riporto in questo caso il testo a fronte. S’io avessi le rime aspre e chiocce, come si converrebbe al tristo buco sovra ‘l qual pontan tutte l’altre rocce, io premerei di mio concetto il suco più pienamente; ma perch’io non l’abbo, non sanza tema a dicer mi conduco; ché non è impresa da pigliare a gabbo discriver fondo a tutto l’universo, né da lingua che chiami mamma o babbo. Si yo tuviese rimas berroqueñas y ásperas, cual merece el triste huraco que es apoyo del resto de las peñas, más jugo sacaría del que saco a mi concepto; y, dada mi pobreza, no sin sentir temor el tema ataco; que no se ha de tomar con ligereza el fondo describir del universo, ni es de lengua que “papa” y “mama” reza Un altro caso esemplare è costituito dall’utilizzo di rime sdrucciole – di sporadico utilizzo nel Duecento italiano e nella poesia dantesca 43 – in Purg. XXIII ai versi 22-27. Le rime non coincidono con quelle dantesche ma , secondo il traduttore, da esse si originano nel tentativo di accentuare l’elemento di esperpento nella rappresentazione degli spiriti purganti dei golosi: 41 Il tipo di rima cui Crespo fa qui riferimento “consiste nell’identità fonica delle parole in rima” le quali “devono differire fra loro o per senso, o perché appartengono a categorie grammaticali diverse” (P. Beltrami, ivi, p. 216). 42 Cfr. Ángel Crespo, La traducción de la Commedia de Dante: “terza rima” o nada, cit., p. 62. 43 Cfr. P. Beltrami, La metrica italiana, cit., p. 214. 51 Tenían ojos fuscos y cavados pálido era su rostro y tan escuálido que a él estaban los huesos asomados: no tendría un aspecto tal de inválido el rey Ericsitón, seguramente, cuando el miedo a ayunar le puso pálido. Le rime tronche vengono percepite da Crespo come una nota spiccatamente medievale e utilizzate quindi in traduzione – e di nuovo in omaggio a Santillana – nei passi dove si trovano dissertazioni teoriche o termini di colore tipicamente medievale quali “virtud”, “sir”, “valor”. Questo tipo di rima viene utilizzata con particolare intensità nei versi dell’Inno alla Vergine che aprono Par. XXXIII, “con el propósito de medievalizarlos, es decir de producir en ellos algo semejante a esas aristas casi cortantes, pero suavemente armoniosas en su conjunto, de la arquitectura gótica 44 ”. Riporto i versi 7-12, e 17-30 con il testo dantesco a fronte. Nel ventre tuo si raccese l’amore, per lo cui caldo ne l’etterna pace così è germinato questo fiore. Qui se’ a noi meridiana face di caritate, e giuso, intra ‘ mortali, se’ di speranza fontana vivace. [...] La tua benignità non pur soccorre a chi domanda, ma molte fiate liberamente al dimandar precorre. In te misericordia, in te pietate, in te magnificenza, in te s’aduna quantunque in creatura è di bontate. Or questi, che da l’infima lacuna de l’universo infin qui ha vedute le vite spiritali ad una ad una, supplica a te, per grazia, di virtute tanto, che possa con li occhi levarsi più alto verso l’ultima salute. E io, che mai per mio veder non arsi più ch’i’ fo per lo suo, tutti miei prieghi ti porgo, e priego che non sieno scarsi En tu vientre encendióse aquel amor cuyo calor hizo en la eterna paz que germinase esta cándida flor. Aquí nos eres meridiana faz de caridad; y abajo, a los mortales hontanar de esperanza eres vivaz. [...] No tu benignidad sólo socorre tras pedir, pues con santa libertad antes del ruego mil veces acorre. En ti misericordia, en ti piedad, en ti magnificencia, en ti se aduna cuanto en la criatura hay de bondad. Éste, que desde la ínfima laguna del universo hasta esta beatitud vio las vidas del alma una por una, por gracia, te suplica tal virtud que con los ojos pueda desde aquí levantarse hasta la última salud; y yo, que por mi ver jamás ardí más que por su mirar, bueno es que ruegue y que mi ruego te complazca a ti Anche le particolarità dello stile dantesco vengono studiate e minuziosamente riprodotte nella traduzione, come parte imperdibile del significato totale dell’opera. Anche in questo caso seguo la traccia degli esempi citati dallo stesso Crespo. 44 Cfr. Ángel Crespo, La “Commedia” de Dante: problemas y métodos de traducción, cit., p. 614. 52 La resa traduttoria delle allitterazioni, caratteristiche della poesia dantesca, è considerata un obbligo da parte del traduttore. Questa considerazione crespiana trova conferma nelle parole di Gian Luigi Beccaria per cui Dante ha consapevolmente gravato di valori fonosimbolici l’accavallarsi delle allitterazioni […] la suggestione di suono è operante se è ad un tempo suggestione di senso 45 . Casi esemplari sono costituiti da Inf. I, verso 5 dove la “selva selvaggia” è resa con “selva salvaje”; ancora in Inf. XIV nel discorso di Pier della Vigna in Inf. “rena arida” del verso 13 diventa “árida arena”; XIII ai vv. 67-68 “infiammò contra me li animi tutti; / e li ‘nfiammati infiammar sì Augusto”; “contra mí tantos pechos inflamara / que aquella inflamación inflamó a Augusto” e al v. 72 “ingiusto fece me contra me giusto”; “contra mí se hizo injusto, siendo justo”. Un caso più particolare in cui si mantiene l’allitterazione, dove cambia il suono allitterante nella trasposizione dell’espressione dantesca nel suo corrispondente letterale in spagnolo, è rappresentato dai versi 49-50 di Inf. VI: “ed elli a me: la tua città, ch’è piena / d’invidia sì che già trabocca il sacco” che diventa in traduzione “tu ciudad, él me dijo, que tan llena / de envidia está que ya rebosa el vaso”. Un unico esempio di restituzione delle sinestesie dantesche, anch’esse oggetto di studio da parte del traduttore, è quello del verso 28 di Inf. V dove il dantesco “luogo d’ogni luce muto” si specchia fedelmente nello spagnolo “lugar de luz mudo”. Nella stessa maniera il traduttore interpreta e ripropone la varietà dei registri stilistici danteschi cercando sempre il più adeguato parallelo castigliano per riprodurre i tratti stilnovisti, riproporre fedelmente e senza intollerabili censure gli elementi del linguaggio basso-comico di Malebolge, e i tratti del luminoso linguaggio scolastico delle disquisizioni filosofiche di cui il traduttore ammira “la precisión semántica del razonamiento y el uso maravillosamente poético de los tecnicismos más afilados 46 ”. 45 La Commedia è riccamente intessuta di allitterazioni che hanno una duplice funzione, espressiva e didattica. Per quanto riguarda l’allitterazione è caratteristica la varietà del suo impiego e l’ampia funzione espressiva cui essa è destinata. Sono più comuni i casi in cui l’allitterazione da rilievo all’immagine, spesso le coppie di vocaboli che si succedono per approfondire un concetto sono legati dall’allitterazione, oppure essa è l’origine della metafora. L’allitterazione attribuisce sonorità al verso, e insistendo su alcuni tratti fonici che evocano analogicamente un’immagine, riesce a renderla sensibile. L’allitterazione è anche ciò che connota gli stili aspro e dolce. (Cfr. Gian Luigi Beccaria in Enciclopedia dantesca s.v. allitterazione) 46 Ángel Crespo, La “Commedia” de Dante: problemas y métodos de traducción, cit., p. 618. 53 L’aderenza al testo e la riflessione del traduttore penetrano il contenuto del poema dantesco anche oltre lo strato fenomenico dei significanti fino alla individuazione e alla riproduzione dell’“aura semantica”: non solo le parole sono portatrici di significato, ma anche la loro energia evocatrice e suggerente. Il traduttore descrive la questione in questi termini: existe en el texto dantesco un empleo de los vocablos, no según su significado semánticamente lexicalizado, sino de acuerdo con lo que podríamos llamar el aura semántica de los mismos. Es lo que el Ottimo explicaba diciendo que Dante “muchas veces hacía a los vocablos decir en sus rimas otra cosa de lo que significaban para otros decidores”. Como quiera que el procedimiento de Dante no podía ser arbitrario – y los resultados lo demuestran –, mis observaciones me han llevado a considerar estos términos como pertenecientes al mismo campo semántico de la voz a la que sustituyen, con evidente ventaja poética, y a tratar de crear paralelismos faciles de encontrar. 47 La preoccupazione di mantenere il parallelismo stilistico, per riprodurre la molteplice ricchezza dei significanti della poesia dantesca, si allarga anche al suo aspetto visivo. Il traduttore si riferisce qui ai due celebri casi di acrostico in Purg. XII, e in Par. XIX, i quali vengono conservati in traduzione “por fidelidad estílistica e incluso filológica” come dichiarato nella nota al v. 25 di Purg. XII. Le serie acrostiche non costituiscono solo un singolare caso di poesía visual che incontra straordinariamente la sensibilità del lettore contemporaneo, esse esprimono in realtà l’ordine e il significato della rappresentazione dantesca chiosando il testo. Inoltre l’utilizzo di questo complicato gioco retorico, rientra nell’abitudine culturale, proveniente dalla filosofia pitagorica, di considerare le lettere e i numeri segni simbolici attraverso cui leggere il significato dell’universo, habitus senz’altro riportato in auge dalle abitudini di lettura simboliste e post-simboliste 48 , quindi singolarmente vicine al lettore e al traduttore contemporaneo. Le tredici terzine, qui riportate, di Purg. XII, presentano exempla di superbia punita istoriati sul suolo della cornice dei superbi. Le terzine sono ordinate in tre gruppi di quattro più una conclusiva; ogni gruppo inizia con la stessa parola (“Vedea”, “O”, “Mostrava”) raccolte poi in principio di ogni verso nella tredicesima terzina49 , le cui iniziali formano la parola VOMO. Tale parola riassuntiva sembra significare che il 47 Ivi, p. 620. Cfr. Ángel Crespo, Introducción a Divina Comedia 1999, p. XLVIII. 49 Anche qui si ripetono i numeri simbolici 4, 3 e 13 di cui supra n. 8. 48 54 peccato di superbia, che anche Dante riconosce come proprio, è quello più caratteristico dell’uomo, e quello che con maggiore violenza (“folgoreggiando”) lo allontana da Dio, come testimonia la caduta di Lucifero, “nobil creato / più ch’altra creatura”, che vi viene rappresentata. La traduzione spagnola ricrea l’effetto visivo dell’acrostico, certamente senza trasporre la parola “uomo” nel suo equivalente spagnolo “hombre”, riservandosi di spiegare in nota il significato della serie acrostica. Vedea colui che fu nobil creato più ch’altra creatura, giù dal cielo folgoreggiando scender, da l’un lato. Vedea Briareo, fitto dal telo celestial giacer, da l’altra parte, grave a la terra per lo mortal gelo. Vedea Timbreo, vedea Pallade e Marte, armati ancora, intorno al padre loro, mirar le membra d’i Giganti sparte. Vedea Nembròt a piè del gran lavoro quasi smarrito, e riguardar le genti che ‘n Sennaàr con lui superbi fuoro. O Niobè, con che occhi dolenti vedea io te segnata in su la strada, tra sette e sette tuoi figliuoli spenti! O Saùl, come in su la propria spada quivi parevi morto in Gelboè, che poi non sentì pioggia né rugiada! O folle Aragne, sì vedea io te già mezza ragna, trista in su li stracci de l’opera che mal per te si fé. O Roboàm, già non par che minacci quivi ‘l tuo segno; ma pien di spavento nel porta un carro, sanza ch’altri il cacci. Mostrava ancor lo duro pavimento come Almeon a sua madre fé caro parer lo sventurato addornamento. Mostrava come i figli si gittaro sovra Sennacherìb dentro dal tempio, e come, morto lui, quivi il lasciaro. Mostrava la ruina e ‘l crudo scempio che fé Tamiri, quando disse a Ciro: «Sangue sitisti, e io di sangue t’empio». Mostrava come in rotta si fuggiro li Assiri, poi che fu morto Oloferne, e anche le reliquie del martiro. Vedeva Troia in cenere e in caverne; o Ilión, come te basso e vile mostrava il segno che lì si discerne! 27 30 33 36 39 42 45 48 51 54 57 60 63 Veía allí al que noble fue creado más que otra criatura, que del cielo caía como el rayo, por un lado. Vi herido a Briareo, y en el suelo por divina saeta, a la otra parte, grave a la tierra por el mortal hielo. Vi a Timbreo, y a Palas vi con Marte en torno al padre armados, los Gigantes mirando, desmembrados por su arte. Vi a Nemrod con su obra, delirantes miradas dirigiendo a aquellas gentes que en Senar también fueron arrogantes. ¡Oh Niobe, con qué ojos tan dolientes tu retrato miré en aquella estrada, entre tus siete y siete hijos yacentes! ¡Oh Saúl, que por obra de su espada aparecía muerto en Gelboé, que ya no siente lluvia ni rociada! ¡Oh loca Aracne, allí te contemplé, ya medio araña, al pie de la deshecha obra que por tu mal tejida fue! ¡Oh Roboán, el miedo y la sospecha no infundes ya: temiendo y sin aliento huyes en carro, cuando nadie te echa! Mostraba luego el duro pavimento cómo las manos de Alcmeón tornaron de su madre costoso el ornamento. Mostraba cuál los hijos se lanzaron sobre Senaquerib en el sagrado y cómo muerto allí le abandonaron. Mostraba el duro estrago perpetrado por Tamiris, que a Ciro le decía: «Te harto de ella, pues sangre has deseado». Mostraba, derrotada cómo huía la gente asiria, ya Holofernes muerto y el rastro del martirio se advertía. Vi a Ilión por sus cenizas recubierto: ¡oh Troya, la materia allí esculpida mostraba tu vileza al descubierto! 55 L’acrostico in Par. XIX, 115-141, di struttura più lineare rispetto al precedente, rappresenta ancora una glossa dantesca all’argomento espresso nelle terzine, e fa parte del significato del testo: “i cattivi prìncipi sono la peste della cristianità” secondo quanto annota Natalino Sapegno, nella sua edizione della Commedia. Il giudizio lapidario è nascosto nell’acrostico formato dalla lettera iniziale del verso che apre la terzina, per nove terzine che compongono la parola LVE. Così la traduzione crespiana riproduce l’acrostico: Lì si vedrà, tra l’opere d’Alberto, quella che tosto moverà la penna, per che ‘l regno di Praga fia diserto. Lì si vedrà il duol che sovra Senna induce, falseggiando la moneta, quel che morrà di colpo di cotenna. Lì si vedrà la superbia ch’asseta, che fa lo Scotto e l’Inghilese folle, sì che non può soffrir dentro a sua meta. Vedrassi la lussuria e ‘l viver molle di quel di Spagna e di quel di Boemme, che mai valor non conobbe né volle. Vedrassi al Ciotto di Ierusalemme segnata con un i la sua bontate, quando ‘l contrario segnerà un emme. Vedrassi l’avarizia e la viltate di quei che guarda l’isola del foco, ove Anchise finì la lunga etate; E a dare ad intender quanto è poco, la sua scrittura fian lettere mozze, che noteranno molto in parvo loco. E parranno a ciascun l’opere sozze del barba e del fratel, che tanto egregia nazione e due corone han fatte bozze. E quel di Portogallo e di Norvegia lì si conosceranno, e quel di Rascia che male ha visto il conio di Vinegia 115 Las obras se verán allí de Alberto y, entre ellas, pronto escrito será el celo que del reino de Praga hizo un desierto. 118 Leeráse allí del Sena el mucho duelo, que inducirá, moneda falseando, quien morirà golpeado por el pelo. 121 La sed veráse y el orgullo infando del Escocés y del Inglés demente, que no están sus fronteras tolerando. 124 Veráse en la lujuria, muellemente, al de España, y veráse al de Bohemia, que no supo ni quiso ser valiente. 127 Verán que con la I el Cojo se premia de su Ierusalem, por su bondad, mientras a lo contrario la M apremia. 130 Veráse la avaricia y la maldad del que guardando está la isla del fuego, donde Anquises finió su larga edad. 133 En su escritura notaráse luego cuán poco es su valor, pues abreviadas, ocuparán las letras poco pliego. 136 En él leerán las obras desgraciadas del tío y del hermano, que han manchado su tierra y dos coronas malhadadas. 139 El que hay en Portugal será apuntado, y el de Noruega, y el de Rascia reo, que el cuño de Venecia ha malmirado. Dal confronto con l’originale dantesco in questi esempi si vede bene il parallelismo e l’equilibrio nel cui ambito lavora il traduttore, mantenendo tutte le parole cardine del testo. Un ulteriore caso di vera e propria poesia visiva, individuata dagli studi del Sarolli, viene riprodotto in traduzione. In Purg. XXX 49-51, la disposizione nei tre versi del nome di Virgilio evocato in una triplice ripetizione al momento del congedo, crea l’effetto visivo di una V: 56 Ma Virgilio n’avea lasciati scemi 49 Pero Virgilio habíanos privado de sí mismo, Virgilio, el padre amante di sé, Virgilio dolcissimo patre, Virgilio a cui per mia salute die’mi 51 Virgilio, a quien me había yo entregado. Si nota come l’effetto grafico sia accentuato nella traduzione spagnola per il maggior numero di sillabe che precede il nome di Virgilio al v. 50, mentre il termine “salute”, come salvezza, parola cardine nella poetica dantesca e nella concezione stilnovista dell’Amore, è omesso. Queste due variazioni rivelano una sfumatura novecentesca nella lettura traduttoria della poesia dantesca. Infatti, accanto alla dichiarata ed essenziale aderenza “en lo fundamental y en lo particular al espíritu del escrito 50 ”, la lettura traduttoria si serve, nel particolare, di elementi che denotano l’individualità poetica del traduttore. La traduzione crespiana di Dante è in realtà un dialogo appassionato da poeta a poeta in profonda implicazione esistenziale e artistica con l’opera tradotta. Ripercorrendo fedelmente ogni accento dantesco, la traduzione diventa un ritrovamento della propria voce poetica, soluzione dell’isolamento culturale dell’esule spagnolo nelle sue “soledades tropicales y escandinavas” e ricreazione di una patria poetica dove si attua la propria libertà morale e civile. Quello che si realizza nella traduzione crespiana della Commedia è una vera e propria trasposizione dell’italiano del trecento al castigliano dei nostri giorni, una “conformidad metacrónica de lenguas hermanas y respectivos individuos poéticos” come scriveva Oreste Macrí 51 , in effetti un connubio armonioso di lingua e poesia, oltre i secoli che separano il sommo poema dal suo traduttore che considera il tempo trascorso non come obnubilante distanza ma come possibilità maggiore di una diretta sintonia col maestro del Medio Evo italiano: “estoy admirado de ver que Dante puede quedar aquí como un poeta moderno, simplemente siéndole fiel 52 ”. Questa straordinaria “conformidad metacrónica” si realizza comunque nella singolarità dei “rispettivi individui poetici”: il traduttore è presente nella traduzione, oltre che nella sentita e puntuale aderenza dei significanti e dei significati con il testo originale, nella sua paziente lettura e scavo interpretativo, in cui “la personalità del 50 Ángel Crespo, Prólogo a Divina Comedia, Infierno, 2004, cit., p. XXIV. Cfr. supra cap. 1.3, n. 53. 52 Lettera di Ángel Crespo a Pedro Gimferrer, 8 gennaio 1975. Cfr. il carteggio riprodotto in appendice al volume. 51 57 traduttore non si annulla, ma si fa trasparente, si riduce come una parete di cristallo che lascia vedere senza deformazioni ció che sta dall’altra parte, ma che con il suo spessore mantiene separati gli ambienti 53 ”. Per questo Jorge Guillén con profonda comprensione parlava a Crespo di un “Infierno doble: el de Dante y el de usted 54 ”. Infatti, per un risultato di essenziale fedeltà, il testo di partenza e quello di arrivo possono essere letti come omologhi ed indipendenti, secondo l’ideale crociano della bella traduzione che “può star da sé”. La Comedia crespiana entra, dunque, di diritto nel proprio sistema culturale come un testo parallelo a quello dantesco; dotato di un’energia semantica propria, che la rilettura traduttoria novecentesca dissemina nel testo, il quale, pur nella totale assimilazione all’originale, si presenta formato da elementi variati. Scrive Octavio Paz, citando le parole di Paul Valery, che l’ideale della traduzione poetica consiste nel produrre effetti analoghi con mezzi differenti 55 . Proprio nella differenza dei mezzi si fa leggibile la specificità del traduttore, e questo rende la traduzione poetica un arricchimento della visione del poema dantesco e un contributo critico per lo studio dell’opera e della personalità del poeta e traduttore Ángel Crespo. 53 Cfr. Benvenuto Terracini, Conflitti di lingue e di cultura, cit., p. 60. Lettera personale di Jorge Guillén ad Ángel Crespo. Cfr. il carteggio riprodotto in appendice al volume. 55 Octavio Paz, Traducción, imitación, originalidad, cit., p. 14. 54 58 2. La paternità di Virgilio, l’anelito conoscitivo di Ulisse (Inferno XXVI) L’analisi della Commedia nella traduzione crespiana rivela la lettura del poema propria di Crespo, vera e propria lectura dantis di un profondo interprete del suo tempo, che ripropone alla sua cultura ed al suo secolo la voce del grande padre della poesia italiana. Gli esempi scelti sono punti di eccezionale consonanza esistenziale e artistica tra Ángel Crespo e Dante Alighieri. I primi esempi che propongo sono tratti rispettivamente dalle terzine del primo canto dell’Inferno (Inf. I, 79-87) che rappresentano l’incontro di Dante con Virgilio nella selva oscura, e da quelle culminanti del Purgatorio (Purg. XXVII, 142-145), dove, al vertice dell’umano peregrinare di Dante, Virgilio si congeda da lui. L’apostolato estetico, come quello vissuto da Dante nei confronti di Virgilio, è un’esperienza cara al poeta Crespo, e fonda il senso del valore paradigmatico di cui la figura di Dante verrà investita dal suo traduttore spagnolo. Scrive in merito Ángel Crespo: “maestros no los he tenido; hombres ejemplares por su vida, por su obra o por ambas he admirado y amado a más de uno, y ellos han sido, y continúan siendo quienes me han estimulado [...] a informar y tratar de imprimir coherencia a mi aventura vital y espiritual 1 ”. Or se’ tu quel Virgilio e quella fonte che spandi di parlar sì largo fiume? rispuos’io lui con vergognosa fronte. ¿Eres tú aquel Virgilio y esa fuente de quien brota el caudal de la elocuencia?, 81 le respondí con vergonzosa frente. De los poetas el onor y ciencia, O delli altri poeti onore e lume, válgame el largo estudio y el gran amor vagliami il lungo studio e ‘l grande amore 84 con que busqué en tu libro la sapiencia. che m’ha fatto cercar lo tuo volume. Tu se’ lo mio maestro e ‘l mio autore; Tu se’ solo colui da cui io tolsi lo bello stile che m’ha fatto onore. Eres tú mi maestro, tú mi autor: eres tú solo aquel del que he tomado 87 el bello estilo que me diera honor. Ritengo di primo interesse osservare innanzitutto la resa dei significanti delle rime: quelle in fonte/fronte, amore/autore/onore sono mantenute identiche, mentre quella in fiume/lume/volume cambia in elocuencia/ciencia/sapiencia. Dante usa tre sostantivi concreti e realistici nella loro referenza quotidiana che velano metaforicamente il messaggio. Nella versione spagnola, invece, si ricorre ai tre astratti 1 Ángel Crespo, Mis caminos convergentes, in AA. VV. El tiempo en la palabra, cit., pag. 19. 59 delle facoltà umane dell’espressione e della conoscenza. Questi sostantivi nella loro valenza assolutamente colta (sapiencia in spagnolo è un latinismo per sabiduría), se da una parte allontanano il messaggio dalla quotidianità del lettore, pure interpretano la metafora dantesca svelandola in chiave gnoseologica: fiume come eloquenza, luce della scienza e opera di Virgilio come libro sapienziale. Si ha quindi da una parte lo svelamento della metafora, dall’altra un’esperienza più intellettualizzata della sequela artistica del maestro. Le parole “lume” e “volume” rimano ancora in Dante come le parole supreme della rivelazione della Trinità nel canto XXXIII del Paradiso ai vv. 86 e 90 2 dove “volume” è il mondo nell’unità di senso che assume nell’amore di Dio, e “lume” la piccolezza della parola poetica inadeguata a riprodurre la visione. Quindi, se ho parlato di referenza realistica di queste parole, pure si tratta di una metafora precisa del “lume” come luce relativa della ragione umana, lanterna limitata eppure nobile e imprescindibile per la ricerca di conoscenza nella lettura amorosa dell’esistente come “volume”. Al verso 80 il Virgilio dantesco appare soggetto attivo (“che spandi di parlar sì largo fiume”), “fontana vivace” che spande manibus plenis 3 il fiume del linguaggio della poesia 4 . Nella traduzione crespiana Virgilio è l’origine della ricchezza5 delle acque della capacità espressiva: il soggetto è lo stesso corso d’acqua (“caudal”), di cui si dice che “brota”, cioè nasce dalla terra (opera virgiliana come humus). Al verso 84, (“che m’ha fatto cercar lo tuo volume” tradotto in “con que busqué en tu libro la sapiencia”), il senso del “cercare” dantesco, un attento esaminare l’oggetto dello studio, viene interpretato dal poeta-traduttore come ricerca di conoscenza nello studio del paradigma poetico virgiliano, senso anche strettamente crespiano di una personale indagine poetica dell’esistente. In Dante quindi, l’oggetto della ricerca è la stessa opera di Virgilio, mentre nell’interpretazione crespiana, il “libro” virgiliano è il campo su cui si svolge la ricerca della sapienza. Questa interpretazione assume 2 Cfr. Par. XXXIII, 85-90: “Nel suo profondo vidi che s’interna/ legato con amore in un volume/ ciò che per l’universo si squaderna/ sustanze e accidenti e lor costume, / quasi conflati insieme, per tal modo / che ciò ch’io dico è un semplice lume.” 3 Virgilio, Aen. VI, 883 ripreso in Purg. XXX, 21. 4 L’infinito sostantivato dantesco, “parlare” è qui usato nel senso figurato di “opere poetiche”. Cfr. Siebzehner-Vivanti, s.v. parlare, § 6b. 5 Il termine spagnolo caudal, dal lat. CAPITALIS, è una caratterizzazione che si applica ai fiumi principali che sfociano nel mare. Indica anche la ricchezza o abbondanza di qualcosa. (Cfr. Moliner, s.v. caudal). 60 maggiore trascendenza se si pensa che nella Divina Commedia la Sapienza è la “somma Sapienza” (Inf. III, 6), la seconda persona della Trinità. Nell’ultima terzina la triplice anafora del “tu” amplifica e sottolinea quella dantesca: il “tu”, sottolineato in spagnolo dall’accento grafico, si ripete due volte nei versi danteschi e tre volte in traduzione: “Tu se’ lo mio maestro e ‘l mio autore; / Tu se’ solo colui da cui io tolsi”; “Eres tú mi maestro, tú mi autor / eres tú solo aquel del que he tomado”. Virgilio viene avvicinato temporalmente e fisicamente al lettore della traduzione: al verso 86 il passato remoto dantesco (“tolsi”) è tradotto con un passato prossimo (“he tomado”) che elimina il tempo tra il maestro e il discepolo rappresentando un’azione ancora non conclusa, non del tutto appartenente al passato e, quindi, incisiva sul presente. Al verso 87, è interessante notare la lettura crespiana del sintagma “lo stile che m’ha fatto onore” che diventa in traduzione “el estilo que me diera honor”: se lo stile è, nell’originale, il motivo produttore dell’onore, nella traduzione lo stile virgiliano compie il gesto di consegnare nelle mani del poeta Dante l’onore. Il poeta si pone così in diretta continuità ereditaria con Virgilio, e si delinea la figura aggettante del poeta maestro che consegna l’abilità espressiva al discepolo come premio della lunga e amorosa ricerca. In questo modo è ricreato l’equilibrio con la precedente figura dantesca di Virgilio come fonte attiva del fare poetico. I seguenti quattro versi del Purgatorio (canto XXVIII, VV. 142-145) costituiscono il momento culminante della liberazione della volontà di Dante. Il passaggio della cortina di fuoco, che precede questi versi e costituisce il passo definitivo dell’ascesi dantesca, è rivissuto esplicitamente con la stessa valenza drammatica e catartica nella poesia di Crespo 6 , che invoca a sua volta Dante come guida nel passaggio. Non aspettar mio dir più nè mio cenno: 142 Ya mi tutela no andarás buscando: libre es tu arbitrio y sana tu persona, libero dritto e sano è tuo arbitrio, y harás mal no plegándote a su mando, e fallo fora non fare a suo senno 145 y por eso te doy mitra y corona. per ch’io te sovra te corono e mitrio. Al verso 139 il verbo dantesco “aspettare”, oltre al senso di attenersi alle indicazioni del “duca” Virgilio, possiede quello del fare assegnamento su una cosa che 6 Cfr. l’analisi svolta nella prima parte del quarto capitolo. In particolare riguardo a Indicios del temor, in Poesía 1996, tomo 3, p.225. 61 certamente accadrà 7 . In traduzione la perifrasi verbale indefinita “andarás buscando”, dilata a dismisura il tempo in un futuro continuato, e apporta il campo semantico della ricerca, per cui la guida dell’anima non è il dono dell’intervento provvidenziale di “donna ...beata e bella” (Inf. II, 53), ma il frutto di una lunghissima ricerca dell’uomo. La mancanza della rivelazione nel mondo crespiano fa sì che l’uomo desideri e ricerchi instancabilmente senza mai sperimentare risposte soddisfacenti o durature. La sfumatura tecnica dei gesti concreti della guida virgiliana (“dir” e “cenno”) viene sostituita in traduzione dalla “tutela”, termine affettivo della protezione e guida del “dolcissimo padre”. Il verso 140 (“libero dritto e sano è tuo arbitrio”) cambia in “libre es tu arbitrio y sana tu persona”: mentre in Dante il cammino della purgazione è orientato alla correzione (“dritto”) e ricostruzione de “lo maggior dono” (Par. V, 19-22), cioè della libertà e della volontà, la traduzione omette l’aspetto della correzione, centrando l’attenzione sulla liberazione della volontà e la ricostituzione della persona; così al verso seguente la sottolineatura è sulla consequenzialità dell’azione personale del soggetto ricostruito (“harás”) rispetto al “fora” dantesco di una più generica condizione. Nell’ultimo verso, il gesto dell’incoronazione (“io te sovra te corono e mitrio”), diventa una consegna fisica da parte di Virgilio (“te doy mitra y corona”), alla fine dell’ascesi purgatoriale, degli oggetti concreti dell’investitura temporale e spirituale di Uomo: “mitra y corona”. Passo ora all’esame integrale della traduzione del canto XXVI dell’Inferno dantesco: i sentimenti dell’invettiva dell’esule “fiorentino per nascita non per costumi”, la centrale figura di Ulisse e l’ambizione indomabile di conoscenza che costituiscono gli elementi essenziali del canto, offrono interessanti spunti interpretativi alla lettura personale del traduttore. Infatti, il senso di indomabile ricerca intellettuale per la conquista della conoscenza guida tutta l’opera crespiana, distanziandosi sostanzialmente dalla visione dantesca per la non accettazione di alcuna rivelazione divina. Per il poeta contemporaneo, l’unica rivelazione possibile è quella conquistata nell’esercizio della poesia. Scrive, infatti, Ángel Crespo: lo que yo quiero de la poesía es que me muestre y me enseñe a mostrar a los demás la realidad entera (con su parte aparente y con la oculta), de manera 7 Cfr. Siebzehner-Vivanti, s.v. aspettare. 62 que concibo a la poesía en su fondo más profundo como un ejercicio de conocimiento por revelación, como una operación mágica 8 . L’autonomia dei mezzi umani nell’instancabile tensione ermeneutica dell’universo, avvicina di molto il poeta traduttore alla figura di Ulisse. Questo emerge nelle sue scelte semantiche. Riporto per intero il canto e la sua traduzione: Inferno; CANTO XXVI Infierno; CANTO XXVI Godi, Fiorenza, poi che se’ sì grande, che per mare e per terra batti l’ali, e per lo ‘nferno tuo nome si spande! 3 ¡Alégrate, Florencia, de ser grande, pues tanto vuela ya tu nombre honroso que por mar, tierra y báratro se expande! 6 Avergonzado descubrí en el foso cinco hijos tuyos, nobles y latrones; y tu honor no salía ganancioso. 9 Si del sueño del alba las ficciones son verdad, sentirás sin mucha espera de Prato y los demás las predicciones. 12 No sería temprano si ya fuera: ¡ojalá fuese ya lo prevenido!; que, siendo viejo, ya me entristeciera. 15 Por la misma escalera hemos seguido que antes como bajada nos servía; detrás de mi maestro la he subido. 18 Y al recorrer la solitaria vía por el escollo de quebrado suelo, sin las manos el pie no se valía. 21 Entonces me dolí y ahora me duelo cuando aquello que vi traigo a la mente, y refreno el ingenio más que suelo 24 porque sin la virtud ya nada intente, para que si mi estrella, o mejor cosa, me ha dado el bien, después no lo lamente. 27 Cuantos el campesino que reposa en el alcor, cuando el que al mundo aclara menos quiere ocultar su faz radiosa, Tra li ladron trovai cinque cotali tuoi cittadini onde mi ven vergogna, e tu in grande orranza non ne sali. Ma se presso al mattin del ver si sogna, tu sentirai di qua da picciol tempo di quel che Prato, non ch’altri, t’agogna. E se già fosse, non saria per tempo. Così foss’ei, da che pur esser dee! ché più mi graverà, com’più m’attempo. Noi ci partimmo, e su per le scalee che n’avean fatto i borni a scender pria, rimontò ‘l duca mio e trasse mee; e proseguendo la solinga via, tra le schegge e tra ‘ rocchi de lo scoglio lo piè sanza la man non si spedia. Allor mi dolsi, e ora mi ridoglio quando drizzo la mente a ciò ch’io vidi, e più lo ‘ngegno affreno ch’i’ non soglio, perché non corra che virtù nol guidi; sì che, se stella bona o miglior cosa m’ha dato ‘l ben, ch’io stesso nol m’invidi. Quante ‘l villan ch’al poggio si riposa, nel tempo che colui che ‘l mondo schiara la faccia sua a noi tien meno ascosa, come la mosca cede alla zanzara, vede lucciole giù per la vallea, 8 mientras danza el mosquito y ya se para la mosca, gusanitos de luz viendo Ángel Crespo, Notas Inéditas, en “La Alegría de los naufragios”, n.1-2, anno 1999, p. 29. 63 forse colà dov’e’ vendemmia e ara: di tante fiamme tutta risplendea l’ottava bolgia, sì com’io m’accorsi tosto che fui là ‘ve ‘l fondo parea. E qual colui che si vengiò con li orsi vide ‘l carro d’Elia al dipartire, quando i cavalli al cielo erti levorsi, che nol potea sì con li occhi seguire, ch’el vedesse altro che la fiamma sola, sì come nuvoletta, in sù salire: tal si move ciascuna per la gola del fosso, ché nessuna mostra ‘l furto, e ogne fiamma un peccatore invola. Io stava sovra ‘l ponte a veder surto, sì che s’io non avessi un ronchion preso, caduto sarei giù sanz’esser urto. E ‘l duca che mi vide tanto atteso, disse: «Dentro dai fuochi son li spirti; catun si fascia di quel ch’elli è inceso». «Maestro mio», rispuos’io, «per udirti son io più certo; ma già m’era avviso che così fosse, e già voleva dirti: chi è ‘n quel foco che vien sì diviso di sopra, che par surger de la pira dov’Eteòcle col fratel fu miso?». Rispuose a me: «Là dentro si martira Ulisse e Diomede, e così insieme a la vendetta vanno come a l’ira; e dentro da la lor fiamma si geme l’agguato del caval che fé la porta onde uscì de’ Romani il gentil seme. Piangevisi entro l’arte per che, morta, Deidamìa ancor si duol d’Achille, e del Palladio pena vi si porta». «S’ei posson dentro da quelle faville parlar», diss’io, «maestro, assai ten priego e ripriego, che ‘l priego vaglia mille, che non mi facci de l’attender niego fin che la fiamma cornuta qua vegna; vedi che del disio ver’ lei mi piego!». 30 está, en el valle do vendimia y ara, 33 con tantas llamas vi resplandeciendo la octava bolsa; y pronto se mostraron conforme el fondo oscuro iba surgiendo. 36 Como vio él que los osos vindicaron a Elías en su carro, que partía con los caballos que al azul volaron, 39 y seguirle su vista no podía, pues tan sólo la llama contemplaba que al subir una nube parecía; 42 tal cada llama abajo circulaba sin que quedase el hurto manifiesto, pues cada una a un pecador robaba. 45 A mirar sobre el puente me había puesto bien asido a una roca que allí pende pues de otro modo resbalara presto, 48 y el guía, que a mi atento rostro atiende: «El alma va en el fuego de manera que la venda lo mismo que la enciende». 51 «Maestro mío», dije, por certera tengo ya mi opinión, pues tú has venido a confirmarla; mas saber quisiera 54 quién va dentro del fuego en dos partido por cima, que recuerda al de la pira que a Eteocles y su hermano ha consumido». 57 «Dentro de ella», me dijo, «arde y suspira Ulises, con Diomedes; juntamente sufren pues compartieron igual ira; 60 se gime en esa llama la infidente argucia del caballo que fue puerta por do salió de Roma la simiente. 63 Lloráse dentro el arte por que, muerta, Deidamia a Aquiles todavía llora y el Paladio que a Troya dejó abierta». 66 «Si pueden desde el fuego hablar ahora, maestro», dije, mil veces te pido, y una vez y otra mi deseo implora 69 que esperarle me sea concedido hasta que la cornuda llama venga, pues hacia ella me siento compelido». 64 72 Y él me dijo: «Juicioso es que me avenga a tu suplica digna de alabanza; pero haz porque tu lengua se contenga. 75 Déjame hablar a mí, pues se me alcanza lo que deseas, y esa griega gente quizás oiga tu estilo sin templanza». 78 Cuando tuvimos a la llama en frente y el guía comprendió que tiempo era de hablar así le dijo gentilmente: 81 «¡Oh los que compartís la misma hoguera, si merecí en el tiempo en que vivía ante vosotros, aunque poco fuera 84 cuando mis altos versos escribía. un paso más no deis; y que uno cuente dónde a morir antaño se perdía». 87 Y de la antigua llama el más saliente de los cuernos torcióse murmurando cual llama que del viento se resiente; 90 luego se fue la punta meneando como si fuese lengua y así hablara y echó fuera la voz y dijo: «Cuando 93 de Circe me alejé, que me guardara por más de un año cerca de Gaeta, antes de que así Eneas la llamara, 96 ni el halago de un hijo, ni la inquieta piedad de un padre viejo, ni el amor que debía a Penelope discreta, vincer potero dentro a me l’ardore ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto, e de li vizi umani e del valore; 99 dentro de mí vencieron el ardor de conocer el mundo y enterarme de los vicios humanos y el valor; ma misi me per l’alto mare aperto sol con un legno e con quella compagna picciola da la qual non fui diserto. quise por altamar aventurarme con sólo un leño y con la fiel compaña 102 que jamás consintió en abandonarme. L’un lito e l’altro vidi infin la Spagna, fin nel Morrocco, e l’isola d’i Sardi, e l’altre che quel mare intorno bagna. Una costa y la otra vi hasta España y Marruecos, y la isla de los Sardos 105 y otras que el mismo mar rodea y baña. Io e ‘ compagni eravam vecchi e tardi quando venimmo a quella foce stretta dov’Ercule segnò li suoi riguardi, Cuando estábamos ya viejos y tardos, al estrecho llegamos donde había 108 Hércules elevado los resguardos Ed elli a me: «La tua preghiera è degna di molta loda, e io però l’accetto; ma fa che la tua lingua si sostegna. Lascia parlare a me, ch’i’ ho concetto ciò che tu vuoi; ch’ei sarebbero schivi, perch’e’ fuor greci, forse del tuo detto». Poi che la fiamma fu venuta quivi dove parve al mio duca tempo e loco, in questa forma lui parlare audivi: «O voi che siete due dentro ad un foco, s’io meritai di voi mentre ch’io vissi, s’io meritai di voi assai o poco quando nel mondo li alti versi scrissi, non vi movete; ma l’un di voi dica dove, per lui, perduto a morir gissi». Lo maggior corno de la fiamma antica cominciò a crollarsi mormorando pur come quella cui vento affatica; indi la cima qua e là menando, come fosse la lingua che parlasse, gittò voce di fuori, e disse: «Quando mi diparti’ da Circe, che sottrasse me più d’un anno là presso a Gaeta, prima che sì Enea la nomasse, né dolcezza di figlio, né la pieta del vecchio padre, né ‘l debito amore lo qual dovea Penelopé far lieta, acciò che l’uom più oltre non si metta: da la man destra mi lasciai Sibilia, que al navegante niegan la franquía. Sevilla a mi derecha se quedaba 65 da l’altra già m’avea lasciata Setta. 111 y Ceuta al otro lado se veía. "O frati", dissi "che per cento milia perigli siete giunti a l’occidente, a questa tanto picciola vigilia “¡Oh hermanos, que llegáis”, yo les hablaba, “tras de cien mil peligros a occidente 114 cuando de los sentidos ya se acaba d’i nostri sensi ch’è del rimanente, non vogliate negar l’esperienza, di retro al sol, del mondo sanza gente. la vigilia, y es poco el remanente, negaros no queraís a la experiencia 117 de ir tras el sol por ese mar sin gente. Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza". Considerad”, seguí, “vuestra ascendencia para vida animal no habeís nacido, 120 sino por adquirir virtud y ciencia”. Li miei compagni fec’io sì aguti, con questa orazion picciola, al cammino, che a pena poscia li avrei ritenuti; A mis hombres de tal suerte he movido, con mi corta oración, a la jornada 123 que no podría haberlos contenido; e volta nostra poppa nel mattino, de’ remi facemmo ali al folle volo, sempre acquistando dal lato mancino. le volvimos la popa a la alborada del remo hicimos ala al loco vuelo 126 y a la izquierda la nave fue guiada. Tutte le stelle già de l’altro polo vedea la notte e ‘l nostro tanto basso, che non surgea fuor del marin suolo. Del otro polo ya veía el cielo por la noche, y el nuestro había bajado 129 y no se alzaba del marino suelo. Cinque volte racceso e tante casso lo lume era di sotto da la luna, poi che ‘ntrati eravam ne l’alto passo, Cinco veces se había iluminado y apagado la esfera de la luna 132 después del noble rumbo haber tomado, quando n’apparve una montagna, bruna per la distanza, e parvemi alta tanto quanto veduta non avea alcuna. cuando mostróse una montaña bruna por la distancia; y se elevaba tanto 135 que tan alta no vi jamás ninguna. Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto, ché de la nova terra un turbo nacque, e percosse del legno il primo canto. Nuestra alegría se convierte en llanto, pues de la nueva tierra un viento nace 138 que del leño sacude el primer canto; Tre volte il fé girar con tutte l’acque; a la quarta levar la poppa in suso e la prora ire in giù, com’altrui piacque, con las aguas tres veces girar le hace y a la cuarta la popa es elevada, 141 se hunde la proa – que a otro así le place – infin che ‘l mar fu sovra noi richiuso». y nos cubre por fin la mar airada». Le prime quattro terzine concludono la scena ripugnante e perturbatrice delle metamorfosi dei ladri della settima bolgia, con la celebre invettiva a Firenze. Nell’amara apostrofe prendono corpo i sentimenti dell’esule, il suo doloroso legame con la patria negata e lo sdegno per il male e la corruzione che vi dominano. Niente è a caso nella poesia della Commedia: l’amarezza di Dante esule trova corrispondenza nel destino di Ulisse, costretto ad una ventennale lontananza dalla casa, che ritrova preda dei Proci e 66 della corruzione. Il traduttore, anch’egli forzatamente lontano dal suo paese dominato dalla dittatura franchista, fa sue con straordinaria consonanza esistenziale le parole di Dante e il destino di Ulisse. Nella fedele trasposizione delle parole dell’invettiva a Firenze, l’immagine classica della fama alata si concretizza in traduzione nell’immagine del nome stesso della città di Firenze e del suo volo disonorevole “por mar, tierra y báratro” (“per mare e per terra batti l’ali”; “vuela ya tu nombre honroso”). Il sarcasmo è qui racchiuso nell’aggettivo “honroso”, con una sottolineatura duplice dell’onore della città (anche al v. 6 “tu in grande orranza non ne sali”; “y tu honor no salía ganancioso”) che non è cosí insistita nell’originale dantesco. Mi pare interessante notare la diversa disposizione degli stessi elementi: nell’originale dantesco, mare terra e inferno, disposti su due versi e differenziati da azioni diverse del soggetto (“per mare e per terra batti l’ali / e per lo ‘nferno tuo nome si spande”) sembrano appartenere a differenti dimensioni, distinti mondi quello terreno, conosciuto e quello ultraterreno che appartiene al mistero del disegno divino. La sequenza lineare invece, con cui il traduttore dispone queste parti del suo cosmo (“por mar tierra y baratro se expande”), suggerisce l’interpretazione che il barathrum faccia parte anch’esso del mondo, come realtà immanente e terrena. Le parole dello stesso traduttore danno conferma di questa lettura, quando in un suo articolo circa l’universo della Divina Commedia come metafora morale 9 , afferma che l’oltretomba dantesco non si trova in un altro mondo, ma costituisce quella parte del nostro mondo che non è conoscibile con gli occhi della carne, ma tramite la rivelazione operata dalla parola poetica. Al verso 7 di nuovo si presenta una piccola variazione: l’espressione “del sueño del alba las ficciones” che traduce il dantesco “presso al mattin del ver si sogna”, trasforma, nella versione spagnola, il sogno in un figulus 10 per cui la profezia dei mali di 9 Ángel Crespo, El universo de la Divina Comedia, metáfora moral, Lecturas sobre Humanidades, Edades Antigua y Media, in “Cuadernos de Artes y Ciencias”, Universidad de Puerto Rico, Mayagüez 1985, pp. 337-360. 10 Ficciòn dal latino FINGERE, ha lo stesso tema di “FIGURA”, “FICTOR”, “FIGULUS” ed “EFFIGIES”, ed indica l’atto dell’artigiano del formare plasticamente l’argilla: “fictor cum dicit fingo figuram imponit” (Varrone De lingua lat. 6,78). (Cfr. il celebre saggio di Auerbach Figura in Studî su Dante, Feltrinelli, Milano 1966, p.174). 67 Prato assume corpo fisico come ficción, e le visioni 11 del sogno popolano fisicamente un mondo che ha in sé la dimensione del baratro. Nella terzina che conclude l’invettiva a Firenze, ai vv. 10-12, Dante esprime dolorosamente la difficoltà di sopportare la rovina della patria amata. Pur riconoscendo la necessità e la giustizia della punizione di Firenze, il poeta resta pur sempre figlio amante della sua città e si assume tutto il peso della punizione della città corrotta, che col passare del tempo maggiormente “grava le spalle”. 10 No sería temprano si ya fuera: E se già fosse, non saria per tempo. ¡ojalá fuese ya lo prevenido!; Così foss’ei, da che pur esser dee! ché più mi graverà, com’più m’attempo. 12 que, siendo viejo, ya me entristeciera. Nella raffigurazione crespiana della tristezza del vecchio esule, addolorato per la pur giusta rovina della sua città, mi pare si possa intravvedere una sintonia sentimentale del poeta spagnolo, che viveva al tempo della sua traduzione una situazione analoga di forzata lontananza da una patria insieme desiderata e ostile. Il senso di pesante fardello del “graverà” dantesco, è riproposto in traduzione nel sentimento di tristezza che opprime il vecchio esule (“siendo viejo ya me entristeciera”). La locuzione spagnola “siendo viejo” isola infatti in un tempo indeterminato ma definitivo la figura del vecchio, mentre l’ingombro di cinque sillabe del verbo “entristeciera” dilata nel verso e nei secoli il sentimento di tristezza dell’esule. Riprendendo la narrazione ai versi 13-15 (“Noi ci partimmo, e su per le scalee /…/ rimontò ‘l duca mio e trasse mee”; “Por la misma escalera hemos seguido /…/ detrás de mi maestro la he subido”), Dante utilizza il passato remoto, mentre in traduzione l’azione si avvicina al lettore con il passato prossimo (“partimmo” e “trasse” contro il crespiano “hemos seguido”, “he subido”). Vorrei notare come nella traduzione viene fortemente ribadita l’attività del soggetto, quando invece, nelle parole di Dante il discepolo è “tratto” per il cammino dal suo maestro, cioè fisicamente tirato e condotto. Non a caso qui si ribadisce il sentimento dantesco espresso dalle parole rivolte in precedenza a Farinata degli Uberti “da me stesso non vegno” (Inf. X, 61), che caratterizza tutto il pellegrinaggio di grazia di Dante, la sua coscienza del dono ricevuto, 11 È probabile che Dante alludesse qui ad una visione reale del maggio 1309, riportata nelle cronache del Villani (VIII, 109), dell’apparizione di un grande fuoco “sicchè per quasi tutta l’Italia fu veduto […] e per gli più si disse che fu segno della venuta dello ‘mperadore”, segno della prossima restaurazione ghibellina di Arrigo VII e della conseguente caduta della Firenze guelfa. 68 e anche la fondamentale differenza tra la sete di conoscenza del poeta, che si rivolge alla grazia della rivelazione e quella di Ulisse, che confida solo nei propri mezzi. L’insistenza in traduzione sul soggetto attivo, piuttosto che sulla sequela del maestro indica invece una sfumatura di senso autonomistico della ricerca intellettuale di Ángel Crespo, la quale si assimila, quindi, maggiormente a quella dell’eroe greco. Al verso 14 Crespo prende posizione riguardo al celebre dibattito creato dalla lezione del Petrocchi “che n’avean fatto iborni”, cioè pallidi per la paura e la fatica. Il traduttore sceglie qui la lezione “i borni 12 ” come semplice notazione logistica traducendo “que antes como bajada nos servía”. La terzina seguente comincia il vero e proprio racconto dello spettacolo che l’ottava bolgia offre ai due solitari pellegrini: il paesaggio aspro e ostile è reso visibilmente in traduzione dall’“escollo de quebrado suelo” (che traduce il dantesco “tra le schegge e tra’ rocchi de lo scoglio”) del verso 17, terra in travaglio, spezzata13 dal suo male, e scoglio, come roccia, o, dantescamente, ponte tra una bolgia e l’altra, ma anche nel senso figurato di pericolo o difficoltà14 su cui è necessario arrampicarsi difficilmente con mani e piedi (“lo piè sanza la man non si spedìa”; “sin las manos el pie no se valía” dove rispetto all’originale dantesco il traduttore fa usare ai pellegrini entrambe le mani). L’immagine al singolare dello “scoglio”, un singolare spagnolo che ha tutta la concrezione del plurale dantesco delle “schegge” e dei “rocchi”, stacca plasticamente lo spuntone di roccia cui i due pellegrini sono afferrati con mani e piedi, quasi a dover fisicamente assumere, come presupposto per oltrepassarla, la condizione dei dannati. La narrazione dell’incontro con Ulisse inizia nel segno di due notazioni decisive: il dolore dell’ingegno umano malogrado (“allor mi dolsi e ora mi ridoglio”), e la preoccupazione di Dante di “affrenare” l’ingegno (“e più lo ‘ngegno affreno ch’io non soglio”), che, pur essendo la parte più nobile dell’uomo, deve essere sottoposto alla “virtù”, cioè al disegno provvidenziale per cui è stato creato 15 , secondo le parole di San 12 La lezione del Petrocchi “su per le scalee / che n’aveann fatto iborni a scender pria”, allude alla pericolosità delle scale che aveva fatto impallidire i viandanti. Il verso “su per le scalee / che n’aveann fatto i borni a scender pria”, significa invece, nella seconda possibilità esegetica, che è evidentemente quella prescelta da Crespo in traduzione, “le roccie che erano servite da scaloni nella discesa”. 13 Il verbo spagnolo quebrar, deriva dal latino CREPARE, che significa scoppiare, spezzarsi. Il termine esprime quindi molto efficacemente lo spezzarsi del suolo infernale, quasi in riferimento al terremoto, di cui Dante parla, che sconvolse l’inferno durante la discesa agli inferi di Cristo. Cfr. Moliner, s.v. quebrar. 14 Cfr. Moliner, s.v. escollo. 15 A testimonianza di questa concezione dell’uomo medievale, in cui la grazia influisce sull’attività umana attraverso la “stella bona” e la “virtù”, è opportuno ricordare le formelle che adornano il 69 Tommaso “bisogna che l’uomo freni sapientemente questo desiderio [di conoscere], per non aspirare in modo esagerato alla cognizione delle cose” (S. T. II, q. 166 a. 2). Dante si pone quindi gravemente e direttamente in discussione rispetto al monito che la storia di Ulisse rappresenta per la sua personale vicenda interiore. Questo il motivo del profondo dolore e della profonda partecipazione al dramma di un intelletto magnanimo che per inadeguatezza di mezzi e mancanza di una guida (“non corra che virtù nol guidi”) si perde irrimediabilmente, insieme a quella preziosa scintilla di Bene che è movente del suo agire. Come nota Mario Fubini nella sua acuta lettura 16 di questo canto, l’annuncio che si legge in questi versi 19-24 del peccato punito nell’ottava bolgia è diverso da quelli che caratterizzano il mondo basso-comico di Malebolge: “non un bando d’infamia, né la voce sarcastica dei diavoli che alto fanno risuonare il nome dei peccati e dei peccatori”, ma la dolente confessione del poeta stesso fortemente provocato dall’esperienza dell’ unico peccato di Malebolge che non sente estraneo a sé: il peccato del malo uso dell’ingegno, che è tentato ad asservire altrui mediante arti che han ragione della loro debolezza […] certo importa tenere ben fermo che nulla questi versi hanno a che fare con l’impresa ultima di Ulisse, così come nessuna relazione vi è tra l’opera interessata del politico e la disinteressata ricerca del vero. Il dramma di questa tentazione dell’ingegno è rivissuto fedelmente in traduzione, nella ripetizione del verbo dolerse al verso 19, che investe passato e presente (“allor mi dolsi e ora mi ridoglio”; “entonces me dolí y ahora me duelo”), con tutta la valenza di sofferenza fisica che porta il verbo spagnolo. Alcuni dettagli delle scelte traduttorie suggeriscono però un dramma molto più laico e molto più riferibile alle capacità umane di raggiungere la conoscenza, che non alla grazia di una rivelazione: “lo ‘ngegno” crespiano si muove diversamente da quello dantesco. Osserviamo come il verso 22 “perché non corra che virtù nol guidi”, diventa in traduzione “porque sin la virtud ya nada intente”. Se nell’originale la Virtù della grazia divina è la guida dell’intelletto, il motore che permette una corsa a buon fine dell’avventura della conoscenza, nel testo d’arrivo l’intelletto diventa soggetto attivo del verbo intentar, come atto di realizzazione basamento del Campanile giottesco di Firenze, dove il primo ordine di formelle che rappresentano il lavoro dell’uomo e le varie arti, è sovrastato da un secondo ordine di formelle romboidali raffiguranti proprio i pianeti e le virtù cardinali e teologali. La visione del mondo che sottende a questa raffigurazione è effettivamente la temperie culturale di cui si impregna la mentalità dantesca e che la Commedia ha contribuito a codificare ed eternare. 16 Cfr. Il canto XXVI dell’Inferno. Lettura di Mario Fubini; in Letture Dantesche a cura di Giovanni Getto, vol. I, Inferno, Sansoni, Firenze, p.495-496. 70 di un lavoro e di uno sforzo per raggiungere il proprio scopo, è quindi un intelletto che si muove in piena autonomia post-kantiana, dove la Virtù della grazia si relega ad un semplice complemento di unione negato (“sin”). Così anche nel verso 24 (“sì che, se stella bona o miglior cosa / m’ha dato il ben, ch’io stesso nol m’invidi”; “para que si mi estrella, o mejor cosa / me ha dado el bien, después no lo lamente”), la dinamica descritta da Dante è quella del dono della grazia all’uomo, che, per mezzo della sua libertà, può drammaticamente perderlo (INVIDEO: è l’uomo stesso che si priva del dono di grazia) oppure farlo fruttare e realizzare così la sua umanità per il Bene a cui è stata destinata. La traduzione suggerisce, invece, una sfumatura diversa: esiste un dono grazioso, ma la parte che spetta all’uomo è quella di restare all’altezza del dono ricevuto. L’espressione “después no lo lamente”, esprime quasi un possibile rammaricarsi della grazia donante per la mancanza dell’uomo che non ha saputo conservare il suo dono. Passando ai versi 25-30 si trova la celebre ed estesa similitudine della visione delle lucciole nei campi nelle sere d’estate che rappresenta la vista delle anime dei consiglieri fraudolenti avvolte dalle fiamme: 25 Cuantos el campesino que reposa Quante ‘l villan ch’al poggio si riposa, en el alcor, cuando el que al mundo aclara nel tempo che colui che ‘l mondo schiara menos quiere ocultar su faz radiosa, la faccia sua a noi tien meno ascosa, mientras danza el mosquito y ya se para come la mosca cede alla zanzara, la mosca, gusanitos de luz viendo vede lucciole giù per la vallea, 30 está, en el valle do vendimia y ara forse colà dov’e’ vendemmia e ara In questo caso è interessante vedere come in traduzione si opera una commistione di stili tra la perifrasi ingenua e quasi naïve dei “gusanitos de luz” per indicare le lucciole accanto ad un termine come “alcor 17 ” che è citazione lessicale dei classici della letteratura spagnola. L’utilizzo del termine “alcor” invece di “colina”, oltre a rispondere certamente ad esigenze metriche, è interessante in quanto emblematico dell’ambito in cui avviene l’incontro e il dialogo linguistico tra il duecento fiorentino e l’attualità della lingua castigliana. I due termini hanno valenza sinonimica, ma ognuno giunge da un proprio percorso che ne individua e nazionalizza il colore: il termine dantesco “poggio” deriva dal latino PODĬUM che viene a sua volta dal greco PÓDION da 17 Il termine “alcor”, appartiene al codice linguistico dei siglos de oro, e se ne trovano occorrenze, tra l’altro, nella serranilla IX (v.22) del Marqués de Santillana e in Góngora, sonetto 76 v. 9 (“a vista voy – tiñendo los alcores”). 71 PÚS, PODÓS che significa “piede”. Il termine “alcor” passa invece attraverso l’arabo QÛR plurale di QARA. Questa nazionalizzazione delle parole, che sfalsando la parola originale si attesta però sul suo significto universalizzabile, è un’aspetto interessante della perizia traduttoria crespiana, che porta la traduzione in un ambito di autonomia linguistica e culturale, perchè riesce a ricreare un’area specifica della parola nella lingua del testo d’arrivo che è proprio l’elemento più caratterizzante ma meno traducibile del testo fonte. Lo spettacolo della bolgia che si para davanti agli occhi dei pellegrini è uno spettacolo sui generis. Non si tratta di una descrizione raccapricciante di tormenti infernali, anzi, siamo introdotti al panorama offerto dalla bolgia con un’immagine idilliaca di un atardecer estivo sulle colline, mentre il fondo oscuro del baratro infernale risplende della luce di tante fiamme. La perifrasi “vi resplandeciendo”, del verso 31 (“di tante fiamme tutta risplendea”; “con tantas llamas vi resplandeciendo”), dilata nello spazio del verso e in un tempo continuato lo splendore diffuso delle fiamme, dove il gerundio spagnolo assume anche un valore attributivo, segnalando, quindi, la caratteristica definitiva del luogo di cui si parla. Le “faville” che ardono nella gola sono, effettivamente, fiamme eterne. Questo “improvviso illuminarsi delle tenebre infernali”, come lo descrive il Fubini 18 , prosegue nelle grandiose immagini di fuoco: quella del rapimento in cielo del profeta Elia, dove lo slancio irrefrenabile dei cavalli “al azul 19 ”, si rende visibile solo come una fiamma su fondo azzurro (vv. 35-38: “vide ‘l carro d’Elia al dipartire, / quando i cavalli al cielo erti levorsi, / che nol potea sì con li occhi seguire, / ch’el vedesse altro che la fiamma sola,”; “[vio…] a Elías en su carro, que partía / con los caballos que al azul volaron, / y seguirle su vista no podía, / pues tan sólo la llama contemplaba”), e quella indimenticabile dei versi 85-86, del mormorio della fiamma che prende la parola, (“Lo maggior corno de la fiamma antica / cominciò a crollarsi mormorando”; “y de la antigua llama el más antiguo / de los cuernos torcióse murmurando”). Nel testo dantesco l’eleganza e la maestà del mormorare di questa antica fiamma, non pare suggerire tormento, o comunque il supplizio non tange l’intima 18 Il canto XXVI dell’Inferno. Lettura di Mario Fubini; cit., p.497. La metonimia del colore azzurro, che sostituisce il termine cielo, oltre ad echeggiare un tono simbolista di plurimi riferimenti letterari, crea l’atmosfera rarefatta della visione in cui il carro si innalza su uno sfondo astratto di colore puro. 19 72 grandezza dell’eroe greco, che, ancora nelle parole del Fubini 20 “pur dannato rimane non tocco nel suo intimo dalla dannazione”. In traduzione invece, la scelta di “torcióse” per “crollarsi”, introduce una sfumatura di tormento interiore, infatti, dove il verbo dantesco indica semplicemente lo scuotersi della fiamma 21 , il verbo spagnolo racchiude il senso fisico di un doloroso contorcersi, e il suo etimo latino TORQUĔO possiede proprio l’accezione del martirio 22 . Passando ai versi dal 55 al 60, vorrei inserire a titolo di paradigma metodologico il commento alla traduzione crespiana di Gaetano Chiappini 23 : Rispuose a me: «Là dentro si martira 55 «Dentro de ella», me dijo, «arde y suspira Ulises, con Diomedes; juntamente Ulisse e Diomede, e così insieme sufren pues compartieron igual ira; a la vendetta vanno come a l'ira se gime en esa llama la infidente e dentro da la lor fiamma si geme argucia del caballo que fue puerta l'agguato del caval che fé la porta onde uscì de' Romani il gentil seme 60 por do salió de Roma la simiente. En estos versos Virgilio explica a Dante la presencia de la doble llama de los dos consejeros de fraude: Ulises y Diomedes. Destacamos algunos lexemas: “si martira” es el índice técnico de la penitencia y del castigo, y Crespo resuelve en una geminación los dos momentos de la condena: “arde y suspira”, es decir, la punición del fuego y la reacción de los condenados; así sucesivamente, se quita la palabra “vendetta” y se repite como en italiano la palabra “ira”, sin hablar de la culpa que fue causa de la colera divina. “Sufren” sintetiza y expresa el lado humano de los condenados, su sufrimiento, más que insistir en el aspecto del furor divino; mientras “compartieron” nos parece signo de la justicia, de la participación de cada personaje y de su propia parte del castigo (con el refuerzo de “igual”). En cambio, en la segunda parte, resalta la solución comentario-juicio del “agguato”, propiamente “acecho” y que Crespo sustituye con el elemento concreto de la connotación moral: “infidente” descubre el aspecto engañador, la mala fe de los que construyeron el caballo de Troya, símbolo del engaño y de la mentira de los malos consejeros; pero “argucia” subraya, creemos, un elemento conceptista, sui generis, de sofisma que coincide con una agudeza, aunque sea claramente fraudulenta. Nos parece poder percibir una posible y participada ironía muy castiza, una sutil vena de complacimiento de la invención, infidente, desde luego, pero siempre artificio genial. In questi versi si osserva come, quasi eliminando lo sguardo e l’azione legislatrice della giustizia divina, il traduttore trasferisce il punto di vista sul condannato 20 Il canto XXVI dell’Inferno, cit., p. 498. Siebzehner-Vivanti, s.v. crollarsi. 22 Cfr. Moliner, s.v. torcer. 23 Gaetano Chiappini, Ángel Crespo, traductor de la Divina Comedia in AA.VV. El tiempo en la palabra, suplemento cit., p.189. 21 73 di cui, si può concludere, giustifica umanamente il comportamento e non condivide la condanna. La conclusione del discorso di Virgilio, ai vv. 61-63 (“Piangevisi entro l’arte per che, morta, / Deidamìa ancor si duol d’Achille, / e del Palladio pena vi si porta”; “Lloráse dentro el arte por que, muerta, / Deidamia a Aquiles todavía llora / y el Paladio que a Troya dejó abierta”) chiarisce definitivamente la pena di Ulisse e Diomede, puniti per il dolore di Deidamia abbandonata da Achille 24 , e per l’empio furto del Palladio 25 . Nel verso 63 la traduzione omette la parola pena: analogamente all’esclusione del termine “vendetta” del verso 57, la censura traduttoria cade sull’aspetto legislatore dell’azione divina. La “vendetta” è infatti il termine biblico della punizione del rex tremendae majestatis per le colpe commesse dall’uomo, mentre la “pena 26 ” indica la sofferenza fisica e spirituale inflitta all’anima come castigo per il male commesso. La traduzione elide quindi l’immagine del Dio giudice dell’azione umana, la quale però resta giudicata nei secoli in tutta la sua empietà: “que a Troya dejó abierta”, un furto sacrilego che stupra e ferisce la città, violentemente privandola del suo nume tutelare e della sua difesa. D’altra parte il verso 61 (“piangevisi entro l’arte”; “lloráse dentro el arte”), ribadisce l’aspetto di sagacia dell’azione umana: lo stratagemma con cui Ulisse porta via Achille dalla reggia di Sciro è connotato dal termine “arte”, che possiede senza dubbio il senso positivo di artificio ingegnoso, prodotto di una mente geniale. Nel successivo dialogo tra Dante e Virgilio, Dante prega ansiosamente il maestro di lasciarlo parlare con i due spiriti illustri scoperti nella bolgia dei fraudolenti, ed è totalmente proteso nel desiderio di incontrare i due eroi del mito, per rivivere e superare, attraverso di loro, il dramma della conoscenza umana che corre senza la guida della virtù. Vorrei sottolineare della traduzione solo l’introduzione del termine “gentilmente” nella traduzione al verso 78, a denotare il modo in cui Virgilio si rivolge ai due illustri greci (“in questa forma lui parlare audivi”; “así le dijo gentilmente”). Questa aggiunta è, a mio avviso, segno della rilettura del traduttore. Innanzitutto Dante crea una sorta di affinità elettiva tra gli eroi del mito greco e il suo maestro, sommo poeta latino, fondata e motivata dalla comune appartenenza dei tre personaggi al mondo 24 Secondo il racconto di Stazio, Achilleide II v. 15 e sgg. Di cui in Aen. II 163 e sgg. 26 Il termine pena, deriva dal latino PŌENA termine a sua volta di derivazione greca una comune radice indoeuropea che significa pagare. 25 POINÉ, entrambi da 74 precristiano da cui Dante si autoesclude (“ei sarebber schivi, / perché’e’ fuor greci forse del tuo detto.”). L’avverbio crespiano “gentilmente 27 ” mi pare offrire uno spunto interpretativo sulle ragioni di questa esclusione. Il modo “gentile” in cui Virgilio si rivolge agli spiriti greci, li accomuna e li chiude nell’appartenenza al mondo dei gentili, cioè al mondo precristiano da cui Dante è separato dallo spartiacque imprescindibile della rivelazione del Verbo divino. Il dramma gnoseologico di Ulisse è effettivamente lo stesso di Virgilio e quello che accomuna tutte le anime dei magnanimi del Limbo “che sanza speme vivemo in disio” (Inf. IV, 42), cioè quella mancata rivelazione per cui “disiar vedeste sanza frutto / tai che sarebbe lor disio quetato, / ch’etternalmente è dato lor per lutto” (Purg. III, 40-42). Il desiderio e la necessità di una rivelazione che non si produce, dramma gnoseologico dell’uomo antico come di quello contemporaneo, motiva comunque il grande rispetto e la grande partecipazione che Dante mostra nei confronti dei suoi personaggi. Non mi pare inopportuno riportare qui alcune parole del Fedone di Platone, che illustrano in modo acutissimo questa problematica, con immagini particolarmente cogenti a quelle dantesche della navigazione di Ulisse, e con un finale sorprendente. Pare a me, o Socrate, e forse anche a te, che la verità sicura in queste cose nella vita presente non si possa raggiungere in alcun modo, o per lo meno con grandissime difficoltà. Però io penso che sia una viltà il non studiare sotto ogni rispetto le cose che sono state dette in proposito, e lo smettere le ricerche prima di avere esaminato ogni mezzo. Perchè in queste cose, una delle due: o venire a capo di conoscere come stanno; o se a questo non si riesce, appigliarsi al migliore e più sicuro tra gli argomenti umani e con questo, come sopra una barca tentare la traversata del pelago: a meno che non si possa, con maggiore agio e minor pericolo fare il passaggio con qualche più solido trasporto, con l’aiuto cioè della rivelata parola di un Dio. 28 Il mondo in cui invece Dante si pone separandosi inesorabilmente dai magnanimi, che pure ama ed ammira, è quello graziato dalla rivelazione cristiana, il mondo che ai valori dei gentiles sostituisce quelli della cortesia, sviluppati nelle corti della cristianità medievale. “E io non gliel’apersi; / e cortesia fu lui esser villano” (Inf. XXXIII, 149- 150): in questi versi la parola “cortesia” definisce l’atteggiamento di Dante stesso che non interferisce con la giustizia divina, rifiutandosi di alleviare la pena di 27 A fianco del ben ovvio senso di gentilezza, cioè “amable en el trato con otras personas”, l’aggettivo gentile, dal latino GENTĪLIS, “se aplica a los que profesaban una religión no cristiana por haber vivido antes del cristianismo o por conservar después de él su religión antigua”. Cfr. Moliner s.v. gentil. 28 Platone, Fedone, c. 35. 75 Branca Doria nella ghiaccia del Cocito. In altra sede, il Petrarca definisce come atto di “somma et ineffabil cortesia” (Canzoniere, LXXXI) proprio l’Incarnazione di Dio in Cristo. Virgilio è qui chiamato a svolgere il ruolo che ebbe realmente nella vita di Dante di intermediario con la cultura greca: secondo una nota di Benvenuto da Imola “et sic est verum quod autor devenerit in cognitionem istorum mediante Virgili”. Nel rivolgersi ai due greci al v. 79 (“O voi che siete due dentro ad un foco”; “Oh los que compartís la misma hoguera”), Virgilio ripete nella traduzione spagnola quel “compartir” del verso 57 ribadendo così la fraternità dei due eroi che come “compartieron igual ira”, così condividono il fuoco del loro martirio con la stessa dignità, in un sodalizio antico che pare proteggerli dal giudizio di quel Dio che li ha condannati. Al verso 80 la formula di suprema cortesia con cui Virgilio si rivolge ai due eroi, non come a dannati, ma come a personaggi degni di grande rispetto, “se meritai di voi”, è resa fedelmente in traduzione con “si merecí […] ante vosotros”. Come nota Mario Fubini nella lettura citata, si tratta di un’espressione desunta dal latino “si bene quid de te merui”. L’inserzione di un registro elevato nel pieno dell’inferno è strutturale per questo canto in cui il tono grottesco e plebeo di Malebolge cede ad una poesia dai modi più aulici, quelli della grande poesia classica di cui Virgilio porta la voce nell’inferno medievale. Fubini parla di una “nostalgia tragica” di Dante, nostalgia dell’alta tragedia virgiliana e dei grandi poeti della classicità, che, rielaborando il mito, apre uno spacco di grande epica in quell’“aere perso” infernale in cui si muove come pellegrino. Conseguentemente il colore linguistico e lo stile del canto si adattano a questa sua fisionomia tragica. Questa la causa della presenza di termini utilizzati nel loro originario senso latino o greco disseminati nel canto e trattenuti in traduzione: la “pira” in rima al verso 53, è voce colta derivata dal greco per “hoguera”; al verso 115 “vigilia”, è voce latina per dire la veglia dei sensi, ciò che resta della vita fisica degli anziani marinai; “el remanente” è un calco sull’espressione latina “DE RELIQUO”; la “oración” del verso 122, riproduce il termine latino “ORATIO” da “ORO” come discorso, atto del parlare; e il “marino suelo” (v. 129) è un calco del latino AEQUOR MARIS che riprende l’uso virgiliano dell’espressione vastum maris aequor. Nella traduzione del verso 84, possiamo nuovamente notare la tendenza del traduttore a limitare il giudizio divino sull’eroe. Nell’originale si legge “perduto a morir gissi”, dove il “perduto” ha un forte valore attributivo del soggetto e ne dice la 76 situazione morale: perduto non è solo una connotazione logistica, ma rivela la condizione dell’eroe rispetto alla legge divina. La versione spagnola “donde a morir antaño se perdía”, dà un senso di dissolvenza nella lontanaza spazio – tempo dell’eroe del mito che si perde all’orizzonte con il suo “legno”, senza includere alcuna connotazione di un giudizio morale. Vorrei citare come esempio di abilità del traduttore la resa spagnola dell’espressione “lo maggior corno” che diventa “el más saliente / de los cuernos”: l’aggettivo spagnolo “mayor” avrebbe dato una connotazione prettamente materiale alla grandezza della fiamma di Ulisse, mentre con “saliente” si indica qualcosa che risalta per la sua importanza e il suo significato oltre che materialmente. L’abilità traduttoria sta qui nel trovare il termine giusto, che non solo traduca la lettera dell’originale, ma renda percepibile al lettore spagnolo la ricchezza dei significati del testo dantesco. Le terzine 94-99 tratteggiano il mondo degli affetti di Ulisse, che pure non basta a trattenere il suo ardore conoscitivo, affetto maggiore e dirompente che trascina con sé quelli domestici, la cui descrizione prosegue nella seguente terzina ai vv. 100-102. né dolcezza di figlio, né la pieta 94 del vecchio padre, né 'l debito amore lo qual dovea Penelopé far lieta, vincer potero dentro a me l'ardore ch'i' ebbi a divenir del mondo esperto, e de li vizi umani e del valore; ma misi me per l’alto mare aperto sol con un legno e con quella compagna picciola da la qual non fui diserto. 102 ni el halago de un hijo, ni la inquieta piedad de un padre viejo, ni el amor que debía a Penelope discreta, dentro de mí vencieron el ardor de conocer el mundo y enterarme de los vicios humanos y el valor; quise por altamar aventurarme con sólo un leño y con la fiel compaña que jamás consintió en abandonarme. Nella traduzione questo sprone che non lascia tranquillo l’eroe nel suo ritorno in patria diventa evidente nell’aggettivo “inquieta” posto accanto alla “pieta / del vecchio padre”, che inserisce nel sentimento di sacro rispetto dovuto al padre una spina di ansia febbrile, di impaziente malessere, quasi fisico, che spinge Ulisse a riprendere il mare. Conseguente mi pare la forte affermazione volontaristica del verso 100, in cui si nota una diversa sottolineatura rispetto all’originale dantesco. Le espressioni “quise aventurarme” che traduce il dantesco “misi me”, e la “fiel compaña” (non appare l’aggettivo “picciola” che sottolinea la scarsità dei mezzi con cui Ulisse si prepara al “folle volo”) che “jamás consintió en abandonarme”, evidenziano e esprimono fortemente il senso velleitario dell’azione di Ulisse, dove anche i fedeli compagni 77 diventano soggetto di una volontà definitiva di seguire il re-condottiero nell’ultima titanica impresa, o meglio coincidono con il suo sentire (“consintió 29 ”), partecipando attivamente alla ricerca di “virtute e canoscenza” dell’eroe. Rispetto all’originale, nella traduzione risalta meno il senso di sproporzione della piccolezza umana nell’avventurarsi da sola nell’infinità dell’ignoto. Non manca comunque mai il rispetto per l’equilibrio compositivo: la follia dell’impresa (“folle volo”; “loco vuelo”) resta espressa e giustificata dall’insufficienza della strumentazione (“sol con un legno”; “con sólo un leño”). I versi 103-111, che tratteggiano la geografia del viaggio di Ulisse spiccano per la sobrietà: chi parla non è un “sublime” ribelle agli dei punito per la sua osadía; l’umanità di Ulisse è tutta esaltata dalla narrazione che non mostra la minima traccia di boriosa sfida o di rimpianto per l’azione compiuta. Se l’uomo medievale confida nella rivelazione di quel plus ultra che Ercole nega ma Ulisse ricerca, l’uomo contemporaneo riconosce invece in Ulisse il prototipo di un’umanità che confidando solo nelle sue proprie forze si spinge sino agli estremi dello scibile. Plus Ultra, il celebre motto che campeggia sullo stemma castigliano è profondamente attualizzato dalla ricerca metafisica dell’uomo precristiano che rivive in quello contemporaneo. Nella concezione poetica crespiana il visibile stesso appare come “resguardo” (v. 108: “dov’Ercule segnò li suoi riguardi”; “donde había / Hércules elevado los resguardos”), cioè schermo protettivo di un universo più vero ma “vedado a los mortales30 ”. Si intuisce dunque un’intensa consonanza spirituale del poeta spagnolo con l’eroe dantesco, e assume valore simbolico l’esperienza del supremo “estrecho” (quella “foce stretta” del v. 107) o strozzatura del mare che è anche l’estrema punta della ricerca a cui si giunge “viejos y tardos” carichi di anni di affannosa ricerca, la strozzatura della gola di chi si gioca in quel passo “cuanto tiene, y cuanto espera querer tener 31 ”. È infatti interessante la traduzione al v. 109 (“acciò che l’uom più oltre non si metta”; “que al navegante niegan la franquía”) del dantesco “uom” con “navegante”, che oltre a specificare nella fattispecie la situazione marittima in cui ci si trova, caratterizza l’uomo ricercatore instancabile come il viaggiatore dell’altamar (v. 100: “misi me per l’alto mare aperto”; “quise por altamar aventurarme”), cioè colui che si 29 Il termine, nel suo senso etimologico di CUM + SENTĬO, indica una consonanza di volontà. Orillas del Meno, in Poesía 1996, tomo 2 p. 88. 31 Juego de azar, in Poesía 1996, tomo 2 p. 230. 30 78 avventura in un viaggio rischioso e di esito incerto. Ancora, nello stesso verso 109, il senso di monito delle Colonne d’Ercole assume nella traduzione il significato di un impedimento fisico (“resguardo”), in quanto gli stessi baluardi elevati da Ercole a delimitare il mondo conosciuto e il confine dell’ignoto, negano il libero procedere (“la franquía” 32 ) del VASELLUM dell’ingegno umano nella sua ricerca gnoseologica. Mi pare importante sottolineare la traduzione del verso 117, dove l’esperienza “di retro al sol / del mondo sanza gente” diventa innanzitutto l’avventura di seguire la rotta del sole: “la experiencia / de ir tras el sol”. L’invito drammatico di Ulisse viene raccolto attraverso i millenni dal poeta Crespo, che nella sua poesia di erranza ed esilio chiede ai suoi dèi “tiempo para ganar una ciudad / en la que salga el sol al ritmo de mis pasos 33 ”: preghiera agli dèi che il corso del sole coincida con il ritmo dei passi del poeta, e quindi il sole con il poeta stesso. È l’espressione di un desiderio di coincidenza e di corrispondenza universali, e di un inserimento armonioso (“ritmo”) nel cosmo. Quella tendenza laicizzante riscontrata nella terzina 100-103 si può osservare ancora nei versi seguenti: fatti non foste a viver come bruti, 119 para vida animal no habeís nacido, ma per seguir virtute e canoscenza sino por adquirir virtud y ciencia Al verso 119 “fatti non foste” è tradotto con “no habeís nacido”, dove gli oggetti della creazione di un FACTOR supremo e provvidenziale (“fatti”), diventano soggetti attivi di una nascita ben più self-made. Al verso 120 il sintagma “seguir virtute e canoscenza”, implica il riconoscimento e la sequela della verità che si è rivelata, mentre la sfumatura che dà il verbo “adquirir” accanto alla coppia “virtud y ciencia” è quella di un tenace impegno dell’intelletto umano nella ricerca 34 , per conquistare cime, che mai gli si faranno incontro. Il risultato di tali scelte semantiche è che le parole messe in bocca ad Ulisse sono qui forse meno dantesche e più di Ulisse. Le parole della “orazion picciola”, per quella dote dell’eloquenza che rappresenta la qualità specifica dell’eroe greco, tanto brevi (“corta oración”) quanto potenti, scuotono la più profonda umanità dei compagni, a cui il condottiero si rivolge 32 Il termine prescelto in traduzione, franquía, possiede il preciso significato di “situación de un buque cuando tiene paso libre para salir al mar o tomar determinado rumbo”. Cfr. Moliner, s.v. franquía. 33 Anteo Errante, in Poesía 1996, tomo 3, p. 163. 34 Il verbo spagnolo viene infatti dal latino QUAERO, cercare. Cfr. Moliner, s.v. adquirir. 79 non come a sudditi ma come a “hermanos” per una fraternità profonda della comune condizione di naviganti e ricercatori dell’ignoto. Lo sprone irresistibile che il discorso di Ulisse rappresenta per gli altri uomini, in quanto li invita a realizzare la loro umanità, li sospinge in maniera incontenibile (v. 123 “a pena poscia li avrei ritenuti”; “no podría haberlos contenido”) in un cammino che è nuovamente un “ir tras el sol”: cammino come “jornada 35 ” (v. 121), ritmo biologico del cosmo e fatto memorabile di breve durata, come sarà il “loco vuelo” di Ulisse e dei suoi uomini che segue la direzione cosmica del sole “le volvimos la popa a la alborada”, volo folle come quello di Icaro che osa sfidare il sole con le sue ali di cera – di nuovo un mezzo inadeguato – e precipita in mare. Eppure il titanico tentativo, quasi una scalata al cielo, di “ir tras el sol” è un “noble rumbo” (“l’alto passo”), la scelta che, unica, nobilita l’umana natura (certo non nell’universo dantesco 36 , ma in un universo come quello pagano e quello contemporaneo che prescindono dalla rivelazione del Verbo). Nella versione spagnola, il “loco vuelo” di Ulisse, si materializza nella terzina 124-126, che viene pervasa dall’alliterazione della l come da una corrente d’aria sollevata da un’ala ingigantita: “e volta nostra poppa nel mattino, / de’ remi facemmo ali al folle volo, / sempre acquistando dal lato mancino”; “le volvimos la popa a la alborada / del remo hicimos ala al loco vuelo / y a la izquierda la nave fue guiada”. Nella traduzione del verso 126 pare di leggere un’inversione della direzione precedente del senso di conquista tutta umana dell’ignoto: il dantesco “sempre acquistando” che sottolinea il velleitario sforzo della “compagna picciola” nella scoperta del nuovo mondo, è tradotto con un più fatalistico “fue guiada”, che pare insinuare l’ineluttabile mano di un destino tragico a guida degli eventi, una volta che sia compiuta la suprema scelta de “l’alto passo” da parte di tutta la fraternità degli uomini. Alla somma altezza del cammino intrapreso, corrisponde la visione della maggiore altezza raggiungibile da occhio umano: quando n’apparve una montagna, bruna 133 cuando mostróse una montaña bruna per la distanza, e parvemi alta tanto por la distancia; y se elevaba tanto 35 Il termine scelto per tradurre il dantesco “cammino” possiede infatti il preciso significato di “camino que se hace en un día”. Cfr. Moliner, s.v. jornada. 36 Nell’universo dantesco, sintesi della cristianità medievale, la suprema nobiltà dell’uomo si trova nel “FIAT VOLUNTAS TUA”, cioè nella capacità della volontà umana di porsi in sintonia con quella del suo creatore, come atto supremo della libertà. Cfr. Paradiso XXXIII, 4-6: “tu se’ colei che l’umana natura / nobilitasti sì, che ‘l suo fattore / non disdegnò di farsi sua fattura”. 80 quanto veduta non avea alcuna. 135 que tan alta no vi jamás ninguna. La “montaña bruna” che in traduzione è soggetto attivo di un elevarsi unico, eccelso, verticalismo supremo che, nella memoria letteraria del traduttore spagnolo, risuona di reminiscenze del celebre “excelso muro” cordovese, e che, pronunciato al v. 134 (“se elevaba tanto”) riecheggia, potenziandosi di unicità, nel verso seguente “tan alta no vi jamás ninguna”. Altezza unica nello spazio per il suo ergersi in un deserto di acque “sanza gente”, e nel tempo dell’esperire umano “jamás”: IAM MAGIS altezza mai vista prima e mai più ripetibile. Ancora un tessuto di reminiscenze gongorine mi pare individuabile nelle terzine conclusive del canto. Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto, 136 Nuestra alegría se convierte en llanto, pues de la nueva tierra un viento nace ché de la nova terra un turbo nacque, que del leño sacude el primer canto; e percosse del legno il primo canto. con las aguas tres veces girar le hace Tre volte il fé girar con tutte l'acque; y a la cuarta la popa es elevada, a la quarta levar la poppa in suso se hunde la proa – que a otro así le place – e la prora ire in giù, com'altrui piacque, infin che 'l mar fu sovra noi richiuso. 142 y nos cubre por fin la mar airada La traduzione non certo letterale di “turbo”, che indica propriamente il vortice, il gorgo che risucchia la nave, con il termine “viento” che attribuisce la causa del naufragio a una tromba d’aria, la locuzione “tres veces”, e la connotazione di “airada” che la traduzione aggiunge al mare, sono tre elementi che sembrano richiamere il verso gongorino “tres veces de Aquilón el soplo airado”, incipit del sonetto 76, cui già era riferibile il termine “alcor” del v. 26 37 . Gli elementi costitutivi del verso gongorino si trovano tutti presenti nella traduzione che allo stesso tempo riproduce fedelmente il testo dantesco. La locuzione “tres veces” è letteralmente sovrapponibile al verso di Góngora, mentre il “viento” si avvicina decisamente all’“aquilón” gongorino rispetto al “turbo” dantesco. Solo nella traduzione il mare assume la connotazione caratteriale “airada”: la natura stessa reagisce alla osadía umana di varcare un elemento che le è vietato. Il supremo azzardo dell’animo umano rende la sconfitta tanto drammatica quanto alta era la posta in gioco. Con ritmo incalzante e passaggio attualizzante di tutti i 37 Cfr. supra, n. 17. 81 verbi danteschi al presente, Crespo traduce il tragico e appassionante fallimento dell’estrema avventura di Ulisse nel silenzio universale del mare che ingurgita per sempre irosamente i naviganti. 82 3. L’incontro con Stazio, ovvero un Parnaso confidencial (Purgatorio XXI) L’episodio dell’incontro di Dante e Virgilio con il poeta Stazio, l’“antico spirto” che ha appena terminato la sua purgazione e si appresta a salire al cielo, si introduce nell’opera del poeta traduttore come paradigmatico e indimenticabile incontro ultratemporale tra poeti 1 , memorabile dignificazione di un’anima che ha gloriosamente concluso la sua ascesi spirituale, conquistando una purezza ultraterrena, e con essa una statura morale capace di sostenere il massimo grado di rivelazione dell’Essere e saziare eternamente la sua sete di conoscenza nella pienezza del lumen gloriae. In questa prospettiva gnoseologica si apre appunto il XXI canto del Purgatorio: la “sete natural che mai non sazia” di cui parla Dante è, infatti, come spiega Crespo stesso nella nota a piè di pagina della sua traduzione “la sed natural de saber”, che nell’universo dantesco “sólo se sacia mediante la revelación”. Ulisse è il grande contraltare infernale di questa idea: l’uomo che con i propri mezzi, a prescindere dalla rivelazione, aveva tentato di soddisfare la sua ardente sete di “canoscenza”. E il dramma supremo del suo fallimento si costituisce emblema del doloroso destino della grande sapienza precristiana incarnato qui nel dramma di Virgilio e di quei “molt’altri” cui questa sete naturalmente insita nell’umanità è eternamente “data per lutto” (Purg. III). Come documentazione pratica della differenza tra il sistema culturale di riferimento di Dante e quello del suo traduttore del secolo XX, mi pare interessante notare, anticipandone la lettura, la traduzione dei vv. 73-74 (“e però ch’el si gode / tanto del ber quant’è grande la sete”; “cuando se bebe más gozoso / se siente el más sediento”): dove Dante scioglie l’immagine della sete nell’appagamento del bere, in traduzione si legge invece uno slittamento dell’immagine dall’atto del bere, alla rappresentazione dell’assetato dove la figura ingigantita dal superlativo (“el más sediento”) aggetta in primo piano, occupando ritmicamente e graficamente lo spazio delle quattro sillabe centrali del verso, e viene accompagnata e ulteriormente amplificata dall’eco allitterante della sibilante (“cuando se bebe más gozoso / se siente el más sediento”) che vedremo 1 Il tratto caratteristico del Purgatorio, dei frequenti incontri con artisti contemporanei a Dante o antichi maestri del fare poetico, viene percepito dal poeta traduttore come una nota tra le più affascinanti e suggestive della cantica. “El Purgatorio es, en la invención dantesca, el dominio de las mujeres, los ángeles, el arte (escultura y música sobre todo) y, naturalmente, de los poetas.” Dall’introduzione del traduttore a Divina Comedia 1999, p. XXVIII. 83 tratto identificativo proprio della sed. Rispetto alla rivelazione ristoratrice graziosamente concessa a Dante, come alla “femminetta samaritana”, permane nell’esperienza del traduttore contemporaneo, decisamente laico, l’arsura della sete inappagata di Ulisse e dei grandi del Limbo. Si passa ora ad analizzare come la traduzione crespiana rivive il testo dantesco. Purgatorio; CANTO XXI Purgatorio; CANTO XXI La sete natural che mai non sazia se non con l’acqua onde la femminetta samaritana domandò la grazia, 3 Esa sed natural que sólo sacia el agua en que pidió la mujercita samaritana recibir la gracia 6 me afligía; y mayor era mi cuita por seguir tras mi guía el atascado camino de la justa y ya descrita 9 venganza. Y como Lucas ha narrado que a dos se aparecía Cristo en su vía tras el sepulcro haber abandonado 12 apareció una sombra y nos seguía contemplando a la turba que allí yace; y antes de haberla visto nos decía 15 «¡Dios, con su paz hermanos, os solace!» deprisa nos volvimos, y Virgilio hizo el gesto que en tales casos se hace. 18 Luego dijo:«En el plácido concilio te ponga en paz la corte verdadera que me relega en el eterno exilio». 21 «¡Cómo!», dijo – y la marcha era ligera –; « si espíritus de gloria no sois dignos, ¿quién os trajo hasta aquí con su escalera?» mi travagliava, e pungeami la fretta per la ‘mpacciata via dietro al mio duca, e condoleami a la giusta vendetta. Ed ecco, sì come ne scrive Luca che Cristo apparve a’ due ch’erano in via, già surto fuor de la sepulcral buca, ci apparve un’ombra, e dietro a noi venìa, dal piè guardando la turba che giace; né ci addemmo di lei, sì parlò pria, dicendo; «O frati miei, Dio vi dea pace». Noi ci volgemmo sùbiti, e Virgilio rendéli ‘l cenno ch’a ciò si conface. Poi cominciò: «Nel beato concilio ti ponga in pace la verace corte che me rilega ne l’etterno essilio». «Come!», diss’elli, e parte andavam forte: «se voi siete ombre che Dio sù non degni, chi v’ha per la sua scala tanto scorte?». E ‘l dottor mio: «Se tu riguardi a’ segni che questi porta e che l’angel profila, ben vedrai che coi buon convien ch’e’ regni. 24 Y el guía: «Los que llevan estos signos que en este ves y allá el ángel perfila de reinar con los buenos son condignos. Ma perché lei che dì e notte fila non li avea tratta ancora la conocchia che Cloto impone a ciascuno e compila, 27 Mas porque la que día y noche hila no ha trabajado aún toda la lana que a cada cual da Cloto, y la compila 30 su alma, que de las nuestras es hermana, no puede ir sola, pues a ver no acierta como nosotros si esta altura gana. l’anima sua, ch’è tua e mia serocchia, venendo sù, non potea venir sola, però ch’al nostro modo non adocchia. Ond’io fui tratto fuor de l’ampia gola d’inferno per mostrarli, e mosterrolli Por eso abrió el Infierno su ancha puerta y, en cuanto es a mi escuela permitido, 84 oltre, quanto ‘l potrà menar mia scola. Ma dimmi, se tu sai, perché tai crolli diè dianzi ‘l monte, e perché tutto ad una parve gridare infino a’ suoi piè molli». Sì mi diè, dimandando, per la cruna del mio disio, che pur con la speranza si fece la mia sete men digiuna. Quei cominciò: «Cosa non è che sanza ordine senta la religione de la montagna, o che sia fuor d’usanza. Libero è qui da ogne alterazione: di quel che ‘l ciel da sé in sé riceve esser ci puote, e non d’altro, cagione. Per che non pioggia, non grando, non neve, non rugiada, non brina più sù cade che la scaletta di tre gradi breve; nuvole spesse non paion né rade, né coruscar, né figlia di Taumante, che di là cangia sovente contrade; secco vapor non surge più avante ch’al sommo d’i tre gradi ch’io parlai, dov’ha ‘l vicario di Pietro le piante. Trema forse più giù poco o assai; ma per vento che ‘n terra si nasconda, non so come, qua sù non tremò mai. Tremaci quando alcuna anima monda sentesi, sì che surga o che si mova per salir sù; e tal grido seconda. De la mondizia sol voler fa prova, che, tutto libero a mutar convento, l’alma sorprende, e di voler le giova. Prima vuol ben, ma non lascia il talento che divina giustizia, contra voglia, come fu al peccar, pone al tormento. E io, che son giaciuto a questa doglia cinquecent’anni e più, pur mo sentii libera volontà di miglior soglia: però sentisti il tremoto e li pii spiriti per lo monte render lode a quel Segnor, che tosto sù li ‘nvii». 33 por mi será su senda descubierta. 36 Mas, si lo sabes, di: ¿por qué ha crujido antes el monte y han gritado a una todos, hasta el cimiento humedecido?» 39 Con pregunta colmó tan oportuna mis deseos, pues hizo la esperanza que estuviese mi sed menos ayuna. 42 Él contestó: «No ocurre aquí alguna mudanza que no prevea ya la religión de la montaña, y no sea de ordenanza. 45 Libre se halla de toda alteración: pues lo que el cielo en sí recibe y mueve es siempre, y no otra cosa, la razón. 48 Que ni la lluvia, ni granizo o nieve, ni escarcha ni rocío caen por la cima de los tres grados de la escala breve; 51 ni nube clara o densa se aproxima, ni el relámpago, ni hija de Taumante, que abajo con frecuencia altera el clima. 54 Seco vapor no surge más avante de los tres escalones que he nombrado, do el vicario de Pedro es vigilante. 57 Más o menos, abajo habrá temblado cuando en la tierra algún viento se esconde; mas, no sé cómo, aquí no ha trepidado. 60 Este temblor de acá se corresponde con el sentirse un alma bien purgada: si va a subir, el grito le responde. 63 Sólo el querer demuestra que acendrada se encuentra ya, cuando a mudar convento invita al alma, y de él es ayudada. 66 Ya el querer quiso, pero no el talento que acepta la justísima condena: tal pecar quiso, tal ame el tormento. 69 Y yo, que ya he yacido en esta pena más de quinientos años, no tenía libre querer de sede más amena: 72 por eso el terremoto se sentía y de las almas el cantar piadoso que al Señor ser llevadas le pedía». 85 75 Dijo, y si cuando se bebe más gozoso se siente el más sediento, yo no puedo decir cómo su voz me hizo dichoso. 78 «De la red que os envuelve al tanto quedo y del temblor, y del por qué esta gente goza, y cómo se libra del enredo; 81 mas di quién fuiste», habló el guía prudente, «y por qué tantos siglos has yacido en este sitio tu palabra cuente». 84 «En el tiempo en que Tito, socorrido del sumo rey, vengó la sangre pura que vertió el que por Judas fue vendido 87 con el nombre que más honra y perdura» repuso el alma, «allende me encontraba famoso ya pero sin fe madura. 90 Mi voz con tal dulzura modelaba que, tolosano, Roma a sí me trajo y con mirto mis sienes coronaba. 93 Aún Estacio me llaman allá abajo: canté a Tebas, y luego al grande Aquiles, mas caí soportando este trabajo. 96 Mis ardores sembraron las gentiles chispas – y ardí – de la divina hoguera en cuyas llamas se encendieron miles; de l’Eneida dico, la qual mamma fummi e fummi nutrice poetando: sanz’essa non fermai peso di dramma. 99 me refiero a la Eneida, que ella era madre que me nutrió poetizando: sin la cual mi obra un dracma no valiera. E per esser vivuto di là quando visse Virgilio, assentirei un sole più che non deggio al mio uscir di bando». Y en verdad por haber vivido cuando vivió Virgilio, un sol concedería 102 sobre el tiempo que estuve aquí esperando». Volser Virgilio a me queste parole con viso che, tacendo, disse ‘Taci’; ma non può tutto la virtù che vuole; Virgilio, a estas palabras, se volvía y su rostro, callando, dijo: «¡Calla!»; 105 mas no siempre el querer los actos guía ché riso e pianto son tanto seguaci a la passion di che ciascun si spicca, che men seguon voler ne’ più veraci. que la pasión tan enlazada se halla con risa y llanto, que es el más sincero 108 quien, aunque quiera, menos los acalla. Io pur sorrisi come l’uom ch’ammicca; per che l’ombra si tacque, e riguardommi ne li occhi ove ‘l sembiante più si ficca; Yo le hice un guiño sonriendo, pero calló entonces la sombra y observóme 111 los ojos, do el sentir anida entero. Così ne disse; e però ch’el si gode tanto del ber quant’è grande la sete. non saprei dir quant’el mi fece prode. E ‘l savio duca: «Omai veggio la rete che qui v’impiglia e come si scalappia, perché ci trema e di che congaudete. Ora chi fosti, piacciati ch’io sappia, e perché tanti secoli giaciuto qui se’, ne le parole tue mi cappia». «Nel tempo che ‘l buon Tito, con l’aiuto del sommo rege, vendicò le fóra ond’uscì ‘l sangue per Giuda venduto, col nome che più dura e più onora era io di là», rispuose quello spirto, «famoso assai, ma non con fede ancora. Tanto fu dolce mio vocale spirto, che, tolosano, a sé mi trasse Roma, dove mertai le tempie ornar di mirto. Stazio la gente ancor di là mi noma: cantai di Tebe, e poi del grande Achille; ma caddi in via con la seconda soma. Al mio ardor fuor seme le faville, che mi scaldar, de la divina fiamma onde sono allumati più di mille; e «Se tanto labore in bene assommi», disse, «perché la tua faccia testeso «Así corones tu obra», interpelóme, «¿por qué hace unos momentos tu semblante 86 un lampeggiar di riso dimostrommi?». 114 de sonrisa un relámpago mostróme?» Or son io d’una parte e d’altra preso: l’una mi fa tacer, l’altra scongiura ch’io dica; ond’io sospiro, e sono inteso Preso de ambos me encuentro en ese instante: uno me hace callar, y me conjura 117 otro a decir; y, al verme suspirante, dal mio maestro, e «Non aver paura», mi dice, «di parlar; ma parla e digli quel ch’e’ dimanda con cotanta cura». comprende el guía y «No tengas pavura», dice, «de hablar, que puedes explicarte: 120 dile, sin más lo que saber procura». Ond’io: «Forse che tu ti maravigli, antico spirto, del rider ch’io fei; ma più d’ammirazion vo’ che ti pigli. «Puedes», le dije yo, «maravillarte, alma antigua, porque antes sonreía, 123 mas mayor maravilla he de causarte. Questi che guida in alto li occhi miei, è quel Virgilio dal qual tu togliesti forza a cantar de li uomini e d’i dèi. Este que mi mirada a lo alto guía es el Virgilio aquel por quien tuviste, 126 al cantar dioses y hombres, valentía. Se cagion altra al mio rider credesti, lasciala per non vera, ed esser credi quelle parole che di lui dicesti». Si a mi risa otra causa atribuiste, olvídala, porque el motivo es 129 – y otro no había – lo que de él dijiste». Già s’inchinava ad abbracciar li piedi al mio dottor, ma el li disse: «Frate, non far, ché tu se’ ombra e ombra vedi». Él se inclinó para abrazar sus pies y «No hagas tal», le dijo, «hermano amado, 132 que una sombra eres y una sombra ves». Ed ei surgendo: «Or puoi la quantitate comprender de l’amor ch’a te mi scalda, quand’io dismento nostra vanitate, Y él, poniéndose en pie: «Ya has comprobado del amor que te tengo el fuego ardiente: 135 que nuestra vanidad he olvidado trattando l’ombre come cosa salda». dando a una sombra cuerpo consistente». Nel lungo periodo che occupa le due terzine iniziali della grande apertura evangelica del canto, si nota, analizzando la struttura grammaticale della traduzione, un processo di allontanamento straniante dove Dante spinge invece all’estremo, anche sintatticamente, il coinvolgimento personale nel tormento spirituale che lo attanaglia. 1 Esa sed natural que sólo sacia La sete natural che mai non sazia el agua en que pidió la mujercita se non con l’acqua onde la femminetta samaritana recibir la gracia samaritana domandò la grazia, me afligía; y mayor era mi cuita mi travagliava, e pungeami la fretta por seguir tras mi guía el atascado per la ‘mpacciata via dietro al mio duca, 6 camino de la justa y ya descrita / venganza. e condoleami a la giusta vendetta. L’incipit distintivo e specificativo dell’articolo determinativo dantesco (“la sete natural”) si trasforma in traduzione in un “esa” che produce una lontananza da chi parla. Inoltre la “sete natural” è soggetto nella frase originale grazie all’uso intransitivo del 87 verbo saziare. Nella traduzione la sete viene spostata sul piano del complemento oggetto, mentre l’acqua diventa plasticamente il soggetto attivo del saziare. Nel testo dantesco l’espressione “l’acqua onde la femminetta / samaritana domandò la grazia” produce in modo diretto l’immagine del dialogo della samaritana con Gesù al pozzo di Giacobbe (Giov 4, 5-15), in quanto riporta esplicitamente la richiesta dell’acqua che l’umile donna di Samaria rivolge a Gesù. L’espressione crespiana mi sembra includere invece il valore simbolico della grazia della soddisfazione della sete di conoscenza: “el agua en que pidió la mujercita / samaritana recibir la gracia”. Si noti l’uso particolare del verbo pedir affiancato dalla preposizione en, che specifica che si tratta dell’acqua simbolica della grazia, l’acqua dalla quale si aspetta la grazia. L’espressione “recibir la gracia” non manifesta solo la richiesta del dono dell’acqua, ma il desiderio di saziare la propria sete di conoscenza. L’immagine è quindi intellettualizzata e presentata immediatamente come allegorica, mentre in Dante sussiste il senso letterale, che si impone come mediando il valore simbolico della sacra rappresentazione. A livello fonetico, mi pare opportuno notare, come ho già segnalato riguardo ai vv. 73-74, il raddoppiamento dell’allitterazione delle parole “sete” e “sazia” del primo verso, in cinque ricorrenze: “esa”, “sed”, “sólo”, “sacia”, che amplifica la sete nella secchezza della sibilante. La successiva sequenza dei tre verbi danteschi (mi travagliava, pungeami, condoleami), che esprimono l’interno tumulto dell’animo del pellegrino, preso contemporaneamente da tre forti sentimenti angustiosi, sparisce in traduzione dove vengono unificate le frasi coordinate dei vv. 4-6, che rappresentano, invece, nel polisindeto dantesco, l’accalcarsi dei sentimenti del poeta-pellegrino. Qui si manifesta maggiormente lo straniamento crespiano: si mantiene il primo “me afligía”, dove comunque si sostituisce al travaglio 2 spirituale l’afflizione, come urto violento tra la sete di conoscenza e il limite imposto all’umana ragione che non riesce a percorrere quella “infinita via” cui pur anela. Il primo dei tre, è l’unico verbo mantenuto in traduzione, dove dei due seguenti il primo è sostituito da un’espressione nominale: “pungeami la fretta” diventa “mayor era mi cuita”, che allo sprone della fretta 2 Il verbo travagliare contiene etimologicamente il TRIPALIUM – uno strumento di tortura –, e il verbo lat. vg. *TRIPALIARE, torturare. Cfr. Corominas, s.v. trabajar. Cfr. anche Moliner, per l’accezione di trabajar come realizzare un’azione fisica o intellettuale con fatica. 88 sostituisce il dolore (“cuita” 3 ). Il “condoleami” dantesco sparisce del tutto nell’espressione “la justa y ya descrita / venganza” che, eliminando l’aspetto originale della partecipazione spirituale e morale con le pene inflitte alle anime dalla giustizia divina, alla quale comunque mai si nega fedeltà, confina il poeta al ruolo di scriba (“descrita”) della vendetta divina cui si appone l’attributo di “justa”, ma da cui si esclude qualsiasi coinvolgimento morale o condivisione della pena. Il marcato iperbato che stacca l’oggetto (“venganza”) dalle sue apposizioni (“justa” e “descrita”) crea una pausa del respiro e della logica discorsiva, che sembra porre l’uomo esterrefatto e quasi rassegnato di fronte all’impenetrabilità di una logica della giustizia che non gli è affatto familiare. La descrizione dell’apparizione dell’anima del poeta Stazio alle spalle dei due viaggiatori della montagna ultramondana, si modella sul passo evangelico dell’incontro di Cristo con i due discepoli sulla via di Emmaus (Luca 24, 13-17) dove il sopraggiungere alle spalle, lo stilema “ed ecco”, ed il saluto invocante la pace divina, sono citazioni letterali del passo delle Scritture, creando un parallelismo tra l’anima salvata e il Risorto, a significare che in ogni redento si ripete il miracolo della resurrezione. La profondità del senso di questa citazione non viene riprodotta, a mio avviso, nella traduzione, che si limita a citare il Vangelo di Luca. La spia di questa sorta di de-teologizzazione del richiamo evangelico mi pare individuabile, non solo nella mancata riproduzione dello stilema “ed ecco”, che lascia spazio solo ad un semplice paragone (“Y como Lucas ha narrado”), ma soprattutto nel diverso uso dei tempi verbali ai vv. 7 e 8 (“Ed ecco, sì come ne scrive Luca / che Cristo apparve a’ due ch’erano in via”; “Y como Lucas ha narrado / que a dos se aparecía Cristo en su vía”). Il dantesco presente “ne scrive” diventa in traduzione “ha narrado”. Questa espressione, oltre a relegare l’azione dell’evangelista in un passato non più attuale nel presente del poeta e del lettore, cambia l’atto dello scrivere in quello del narrare: il gesto di imprimere attraverso la scrittura un fatto che lascia una traccia tanto profonda da giungere diacronicamente all’attualità dell’autore della Commedia e dei suoi lettori di ogni tempo, viene sostituito da una semplice rievocazione di fatti reali o meno, che resta confinata nel tempo del narratore del racconto evangelico. L’idea della narrazione è coerentemente ripresa dall’imperfetto “aparecía”, dove il tempo narrativo, nella sua 3 Nell’uso spagnolo il termine cuita significa precisamente “pena”: “estado de abatimiento con tendencia al llanto, pasajero y por una cosa determinada”. Cfr. Moliner, s.v. cuita. 89 dissolvenza, non dice l’incisività del passato remoto dantesco, che possiede invece l’aspetto della descrizione di un fatto reale accaduto in un tempo ben definito. Il verso 11 (“dal piè guardando la turba che giace”; “contemplando a la turba que allí yace”) mi pare presentare un problema critico: l’espressione “dal pie guardando”, che si riferisca all’anima di Stazio oppure a Dante e Virgilio 4 , rappresenta l’atto di scansare con il piede, il porre attenzione del viandante a non calpestare le anime piangenti prone al suolo, degli avari e prodighi che compiono la loro purificazione sulla quinta cornice della montagna; una premura che si era già presentata nel canto precedente e che distingue l’atteggiamento estremamente rispettoso e “condolente” di Dante nel Purgatorio rispetto a quello ben più arrogante che aveva mostrato in diverse occasioni infernali. La traduzione “contemplando”, esprime staticità e distanza di un’osservazione sacralizzata 5 , e non riproduce il senso del solenne rispetto dei pellegrini in cammino. Fraternità e pace, nella loro dolorosa contrapposizione ad un esilio “etterno”, condizioni taumaturgiche (“os solace 6 ”) per lo spirito impegnato nel pellegrinaggio ascetico che accomuna le sorti degli uomini, costituiscono i termini principali del saluto che si scambiano Stazio e Virgilio. La fraternità delle anime, che sembra incorniciare questo canto (“frati”; “hermanos” è l’epiteto con cui Stazio si rivolge ai due pellegrini al v. 13, e pure “serocchia”; “hermana” chiama Virgilio l’anima di Dante al v. 28, mentre col termine “frate”; “hermano amado” si rivolge Virgilio a Stazio dopo l’agnizione al v. 131), si motiva nella condizione di essenzialità di spirito vissuta dalle ombre nell’aldilà nella prospettiva eterna del cospetto della “verace corte”, come pari dignità dell’essere umano nella sua ontologica creaturalità, cioè per il suo semplice essere, al di fuori di ogni logica di ruolo assunto come sovrastruttura nel consorzio umano. Ma le tre anime tra cui si instaura questa essenziale fraternità sono, non a caso, anime di tre poeti: si crea quindi una salvifica agape poetica, un intimo Parnaso, che si contrappone all’esilio 4 La critica dantesca riferisce il gerundio talvolta al soggetto noi, con valore di frase relativa, altre volte al soggetto ombra. 5 Il verbo contemplar deriva dal latino CONTEMPLOR, che contiene la radice del verbo greco TÉMENOS, lat. TEMNO, io taglio. Il verbo CONTEMPLOR significa osservare, guardare attentamente, trarre qualcosa nel proprio orizzonte, da qui la parola TEMPLUM, che designa lo spazio tracciato dall’augure nel cielo e sulla terra nel quale raccogliere e interpretare i presagi, luogo quindi cosacrato in cui si palesa la divinità. Il contemplare assume spesso, nella poesia crespiana, una chiara connotazione di studio divinatorio delle profondità dello spirito. 6 Il termine solaz indica proprio il riposo come consolazione e recreo, cioè ricostituzione delle energie spirituali. Cfr. María Moliner, Diccionario de uso del español, s.v. solazar, solaz. 90 eterno di Virgilio, ed a quello storico di Dante, come una loro sospensione. La condizione di doloroso esilio e di fraternità artistica come soluzione di tale angoscia, è precisamente l’esperienza in atto di Ángel Crespo al momento in cui traduce la Commedia, ed anche un motivo della scelta di compiere tale lavoro come “una soluzione all’isolamento, una soluzione alla solitudine, una soluzione all’angoscia, attraverso l’esperienza culturale dell’Occidente 7 ”. La pace di Dio auspicata da Stazio assume nella traduzione una colorazione taumaturgica nel verbo “solazar”. Mentre nella voce di Stazio che è sul punto di sperimentarla, la parola pace possiede una dolce naturalezza, nelle parole di risposta di Virgilio quella stessa pace è una condizione tanto desiderata quanto impossibile, che si avvicina alla pace nominata da Francesca da Rimini nel girone dei lussuriosi come disperato anelito a una condizione per sempre negata. Il drammatico contrasto paz / exilio, che accomuna le biografie di Dante e Crespo, possiede uno spessore storico e ultraterreno, e palesa nella disposizione dei termini della terzina 16-18 (“nel beato concilio / ti ponga in pace la verace corte / che me relega nell’etterno essilio”; “en el plácido concilio / te ponga en paz la corte verdadera / que me relega en el eterno exilio”) la personale vivencia crespiana. Il “plácido concilio” come luogo della pace suprema, immune da ogni violenza, si trova in rima con “eterno exilio”, acutizzando il paradossale contrasto tra la pace desiderata e la violenza subita dell’esilio. Paradossale soprattutto perchè la stessa “corte” cui è riservato l’attributo-giudizio di “verdadera”, cioè verace e giusta, dispensa la suprema guarigione della pace e il supremo castigo dell’esilio. La traduzione del verso 19 (“«Come!», diss’elli, e parte andavam forte”; “«¡Cómo!», dijo – y la marcha era ligera –”), trasforma la semplice annotazione di Dante che i tre continuano a camminare parlando (“e parte andavam forte”), nell’espressione “la marcha era ligera”: questa introduzione della leggerzza in seguito all’esclamazione di meraviglia di Stazio (“Come!”) per la presenza prodigiosa di “ombre che Dio sù non degni” sulla montagna della purificazione e della salvezza, mi pare che dia un senso di sollievo e speranzosa meraviglia dopo il disperante contrasto tra la pace e l’esilio. L’anima del poeta sembra poter trascendere i dettami della “verace corte” per giungere straordinariamente vicino a quel compimento di ogni desiderio che 7 Ángel Crespo, Autolettura a Parma, con una nota di Gaetano Chiappini, in “L’Albero”, n. 68, Lecce 1982, p. 35. 91 non è la sua condizione normale di vita. Riscossa personale di chi, costretto nei limiti della finitezza creaturale aspira alla conoscenza suprema e ne sperimenta degli spiragli grazie alla poesia. Questo è il significato più profondo della poesia crespiana come momento grazioso di una conoscenza superiore che dura pochi istanti rubati alla luce per tornare poi ad essere relegati nella lontananza gnoseologica dal significato delle cose 8 . Al v. 20, lo sdegno divino qualifica le anime dannate come ombre, o fantasmi sbiaditi, senza consistenza, negazione della luce che è Dio (“se voi siete ombre che Dio sù non degni”; “si espíritus de gloria no sois dignos”). Nella traduzione l’elemento dello sdegno di Dio viene omesso, restituita ai pellegrini la dignità di spiriti, dotati quindi delle facoltà sensitive e dell’intelligenza, mentre l’azione concreta dello sdegno di Dio diventa un attributo delle anime, dove la corrispondenza dell’anima con il suo merito viene comunque messa in dubbio, ma in un tribunale tutto inter pares. L’omissione della presenza di Dio al verso citato, implica una diversa pertinenza della scala della purgazione (v. 21: “chi v’ha per la sua scala tanto scorte”; “¿quién os trajo hasta aquí con su escalera?”): nell’originale “la sua scala” è la via che porta fino al cospetto di Dio, in traduzione è la scala della gloria, dove il possessivo “su” si riferisce alla “gloria” del verso precedente. E, se sulla scala di Dio si è scortati, cioè accompagnati e protetti da una guida che indica il cammino, quella più laica della gloria è strumento (“con”) di un trasporto materiale (“traer”). La risposta di Virgilio, privata dei caratteri ipotetici dell’originale (vv. 22-24:“Se tu riguardi a’ segni / …/ ben vedrai che coi buon convien ch’e’ regni”; “los que llevan estos signos / … / de reinar con los buenos son condignos”), appare in traduzione come enunciazione di una norma, pur nell’assoluta eccezionalità del caso di Dante, vivo nel regno ultraterreno. Il verso 24 ripete in rima l’attributo della dignità del verso 20, arricchito stavolta del prefisso con–, che esprime la partecipazione alla dignità gloriosa dei beati nel futuro di Dante e in generale delle anime del Purgatorio. Per quanto riguarda la terzina 25-27, mi pare interessante notare che la resa in traduzione comporta alcuni problemi di interpretazione del testo. 8 Questa valenza profonda della poesia viene espressa in questo brano di prosa poetica crespiana: “a veces, siento que uno de mis pies – por desgracia, uno sólo – pisa un camino diferente. Me quedo quieto, paralizado: es como si estuviese descalzo, como si ese pie no posase en la tierra; pero el otro tira de mi con su carga de años y de vacilaciones y aunque ése es mi más plenario deseo, no puedo encarrillarle por el camino otro: lo siento como ancla, como piedra atada a mi espíritu, y el primero vuelve a su estado de antes”. Da El aire es de los dioses (1978-1981), in Poesía 1996, tomo 2, p. 269. 92 Ma perché lei che dì e notte fila 25 Mas porque la que día y noche hila no ha trabajado aún toda la lana non li avea tratta ancora la conocchia che Cloto impone a ciascuno e compila, 27 que a cada cual da Cloto, y la compila Dove anche al v. 26 Dante usa i termini tecnici dei precisi atti e degli strumenti del filare, un lessico arcaico che si riferisce esplicitamente al mondo dei lanaioli del Medioevo fiorentino (“trarre la conocchia” e “compilare” 9 ) che fa parte del vissuto quotidiano di Dante, Crespo utilizza prima un più generico “trabajar la lana”, salvo poi riproporre esattamente la rima fila – compila (hila – compila), e spiegare in nota che intende per “compilare” il gesto della parca Lachesi di tirare a sé il filo del pennecchio, mentre l’uso del castigliano non prevede altre accezioni del termine che quella della compilazione come assemblaggio ragionato di testi scritti. Inoltre nell’originale il verbo “compila” è riferito all’azione della parca Cloto, che assegna (“impone”) ad ogni uomo il pennecchio di filato del tempo che gli è concesso e lo prepara sulla rocca affinchè Lachesi lo fili fino a quando Atropo lo taglierà. La terzina 28-30, contiene alcuni pilastri della poetica crespiana: l’anima sua, ch’è tua e mia serocchia, venendo sù, non potea venir sola, però ch’al nostro modo non adocchia. 28 su alma, que de las nuestras es hermana, no puede ir sola, pues a ver no acierta 30 como nosotros si esta altura gana Al verso 28, il tema della fraternità tra le anime, descritto in precedenza, pare assumere una nuova sfumatura: non si tratta solo di un’ulteriore sottolineatura del fatto che Dio è l’unico padre di ogni anima. Il narratore e con lui il traduttore sanno che si è formato un trio di poeti. La “sororità” delle tre anime si fonda anche sulla comune vocazione poetica. Questa particolare agape nel nome dell’arte costituisce un motivo salvifico nell’universo crespiano, secondo cui la poesia è comunanza di spirito, coralità di voci in una voce individuale, forma personale di un intimo parnaso. Fraternità artistica, ascesi, nuova vista donata dal travaglio spirituale della poesia, e, quindi, un grado più profondo di conoscenza. L’imperfetto dantesco “non 9 Trarre la lana è il gesto specifico di chi “fila poco a poco e tira giù lo lino o la stoppa tanto che fa lo filo” (Buti), il termine conocchia indica originariamente la rocca stessa, cioè lo strumento usato per filare, ma si usava comunemente per significare il materiale posto sulla rocca per la filatura, più propriamente “pennecchio”. Il compilare, anch’esso termine tecnico, descrive l’atto di “ammassare il pennecchio di filato sulla rocca” (Siebzehner– Vivanti). 93 potea” si trasforma in un presente “no puede”, penetrando l’attualità vivente del poeta traduttore, mentre nei versi 29 e 30 il traduttore inserisce la sfumatura del raggiungimento di una meta dove Dante si limitava a registrare dei fatti: “non adocchia” è tradotto con “a ver no acierta”, e “venendo su” con “si esta altura gana”. Dei due verbi usati in traduzione, “ganar” produce il significato della conquista 10 , mentre “acertar” apporta il campo semantico del colpire nel segno, del trovare per intuizione fortunata la soluzione di un enigma a cui non si arriverebbe razionalmente, quasi una sorta di divinazione 11 . Questo senso richiama la descrizione paolina della conoscenza attraverso i sensi “per speculum in aenigmate” (1Cor 13, 12), mentre la conoscenza ultraterrena sarà quella immediata della visione diretta di Dio, suprema “altura” conoscitiva, che è già attuale nel modo di “adocchiare” delle anime di Stazio e Virgilio, libere ormai dall’impedimento del corpo, “fascia / che la morte dissolve” (Purg. XVI, 37-38). Il gerundio temporale dantesco (“venendo su”) è tradotto con una sfumatura ipotetica in spagnolo (“si”), quasi a istillare un dubbio sul privilegio straordinario di cui Dante è oggetto sottraendolo un po’ alla sfera d’azione del luogo in cui “si puote ciò che si vuole”, e affidando il raggiungimento della cima suprema allo Streben di cui la persona è capace con le sue sole forze, quindi soggetto alla condizione (“si”) della propria riuscita. Ancora a limitare l’azione provvidenziale, il Virgilio della Comedia spagnola non viene “tratto fuori” dal suo “luogo d’Inferno” (v. 31: “ond’io fui tratto fuor dell’ampia gola / d’inferno”) ma è l’Inferno stesso che apre la sua porta immensa (v. 31: “por eso abrió el Infierno su ancha puerta”), dove il senso della vasta e profonda cavità infernale viene cambiato nella bidimensionale ampiezza della “ancha puerta”, che riproduce attentamente il ritmo e l’accentuazione delle quatto sillabe che chiudono il verso dantesco, e indica con precisione la contiguità del limbo alla porta inferi. Questa traduzione richiama inoltre la visione evangelica della porta larga 12 che “conduce alla perdizione” (Matteo 7, 13). Un’inversa direzione, rispetto alla globale tendenza autonomistica nei riguardi dell’azione divina, si nota al verso successivo (vv. 32-33: “mosterrolli / oltre, quanto ‘l 10 Gana significa ‘desiderio’, e ganar ‘conquistare, ottenere’, e la voce gotica waidan da cui deriva gana indica proprio la fame (Cfr. Corominas, s.v. ganar). 11 Cfr. Moliner, s.v. acertar. 12 “Entrate per la porta stretta, poiché larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione, e molti sono quelli che entrano per essa.” 94 potrà menar mia scola”; “en cuanto es a mi escuela permitido, / por mi será su senda descubierta”): mentre in Dante l’ammaestramento della ragione umana è soggetto attivo del potere (“potrà menar mia scola”), in traduzione alla ragione è concesso di condurre fino ad un certo limite (“en cuanto es a mi escuela permitido”). Inoltre Dante premette (i versi risultano infatti in ordine inverso nella traduzione) l’affermazione determinata dello scopo per cui Virgilio lascia temporaneamente la sua sede infernale, e l’intenzione decisa di adempiere questa missione (“per mostrarli, e mostrerolli”), mentre in traduzione la premessa e condizione del “descubrir la senda”, è proprio la riserva sulle capacità della ragione stessa. Se il sostrato aristotelico-tomistico della mens filosofica medievale produce più fiducia nella ragione proprio in forza dei limiti che le sono posti, la mentalità post-simbolista risente ancora della reazione di rifiuto dell’onnipotenza della ragione imposta dal positivismo ottocentesco che si era rivelata in tutta la sua illusorietà. Il poliptoto dantesco “per mostrarli e mostrerolli” (v.32), non viene riprodotto dal traduttore che lo sostituisce con l’idea della scoperta della propria strada (v. 33: “por mí será su senda descubierta”): dove la ragione dantesca insegna la via, indica il cammino, in Crespo, la ragione e la sequela del maestro d’arte (“por mí” è agente, causa operativa della scoperta, si tratta dunque di Virgilio fuori dall’allegoria) disvela, nel senso fisico di togliere ciò che copre la vista (“descubierta”), un cammino che è già proprio del viator (“su senda”). Il “crujido” del verso 34 (“perché tai crolli”; “por qué ha crujido”), mi pare una sottile scelta fonetica per restituire l’onomatopea dei “crolli” della montagna del Purgatorio, ma il verbo crujir delimita al campo uditivo il fenomeno del terremoto, mentre il “crollo” è propriamente uno scuotimento percepito dai pellegrini con tutti i loro sensi. Un altro glorioso terremoto, quello causato da Cristo nella sua discesa agli inferi, era stato espresso in traduzione, in Inf. XXVI, 16-18 13 , dal verbo quebrar, ad indicare lo spezzarsi del suolo. Qui il suolo non si spezza, ma la montagna si scuote, e in spagnolo pare ruggire, per l’esaltazione di un’anima che ha compiuto il suo destino, e il fragore ultraterreno risuona insieme al grido unanime degli spiriti purganti. La sillaba onomatopeica dello scuotersi della montagna, la coppia velare sorda-vibrante (cr), 13 Inf. XXVI, 16-18: “e proseguendo la solinga via, / tra le schegge e tra ‘ rocchi de lo scoglio / lo piè sanza la man non si spedia.”; “Y al recorrer la solitaria vía / por el escollo de quebrado suelo, / sin las manos el pie no se valía.” 95 riecheggia cambiando in sonoro il tratto sordo della velare nella sillaba iniziale del grido delle anime (gr) (“han gritado a una”). Mi pare interessante, ancora, notare come Crespo ricostruisce in traduzione la complicata terzina 37-39: Sì mi diè, dimandando, per la cruna 37 Con pregunta colmó tan oportuna mis deseos, pues hizo la esperanza del mio disio, che pur con la speranza si fece la mia sete men digiuna. 39 que estuviese mi sed menos ayuna. L’arguzia della metafora dantesca del filo che entra esattamente nella cruna dell’ago, immagine geniale e straordinariamente concreta della perspicacia del maestro che interpreta puntualmente quale sia il pungolo della sete di conoscenza del discepolo, viene del tutto tratta fuori di metafora nella traduzione, che cerca di renderne l’aspetto di complicazione nello stravolgere l’ordine della frase in una costruzione con iperbato e ricalcando con perizia l’enjambement dantesco a sfondare il verso: l’oggetto, reso diretto e intensificato nel plurale (nel testo dantesco l’oggetto è indiretto e singolare “del mio disio”; “mis deseos”), è posto in incipit del verso successivo, preceduto, al verso anteriore, dal mezzo in prima posizione (“con pregunta”) cui segue il verbo prima del suo attributo (“colmò” e solo dopo “tan oportuna” riferito a “pregunta”). Una costruzione completamente rovesciata che richiede al lettore un surplus di attenzione e partecipazione nella lettura, ma che certo è ben lungi dal restituire la suggestività dell’immagine dantesca. La terzina 40-42 segna l’inizio della solenne spiegazione di Stazio sul funzionamento della sacra montagna, che occupa le successive undici terzine. Quei cominciò: «Cosa non è che sanza ordine senta la religione de la montagna, o che sia fuor d’usanza. 40 Él contestó: «No ocurre aquí alguna mudanza que no prevea ya la religión 42 de la montaña, y no sea de ordenanza. Nella sua prima parte, il discorso si riferisce alla fisica medievale per cui il cielo è incorruttibile e immutabile, mentre il mondo sublunare è soggetto a variare, alterarsi e corrompersi. L’idea che le vette dei monti più alti fossero immuni alle perturbazioni è mutuata dalla poesia classica; Dante però, ne trascende il significato puramente fisico per indicare la diversa qualità spirituale del Purgatorio, che si trova oltre la sfera dell’influenza terrestre sugli animi come sull’atmosfera (mentre l’antipurgatorio ne fa 96 ancora parte). La montagna del Purgatorio, oltre “la scaletta di tre gradi breve” si innalza nella terza regione dell’aria, descritta dalla fisica medievale come calda luminosa e libera dalle perturbazioni. Nella traduzione il concetto dell’incorruttibilità del cielo viene anticipato (“mudanza” v. 40) rispetto all’originale, dove il termine “alterazione” appare solo nella terzina successiva. Inoltre l’idea portante della “alterazione”, viene espresso una sola volta nell’originale, dove in traduzione è ripetuto tre volte: “mudanza” al v. 40, “alteración” al v. 43 e “altera el clima” al v. 51. L’anticipazione e l’insistenza sottolineano la rilevanza dell’idea nell’universo mentale contemporaneo, e in particolare nell’economia della gnosi crespiana. Dove il termine “mudanza”, e il concetto di alterazione, esprimono il senso dell’instabilità e corruttibilità del mondo sublunare, condizione in cui si può conoscere solo confusamente, il Purgatorio si pone come luogo di coincidenza armonica dell’apparente con il proprio significato, cielo immutabile, fisso nella sua verità senza veli. Come lo descriverà Matelda, il Purgatorio è caparra che Dio ha dato all’uomo della beatitudine eterna (“arra di pace” Purg. XXVIII 93). Luogo quindi di una pace sacra, in quanto voluta e tutelata da Dio stesso, dove non avviene alcuna alterazione che non sia in accordo con la sacra condizione della montagna (“la religione / de la montagna”; “la religión / de la montaña”), la RELIGIO LOCI. La traduzione ribadisce ed esplicita l’idea di una legge universale voluta come tutela della pace della “gente che piangendo canta” e nella sua pena si “rifà santa”: il termine “ordenanza” del v. 42 rafforzato dall’espressione “es siempre” del v. 45 rende dichiarato l’intervento di un’autorità (nella fattispecie chiaramente divina) e di una volontà normativa ed eterna nella regolamentazione del luogo sacro, dove in Dante si cita soltanto la consuetudine del luogo (“usanza”). Il resto del discorso di Stazio è fedelmente restituito nella traduzione, dove il traduttore si accosta al sistema scientifico dantesco e lo fa suo: la riproduzione della fisica dantesca richiede un grande sforzo tecnico nel tradurre e costituisce una preoccupazione di fedeltà del traduttore 14 . La terzina 55-57, che conclude la prima parte del discorso di Stazio, rivela dai modi espressivi che la sua conoscenza è ancora solo empirica: 14 A questo proposito cfr. la conclusione del racconto La Medalla de Florencia, riprodotto in appendice. 97 Trema forse più giù poco o assai; ma per vento che ‘n terra si nasconda, non so come, qua sù non tremò mai. 55 Más o menos, abajo habrá temblado cuando en la tierra algún viento se esconde; 57 mas, no sé cómo, aquí no ha trepidado. Stazio non conosce le cause della particolare condizione atmosferica e spirituale della montagna purgatoriale perchè non è ancora giunto alla condizione di anima beata. Questa parzialità di conoscenza viene riprodotta in traduzione nel futuro ipotetico (“habrá temblado”) del verso 55, e al v. 57 con l’espressione “no sé cómo”. I tempi verbali vengono però trasformati: il presente dantesco “trema” diventa un futuro anteriore con funzione ipotetica, mentre il passato remoto “tremò” viene ravvicinato in un passato prossimo e tradotto con il sinonimo “trepidar” che indica precisamente la causa sismica del tremare. Il verso 58 segna l’inizio della seconda parte del discorso di Stazio, che spiega cosa succede quando l’anima compie la sua purgazione. Tremaci quando alcuna anima monda sentesi, sì che surga o che si mova per salir sù; e tal grido seconda. 58 Este temblor de acá se corresponde con el sentirse un alma bien purgada: 60 si va a subir, el grito le responde. Per descrivere qui il fenomeno dello scuotersi della montagna, la traduzione oggettiva il tremare dantesco nel corrispondente sostantivo (“temblor”), che viene inoltre introdotto dal deittico “este”. Il verbo dantesco “tremaci” (trema qui, dove ci ha valore di avverbio di luogo) si scioglie in tre termini: “este temblor de acá”, in cui si verifica il passaggio dall’azione del tremare, al terremoto in sé, dove il fatto stesso della scossa sismica sbalza in rilievo rafforzato anche dalla doppia deissi, e aquisisce un carattere fortemente concreto. La causa spirituale del terremoto viene sottolineata in traduzione dall’istituirsi di una corrispondenza diretta (“se corresponde”) del tremare la terra con il sentimento dell’anima riguardo alla sua purgazione. Corrispondenza universale della montagna nella sua fisicità con lo spirito dei suoi abitanti: il canto di gloria risponde come grido unanime all’atto dell’anima che si muove per salire al cielo. L’espressione disgiuntiva del v. 59, “che surga o che si mova”, ha un valore specificativo nel testo dantesco, e un preciso riferimento alla condizione fisica in cui l’anima sta compiendo la sua espiazione: l’anima surge se era seduta o distesa a terra (avari, invidiosi), oppure si muove per salir su, mentre prima poteva muoversi solo nello spazio circoscritto della cornice che le era assegnata. La traduzione non riproduce 98 la disgiunzione, optando per l’espressione sintetica “si va a subir” ad indicare la definitiva ascesa al Paradiso dell’anima purgata. L’iter della salvezza, descritto nelle terzine 61-69, assume sfumature diverse nella traduzione, le quali tradiscono la distanza culturale, sul piano teologico, che separa Dante e il suo traduttore novecentesco. De la mondizia sol voler fa prova, che, tutto libero a mutar convento, l’alma sorprende, e di voler le giova. Prima vuol ben, ma non lascia il talento che divina giustizia, contra voglia, come fu al peccar, pone al tormento. E io, che son giaciuto a questa doglia cinquecent’anni e più, pur mo sentii libera volontà di miglior soglia 61 Sólo el querer demuestra que acendrada se encuentra ya, cuando a mudar convento invita al alma, y de él es ayudada. Ya el querer quiso, pero no el talento que acepta la justísima condena: tal pecar quiso, tal ame el tormento. Y yo, que ya he yacido en esta pena más de quinientos años, no tenía 69 libre querer de sede más amena Al verso 61 mi pare interessante rilevare la traduzione del concetto di “mondizia” con il participio “acendrada”, che, contenendo etimologicamente il verbo latino CINERĀRE, rendere cenere, implica una purificazione attraverso il fuoco, come l’affinamento dei metalli nel crogiolo, quasi anticipazione della catarsi finale di Dante attraverso la cortina di fuoco nella cornice dei lussuriosi in Purg. XXVII. Al verso 62 il traduttore omette l’espressione dantesca “tutto libero”, che riferita al volere ne definisce l’essenziale redenzione, come liberazione totale e perfetta (come nel verso “libero dritto e sano è il tuo arbitrio” in Purg. XXVIII, 143), per sostituirla con un nesso temporale generico (“cuando”) che cambia il preciso momento del compiersi del destino personale in un generico momento del tempo. Nello stesso verso, dove nell’originale la volontà liberata “sorprende” l’anima, la traduzione tralascia l’aspetto emotivo e la grande immagine della sorpresa che coglie l’anima nella sua estrema conversione, e trasforma la volontà in una sorta di esecutrice di un rituale protocollare che “invita” l’anima ad unirsi alla nuova compagnia dei beati (“a mudar convento”) e si fa sua aiutante. Invece, l’emistichio dantesco “di voler le giova”, sottende una grande profondità dottrinale, indicando la coincidenza, di cui l’anima prova gioia (“le giova”), tra la volontà liberata e il desiderio istintuale (il “talento” del v. 64) che è segno sicuro della raggiunta purezza. Dove, però, maggiormente emerge la distanza culturale accennata è nella traduzione del v. 65 in cui la “divina giustizia” è tradotta con “justisíma condena”. Alla contemplazione lieta e pacificante di Dio come somma giustizia, suprema salute delle 99 cose del mondo dilaniato dall’ingiustizia – ai tempi di Dante come ora – si sostituisce il paradosso doloroso del giudizio di Dio come condanna (“justísima condena”), seppure giusta, pur sempre un castigo per l’uomo che non gli rivolge più la fiducia del figlio, ma la riverenza diffidente dei progenitori scacciati dall’Eden. Ancora nello stesso senso di distanziamento culturale è da notare la traduzione del verso 68, dove si traduce il dantesco “pur mo sentii”, che esemplifica coerentemente la spiegazione teologica dei vv. 61-66, con “no tenía” che conferisce una sfumatura diversa al discorso dell’anima di Stazio. In Dante la “libera volontà”, cioè la redenzione totale dell’arbitrio, sopraggiunge solo dopo che l’anima ha trascorso gli anni della sua purgazione assegnati dalla “divina giustizia”, in quanto il “talento”, ovvero la propensione, il desiderio che può essere irrazionale, come fu orientato al peccato in vita, ora desidera scontare la sua pena. Questo percorso della volontà fa parte dell’ordine salvifico, e il processo è guidato dalla giustizia divina. L’anima “sente” la “libera volontà”, in seguito ad una divina ispirazione. Nella traduzione la salvezza dell’anima assume un accento di autonomia, non rimane nell’ambito dell’economia della giustizia divina, ma si istituisce una sorta di autogestione dell’anima che pare sottrarsi all’azione divina. Il “talento” non pare diretto da Dio, ma diventa soggetto di un’autonoma accettazione di una condanna in quanto ritenuta “giustissima” (v. 65), e l’anima che giace nella sua “doglia” non possiede (“no tenía”) essa stessa “libre querer” di trovarsi in un altro luogo, dove il verbo tener indica propriamente la relazione di possesso con qualcosa che appartiene al soggetto, senso che esclude qualsiasi ispirazione divina, alludendo semmai ad una conquista individuale dell’anima stessa. Seppure occorra sempre tenere presente che l’opzione di priorità che il traduttore accorda alla restituzione metrica rimica e fonica del testo causa lo snaturarsi di alcuni versi nel loro livello semantico, resta il fatto che la traduzione, se considerata indipendentemente rispetto al testo di partenza, costituisce un fatto letterario in sé. La scelta traduttoria è, quindi, comunque rivelatrice della personalità poetica e culturale del traduttore, ed è quindi del tutto legittima una sua lettura critica. La traduzione “cantar piadoso” del v. 71 (“però sentisti il tremoto e li pii / spiriti per lo monte render lode”; “por eso el terremoto se sentía / y de las almas el cantar piadoso”), mi pare esempio di equilibrio traduttorio, in quanto nell’originale sono gli spiriti a ricevere la connotazione di “pii”, mentre la traduzione omette la caratterizzazione delle anime stesse, recuperando però il senso della loro PIETAS nella 100 connotazione del canto. Al verso 72 (“a quel Segnor, che tosto sù li ‘nvii”; “que al Señor ser llevadas le pedía”) il “che” dantesco ha un valore augurativo, desiderio formulato dagli spiriti stessi, che si compia presto lo stesso felice destino di cui ora gode Stazio. La traduzione ricostruisce il discorso di Stazio e reinterpreta la sintassi trasformando in frase relativa l’augurio di Stazio per il compimento del destino delle altre anime dei purganti. La traduzione mantiene sempre un equilibrio degno di nota, in cui, pur nei rivolgimenti della sintassi, nessun elemento originario viene perduto. Osservando, come esempio, la terzina in cui Virgilio riprende la parola, si nota come seguendo un ordine diverso, tutte le immagini dantesche vengano riprodotte. E ‘l savio duca: «Omai veggio la rete che qui v’impiglia e come si scalappia, perché ci trema e di che congaudete. 76 «De la red que os envuelve al tanto quedo y del temblor, y del por qué esta gente 78 goza, y cómo se libra del enredo Il “savio duca” che apre la terzina al v. 76, appare solo nella terzina seguente al v. 79 tradotto come “guía prudente”, la “rete / che qui v’impiglia” in enjambement ai vv. 76-77 diventa la “red que os envuelve” del v. 76, l’espressione “come si scalappia” del v. 77 è recuperata in chiusura di terzina nell’espressione “cómo se libra del enredo” che scioglie in perifrasi l’espressività contratta del verbo dantesco. Ancora, il “perché ci trema” al v. 78, è anticipato dal “temblor” del v. 77, come anche il “congaudete”, che chiude il v. 78, che si scioglie nell’enjambement dei vv. 77- 78 “esta gente / goza”, espressione che non riesce però a riprodurre la collegialità del godere delle anime del Purgatorio racchiusa mirabilmente da Dante nel prefisso “con-”. Un grande ritratto della figura di poeta prende forma nelle parole in cui lo spirito di Stazio svela la sua identità nei versi 91-102. Stazio la gente ancor di là mi noma: cantai di Tebe, e poi del grande Achille; ma caddi in via con la seconda soma. Al mio ardor fuor seme le faville, che mi scaldar, de la divina fiamma onde sono allumati più di mille; de l’Eneida dico, la qual mamma fummi e fummi nutrice poetando: sanz’essa non fermai peso di dramma. E per esser vivuto di là quando visse Virgilio, assentirei un sole 91 Aún Estacio me llaman allá abajo: canté a Tebas, y luego al grande Aquiles, mas caí soportando este trabajo. Mis ardores sembraron las gentiles chispas – y ardí – de la divina hoguera en cuyas llamas se encendieron miles; me refiero a la Eneida, que ella era madre que me nutrió poetizando: sin la cual mi obra un dracma no valiera. Y en verdad por haber vivido cuando vivió Virgilio, un sol concedería 101 più che non deggio al mio uscir di bando» 102 sobre el tiempo que estuve aquí esperando». Identità poetica che precede quella personale, contenuta nel nome proprio, e segue l’anima come sua forma nell’aldilà, mentre il nome si ferma come spoglia mortale sulla terra. Al verso 91 il termine “abajo”, che traduce il “di là” dantesco, esplicita maggiormente la distanza tra l’anima purificata e la sua vita terrena che continua per il suo nome. Diversi elementi del discorso di Stazio risultano intensificati rispetto all’originale. Amplificata al v. 93 l’idea della poesia come carico doloroso (“caí soportando este trabajo” a fronte del dantesco “caddi in via con la seconda soma”), che ricorre più volte nella Commedia, dove “soportar” indica che il corpo stesso del poeta si fa punto d’appoggio su cui grava tutto il peso del “trabajo” poetico come doloroso tormento 15 . L’immagine della poesia come carico fisico che grava le spalle è presente anche nel De Vulgari Eloquentia: adunque sopra ogni cosa dicemo, che ciascuno debba piliare il peso della materia equale alle proprie spalle, acció, che la virtù di esse dal troppo peso gravata, non lo sforzi a cadere nel fango 16 . Allo stesso modo il traduttore amplifica l’intensità della fiamma virgiliana, ispiratrice della poesia di Stazio. Al v. 95 lo “scaldar” dantesco viene tradotto in “ardí”, mentre, dove il soggetto originale sarebbero le faville stesse, in traduzione il soggetto attivo diventa il poeta e dalla vicinanza al fuoco che scalda, si entra dentro la fiamma che arde. Nello stesso verso “la divina fiamma” diventa in traduzione una “hoguera” cioè un incendio di cui sono esplicitamente precisate le molte fiamme, private della connotazione di divinità (“la divina fiamma”; “en cuyas llamas”). Al v. 99 la traduzione focalizza l’attenzione sul valore dell’opera poetica propria (“mi obra”) e slitta l’immagine, da quella del peso della realizzazione costruttiva (“peso di dramma”) a quella del valore concretamente monetario (“un dracma”) di cui l’opera è oggetto esplicito. Nella terzina conclusiva del discorso al v. 100 l’espressione “en verdad”, assente nel testo di partenza, oltre ad essere un incipit proprio dei discorsi di Cristo nel Vangelo, pone le parole del poeta nell’ambito semantico della verità, e intensifica il desiderio che 15 16 Cfr. supra n. 2. De Vulgari Eloquentia, libro II, cap. IV. 102 Stazio sta esprimendo ai limiti della blasfemia: quello di aumentare il tempo della pena, che costituisce il giudizio di Dio su di lui, pur di aver conosciuto Virgilio in vita. Così i legami nel nome della poesia si trovano oggetto di eccezionalità anche nel campo del giudizio divino. E pure quest’anno supplementare di attesa nell’esilio Purgatoriale (“bando”), sembra costare di più al traduttore che non a Dante: il v. 102 “più che non deggio al mio uscir di bando” che esprime il tempo dovuto per giungere al termine del proprio esilio (“uscir di bando”), viene tradotto in “sobre el tiempo que estuve aquí esperando”, dove l’espressione “sobre el tiempo” rende l’idea di un tempo supplementare che innalza una barriera temporale sofferta come lunga e travagliata attesa (“que estuve aquí esperando” dove la perifrasi gerundiva, che occupa un intero emistichio, prolunga l’attesa) che vincola l’anima al luogo (“aquí”) del suo esilio (si noti però che la menzione dell’esilio, il “bando” dantesco, è omessa nella traduzione crespiana). Uno degli scopi 17 di questa traduzione è che una scena come quella della breve orchestrazione di sguardi, silenzi e sorrisi tra i tre poeti, eloquente e vibrante di emozione, indimenticabile nell’esperienza dei lettori di Dante nella sua lingua originale, entri a far parte del vissuto culturale e linguistico dei lettori ispanofoni contemporanei della Comedia, attraverso la sensibilità poetica del suo interprete, che funziona, tuttavia, come filtro non neutrale. Al v. 103 il gesto repentino del volgersi di Vigilio a Dante (“Volser Virgilio a me queste parole”; “Virgilio, a estas palabras, se volvía”) appare reso più lento in traduzione dalla posizione del verbo in chiusura di verso, dal tempo imperfetto che traduce il passato remoto dantesco, e dal frapporsi dell’inciso tra due virgole tra il soggetto e il verbo. Il tempo imperfetto e l’allitterazione della v, creano un effetto di ralenti e prolungano il gesto di Virgilio, che sembra voltarsi in assenza di gravità e con gesto ampio e prolungato, dove Dante descrive uno scatto improvviso. 17 Questa esplicita preoccupazione di rendere memorabile al lettore spagnolo la Commedia e inserirla nel suo proprio vissuto culturale è espressa in queste parole di Ángel Crespo: “había otro problema que me preocupaba – y sigue preocupándome […] : el de mantener el doble paralelismo (literal y conceptual) en aquellos versos que recuerda todo lector italiano de la Comedia y que desearía que fuesen recordados por los lectores españoles de mi tradución. He examinado cada uno de los períodos del texto con el propósito de determinar cuáles son sus palabras, sus versos y aun sus tercetos esenciales desde el punto de vista poético con el propósito de hacer todo lo posible por mantener en la traducción un cierto paralelismo doble o simple. No es que me propusiera descuidar el resto del período; simplemente me he tomado en él, sólo si eran necesarias, mayores libertades de léxico y sintaxis.” in La “Commedia” de Dante: problemas y métodos de traducción, cit., p. 611. 103 Il verso 105 (“ma non può tutto la virtù che vuole”; “mas no siempre el querer los actos guía”) legge con una sfumatura autonomistica, secondo la tendenza rilevata precedentemente in diversi casi, il fallo della volontà. Dove Dante esplicitamente afferma della virtù del volere, cioè della forza (virtus) della volontà, che essa “non può tutto”, come nuovamente rilevando la finitezza creaturale, che definisce l’uomo e lo pone ontologicamente al cospetto del suo creatore, il traduttore afferma innanzitutto la volontà (“el querer”) come guida dell’azione (“los actos guía”), trasferendo quindi il lettore in una sfera antropologica moderna, per cui l’uomo è faber suae ipsae fortunae. La definizione della volontà come “virtù che vuole” si concentra in traduzione nel sostantivo verbale “el querer”, dove il volere stesso risulta privato del sostegno dell’energia della mente e del cuore, propriamente la VIRTUS 18 ; mentre il “no siempre” indica uno smacco della volontà come guida dell’azione, il cui peso ricade sulla volontà stessa, laddove nell’affermazione dantesca “non può tutto”, pur in sé drammatica, si nasconde una fiduciosa consegna del limite della creatura tra le braccia salvifiche del suo creatore. Nei versi 106-108 è interessante notare come la traduzione propone un’inversione dei termini danteschi nella stessa direzione autonomistica rilevata in precedenza: ché riso e pianto son tanto seguaci a la passion di che ciascun si spicca, che men seguon voler ne’ più veraci. 106 que la pasión tan enlazada se halla con risa y llanto, que es el más sincero 108 quien, aunque quiera, menos los acalla. Nel testo di partenza, il riso e il pianto sono “seguaci” della passione, le vanno dietro, come sentimento di gioia o di dolore di cui essi sono manifestazioni esterne; nel testo di arrivo risulta invece la passione essere strettamente allacciata (“enlazada”) alle sue manifestazioni esterne, cioè, letteralmente, presa al laccio (ILLĂQUĔO) da “risa y llanto” e trascinata quindi nelle sue manifestazioni che il volere non riesce più a controllare, dove l’inciso concessivo “aunque quiera” (v. 108) ribadisce il mancato controllo della volontà sulla passione. Questa interpretazione viene a creare una sorta di retablo interior che rende plasticamente aggettante l’immagine del sorriso incontrollato che illumina il volto di Dante nonostante l’occhiata di Virgilio. 18 Cfr. Siebzehner – Vivanti s.v. virtù. 104 Le due terzine successive sono dedicate al sorriso di Dante come gioco di luce negli occhi. Io pur sorrisi come l’uom ch’ammicca; per che l’ombra si tacque, e riguardommi ne li occhi ove ‘l sembiante più si ficca; e «Se tanto labore in bene assommi», disse, «perché la tua faccia testeso un lampeggiar di riso dimostrommi?». 109 Yo le hice un guiño sonriendo, pero calló entonces la sombra y observóme los ojos, do el sentir anida entero. «Así corones tu obra», interpelóme, «¿por qué hace unos momentos tu semblante 114 de sonrisa un relámpago mostróme?» Anche qui si osserva l’equilibrio compositivo che regola la traduzione. Il sorriso di Dante è più che altro un’espressione degli occhi, come suggerisce il verbo “ammiccare”. In spagnolo il termine “guiño” traduce un movimento dei tratti del volto a cui partecipano gli occhi. E lo sguardo di interrogazione stupita di Stazio si dirige attentamente proprio agli occhi di Dante “do el sentir anida entero”. Questa traduzione del v.111 ripropone efficacemente l’immagine della mossa del sentimento che si insedia con energia negli occhi (il “ficcarsi” dantesco), vi pone il suo nido scegliendoli come sede dell’esterno manifestarsi dell’anima (“sembiante”) nella sua pienezza (dove Dante rafforza con l’avverbio “più” Crespo riproduce l’integrità del sentimento col termine “entero”). Il termine dantesco “sembiante”, come metonimia che indica “l’espressione del volto che rispecchia l’intimo sentire” (Siebzehner-Vivanti), viene svelato in traduzione nel termine “sentir” (v. 111), indice diretto e immediato del sentimento, salvo poi essere recuperato al v. 113 (“tu semblante”) proprio con il significato di volto espressivo di uno stato d’animo, come traduzione del dantesco “faccia”, voce più vasta per indicare un’apparenza che porta un messaggio. L’illuminarsi del volto con il sorriso è espresso in Dante nella mirabile concentrazione del verbo “lampeggiar”, che con massima economia racchiude in una sola parola tutta una similitudine: il breve sorriso è come un fulmine che rischiara per un attimo il volto di Dante. La traduzione scioglie l’estrema condensazione dantesca in una metafora de genitivo apuesto (“de sonrisa un relámpago”), dove si invertono le immagini del lampo e del sorriso: nel testo originale la visione del lampo genera ed evoca il sorriso, mentre nel testo spagnolo il sorriso evoca la similitudine del lampo in maniera meno trascendente. Nella grande scena dell’agnizione finale, mi pare di dover ancora sottolineare qualche dettaglio. Al verso 125 (“quel Virgilio dal qual tu togliesti”; “el Virgilio aquel 105 por quien tuviste”) il verbo togliere usato da Dante rimanda fortemente il lettore alla scena iniziale nella selva oscura in cui avviene un analogo riconoscimento meraviglioso di Virgilio (“Tu se’ solo colui da cui io tolsi / lo bello stile che m’ha fatto onore”; “eres tú sólo áquel del que he tomado / el bello estilo que me diera honor” Inf. I, vv. 86-87), creando così un parallelismo tra le due scene e conferendo a Stazio il ruolo di alter ego di Dante stesso. In traduzione il segno linguistico del legame tra i due testi, si perde per la diversa trasposizione del togliere dantesco: in Inf. I, 87 la scelta traduttoria cade sul verbo tomar mentre qui su tener; si noti inoltre, che Dante utilizza lo stesso tempo verbale, creando un’omogeneità di tempo tra sè e Stazio, dove invece la traduzione utilizza prima il passato prossimo (“he tomado”) poi il passato remoto (“tuviste”) per cui si caratterizza il tempo di Stazio come un tempo concluso e lontano, mentre la sequela artistica dantesca sarebbe ancora inconclusa e attuante nel presente. Ancora una piccola annotazione, che mi pare un’interessante spia del sistema gnoseologico cui si riferiscono reciprocamente Dante e il suo traduttore dei nostri giorni: ai vv. 127-128 (“Se cagion altra al mio rider credesti, / lasciala per non vera”; “Si a mi risa otra causa atribuiste, / olvídala, porque el motivo es / […] otro no había”) Dante dice di una supposta altra causa del suo sorriso “lasciala per non vera” dove in traduzione si trova l’espressione di esclusione “otro [motivo] no había” (v. 129). Se Dante appartiene ad un codice logico (ed etico) binario, in cui esiste una verità (rivelata) e il suo opposto, la menzogna, eterno bivio della libertà che sceglie coscientemente e conosce il contraccambio, cioè la possibilità di conoscere o di restare nell’ignoranza (eticamente la salvezza o la dannazione), il sistema logico (ed etico) moderno si presenta come una problematica deflagrazione di molteplici realtà centrifughe. Da qui che la traduzione odierna presenti un problema di scelta giusta tra i motivi del sorriso, mentre nel testo originale si trova una distinzione tra causa falsa e causa vera. Ai vv. 130-131 (“Già s’inchinava ad abbracciar li piedi / al mio dottor, / ma el li disse: «Frate”; “Él se inclinó para abrazar sus pies / y «No hagas tal», le dijo, «hermano amado”) l’aggiunta dell’attributo “amado” rafforza l’espressione di amicizia fraterna con cui Virgilio si rivolge finalmente a Stazio per opporsi al riconoscimento di superiorità che quest’ultimo vuole tributargli. La suprema giustizia dell’eterno parifica in dignità ogni anima, eliminando qualsiasi gerarchia umana. Nell’intensificazione crespiana, mi pare possibile percepire una particolare empatia con questo concetto, che si trova in profonda sintonia con la protesta morale della coscienza crespiana sofferente 106 per l’ingiustizia di una gerarchia schiacciante come quella instaurata dal totalitarismo del regime franchista. Il verso conclusivo del canto entra a pieno rango tra gli indimenticabili della Commedia, che il traduttore vuole ricreare 19 per il lettori ispanofoni, ed allo stesso tempo si presenta, ad un’attenta analisi, come una personale lettura traduttoria in cui si introduce una diversa sfumatura di senso rispetto al testo dantesco. Dove il verso originale (“trattando l’ombre come cosa salda”; “dando a una sombra cuerpo consistente”) indica chiaramente il drammatico ingannarsi di Stazio, analogo a quello altrettanto celebre di Enea che vuole abbracciare l’ombra di suo padre 20 , la traduzione spagnola usa il verbo “dare”. Il poeta assume quindi il potere demiurgico di dotare l’ombra di un corpo tangibile; si tratta inoltre dello specifico corpo consistente di una ombra determinata, cioè quella di Virgilio, maestro di poesia, e non, come nel verso dantesco di un inganno generalizzato riguardo a tutte “le ombre”. Oficio del poeta e sua drammatica opzione, l’operarsi per dare corpo a un simulacro incorporeo, che riecheggia una reminiscenza becqueriana della celeberrima Rima XI 21 , e si inscrive nella tradizione poetica simbolista e post-simbolista di cui Crespo più volte si dichiara debitore come poeta e interprete di poesia. 19 Cfr. supra, n. 17. Aen. VI, vv. 700-703 21 “– Yo soy un sueño, un imposible, / vano fantasma de niebla y luz; / soy incorpórea, soy intangible; / no puedo amarte. / – ¡Oh, ven, ven tú!”. 20 107 4. L’esilio nella profezia di Cacciaguida (Paradiso XVII) Il canto XVII del Paradiso, che numericamente si colloca al centro della cantica, conclude il trittico di Cacciaguida e, per le tematiche che affronta, costituisce una delle chiavi di volta del poema dantesco. L’inconsolata sofferenza privata di Dante, il suo esilio e l’ingiustizia di cui è oggetto, assumono, nella prospettiva del cospetto etterno, una doppia valenza metastorica: l’esilio storico diventa figura della vita stessa dell’HOMO VIATOR esiliato sulla terra e pellegrino verso la vera patria, che è la Gerusalemme Celeste, mentre, l’uomo giusto offeso dall’ingiustizia che comunque non lo abbatte (“tetragono ai colpi di ventura”) acquista, secondo il modello scritturale, la valenza profetica e cristologica di colui che denuncia la sopraffazione e si fa testimone di verità, e in questa, il senso più profondo del sacrato poema. Il poeta, dove prima l’eroe –al momento dell’incontro con Cacciaguida (Par. XV, 25-27) è evocato l’incontro nell’Ade tra Enea e suo padre Anchise (Aen. VI, 684-686)– è posto qui come archetipo dell’uomo davanti al destino e al significato più profondo della sua vita. La lunga frequentazione crespiana della poesia dantesca, giunge ad operare una sorta di fortunata osmosi, dove la traduzione assume il valore di un riattualizzarsi di significati vitali e poetici. La contingenza storica che vede Ángel Crespo esule nel tempo in cui traduce questi versi, dà al testo della profezia che Dante ascolta dal suo trisavolo una rilevanza di drammatica vivencia personale, che mi pare emerga nella traduzione. Paradiso; CANTO XVII Paraíso; CANTO XVII Qual venne a Climené, per accertarsi di ciò ch’avea incontro a sé udito, quei ch’ancor fa li padri ai figli scarsi; 3 Como se fue a Climene a asegurarse de lo que en contra suya había oído, él que a los padres hace escatimarse; 6 así yo estaba, y tal era sentido por Beatriz y la feliz lumbrera que poco antes por mí se había movido. 9 Y mi dueña: «La llama manda fuera de tu deseo», dijo, y que aparezca con tu estampa interior clara y entera; 12 y no porque el saber nuestro se acrezca con tu voz, mas por verte acostumbrado a hablar de sed y que otro agua te ofrezca». tal era io, e tal era sentito e da Beatrice e da la santa lampa che pria per me avea mutato sito. Per che mia donna «Manda fuor la vampa del tuo disio», mi disse, «sì ch’ella esca segnata bene de la interna stampa; non perché nostra conoscenza cresca per tuo parlare, ma perché t’ausi a dir la sete, sì che l’uom ti mesca». 108 «O cara piota mia che sì t’insusi, che, come veggion le terrene menti non capere in triangol due ottusi, così vedi le cose contingenti anzi che sieno in sé, mirando il punto a cui tutti li tempi son presenti; mentre ch’io era a Virgilio congiunto su per lo monte che l’anime cura e discendendo nel mondo defunto, dette mi fuor di mia vita futura parole gravi, avvegna ch’io mi senta ben tetragono ai colpi di ventura; per che la voglia mia saria contenta d’intender qual fortuna mi s’appressa; ché saetta previsa vien più lenta». Così diss’io a quella luce stessa che pria m’avea parlato; e come volle Beatrice, fu la mia voglia confessa. Né per ambage, in che la gente folle già s’inviscava pria che fosse anciso l’Agnel di Dio che le peccata tolle, ma per chiare parole e con preciso latin rispuose quello amor paterno, chiuso e parvente del suo proprio riso: «La contingenza, che fuor del quaderno de la vostra matera non si stende, tutta è dipinta nel cospetto etterno: necessità però quindi non prende se non come dal viso in che si specchia nave che per torrente giù discende. Da indi, sì come viene ad orecchia dolce armonia da organo, mi viene a vista il tempo che ti s’apparecchia. Qual si partio Ipolito d’Atene per la spietata e perfida noverca, tal di Fiorenza partir ti convene. Questo si vuole e questo già si cerca, e tosto verrà fatto a chi ciò pensa là dove Cristo tutto dì si merca. La colpa seguirà la parte offensa in grido, come suol; ma la vendetta 15 «Caro calcañar mío, tan alzado, que igual que entienden las terrens mentes que un triángulo de obtusos no es formado, 18 así ves tú las cosas contingentes antes que sean en sí, mirando al punto al que todos los tiempos son presentes; 21 mientras que con Virgilio iba yo junto subiendo el monte que a las almas cura y descendiendo en el mundo difunto, 24 oí decir de mi vida futura palabras graves, aunque yo me sienta tetrágono a los golpes de ventura. 27 Mi voluntad veríase contenta oyendo que fortuna es la que espero: que la flecha prevista es la más lenta». 30 Así a la luz le dije que primero me había hablado; y, cual Beatriz deseaba, lo que quería confesé sincero. 33 No con ambages, en que se enviscaba la loca gente cuando no había muerto el Agnus Dei que los pecados lava, 36 Mas con claras palabras y en experto latín, repuso aquel amor paterno en su sonrisa oculto y encubierto: 39 «Lo acaecible, que fuera del cuaderno de la materia vuestra no se extiende, está pintado en el mirar eterno: 42 necesidad de aquí no se desprende sino como del ojo en que se espeja la nave que por un río desciende. 45 De igual modo que llega hasta la oreja de dulce órgano el son, así yo ciencia tengo del tiempo que se te apareja. 48 Y, cual de su madrastra la inclemencia a Hipólito de Atenas alejara, así tú debes irte de Florencia. 51 Esto se quiere y esto se prepara, y muy pronto se hará lo que se piensa donde a Cristo se merca al pie del ara. A la parte ofendida, tras la ofensa, la culpa gritarán; mas la venganza 109 fia testimonio al ver che la dispensa. Tu lascerai ogne cosa diletta più caramente; e questo è quello strale che l’arco de lo essilio pria saetta. Tu proverai sì come sa di sale lo pane altrui, e come è duro calle lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale. E quel che più ti graverà le spalle, sarà la compagnia malvagia e scempia con la qual tu cadrai in questa valle; che tutta ingrata, tutta matta ed empia si farà contr’a te; ma, poco appresso, ella, non tu, n’avrà rossa la tempia. Di sua bestialitate il suo processo farà la prova; sì ch’a te fia bello averti fatta parte per te stesso. Lo primo tuo refugio e ‘l primo ostello sarà la cortesia del gran Lombardo che ‘n su la scala porta il santo uccello; ch’in te avrà sì benigno riguardo, che del fare e del chieder, tra voi due, fia primo quel che tra li altri è più tardo. Con lui vedrai colui che ‘mpresso fue, nascendo, sì da questa stella forte, che notabili fier l’opere sue. Non se ne son le genti ancora accorte per la novella età, ché pur nove anni son queste rote intorno di lui torte; ma pria che ‘l Guasco l’alto Arrigo inganni, parran faville de la sua virtute in non curar d’argento né d’affanni. Le sue magnificenze conosciute saranno ancora, sì che ‘ suoi nemici non ne potran tener le lingue mute. A lui t’aspetta e a’ suoi benefici; per lui fia trasmutata molta gente, cambiando condizion ricchi e mendici; e portera’ne scritto ne la mente di lui, e nol dirai»; e disse cose incredibili a quei che fier presente. 54 probará la verdad que la dispensa. 57 Todo lo que más amas, sin tardanza has de dejar; y es ésta la primera flecha que el el arco del destierro lanza. 60 Cómo sabe de sal probar te espera el pan de otros, y cuan duro es el arte de subir y bajar por su escalera. 63 Y lo que más la espalda ha de agobiarte será la mala y necia compañía en la que en este valle habrás de hallarte; 66 que ingrata, contra ti, loca e impía ha de volverse, pero de seguido ella, y no tú, sonrojaráse un día. 69 De su bestialidad, su cometido prueba dará; y así tendrás a gala hacerte de ti mismo tu partido. 72 Deberás tu refugio primero a la cortesía gentil del gran Lombardo que lleva el santo pájaro en la escala; 75 suave ha de serte su mirar gallardo y entre hacer y pedir, contra lo usado, lo primero será lo que es más tardo. 78 Con él verás a aquel que tan marcado vióse al nacer por esta fuerte estrella que por sus obras ha de verse honrado. 81 Las gentes no lo ven, pues no descuella por su niñez aún, que nueve años tan solo el cielo en torno de él destella; 84 y antes que a Enrique burlen los engaños del Gascón, su virtud ya enardecida de oro y afanes no sufrirá daños. 87 Que su magnificencia conocida ya será, e imposible a su enemigo será tener la lengua enmudecida. 90 Espera sus favores y su abrigo que habrá de transmutar a mucha gente, cambiando condición rico y mendigo. 93 Acerca de él, escribe esto en tu mente mas no lo digas», y me dijo cosas que increibles serían al presente. 110 96 «Estas hijo», explicóme, «son las glosas de lo que he dicho; y mira las insidias que, a pocos giros, no han de ser dudosas. Non vo’ però ch’a’ tuoi vicini invidie, poscia che s’infutura la tua vita vie più là che ‘l punir di lor perfidie». 99 No exciten tus vecinos en ti envidias; piensa que se enfutura más tu vida que el castigo debido a sus perfidias». Poi che, tacendo, si mostrò spedita l’anima santa di metter la trama in quella tela ch’io le porsi ordita, Luego que, con callar, dejó cumplida el alma santa la tupida trama 102 de la tela que yo le puse urdida, io cominciai, come colui che brama, dubitando, consiglio da persona che vede e vuol dirittamente e ama: yo comencé como hace aquel que clama, si duda, por consejo a una persona 105 que ve y quiere derechamente y ama: «Ben veggio, padre mio, sì come sprona lo tempo verso me, per colpo darmi tal, ch’è più grave a chi più s’abbandona; «Bien veo, padre mío, que se encona el tiempo contra mí, para golpearme; 108 que es más grave a quien más se le abandona. per che di provedenza è buon ch’io m’armi, sì che, se loco m’è tolto più caro, io non perdessi li altri per miei carmi. De prevención, por ello, debo armarme; y, si el lugar me quitan, más amado, 111 mis versos los demás no han de vedarme. Giù per lo mondo sanza fine amaro, e per lo monte del cui bel cacume li occhi de la mia donna mi levaro, Por el mundo sin fin acibarado y por el monte desde cuya cumbre 114 los ojos de mi dama me han alzado, e poscia per lo ciel, di lume in lume, ho io appreso quel che s’io ridico, a molti fia sapor di forte agrume; por el cielo después, de lumbre en lumbre, cosas llegué a saber que, si atestiguo 117 pondrán en muchas bocas acedumbre; e s’io al vero son timido amico, temo di perder viver tra coloro che questo tempo chiameranno antico». y si con la verdad me muestro ambiguo, no vivir entre aquellos ya deploro 120 que al tiempo mío llamarán antiguo». La luce in che rideva il mio tesoro ch’io trovai lì, si fé prima corusca, quale a raggio di sole specchio d’oro; La luz en que reía mi tesoro que allí encontré, brilló como corusca 123 rayo de sol en un espejo de oro, indi rispuose: «Coscienza fusca o de la propria o de l’altrui vergogna pur sentirà la tua parola brusca. y respondió: «Quien su conciencia ofusca con la vergüenza propia o con la ajena 126 será quien llame a tu palabra brusca. Ma nondimen, rimossa ogne menzogna, tutta tua vision fa manifesta; e lascia pur grattar dov’è la rogna. Pero toda mentira tú condena, y tu visión entera manifiesta; 129 que rascarse la sarna es cosa buena. Ché se la voce tua sarà molesta nel primo gusto, vital nodrimento lascerà poi, quando sarà digesta. Pues si al gusto tu voz se hace molesta al principio, dará buen nutrimiento 132 poco después, y no será indigesta. Poi giunse: «Figlio, queste son le chiose di quel che ti fu detto; ecco le ‘nsidie che dietro a pochi giri son nascose. Questo tuo grido farà come vento, che le più alte cime più percuote; Tu grito hará lo mismo que hace el viento que golpea las rocas más cimeras; 111 e ciò non fa d’onor poco argomento. 135 y esto de honor no es debil argumento. Però ti son mostrate in queste rote, nel monte e ne la valle dolorosa pur l’anime che son di fama note, Se te han mostrado, así, en estas esferas y en el monte y en la sima dolorida 138 las almas a la fama duraderas, che l’animo di quel ch’ode, non posa né ferma fede per essempro ch’aia la sua radice incognita e ascosa, que al ánimo del que oye no convida ni convence el ejemplo cuando tiene 141 la raíz ignorada y escondida, né per altro argomento che non paia». ni un argumento que sin fuerza suene». Come ho illustrato in precedenza la traduzione crespiana del poema dantesco si realizza nell’ambito di una straordinaria conformità del linguaggio traduttorio con quello del testo originale. Si tratta di un progressivo parallelismo che può dirsi raggiunto nella traduzione della terza cantica, e che si muove visibilmente sui binari delle parole cardine dei versi originali del poema, rielaborandone il contesto: i termini chiave, letteralmente riprodotti costituiscono la partitura del testo dantesco partendo dai quali si opera la trasposizione traduttoria. Cito ad esempio i versi 125-127 in cui è evidente il parallelismo centrale e la ricreazione del contesto dei termini chiave: indi rispuose: «Coscienza fusca o de la propria o de l’altrui vergogna pur sentirà la tua parola brusca. 125 y respondió: «Quien su conciencia ofusca con la vergüenza propia o con la ajena 127 será quien llame a tu palabra brusca. In generale, si può senz’altro affermare che, ad una lettura critica del testo della traduzione, si rende evidente, nella progressione delle cantiche, un processo di crescente assimilazione e aderenza al testo originale, per cui il traduttore opera nell’ambito di una sempre maggiore sapienza delle scelte interpretative con cui riproduce le immagini dantesche. Nell’economia di equilibri tra piena adesione al testo originale e autonomia della traduzione restano comunque alcuni casi interessanti di variazioni in cui il traduttore interviene portando nel testo una sfumatura diversa: la resa traduttoria del v. 3 “quei ch’ancor fa li padri ai figli scarsi” con “él que a los padres hace escatimarse”, l’avverbio dantesco “ancor” è trasposto nel presente del verbo, mentre si perde il dativo di vantaggio “ai figli”, e l’aggettivo “scarsi” riferito a “padri” è sostituito dal verbo escatimar. I padri diventano soggetto del lesinare. Il traduttore fa un uso pronominale del verbo che nell’uso normale è transitivo: il poeta–traduttore agisce come fictor del 112 suo sistema linguistico giungendo fino a forzarlo, come Dante che crea egli stesso il suo linguaggio e ne stabilisce l’uso. A questo proposito, occorre notare anche l’utilizzo da parte del traduttore di termini che non sono presenti nei dizionari, costruiti su calchi di parole che fanno comunque parte dell’uso: al v. 37 il termine “acaecible”, che traduce “la contingenza”, costruito sul verbo “acaecer” con l’aggiunta del suffisso –ble (dal lat. –IBILIS) che esprime la possibilità della realizzazione, col senso di “tutto ciò che può accadere”; ancora al v. 118 il termine “acedumbre” formato applicando il suffisso che indica accumulazione –umbre, all’aggettivo “acedo” (lat. ACETUM) che indica l’acredine che la testimonianza profetica delle verità apprese porrebbero in molte bocche. Il suffisso –umbre, oltre a rispondere alle esigenze rimiche, produce il senso di un’iperbolica accumulazione dell’acredine. Al verso 12 (“t’ausi / a dir la sete perché l’uom ti mesca”; “verte acostumbrado / a hablar de sed y que otro agua te ofrezca”) si trova un’ennesima ricorrenza del tema, tanto centrale quanto drammatico, della sete di conoscere che contrappunta tutto il pellegrinaggio dantesco come movente fondamentale del cammino. Il dantesco “dir la sete”, cioè esprimere la sete, è reso in traduzione con l’espressione “hablar de sed”, dove la sete diventa argomento del discorso. Mi pare interessante notare che la poesia crespiana è spesso metapoesia della ricerca gnoseologica, cioè proprio un “hablar de sed”: il poeta impedito dal limite impostogli dall’imperfezione dei sensi, mediatori della conoscenza terrena dice e ripete instancabilmente la sua sete nel tentativo di provocare la rivelazione del significato del mondo, che costantemente interroga. Al verso 13 (“o cara piota mia che sì t’insusi”; “caro calcañar mío tan alzado”) il termine dantesco “piota” è tradotto con “calcañar” in una ripresa letterale del termine. Il traduttore non interpreta, lasciando tutta al lettore l’operazione di traslazione del senso da quello letterale di “pianta del piede” a quello metaforico di radice dell’albero della stirpe. D’altra parte la traduzione perde il verbo “insusi” di conio dantesco e la sua forte espressività per un più ordinario “alzado”. Sono presenti comunque altri casi, nella traduzione del Paradiso, in cui i neologismi danteschi vengono ricreati per conservare questa particolarità stilistica del poema: così si recupera il verso 148 “dove il gioir s’insempra” di Par. puede el gozar parasiemprarse”, e nei versi 73 e 81 di Par. IX, X in “donde si ritrova “enela” per “inluia”, e “si me intúase como tú te enmías” riproduce il celebre “se m’intuassi come tu 113 ti immii”. In questo stesso canto XVII, al v. 98 il neologismo dantesco “s’infutura” è esattamente ricalcato in “se enfutura”. Alla sete di conoscenza delle “terrene menti” si contrappone la conoscenza immediata dei beati che contemplano “nel cospetto etterno” tutte le cose conoscibili nella loro piena coincidenza di senso, piena rivelazione di significato. Questo grado superiore del sapere è descritto in traduzione dal verbo spagnolo “ver”, (quando rivolgendosi al trisavolo Dante dice al v. 16 “così vedi le cose contingenti”; “así ves tú las cosas contingentes”) che esprime tutta l’immediatezza della percezione visiva. Ancora un accenno al dramma della conoscenza imperfetta degli antichi, prima della Rivelazione e Incarnazione del Verbo di Dio, che costituisce un nucleo centrale del poema dantesco, rappresentato nel dramma di Ulisse, di Virgilio e dei grandi del Limbo, si trova nei versi 31-33. Né per ambage, in che la gente folle già s’inviscava pria che fosse anciso l’Agnel di Dio che le peccata tolle, 31 33 No con ambages, en que se enviscaba la loca gente cuando no había muerto el Agnus Dei que los pecados lava La traduzione si muove qui in stretta aderenza al testo dantesco, nel conservare e riprodurre le parole cardinali della descrizione del caos gnoseologico del mondo precristiano con preciso riferimento all’oscura enigmaticità delle predizioni oracolari. Il termine “ambages”, è latinismo virgiliano per indicare parole oscure ed ambigue dell’oracolo della Sibilla cumana in Aen. VI 99; il dantesco “inviscava”, che indica il restare impaniati nell’esca, come un uccello preso al vischio, tratti in inganno e condotti su un cammino erroneo, è tradotto letteralmente con “enviscaba”, che possiede identico il significato tecnico dell’arte venatoria. L’espressione “gente folle”, in traduzione “loca gente”, che nell’economia dei rimandi interni del poema richiama il “folle volo” (“loco vuelo”) di Ulisse, stigmatizza nuovamente l’errore conoscitivo del mondo pagano, in cui drammaticamente anche i più grandi saggi erano relegati nell’impossibilità di conoscere la verità che non si era ancora rivelata, e con mezzi inadeguati si avventuravano a conoscere i misteri della divinità. La perspicuitas delle parole del beato trisavolo si pone invece in forte contrasto con la descrizione de “l’antico errore” (Par. VIII 6). Nell’espressione “experto latín” che traduce il dantesco “preciso / latin”, dove Dante descrive l’esattezza cristallina delle parole di Cacciaguida, Crespo rileva la 114 possibilità di conoscenza 1 che la profezia di Cacciaguida rappresenta per il suo ascoltatore e il fatto che le sue parole derivano dalla conoscenza profonda del tempo e del suo significato, che il beato contempla nella mente di Dio stesso. Vorrei, per inciso, annotare brevemente la resa del v. 36 (“chiuso e parvente del suo proprio riso”; “en su sonrisa oculto y encubierto”) in cui la coppia di aggettivi danteschi “chiuso e parvente” che descrivono la luce emanata dall’anima beata che contemporaneamente ne rivela il sorriso e ne nasconde il volto, è tradotta con “oculto y encubierto”, dove il sorriso luminoso vela le sembianze del beato e lo racchiude a proteggerlo come un baluardo difensivo 2 ; in modo improprio, perché il beato è nella teologia cristiana un’anima già vittoriosa sulla morte e sul male a imitazione del Risorto. Nel preludio del suo discorso (vv. 37-44), Cacciaguida chiama in causa un ulteriore grado di conoscenza, quello sommo e assoluto della prescienza di Dio, nella cui eterna sapienza è iscritta la vicenda storica di ogni individuo. La contingenza, che fuor del quaderno de la vostra matera non si stende, tutta è dipinta nel cospetto etterno: necessità però quindi non prende se non come dal viso in che si specchia nave che per torrente giù discende. Da indi, sì come viene ad orecchia dolce armonia da organo, mi viene a vista il tempo che ti s’apparecchia. 37 44 «Lo acaecible, que fuera del cuaderno de la materia vuestra no se extiende, está pintado en el mirar eterno: necesidad de aquí no se desprende sino como del ojo en que se espeja la nave que por un río desciende. De igual modo que llega hasta la oreja de dulce órgano el son, así yo ciencia tengo del tiempo que se te apareja. L’apparente caos e la molteplicità della storia si compone nella mente divina nell’armonia di un disegno provvidenziale in cui i fatti contingenti non sussistono isolati, ma nella prospettiva del loro compimento, e in questa prospettiva assumono un senso che li trascende. Così la dolorosa vicenda dell’esilio è vista coraggiosamente dal poeta, in una prospettiva ultratemporale, sullo sfondo della sua missione profetica e poetica che “s’infutura” attraverso i secoli, sovrastando le ristrettezze della “contingenza”. In un aforisma del 1978, in cui pare di leggere un’influenza proprio di questo insegnamento dantesco, Ángel Crespo scrive: “la bajada al infierno del escritor es la inevitable y necesaria inmersión en la problemática de sus estrechos tiempos, pero 1 Il termine “experto” indica chi ha fatto esperienza, cioè ha una conoscenza profonda di ciò che dice, e il termine esperienza esprime anche, nella poesia dantesca, la possibilità di conoscere. 2 Il verbo encubrir significa propriamente “ocultar, poner algo encima de una cosa para que no se la vea”. 115 quien no sale de ellos es un condenado”. Alla luce del discorso di Cacciaguida, questo aforisma assume un significato profondo: la “problemática de sus estrechos tiempos” è proprio la “contingenza” dantesca, che il poeta, in quanto uomo, deve necessariamente vivere e soffrire totalmente, ma la capacità di trascendere la contingenza, per comprenderla nella prospettiva globale del suo destino, è ciò che può riscattare la sofferenza della propria vicenda personale, le contraddizioni della storia, e la stessa capacità artistica, ricomponendole in una superiore armonia. La “dolce armonia” del v. 44 è tradotta dal termine “son 3 ”, mentre “dulce” diventa attributo dell’organo e solo di riflesso della musica da esso prodotta. Il termine “son” appartiene tipicamente al linguaggio poetico dei secoli d’oro, in particolare se ne trovano occorrenze indimenticabili nella canzone “Ad florem Gnidi” di Garcilaso de la Vega 4 e nell’ode a Francisco Salinas di Fray Luis de León 5 . In Garcilaso, il “son” è la voce miracolosa della poesia che, cantando la forza della bellezza dell’amata, riporta nel mondo l’armonia. In Fray Luis il “son divino” della musica eseguita dalla sapiente mano del maestro è eco armonica di una “no perecedera música”, voce del creatore che risuona nella bellezza della sua creazione e restituisce all’uomo la memoria della sua origine gloriosa. La sonorità aspra dei versi 46-48 (“Qual si partìo Ippolito d’Atene / per la spietata e perfida noverca, / tal di Fiorenza partir ti convene.”; “Y, cual de su madrastra la inclemencia / a Hipólito de Atenas alejara, / así tú debes irte de Florencia.”) si pone immediatamente in forte contrasto con quella “dolce armonia” del provvido disegno divino sul mondo. L’asprezza della rima in –erca, è riprodotta in traduzione dalle rime in –ara, mentre la durezza fonica del termine madrastra amplifica e anticipa la dura sentenza del verso 48 “así tú debes irte de Florencia” in cui gli accenti e i suoni dentali scandiscono il verso come colpi di tamburo. La traduzione rende il verso irto di suoni dentali e sibilanti, dove già il livello fonetico esprime la spietata durezza della condanna e l’ingiustizia dell’espulsione dal proprio contesto vitale. 3 Il termine son (dal lat. SONUS) indica specificamente “sonido que afecta agradablemente al oído, con especialidad el que se hace con arte” (Real Academia). Risulta essere un prestito dall’occitanico risalente al sec.XIII, come termine tecnico della poesia trobadorica. 4 Garcilaso, Canción V: “Si de mi baja lira / tanto pudiese el son que en un momento / aplacase la ira / del animoso viento / y la furia del mar y el movimiento”. 5 Fray Luis de León, Oda III: “A cuyo son divino / el alma, que en olvido está sumida, / torna a cobrar el tino / y memoria perdida / de su origen primera esclarecida / … / ¡Oh, suene de continuo, / Salinas, vuestro son en mis oídos”. Proprio in questa ode a Salinas, Oreste Macrí rileva reminiscenze dantesche nella sua edizione delle poesie di Fray Luis, Vallecchi, Firenze 1964, pp. 103-106. 116 Seppure nella traduzione della terza cantica, è minore l’intervento di appropriazione del testo di Dante, certamente la presenza del traduttore è costantemente viva e più che mai percepibile nei passi in cui egli si sente maggiormente coinvolto. Le terzine della profezia dell’esilio ne sono un esempio. Tu lascerai ogne cosa diletta più caramente; e questo è quello strale che l’arco de lo essilio pria saetta. Tu proverai sì come sa di sale lo pane altrui, e come è duro calle lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale. 55 60 Todo lo que más amas, sin tardanza has de dejar; y es ésta la primera flecha que el el arco del destierro lanza. Cómo sabe de sal probar te espera el pan de otros, y cuan duro es el arte de subir y bajar por su escalera. L’effetto di eco del verso 55 (“lo que más amas”) dilata l’intensità dell’amore e di conseguenza lo strazio del dover abbandonare le cose amate per l’esilio, recuperando nell’eco l’effetto psicologico dell’enjambement dantesco, ma lo spagnolo suona ancora di più come una cupa sentenza che grava sul capo del poeta. Infatti “has de dejar” che traduce “tu lascerai” trasforma il futuro semplice in una conjunción de obligación, evidenziando il carattere di imposizione ingiusta dell’esilio. L’aggiunta del dettaglio temporale “sin tardanza”, che non è presente nell’originale, aumenta il senso del dolore mortale per lo strappo improvviso dalle cose amate, la costrizione a lasciare tutto senza neanche avere il tempo di prepararsi a farlo. La parola “essilio” del verso 57, viene tradotta con il termine “destierro”, sebbene il termine “exilio” esista nell’uso spagnolo. Il “destierro” rende però maggiore giustizia al senso di essere strappati via forzatamente dalle cose amate, in quanto suggerisce proprio la privazione fisica della terra 6 , quel sentimento che profeticamente scriveva Crespo nei primi anni sessanta di essere “arrancado de cuajo a sangre y fuego 7 ”. Il verbo “tu proverai” del verso 58 è tradotto con la perifrasi verbale “probar te espera” fatalmente espansa nel tempo del verso. Dove nel testo dantesco, questo secondo futuro semplice pronunciato da un’anima che già gode la beatitudine celeste è soffuso di una relatività pacificante rispetto al tempo eterno del Paradiso, le due perifrasi spagnole (“has de dejar” e “probar te espera”) portano invece tutto il peso della dura condizione dell’esule. Lo stesso dramma si esprime nel sintagma “duro arte” che sostituisce il dantesco “duro calle”: “arte” come mestiere indica un’attività vòlta a un 6 7 La parola si compone infatti del prefisso privativo des + tierra. Ángel Crespo, Jardín botánico, da En medio del camino (1949-1970), in Poesía 1996, tomo 1, p. 206. 117 utile risultato, la creazione di bellezza, nel caso dell’Arte. Qui il doloroso paradosso sta nel fatto che il risultato dell’attività svolta è unicamente il tormento del dover scendere e salire “l’altrui scale”. L’alienazione del movimento infinito e privo di senso del “subir y bajar” è sottolineata dal possessivo “su escalera”: l’ambito in cui si muove l’esule non è di sua pertinenza, come non lo è il nutrimento (“pan de otros”). Al verso 66 (“ella, non tu, n’avrà rossa la tempia”; “ella, y no tú, sonrojaráse un día”), Dante allude a una sconfitta sanguinosa di un tentativo militare dei fuoriusciti Bianchi per tornare a Firenze, precisamente alla battaglia della Lastra del 1304, da cui Dante si dissociò. Questo preciso riferimento storico è perduto in traduzione per la scelta dell’espressione “sonrojaráse un día” che lascia intendere solo il rossore dovuto alla vergogna e sfuma nell’indefinito il riferimento temporale (“un día”). Si potrebbe parlare però, in questo caso, dell’utilizzo del termine “sonrojaráse” per il suo valore figurativo e fonetico secondo quell’“aura semántica” per cui si estende il significato della parola oltre le accezioni riportate nel dizonario 8 , per cui resterebbe l’allusione al sangue. Le tappe e il doloroso iter dell’esilio storico di Dante sono fedelmente rivissuti nella traduzione che dimostra una particolare capacità di aderenza al senso dantesco dei termini nella trasposizione linguistica. Ad esempio, il termine “processo” del v. 67 (“di sua bestialitate il suo processo”; “de su bestialidad, su cometido”), che indica la condotta dei compagni di esilio di Dante viene tradotto in “cometido” che dal verbo “cometer”, commettere, indica il MODUS OPERANDI, un agire delittuoso, dove il concetto dantesco è ripreso e interpretato con l’aggiunta della connotazione negativa del modo di procedere errato. Al verso 70 si trova la rima composta (“deberás tu refugio primero a la” in rima con gala, escala) commentata in precedenza9 . Al verso 81 (“son queste rote intorno di lui torte”; “el cielo en torno de él destella”), dove il cielo dantesco scandisce il tempo nel suo eterno essere vòlto dall’eterno fattore (il verbo dantesco è in forma passiva), la cosmologia crespiana presenta un cielo che, alchemicamente, distilla il tempo come da un grande alambicco. 8 Cfr. la lettera di Crespo da Mayagüez, dell’8 gennaio 1975, a Pedro Gimferrer riportata in appendice al volume. 9 Cfr. supra, p. 50. 118 Anche la descrizione delle virtù di Cangrande ai vv. 84-85, appare contemporaneamente, coerente al testo dantesco e reinterpretata: “parran faville de la sua virtute / in non curar d’argento né d’affanni”; “su virtud ya enardecida / de oro y afanes no sufrirá daños”. La virtù del magnanimo signore, che nel testo dantesco inizia a manifestarsi nei suoi primi segni luminosi, è resa nel suo divampare già evidente (“ya enardecida”) nel testo spagnolo. Nel verso seguente si spiegano i segnali della virtù, cioè il distacco (“non curar”) dal denaro (“argento”), che corrisponde alla carriera politica, e dalle imprese di guerra (“affanni”), mentre in traduzione la virtù diventa soggetto dotato di una forza tale da non subire i danni della cupidigia e della sete di possesso delle ricchezze. Le caratteristiche messianiche che Dante attribuisce a Cangrande, di liberale desfazedor de agravios (“per lui fia trasmutata molta gente”; “habrá de transmutar a mucha gente”), introducono al secondo nucleo tematico del canto, che è quello del valore profetico del poema. L’immagine del giusto, che il potere ingiustamente perseguita, trapassa, secondo il modello biblico, in quella del profeta che tale ingiustizia smaschera. Questo è propriamente il senso del poema dantesco, che si rivela attraverso le parole di Cacciaguida. Ángel Crespo osserva che “Dante no ocultaba que creía profética su misión de poeta 10 ”. Il v. 119 (“E s’io al vero son timido amico”; “y si con la verdad me muestro ambiguo”) racchiude l’insegnamento supremo dell’esule fiorentino: con la verità non è possibile scendere a compromessi, in straordinaria consonanza etica con quanto recita il motto unamuniano “antes la verdad que la paz”. In questa forma si ripropone la condizione dell’uomo “entre el Vacío y la Verdad 11 ”, l’instancabile lotta del poeta per testimoniare la Verità; dove l’unica alternativa alla verità sarebbe il vuoto. Non appena una scelta tra la menzogna e la verità, ma un’opzione radicale ed estremamente drammatica sull’orlo dell’abisso del vacuum, del puro niente, è l’estremo aut–aut della Verità. Il termine spagnolo “ambiguo” ripropone proprio questo significato dell’impossibile alternativa: nel sistema gnoseologico dantesco la verità non può essere equivoca, o ammettere interpretazioni relativistiche, anzi impone che le sia resa potente testimonianza. Coerentemente il v. 127 (“ma nondimen, rimossa ogne menzogna”) suona in traduzione “pero toda mentira tú condena”, in cui il giudizio 10 11 Á.C., Dante, profeta de un mundo mejor, in ID. Las cenizas de la flor ed. Júcar, Madrid 1987, p. 143 Ángel Crespo Sistema vertical, in Poesía 1996, tomo 1, p.319. 119 morale della condanna produce la figura del poeta giudice che si mostra chiaramente opposto alla menzogna. L’immagine dello sfolgorare dell’anima beata per la gioia del comunicarsi al pellegrino, vv. 122-123, si amplifica nella riproduzione traduttoria per il ripetersi del brillare (“brilló como corusca” a fronte del dantesco “si fè prima corusca”); dove nella traduzione l’anima emana luce propria oltre a riflettere, come uno specchio d’oro, la luce infusa in lei dalla contemplazione divina (“raggio di sole”) . Lo splendore è ancora dilatato dalla rifrazione del sole sull’oro (“rayo de sol en un espejo de oro”), per un’eccelsa preziosità della bellezza: il metallo più pregiato rifrange la luminosità più intensa. Il verso 128 (“tutta tua vision fa manifesta”; “y tu visión entera manifiesta”), costituisce la solenne investitura profetica di Cacciaguida nei riguardi di Dante come testimone del vero che gli è stato mostrato, e la missione profetica come senso definitivo e mozione principale di tutto il pellegrinaggio dantesco. In spagnolo l’accento grafico esalta la parola “visión”, perno del verso, mentre l’attributo “entera” propone il senso della testimonianza della verità, pur difficile, nella sua perfetta integrità. Inoltre se il testo originale recita “fa manifesta”, dove “manifesta” è attributo, cioè qualità dell’essere che il soggetto profeta deve conferire alla sua visione, in traduzione il manifestare è azione del profeta stesso come espressione verbale della sua conoscenza della verità. In questi versi la traduzione si realizza in una completa fedeltà al testo di partenza, nondimeno raggiungendo il risultato di un testo poetico autonomo. Le parole di Cacciaguida raggiungono il loro culmine ai versi 133-135: Questo tuo grido farà come vento, che le più alte cime più percuote; e ciò non fa d’onor poco argomento. 133 135 Tu grito hará lo mismo que hace el viento que golpea las rocas más cimeras; y esto de honor no es debil argumento. Il grande grido cosmico (il poema stesso) che prorompe alla fine della dolorosa presa di coscienza del proprio destino, e che, come vento impetuoso, percuote le vette più alte, incarna e raffigura il senso profetico del poema e il valore del s’infutura come onore supremo della testimonianza del vero che rende eterna la vita e l’opera dell’esule fiorentino trascendendo il suo dolore privato. Dopo questo culmine di pathos, il canto si conclude nel ragionamento logico di Cacciaguida con il tono pacato e discendente, “manso ruido d’agua corriente y clara”, 120 dell’andamento della nave che entra in porto. L’energia delle parole precedenti resta più accesa nella traduzione nella chiusa del verso 143, dove si traduce il dantesco “argomento che non paia” con “argumento que sin fuerza suene”, per cui lo smorzarsi dei toni danteschi è riacceso nei termini “fuerza” e “sonar”, come caratteristiche irrinunciabili del grido di un profeta contemporaneo laico che non può rimettere ad altri che a se stesso l’esito della sua missione. 121 5. La traduzione dei sonetti Contestualmente al discorso storico, biografico e poetico che Crespo svolge nella monografia Dante y su obra 1 vengono presentati in traduzione alcuni sonetti danteschi tratti dalle Rime, dalla Vita Nuova, e dal Fiore. Mi pare interessante considerarli brevemente come saggio di continuità e identificazione linguistico-formale del traduttore dopo sei anni 2 di convivenza con l’opera dantesca. A fronte dell’esperienza e dell’interiorizzazione della forma della terzina incatenata, quindi di un discorso poematico di ampio respiro, si pone qui la compatta individualità del sonetto, forma perfetta, conclusa in sé e rigidamente strutturata nella misura e nel metro. Inoltre mi pare di estremo interesse la dimostrazione di una raggiunta unità linguistica – che si nota in graduale formazione nel progredire della traduzione delle cantiche della Commedia – tra il castigliano moderno e il nascente volgare fiorentino, testimonianza di quell’universalità linguistica dantesca di cui parla T.S.Eliot 3 , un ritrovamento, nell’ambito originario del volgare tripharium 4 , di una condizione pre-babelica di conformità metacronica di lingue sorelle. Il sonetto che accompagna l’Epistola III a Cino da Pistoia 5 , costituisce un brano di “poesia dell’ineluttabile” (Contini), in cui Dante illustra la fatalità d’Amore, che arriva ad imprigionare l’arbitrio personale, e che trascina irresistibilmente nelle sue variazioni le facoltà raziocinanti. Io sono stato con Amore insieme da la circulazion del sol mia nona e so com’egli affrena e come sprona, e come sotto lui si ride e geme. Yo he estado con amor desde la hora en que el sol completó mi hora novena y sé cómo espolea y cómo frena y cómo, en su poder, se ríe y llora. Chi ragione o virtù contra gli sprieme, fa come què che ‘n la tempesta sona, credendo far colà dove si tona esser le guerre de’ vapori sceme. Quien razón o virtud contra él perora es cómo aquel que en la tormenta suena creyendo hacer que en el lugar que truena calle el vapor su guerra atronadora. Però nel cerchio de la sua palestra liber arbitrio già mai non fu franco, Pero donde se riñe su palestra el libre albedrío nunca ha sido franco, 1 El Acantilado, Barcelona 1999. La prima edizione di questa monografia (Dante, Dopesa, Barcelona 1979) segue di due anni la pubblicazione della traduzione completa della Commedia. 3 Cfr. supra cap. 1.3, p. 37. 4 De Vulgari Eloquentia, I, VII. Cfr. supra cap. 1.3, p. 37. 5 Dante Alighieri, Rima LXX, la traduzione di Crespo in Dante y su obra, cit., p. 41. 2 122 sì che consiglio invan vi si balestra. y el buen consejo en vano allí se muestra. Ben può con nuovi spron’ punger lo fianco, Bien puede herir con nueva espuela el flanco, que si un nuevo placer mi alma secuestra e qual che sia ‘l piacer ch’ora n’addestra, lo he de seguir, si a otro placer desbanco. seguitar si convien, se l’altro è stanco. Non sono molte le notazioni utili, oltre quella generale dell’equilibrato parallelismo dei testi, che riproduce anche identica la griglia delle rime (ABBA, ABBA, CDC, DCD) dove nelle quartine la rima in –eme / –ona viene trasformata in –ora / – ena, mentre nelle terzine si trova la stessa rima usata da Dante in –estra/ –anco. La traduzione, lontano dall’essere una riproduzione letterale, mostra un equilibrio compositivo che ricrea effettivamente un testo omologo, parallelo all’originale. La traduzione dei primi due versi mi sembra indicativa di una familiarità raggiunta, da parte del traduttore, con la poesia e la cosmologia dantesche. Nel primo verso, la perdita del rafforzativo dantesco “insieme” del complemento di unione, lascia spazio ad una maggiore estensione della perifrasi cosmologica che esprime il complemento di tempo. La perifrasi dantesca “da la circulazion del sol mia nona” viene allungata ed esplicitata in traduzione in una costruzione grammaticale diretta: “desde la hora / en que el sol completó mi hora novena”, cioè il nono anno di vita del poeta, dove gli anni del sistema tolemaico sono contati dai giri del sole intorno alla terra. Esemplare anche il caso del verso 5 dove il dantesco “sprieme”, che significa esprimere, mettere in campo 6 , trova nello spagnolo “perora”, attraverso il latino “PERORĀRE” un perfetto trasferimento di senso, che evidenzia anche la sfumatura del discorso dottrinale sostenuto con forza. Mi pare interessante notare che dove Dante muove dal latino per creare il suo volgare, è tornando al latino che Crespo crea la lingua poetica dantesca nel castigliano moderno. D’altra parte, lo spessore del linguaggio dantesco, in cui la creazione linguistica dà ad ogni parola la concrezione di una metafora, trova un certo appiattimento nella traduzione dove invece più spesso le parole indicano più astrattamente il concetto: ad esempio al v. 11 il verbo dantesco “balestra” (“si che consiglio invan vi si balestra”), perde il suo energico spessore metaforico, seppure nel massimo rispetto del significato nell’espressione crespiana “el buen consejo en vano allí se muestra” dove la lotta 6 Cfr. Siebzehner-Vivanti. 123 metaforica del “buon consiglio” contro la forza ineluttabile di Amore, perde in forza visuale nel più generico “farsi vedere” di quello stesso “buon consiglio”. Interessante anche la traduzione dell’ultimo verso, dove le esigenze della rima distanziano maggiormente la soluzione traduttoria dall’originale: il dantesco “seguitar si convien, se l’altro è stanco” diventa “lo he de seguir, si a otro placer desbanco”, dove la traduzione introduce una perifrasi de obligación ribadendo così l’inesorabilità della forza d’amore, e il verbo “desbancar”, che nel suo significato di “soppiantare”, possiede proprio l’accezione particolare di “sostituirsi ad altri nell’affetto di qualcuno”. Dalla Vita Nuova, Crespo cita e traduce 7 il primo sonetto, la presentazione di Dante al gruppo dei rimatori toscani, fedeli d’Amore. A ciascun’alma presa e gentil core nel cui cospetto ven lo dir presente, in ciò che mi rescrivan suo parvente, salute in lor segnor, cioè Amore. A toda alma cautiva y amador corazón, a quien va el decir presente, porque decirme su opinión intente salud en su Señor, que es el Amor. Già eran quasi che atterzate l’ore del tempo che onne stella n’è lucente, quando m’apparve Amor subitamente, cui essenza membrar mi dà orrore. Casi terciadas ya las horas, por el tiempo en que todo astro es reluciente, presentóseme Amor súbitamente, recordar cuya esencia me da horror. Alegre Amor me apareció oprimiendo Allegro mi sembrava Amor tenendo mi corazón, y en brazos sostenía meo core in mano, e ne le braccia avea madonna involta in un drappo dormendo. a mi dama bajo un paño durmiendo. Poi la svegliava, e d’esto core ardendo lei paventosa umilmente pascea: appresso gir lo ne vedea piangendo. La despertó, y el corazón ardiendo humilde y temerosa se comía: y él lloró cuando ya se estaba yendo. Anche in questo sonetto è interessante notare la riproduzione della griglia rimica, che ricalca lo schema dantesco, effettuando in questo caso un’interessante acquisizione linguistica delle rime dantesche: si noti la resa della rima in –ore che viene castiglianizzata in una rima in –or, e quella delle terzine avea / pascea che viene restituita con un fortunatissimo calco fonico e grammaticale nell’imperfetto spagnolo in –ía: sostenía / comía. La ricercata mimesi lessicale della traduzione si attua qui alla perfezione nell’uso dantesco dei gerundi con valore di participio presente, uso non piú attuale in italiano, ma peculiare dello spagnolo: tre dei quattro gerundi delle terzine sono quindi 7 Vita Nuova, c. III. La traduzione in Dante y su obra, cit., p. 56. 124 perfettamente trasposti nella traduzione, “tenendo”, “dormendo” e “ardendo” con “oprimiendo”, “durmiendo” e “ardiendo”. Ancora da notare come la sintassi fiorentina del duegento mostri zone omogenee al castigliano moderno: il relativo “cui” del verso 8, che non sussiste nell’uso attuale dell’italiano senza l’articolo determinativo, è invece il gemello del relativo “cuyo”, identità che produce un verso veramente equivalente a quello dantesco. Crespo traduce il sonetto Amore e cor gentil sono una cosa 8 , in cui Dante descrive la natura di Amore secondo la concezione della scuola stilnovista. Amore e ‘l cor gentil sono una cosa, sì come il saggio in suo dittare pone, e così esser l’un sanza l’altro osa com’alma razional sanza ragione. Falli natura quand’è amorosa, Amor per sire e ‘l cor per sua magione, dentro la qual dormendo si riposa tal volta poca e tal lunga stagione. Fiel corazón y Amor son igual cosa, tal como dice el sabio en su canción, y el uno sin el otro ser no osa, como alma racional sin la razón. Toma natura a Amor, si es amorosa, por dueño, y gentileza por mansión, y en su interior durmiendo ella reposa por tiempo breve o más larga estación. Si beldad cuerda dama manifiesta, la vista halaga, y quiere con ardor Bieltate appare in saggia donna pui, che piace a gli occhi sì, che dentro al core el corazón la cosa complaciente; nasce un disio de la cosa piacente; Y tanto dura en él, que a veces ésta le despierta el espíritu de Amor. e tanto dura talora in costui, E igual hace en la dama hombre excelente. che fa svegliar lo spirito d’Amore. E simil face in donna omo valente. In questo come nel caso seguente valgono le stesse osservazioni sulla mimesi traduttoria. Il sonetto Ne li occhi porta la mia donna Amore 9 tratta della capacità di Beatrice di risvegliare Amore in chi la contempla, e costituisce come una declinazione esperienziale o un’incarnazione storica della natura d’Amore espressa nei sonetti precedenti. Ne li occhi porta la mia donna Amore, per che si fa gentil ciò ch’ella mira; ov’ella passa, ogn’om ver lei si gira, e cui saluta fa tremar lo core, 8 9 Lleva a Amor en los ojos mi señora, con que ennoblece a todo cuanto mira; todos se vuelven al pasar, e inspira temor al que saluda, y le enamora; Vita Nuova, c. XX. La traduzione in Dante y su obra, cit., p. 57. Vita nuova c. XXI. La traduzione in Dante y su obra, cit., p.59. 125 sì che, bassando il viso, tutto smore, e d’ogni suo difetto allor sospira: fugge dinanzi a lei superbia ed ira. Aiutatemi, donne, farle onore. Ogne dolcezza, ogne pensero umile nasce nel core a chi parlar la sente, ond’è laudato chi prima la vide. pues, bajando los ojos, en tal hora por sus defectos, pálido, suspira: huyen delante de ella orgullo e ira. A honrarla, damas, ayudadme ahora. Todo dulzor y humilde pensamiento nace en el corazón que hablar la siente, y quien la ve primero es alabado. Decir o recordar es vano intento qué parece al mostrarse sonriente, Quel ch’ella par quando un poco sorride, pues milagro es gentil e inusitado. non si pò dicer né tenere a mente, sì è novo miracolo e gentile. Mi pare interessante notare qui, il caso della fortunata analogia semantica e sillabica tra il “bassare” dantesco e il “bajar” spagnolo: proprio nello stato nascente dell’italiano si trova il nucleo della fraternità e conformità linguistica con lo spagnolo. Dei sonetti del Fiore, Crespo traduce il CI e il CLVIII 10 : I’ sì so ben per cuor ogne linguag[g]io; Le vite d’esto mondo i’ ò provate: Ch’un’or divento prete, un’altra frate, Or prinze, or cavaliere, or fante, or pag[g]io, De memoria me sé todo lenguaje, pues las vidas del mundo yo he probado ora en cura, ora en fraile transformado, en príncipe, en señor, en niño o paje. Secondo ched i’ veg[g]io mi’ vantag[g]io; Un’altr’or son prelato, un’altra abate; Molto mi piaccion gente regolate, Ché co llor cuopr’ i’ meglio il mi’ volpag[g]io. Según lo que yo veo y lo que encaje una vez soy abad y otra prelado; los de la regla siempre me han gustado, que oculto zorro soy en su ropaje. Ancor mi fo romito e pellegrino, Cherico e avocato e g[i]ustiziere E monaco e calonaco e bighino; También romero he sido y peregrino, clérigo y abogado y justiciero, y fui monje y canonigo y beguino; E castellan mi fo e forestiere, E giovane alcun’ ora e vec[c]hio chino: A brieve mott’ i’ son d’ogni mestiere. y he sido castellano y forastero o bien joven o viejo mortecino; en dos palabras: todo oficio quiero. Il traduttore ritiene che la descrizione che Falsembiante fa di se stesso nel sonetto CI, sia una delle parti più interessanti del poema, per gli attacchi spregiudicati che contiene contro il clero e la corruzione del tempo, di cui il personaggio si serve per i suoi scopi. Falsembiante, modellato sul Fauz Semblant del Roman de la Rose, rappresenta il compendio dell’ipocrisia e della doppiezza dei frati degli ordini 10 Le traduzioni in Dante y su obra, cit., rispettivamente alle pp.69 e 70. 126 mendicanti, che ostentano povertà ma sono in realtà amici dei potenti e amanti della vita gaudente. In effetti il Fiore divulga così le accuse circolanti in Francia, tra gli intellettuali laici, contro gli ordini mendicanti dove dantescamente “si vaneggia” (Par. X, 96). Nel sonetto CLVIII, la Vecchia, nelle cui parole “la gracia y el desparpajo se unen a una radical inmoralidad 11 ” appare a Crespo come un autentico precedente della Trotaconventos dell’Arcipreste de Hita e della Celestina della tragicommedia rojasiana. I’ lodo ben, se ttu vuo’ far amico, Che ‘l bel valletto, che tant’ è piacente, Che de le gioie ti fece presente E àtti amata di gran tempo antico, Te alabaré, si quieres un amigo, que a ese joven, tan guapo y atrayente, que de las joyas hízote presente y hace tiempo que quiere estar contigo, Che ttu sì ll’ami; ma tuttor ti dico Che ttu no ll’ami troppo fermamente, Ma fa che degli altr’ ami sag[g]iamente, Ché ‘l cuor che nn’ama un sol, non val un fico. le ames también; pero también te digo que no debes amarle firmemente, sino que, amando a otros, seas prudente, que amor a uno no vale más que un higo. Ed io te ne chiedrò degl[i] altri assai, Sì che d’aver sarai tuttor guernita, Ed e’ n’andranno con pene e con guai. De otros te buscaré yo buena hornada y tú estarás de oro abastecida mientras sienten el alma traspasada. Se ttu mi credi, e Cristo ti dà vita, Tu tti fodraï d’ermine e di vai, E la tua borsa fia tuttor fornita. Si tú me crees y Cristo te da vida, de armiño y marta te verás forrada y siempre con la bolsa guarnecida. È interessante vedere come il traduttore restituisca la lingua del Fiore, eccezionalmente fitta di francesismi volutamente stridenti sul piano lessicale e sintattico, per la ricerca dantesca di un estremo sperimentalismo linguistico, senza dubbio attraente per un poeta come Crespo la cui ricerca espressiva prende le mosse nella postavanguardia del dopoguerra spagnolo. Eppure, la traduzione si riconduce ad un linguaggio sobrio di uso comune. Nel sonetto CI l’espressione dantesca “per cuor” calcata sul francese “par cœur” è resa in spagnolo con “de memoria”, il termine “prinze” al v. 4, con “príncipe”, il termine “volpaggio” del v. 8, dal provenzale “volpilhatge”, viene tradotto con “oculto zorro”. Nel sonetto CLVIII, traducendo la promessa della vecchia di procurare altri amanti all’amata, Crespo rende l’espressione “te ne chiedrò”, futuro sincopato calcato sul francese “querrai”, con “te buscaré”: in tutti 11 Ivi, p. 69. 127 questi casi il francesismo dantesco viene tradotto nell’equivalente spagnolo, senza dunque riprodurne l’effetto straniante. Nel complesso si può dunque affermare che la lunga osmosi traduttoria conduce ad un evidente e progressivo affinamento delle capacità del traduttore di captare e restituire lo spessore e la densità del significato della poesia dantesca; e se da una parte si perde inevitabilmente qualcosa del colore e del sapore del linguaggio dantesco (fortunatamente, vorrei dire, altrimenti sarebbe forse compromessa l’unicità della poesia dantesca), la ricreazione traduttoria si gioca comunque nei complessi equilibri per un risultato globale di accertata dignità e autonomia. 128 6. Osservazioni da una lettura comparata di quattro traduzioni spagnole della Commedia: Crespo, Mitre, Cheste e Gútierrez Ricordando che l’istanza fondamentale della traduzione crespiana della Commedia è quella di “incorporar con la mayor dignidad posible a la literatura española el incomparable poema dantesco 1 ”, occorre valutare il risultato della traduzione in termini di raggiunta autonomia del testo di partenza, che si pone come un testo linguisticamente efficace nel contesto linguistico-letterario spagnolo, leggibile di per sé e dotato di un’energia semantica propria, alieno a combinazioni sintattico-lessicali a metà strada tra l’italiano e lo spagnolo, imputabili a un concetto tutto esteriore di fedeltà alla lettera del testo. A questo scopo mi pare illustrativo fornire brevi esempi di paragoni con le storiche traduzioni della Commedia precedenti quella crespiana, con cui il poetatraduttore si è confrontato, quella del Capitán General D. Juan de la Pezuela, Conde de Cheste 2 , quella dell’argentino Bartolomé Mitre 3 e quella del poeta catalano Fernando Gutiérrez. Solo nel caso di quest’ultimo si tratta di un poeta traduttore. Riguardo a queste tre traduzioni, scrive Joaquín Arce nel 1965 4 : Entre las traducciones de la Divina Comedia, sigue teniendo la preferencia de los editores la versión métrica hecha en el siglo pasado por el Capitán General D. Juan de la Pezuela, Conde de Cheste, inaceptable para el gusto actual y hasta para algunos de sus contemporáneos que le motejaron de danticida. Mejor es, sin duda, entre las traducciones versificadas la del argentino Bartolomé Mitre [...] . No deben olvidarse traducciones más actuales en todos los sentidos, como la castellana del poeta catalán Fernando Gutiérrez. 1 Cfr. Crespo, La “Commedia” de Dante: problemas y métodos de traducción, cit., p. 609. Originario di Lima muore a Madrid. Fu un generale, politico conservatore e letterato, primo marchese de la Pezuela e primo conte de Cheste. Capitano dell’esercito spagnolo (1833), combatte contro i carlisti nella prima guerra civile. Contrasta la rivoluzione del 1848 e viene nominato nello stesso anno capitano generale di Madrid. Fu capo dell’esercito a Puerto Rico (1849), dove fondò la Real Academia de Buenas Letras, ed a Cuba (1853). Povera la sua opera originale – El cerco de Zamora, poema; Las gracias de la vejez, commedia; poesie varie –; traduce Tasso, Dante, Ariosto y Camoẽs (La Jerusalén libertada; La Divina Comedia; Orlando, furioso; Las Lusíadas). 3 Bartolomé Mitre (1821-1906), politico, militare e scrittore argentino, presidente della Repubblica (18621868). Si guadagnò con i suoi scritti e le sue opinioni politiche l’ostilità del dittatore argentino Juan Manuel de Rocas. Visse in esilio in Chile, Bolivia e Perú. In seguito fece ritorno in Argentina nel 1852, e prese parte alla disfatta di Rocas. 4 Cfr. Arce, Bibliografía hispánica sobre Dante y España entre dos centenarios, cit., p. 409. 2 129 Un primo spunto di paragone e giudizio fra scelte traduttorie diverse ci è offerto da Crespo stesso. All’interno del saggio Las metamorfosis de la especie humana en la Divina Comedia 5 , il traduttore analizza il caso presentato dalla terzina di Par. I, 73-75, dove l’interpretazione dell’avverbio “novellamente” offre lo spunto per una discussione ermeneutica e di critica traduttoria, attraverso il confronto con la traduzione di Fernando Gutiérrez 6 , ed un interessante spaccato del metodo interpretativo che presiede alla traduzione crespiana. 73 S’i’ era sol di me quel che creasti novellamente, amor che ‘l ciel governi, 75 tu ‘l sai, che col tuo lume mi levasti. Si yo de mí era sólo el que has creado 73 Si yo por mí era sólo el que creaste postreramente amor que el cielo riges, nuevo, amor que los cielos organizas tú lo sabrás, que con tu luz me elevas. 75 tú lo sabrás que con tu luz me alzaste. (Crespo) (Gutiérrez) Si tenemos en cuenta que Dante acaba de declarar su propia y, desde luego, temporal, y sólo poética, divinización tal vez sea posible interpretar que lo que el poeta se pregunta es si él era sólo el ser recién metamorfoseado, creado novellamente (hecho nuevo), o si conservaba su anterior naturaleza humana y terrenal; y la pregunta es tanto más lícita cuando los seres humanos no pueden volar y Dante estaba ascendiendo rapidísimamente hacia el cielo de la luna. Por otra parte, la interpretación de novellamente por “postreramente” que, basándose en los comentarios tradicionales 7 , da la versión española que hemos copiado anteriormente [quella di Gutiérrez], no tiene nada que rectificar desde el punto de vista de los mismos, generalmente admitido; pero yo creo necesario interpretarla –y traducirla– como “recientemente”, para lo que me apoyo entre otros en un texto de la Divina Comedia. En Inf. XXV, 139, se dice que la serpiente que ha sido objeto de una doble metamorfosis con Buoso Donati, y que ha adquirido la apariencia visual de este, “volse le novelle spalle” (volvió las espaldas nuevas o recientes como podría haber traducido 8 ), lo cual no quiere decir que fueron 5 In “Revista de Letras”, Mayagüez 1973, pp. 335-390. Crespo utilizza questa versione (La Divina Comedia, traducción de Fernando Gutiérrez, Plaza & Janés, Barcelona 1967) in endecasillabi sciolti per le citazioni dalle cantiche Purgatorio e Paradiso, delle quali nel 1973, data della prima pubblicazione di questo studio sulle metamorfosi, non aveva ancora intrapreso la traduzione. Cito in testo a fronte anche la posteriore traduzione crespiana a documentazione della riflessione suddetta. 7 Ángel Crespo si riferisce qui, per esempio, ai commenti del Sapegno e del Mattalia, che, come molti altri commentatori, interpretano l’espressione “ciò che creasti / novellamente” come “ciò che fu creato dopo il corpo”, cioè l’anima, spiegando quindi i versi come una domanda retorica di Dante: “se io ero soltanto quella parte di me che tu creasti per ultima (novellamente) cioè l’anima (o se ero anche il mio corpo), tu solo lo sai, o Dio, che mi sollevasti con la tua luce” (Chiavacci), secondo quanto scrive S.Paolo nella Lettera ai Corinzi, citata da Dante stesso nella sua Epistola a Cangrande laddove dice: “So che un uomo - non so se con il corpo o fuori dal suo corpo, Dio lo sa - fu rapito al terzo cielo e vide i misteri divini di cui all’uomo non è lecito parlare”. 8 In effetti la traduzione crespiana di questo verso risulta “Volvió su espalda nueva”. 6 130 lo último que adquirió su naturaleza, sino sencilla y llanamente, que eran nuevas, como producto de una metamorfosis recién ocurrida. […] Su vuelo [il volo di Dante] no es el del místico, sino el del ser que, metamorfoseado, puede, en efecto, volar materialmente. […] Dante tras haber sido deslumbrado, y hasta cegado temporalmente, por los resplandores celestiales, es capaz, cumplida su metamorfosis, de contemplar a Dios cara a cara, pues su nueva vista así se lo permite: “e di novella vista mi raccesi” (Par. XXX, 58). Obsérvese que el texto original habla de “novella vista”; a mi entender de una vista nueva, reciente, distinta por su naturaleza de la de que antes disfrutaba 9 . Questa riflessione crespiana, dimostra che, seppure certamente la dominante del testo su cui il traduttore punta le sue scelte è la restituzione del metro, della rima e del ritmo, non occupa un posto di minore rilevanza il lavoro di esegesi della poesia dantesca, che a sua volta presiede alle scelte traduttorie. A titolo di campione riporto qui anche la traduzione di Mitre 10 delle stesse terzine: 73 S’i’ era sol di me quel che creasti novellamente, amor che ‘l ciel governi, 75 tu ‘l sai, che col tuo lume mi levasti. 73 Si yo por mí era sólo el que creaste Si era sólo de mí lo que tú creaste, nuevo, amor que los cielos organizas tú lo sabes, ¡oh, amor!, que eres gobierno 75 tú lo sabrás que con tu luz me alzaste. cuando en tu luz al cielo me elevaste. (Crespo) (Mitre) Innanzitutto il problema oggetto della riflessione crespiana sopra citata viene qui completamente evitato dalla traduzione di Mitre che omette il termine dantesco “novellamente”. Inoltre la duplice anafora del “tú” nei versi 73-74 della traduzione di Mitre, che crea un’esagerata allitterazione di dentali, e l’esclamazione enfatica del vocativo “¡oh, amor!”, assenti dall’originale così come dalla traduzione crespiana, frenano e travisano il tono e la fonosintassi della terzina dantesca che possiede invece una speciale e luminosa fluidità. Quindi, seppure si può affermare che il discorso poetico viene riprodotto e se ne rispetta anche la forma metrica, è pure vero che importanti elementi significanti vengono del tutto tralasciati dal traduttore non poeta, mentre nella sensibilità poetica crespiana sono considerati decisivi veicoli della profondità della poesia dantesca. 9 Las metamorfosis de la especie humana en la Divina Comedia, cit., pp. 386-389. Per questa traduzione mi riferisco all’edizione La Divina Comedia, traducción en verso de Bartolomé Mitre, editorial Sopena, Buenos Aires 1944. 10 131 Propongo, di seguito, due casi che illustrano, nel paragone con le altre traduzioni citate il modus operandi crespiano. L’interesse speciale dei due esempi che propongo, è dato dal fatto che i versi citati stanno all’origine della riflessione crespiana sul tema delle metamorfosi come motivo antropologico strutturale della Commedia. Si tratta quindi di una traduzione anche ermeneuticamente ponderata. Il primo esempio è tratto dal canto delle metamorfosi dei ladri (Inf XXV 97-105) nel confronto tra le traduzioni di Cheste 11 , Mitre e Crespo. Calle el mismo Lucano, cuando toca de Sabelo el suceso y de Nasidio, y escuche atento lo que aquí se evoca. Taccia Lucano ormai là dove tocca del misero Sabello e di Nasidio, e attenda a udir quel ch'or si scocca. 97 Taccia di Cadmo e d'Aretusa Ovidio; ché se quello in serpente e quella in converte poetando, io non lo 'nvidio; Calle de Cadmo y de Aretusa Ovidio que si a áquel en serpiente y a ella en fuente 102 convierte cuando escribe, no le envidio; ché due nature mai a fronte a fronte non trasmutò sì ch'amendue le forme a cambiar lor matera fosser pronte.” que a dos naturalezas, frente a frente, no trasmutó de modo que ambas hormas 105 cambiasen su materia de repente. (Crespo) ¡Calle Lucano el canto donde toca del mísero Sabelo y de Nasidio, y escuche aquí lo que mi musa evoca! 97 ¡Calle de Cadmo y de Aretusa Ovidio; que si en dragón a áquel, y a esotra en fuente convirtió, poetizando, no le envidio! No hable de Cadmo y de Aretusa Ovidio, que si al uno en serpiente y otra en fuente 102 su musa convirtió, no se lo envidio; que jamás dos naturas frente a frente transformó de tal modo, que pudieran transmitir sus substancias de repente. (Cheste) pues jamás dos naturas, frente a frente, transmutaron su esencia con su forma, 105 ni en materia, de modo tan repente. (Mitre) Calle Lucano, que al cantar propaga los cambios de Sabelio y de Nasidio, que otro cambio los suyos deja en zaga. Nella prima terzina, si perde in tutte le versioni la metafora dantesca dell’arco che “scocca” la straordinaria freccia dell’arte poetica (“e attenda a udir quel ch’or si scocca”), e dove Cheste si limita ad una letteralità che quasi parafrasa il testo dantesco, aggiungendo gli elementi sottintesi nell’originale (“Calle Lucano el canto donde toca” che suona pleonastico a fronte di “Taccia Lucano ormai là dov’e’ tocca”) e svela la metafora dello “scoccare” con l’espressione “mi musa evoca”, Mitre si prende libertà 11 La Divina Comedia, traducción en verso de Juan de la Pezuela Conde de Cheste, R.A.E, Madrid 1868. 132 che mi paiono stravolgere la sobrietà e l’equilibrio del testo dantesco nelle due immagini, al primo e al terzo verso, del canto che “propaga” le metamorfosi di Sabello e Nasidio – che provoca anche un diffondersi del verso che invece nel testo originale ha un movimento rapido e ritmato (“omai là dov’e’ tocca”) – dove Dante usa il termine “tocca” che significa “trattare brevemente”; così come la traduzione “que otro cambio los suyos deja en zaga” che deforma completamente il testo dantesco, dove si legge l’invito del poeta ad ascoltare il suo straordinario racconto. La versione crespiana non presenta una particolare fedeltà esteriore, ed introduce anch’essa elementi variati rispetto all’originale: al primo verso l’aggiunta di “el mismo” dà un senso della proporzione del raffronto poetico che Dante fa tra sé stesso e i giganti della poesia classica che egli prende come modello; l’iperbato al verso 98, dove si perde l’attributo “misero” riferito a Sabello, gli dà una simmetria che lo rende verso di per sé, non solo come prodotto di un testo fonte cui sempre occorre riferirsi; infine l’aggiunta di “atento” al verso 99 ricalca appieno il senso del dantesco “attenda a udir” come “stia attento ad ascoltare”. L’introduzione delle due espressioni esclamative, assenti dall’originale, in Cheste, e la mancata anafora del secondo “taccia” in Mitre, così come il comune passaggio del “converte” dantesco dal presente al passato remoto (“convirtió”) mi paiono indici di una scarsa attenzione al testo dantesco, o forse di un’idea della traduzione come accessoria alla lettura dell’originale piuttosto che come un valore letterario in sé. Questa idea della traduzione mi pare anche spiegare al v. 103 l’uso del calco italiano “natura” in Mitre e Cheste, dove invece Crespo usa “naturaleza”. In questo senso si noti nella versione crespiana la voce “hormas” per “formas”, al v.104, licenza per non interrompere nell’occlusione fricativa il fluire del verso. La versione di Crespo combina in effetti gli stessi elementi delle altre due traduzioni, stessa rima, costruzioni analoghe a quelle usate da Cheste, conservando però il presente dantesco del “convierte” e risolvendo il gerundio originale “poetando” in un enunciato temporale “cuando escribe” che restituisce il senso continuativo e indefinito nel tempo del gerundio dantesco. Nell’ultima terzina citata, mi pare interessante che Crespo scelga di non usare il “jamás” delle altre due per tradurre il dantesco “mai”, che ostacola la sintassi del verso, optando invece per la costruzione “que … no” seguita dal verbo letteralmente dantesco “trasmutó”. In quest’ultima terzina ancora in Cheste ed in Mitre, mi pare si abbia uno stravolgimento del senso dantesco, da qui il giudizio che la fedeltà sia alla lettera, ma 133 esteriore al testo poetico. Dante descrive la ripugnante e straordinaria metamorfosi nella quale la forma dell’uomo assume il corpo serpentino e il serpente assume forma umana. Nel caso di Cheste, la traduzione del verbo “cambiar” con “transmitir”, indicando un passaggio di sostanze, come una propagazione contagiosa, non riesce a rendere la matericità dell’originale che esprime lo scambio contemporaneo fra due nature, Mitre invece omette il senso dello scambio delle materie parafrasando il testo dantesco in una locuzione opinabile e confusa: “jamás dos naturas, frente a frente, / transmutaron su esencia con su forma, / ni en materia, de modo tan repente”. I tre termini chiave danteschi “natura” “forma” e “materia” vengono qui riprodotti, ma il termine “natura” appare come un termine desueto e troppo italianeggiante, inoltre il discorso risulta pleonastico ed equivoco per l’aggiunta del termine “esencia”, assente dal passo in questione e che possiede, nella poesia di Dante, lo specifico significato di “ciò che è”, termine che designa Dio stesso, oppure il modo di essere di qualcosa 12 , avvicinandosi quindi semmai al concetto di “forma” e quindi risulta illogica la costruzione “transmutaron su esencia con su forma”, e ancora meno sostenibile il seguito “ni en materia”, da cui si capisce che la forma si tramuta in materia, dove nel testo dantesco si tratta di due forme che scambiano le loro materie. Tornando a Cheste, egli omette il termine “forme”, scardinando quindi alla base il discorso dantesco, per cui si ha la rappresentazione di due apparenze, umana e serpentina, poste una di fronte all’altra che si trasmettono “sus substancias” dove anche la traduzione del termine dantesco “matera” per “substancias”, altera il senso del testo dantesco e denuncia una scarsa attenzione del traduttore al codice culturale cui Dante fa riferimento. Questi termini (materia e sostanza) rappresentano, infatti, precisi riferimenti a concetti aristotelici, che il Medio Evo riprende nella Scolastica, e che non hanno valenza sinonimica: la “sostanza”, oggetto di trattazione nella Metafisica aristotelica, indica la struttura ontologica, l’essenza necessaria delle cose (e sostanze immobili prive di materia sono detti Dio e le intelligenze motrici), mentre la materia, oggetto di studio nella Fisica, è il materiale grezzo di cui sono composte le cose naturali, potenzialità pura che solo assumendo una Forma, principium idividuationis, acquista esistenza in atto 13 . 12 13 Cfr. Siebzehner-Vivanti, s.v. essenza. Cfr. Nicola Abbagnano, Dizionario di Filosofia, UTET, Torino 1968, s.v. Materia, Forma e Sostanza. 134 Il rispetto del sostrato filosofico dantesco, unito ad una grande considerazione della sintassi e della fonosintassi poetica, e l’espressione del testo d’arrivo nella lingua letteraria spagnola con un valore autonomo e non prettamente strumentale alla traduzione si ha dunque soltanto in Crespo, non a caso traduttore-poeta, cioè anche creatore ed animatore in proprio della letteratura e della lingua spagnola. Il secondo esempio è tratto da Purgatorio X 121-129, si confrontano le traduzioni di Mitre, Crespo e Gutiérrez. O superbi cristian, miseri lassi, che, de la vista de la mente infermi, fidanza avete ne' retrosi passi, 121 ¡Oh soberbios cristianos, desgraciados, que, enfermos de la vista de la mente confiáis en los pasos atrás dados, non v’accorgete voi che noi siam vermi nati a formar l'angelica farfalla, che vola a la giustizia sanza schermi? ¿No veis que somos larvas solamente hechas para formar la mariposa 126 angélica, que a Dios mira de frente?! Di che l'animo vostro in alto galla, poi siete quasi antomata in difetto, sì come vermo in cui formazion falla?” ¿De qué vuestra alma muéstrase orgullosa, si como insecto sois que está mal hecho 129 cual gusano de forma defectuosa? (Crespo) ¡Oh cristianos, soberbios, flacos míseros, que enfermos de la vista de la mente teneís confianza en regresivos pasos! 121 ¡Oh soberbio cristiano, fatigado, que con la vista de la mente insana, caminando hacia atrás vas tan confiado! ¿No veis que somos larvas que han nacido para formar la mariposa angélica que a la justicia vuela sin obstáculos? ¡Gusanos somos de la especie humana, para informar celeste mariposa 126 que vuela a la justicia soberana! ¿De qué el ánimo vuestro en alto flota si casi sois insectos defectuosos cual gusano que no llegó a formarse? (Gutiérrez) ¿Por qué gallea tu ánima orgullosa? Tú eres un entomoide contrahecho, 129 abortado con forma defectuosa. (Mitre) Occorre innanzitutto osservare che Gutiérrez evita completamente il problema della rima incatenata, e pare anche porre poca attenzione all’accentazione degli endecasillabi danteschi, traducendo con endecasillabi sdruccioli i vv. 121 e 126, fatto che altera il ritmo dell’exclamatio dantesca. Questa alterazione è certamente determinata dalla scelta di prestare fedeltà alla lettera del testo. Infatti, nel verso 121 Gutiérrez riproduce la dittologia dantesca in “flacos míseros” (“miseri lassi”), intendendo il termine “lasso” per “stanco”, come anche Mitre (“fatigado”), perdendo però il senso sinonimico dei termini originali, dove “lasso” è usato nel senso di “infelice”. Lo spostamento dell’attributo “superbi” dopo il termine “cristiani”, con il 135 passaggio da apposizione del vocativo ad attributo mi pare limitare l’universalità dell’apostrofe dantesca, che si rivolge a tutti i “superbi cristian”, e non solo a “quei cristiani che sono superbi”, non considerando quindi la superbia come il più radicale e tipicamente umano dei peccati, ma come difetto di alcuni. La soluzione di Mitre del passaggio dal plurale dantesco ad un singolare che vuole universale mi pare piuttosto infelice. La traduzione crespiana calca precisamente la vocazione dantesca ai “superbi cristian” (“Oh soberbios cristianos”), e sostituisce poi la dittologia dantesca “miseri lassi” con il termine “desgraciados”. Questa soluzione è sillabicamente felice, in quanto consente al traduttore di recuperare la sillaba aggiunta al trisillabo “cristianos” rispetto al bisillabo originale “cristian”, con le quattro sillabe di “desgraciados” al posto delle cinque di “miseri lassi”. Inoltre il termine “disgraziati”, assente dal verso originale, introduce comunque un significato del tutto cogente all’invettiva, anche se forse esprimendosi in modo meno misericordioso rispetto al tono dantesco, intessuto di pietà, che è quello della lontanaza dalla grazia di Dio nella schiavitù del peccato di superbia. Riguardo al verso 123, vorrei osservare come i tre traduttori restituiscono la sintesi dantesca “retrosi passi”, che descrive un camminare protervo che è in realtà un indietreggiare. In tutti i casi si ha un appiattimento del termine dantesco “retrosi” tanto efficace quanto forse irripetibile: il poeta catalano sceglie con “regresivos pasos”, il termine più appropriato al significato dantesco, per una soluzione felice anche metricamente in quanto ricalca esattamente anche lo schema accentuativo dell’endecasillabo dantesco in questione 14 –occorre però notare che Gutiérrez opera svincolato da esigenze rimiche–, e riproduce letteralmente anche l’espressione “fidanza avete” in “tenéis confianza”; Mitre parafrasa il verso, sciogliendo il termine “retrosi” nell’espressione “caminando hacia atrás” e l’espressione “fidanza avete” in “vas tan confiado”; Crespo, obbligato certamente dalla scelta della rima in ados del precedente “desgraciados”, risolve con “confiáis en los pasos atrás dados”, anche lui quindi scioglie la sintesi dantesca del termine “retrosi” nella descrizione di passi fatti all’indietro, eliminando l’aspetto della presunzione del credere passi avanti dei passi che si vedono chiaramente indietreggiare. 14 Si tratta di un endecasillabo canonico con accento di 4a , 8a e 10a. 136 La terzina 124-126 assume, nella traduzione di Mitre, un tono retorico del tutto estraneo alle parole di Dante che sono piuttosto un accorato appello a quella “vista de la mente” offuscata dalla superbia, espresso infatti in una forma di grido interrogativo. Mitre trasforma la frase da interrogativa a esclamativa, e omette l’implorazione dantesca “non v’accorgete voi …?”. In questo modo il richiamo dantesco diventa una dichiarazione dottrinale, piuttosto pedante, espressa con inversioni retoriche (“gusanos somos”) e la costruzione desueta del verbo “informar” per esprimere il dantesco “formare”. Il risultato è che la lingua del traduttore, vecchia di appena due secoli, risulta al lettore odierno più lontana e desueta di quella di Dante. Gutiérrez in questo caso, sacrifica alla letteralità della traduzione anche il metro e l’andamento del verso per una soluzione che ha della parafrasi, creando poi l’endecasillabo sdrucciolo, commentato sopra. Crespo riprende la traduzione di Gutiérrez per la prima parte del verso (“No veis que somos larvas”), sceglie però di isolare l’immagine della “larva” nel verso, come nell’originale, e la evidenzia con l’aggiunta dell’avverbio “solamente”, che consente poi la rima in “frente” a conclusione di terzina trasformando il verso dantesco “che vola a la giustizia senza schermi” con “a Dios mira de frente”, dove si svela la metafora della Giustizia con Dio, e lo stato “senza schermi”, diventa lo stato privilegiato dei beati che hanno una conoscenza immediata di Dio. Si noti anche come Crespo immetta con disinvoltura dei tratti stilistici come, in questo caso, l’enjambement “mariposa / angélica”, che non corrispondono precisamente al passo originale del testo fonte, ma rispondono ad una logica di stile interna alla traduzione ed oggetto di approfondita analisi da parte del traduttore 15 , che, come abbiamo visto in precedenza, vuole conferire alla traduzione della Commedia carta di autonomo valore e diritto di cittadinanza nella letteratura spagnola 16 . Rispetto all’ultima terzina che prendo in analisi, il comportamento dei tre traduttori è analogo e coerente a quello dimostrato finora: Gutiérrez permane nella sua limitata fedeltà testuale, Crespo non disdegna alcune scelte del poeta catalano, ma combina gli elementi con un equilibrio compositivo di maggior valore, anche se in entrambe le traduzioni il dantesco “antomata”, che rappresenta come vedremo il nodo della traduzione di questa terzina, viene tradotto con “insecto”, cadendo nell’equivoco 15 Cfr. supra, cap. 2.1, riguardo alla tecnica crespiana della traduzione. Si pensi al commento di Macrí in una lettera personale al traduttore riguardo alla traduzione dantesca: “ya me parece un clásico”. Lettera dell’11 novembre 1976, cit. supra, cap. 1.3, p. 37. 16 137 (diffuso nella critica dantesca dal Landino in poi 17 ) che questo termine sia un grecismo errato per “entoma”, che significa appunto insetto. In realtà si tratta di un termine fedelmente ripreso dalle versioni latine di Aristotele che Dante usava, e che così trascrivono il greco “automata”. Il vocabolo indica un’infima specie di vermi che nascono non per generazione ma per caso dalla terra putrefatta, e non si riproducono se non casualmente e con prole difettosa. Stupefacente la traduzione di Mitre: “eres un entomoide contraecho, / abortado” (sic!) dove il termine “entomoide”, assente dall’uso di per sé, risulta una neoformazione dall’elemento prefisso greco “entom-”, insetto, ed il suffisso “-oide”, dal greco “eîdos”, forma. In quanto agli altri due termini, “contrahecho” e “abortado”18 , che per suono e colore sembrano assurdamente rituffarci per un attimo nell’abisso infernale che il pellegrino ha lasciato da tempo dietro di sé, traducono le espressioni dantesche “in difetto” e “in cui formazion falla”, rendono contorto il senso della terzina originale che svolge invece il suo ragionamento con una chiarezza perfetta, in cui ogni parola è essenziale strumento di conoscenza per il lettore e dà nel segno del suo esatto significato. In conclusione possiamo dire di aver constatato come le traduzioni con cui Crespo si misurò, e che gli ispirarono la decisione di intraprendere la sua traduzione della Divina Commedia mutilano effettivamente il testo dantesco: nel caso di Gutiérrez, in una traduzione tutto sommato coerente al testo, si ha la grave perdita del sistema rimico dantesco per un risultato che relega questa traduzione ad un ruolo strumentale, senza la carte per entrare a far parte del “acervo literario de su lengua”, pretesa che invece anima la traduzione crespiana. Nei casi di Mitre e Cheste, la traduzione pur rispettando lo schema metrico dantesco, è spesso macchinosa, si limita ad un’esteriore fedeltà alla lettera a cui però non corrisponde un’adeguata resa dello spessore culturale sotteso alla poesia di Dante, e inoltre rinchiude la sua forza dirompente e la sua incomparabile ricchezza linguistica in una lingua già invecchiata e superata, che non è 17 Cfr. il commento di A. Chiavacci Leonardi a Purg. X, 128. Il termine contrahecho, letteralmente “contraffatto”, applicato a persone può significare “jorobado o torcido”. Moliner specifica però che questa seconda accezione è alterazione del termine “contrecho” forse per influenza del verbo “contrahacer”, che possiede appunto il significato di contraffare, imitare. Il secondo termine, “abortado”, participio passato di “abortar”, è usato qui per il suo significato di interruzione di un processo di sviluppo. Entrambi i vocaboli, come nel caso del termine “entomoide” del verso precedente, sovraccaricano i due versi rendendoli sgraziati e contorti. 18 138 quindi capace di parlare al lettore di oggi come la poesia imperitura ed universale della Commedia. 139 Capitolo 3. Ángel Crespo interprete 1 di Dante 1. I saggi brevi Ai fini di una testimonianza della ricezione dell’opera dantesca nella mens del poeta-traduttore spagnolo contemporaneo, sono degni di attenzione gli studi di critica dantesca 2 di cui questi è autore, i quali non vengono qui commentati come contributo alla filologia dantesca, ma come manifesto di una sensibilità poetica contemporanea nel suo personale confrontarsi con il paradigma esistenziale e poetico di Dante Alighieri. Ogni ripresa implica una selezione intenzionale e consapevole, frutto di un criterio e di una particolare Weltanschauung. I tratti della vita e dell’opera dantesche che il poeta spagnolo predilige, ne costituiscono, quindi, un’interpretazione, che risulta rivelatrice del significato e del valore che l’opera dantesca assume all’interno dell’universo poetico crespiano. L’immagine di Dante che si forma nello spirito del suo traduttore spagnolo durante la “larga intimidad” che presuppone lo studio e la traduzione della Commedia, serve a fare luce sulla personalità poetica crespiana, chiarisce le movenze che generano il processo di identificazione e appropriazione (il tipo di attenzione rivolta al testo oggettivo) e la spinta alla simbolizzazione (il significato simbolico generale che il testo dantesco assume nell’universo poetico crespiano). Il momento creativo e quello ermeneutico sono inscindibili nella personalità artistica di Ángel Crespo. Come rileva Bruno Rosada 3 , infatti, una traduzione che sia anche interpretazione di un autore non avviene se non c’è un’accurata conoscenza che consente di realizzare un’adeguata 1 Il termine greco ermenèuthike teknè che designa l’arte di interpretare, possiede il plusvalore dell’interpretazione ermetica di un messaggio divino, e pone l’interprete sotto il patrocinio del dio Ermes. 2 Questi studi crespiani di critica dantesca non sono prettamente inerenti alla riflessione traduttoria ma approfondimenti ermeneutici. Più che di pubblicazioni a carattere scientifico, si tratta di studi che rispondono al desiderio dell’autore di divulgare il grande significato dell’opera dantesca. Las metamorfosis de la especie humana en la Divina Comedia, in “Revista de Letras”, Mayagüez 1973, pp. 335-390; El universo de la Divina Comedia, metáfora moral, Lecturas sobre Humanidades, Edades Antigua y Media, in “Cuadernos de Artes y Ciencias”, Universidad de Puerto Rico, Mayagüez 1985, pp. 337-360; Lo dantesco, in Las cenizas de la flor, ediciones Júcar, Madrid 1987, pp. 95-99; Dante profeta de un mundo mejor, ivi, pp. 141-143; Dante y su obra, El Acantilado, Barcelona 1999; Dante escriba de Dios y de la historia, in Por los siglos (ensayos de literaturas europeas), pre-textos, Valencia 2001, pp.103-113. 3 Bruno Rosada, Ángel Crespo traduttore e critico di Dante e Petrarca, da “Ateneo Veneto”, 1991, p. 370. 140 immedesimazione fra traduttore e poeta: il traduttore deve riprodurre in sé le condizioni che hanno determinato gli stati d’animo del poeta da tradurre e quasi risentire in sé l’ispirazione medesima che ha suggerito quei suoni e quelle parole, in modo che fino dove è possibile anche la materia fonica attinta allo stesso impasto produca gli stessi effetti. Si tratta quindi di una conoscenza del poeta da tradurre, che non può essere solamente testuale, ma che deve andare dietro il testo. Parlando di esperienze di traduzione, Umberto Eco 4 , ha recentemente affermato che “la traduzione riguarda mondi possibili”, ciò significa che il traduttore baserà il suo lavoro sulla sua conoscenza del contesto culturale in cui il testo fonte è stato generato, giungendo fino a “ripensare il mondo come il poeta poteva averlo visto 5 ”. Questo il senso e l’importanza della vastità della documentazione 6 di cui si correda la traduzione crespiana, e il valore biunivoco della “larga intimidad” crespiana con l’opera e il mondo danteschi come immedesimazione nel contesto dell’opera tradotta, e profonda interiorizzazione della personalità artistica di Dante Alighieri che giunge a modificare e arricchire la personale visione e comprensione delle cose del suo traduttore. Una costante che emerge dagli studi critici crespiani su Dante è il tentativo di giungere ad una comprensione essenzialmente poetica dell’opera e della figura dantesche, ritenuta la più adeguata per coglierne integro il valore attuale: “procurar entender recta y poéticamente – lo que viene a ser lo mismo – sus obras 7 ”. Si rende quindi necessario chiarire il senso che questo tipo di approccio assume nella mentalità crespiana. Ángel Crespo concepisce l’invenzione poetica come creazione di nuovi contesti nei quali sia possibile esprimere ciò che prima era ineffabile8 . La poesia “metafisica” della concezione crespiana, consiste nel “ganar terreno a lo inefable”, dove l’invenzione è la capacità di esprimere l’ineffabile 9 ed il lavoro poetico un’osmosi “de sustancias indefinibles al campo de lo expresable”. La membrana necessaria al processo osmotico è la poesia. In questo sta la grandezza e il limite dell’arte poetica, perché ciò che è gia detto diventa ridondanza, cioè antitesi della poesia, che è invece novità di 4 Umberto Eco, Dire quasi la stessa cosa, Bompiani, Milano 2003, p. 45. Ibidem. 6 Al vasto fondo bibliografico su Dante e la sua opera posseduto da Ángel Crespo è dedicata la seconda appendice di questo volume. 7 Ángel Crespo, Dante y su obra, cit., p. 15. 8 Ángel Crespo, Poesía invención y metafísica, in “Cuadernos de artes y ciencias”, Universidad de Puerto Rico, Mayagüez 1970, p.11. 9 La scoperta poetica della realtà avviene in una visione per cui “lo evidente no merece a la poesía, pero ¿hay algo evidente?”. Á. C., Con el tiempo, contra el tiempo, aforismi, 1975-1978. 5 141 informazione circa l’ineffabile 10 . Per ineffabile, non si intende necessariamente il soprannaturale, ma “lo que hasta ahora se ha hurtado al lenguaje, ya sea por falta de palabras que lo designen (lo que justifica la creación de neologismos) ya por carencia de contextos formales en que expresarse 11 ”. Dante viene chiamato dunque in causa per la sua qualità di inventore. Conseguente a questa concezione crespiana della poesia, è un atteggiamento critico che sappia giudicare adeguatamente la novità dell’informazione poetica, libero da dogmi o pregiudizi ermeneutici dettati da circostanze esterne alla poesia stessa. Un’esigenza primaria che emerge dall’analisi degli scritti crespiani è, infatti, quella di sgombrare il campo da secolari pregiudizi e riduzioni dell’opera di Dante per favorirne una visione più lucida. L’articolo titolato Lo dantesco è dedicato interamente a contestare, nei toni di una conversazione tra l’ironico e il confidenziale, il senso comune attribuito al termine dantesco come caratterizzazione di orrori particolarmente dolorosi e cruenti, in quanto esclude la complessa varietà della poesia dantesca. Questo equivoco è attribuito dal traduttore al fatto che l’Inferno è la cantica più conosciuta della Commedia. L’immagine di Dante che invece il suo traduttore vuole restituire è quella del poeta ineguagliabile dell’amore umano, del “buen amor” e del “loco amor”, osservazione che ammicca al lettore spagnolo cercando una naturalizzazione della poesia dantesca nella cultura castigliana, e dell’amore divino fino all’estrema logica per cui il castigo infernale, e il cammino purgatoriale sono frutti consequenziali di quell’amore. Nelle Notas sobre el Infierno de Dante del 1970, introduttive alla prima pubblicazione della traduzione dei canti I-VI dell’Inferno nella “Revista de Letras” dell’Università di Mayagüez, Crespo discute l’immagine di Dante trasmessa dall’estetica e dalla critica romantico-realista (compendiata pittoricamente dalle illustrazioni di Dorè e Delacroix, al cui confronto, Crespo ritiene quelle del Botticelli più adeguate a raffigurare la poesia della Commedia). L’immagine realistica e corporea dell’Inferno mutuata dai criteri ermeneutici della tradizione romantico-realista, si rivela inadeguata a spiegare un mondo di ombre, la cui descrizione muove il lettore alla riflessione, più che a sentimenti di orrore o ripugnanza. L’inferno dantesco ha un tono spirituale e allegorico, e le pene dei dannati sono allegorie che inducono a una 10 11 Á.C., Poesía invención y metafísica, cit., p. 9. Ibidem. 142 meditazione sul senso profondo del peccato più che sui suoi aspetti fisici. La raffigurazione medievale del male, è infatti estranea al compiacimento realistico nella raffigurazione dell’orrido o del dolore: la descrizione di martìri e torture, che siano infernali o inflitte da uomini, hanno il valore di EXEMPLA morali, hanno un senso conoscitivo e intellettuale e non sono dirette a toccare i sentimenti ma le coscienze. La lettura crespiana della Commedia è quella di una grandiosa e complicata allegoria della storia morale dell’uomo 12 . La comprensione totale di questa allegoria è possibile, secondo Crespo, solo considerando la sua integrazione in un universo superiore e coerente di carattere metaforico, cioè poetico. Il pellegrinaggio dantesco si presenta al poeta-traduttore, come un “esoterico viaggio salvifico”, compiuto per la grazia di una rivelazione. Crespo spiega l’itinerario dantesco assumendolo come l’iter della poesia stessa nella sua scoperta della realtà e delle cose. Lo spazio del viaggio di Dante è definito con precisione: l’Inferno è un abisso sotterraneo aperto dalla caduta di Lucifero in corrispondenza di Gerusalemme, la montagna del Purgatorio sorge dalle acque dell’emisfero australe. Inferno e Purgatorio fanno dunque parte della terra, e il Paradiso del cielo astronomico, ad eccezione dell’Empireo, che si trova al di fuori delle coordinate spazio-temporali. Questo significa che Dante non viaggia nell’aldilà ma nel nostro mondo. Nell’interpretazione crespiana dell’universo poetico dantesco, c’è una parte del mondo che non è comprensibile dalla sapienza umana ma necessita della rivelazione, e chi non è capace di accedere a tale rivelazione, superando la sua carnalità resta eternamente imprigionato negli ipogei inferi “enterrados, sumergidos en las entrañas de esa misma tierra a la que no supieron superar13 ”, mentre quelli che rinunciano al mondo come fine ultimo dell’esistenza temporale, si ritroveranno nella gloriosa eternità dell’Empireo. Considerando le coordinate spazio tempo del viaggio di Dante, Crespo conclude che si tratta dello spazio e del tempo della poesia. Il tempo e lo spazio della poesia non coincidono con quelli naturali: questi sono fuori di noi e fanno parte di un ordine naturale che non si può modificare. Invece il poeta può creare un tempo e uno spazio adattati alle sue necessità espressive, che possono dilatarsi o restringersi secondo le 12 Cfr. El universo de la Divina Comedia, metáfora moral, cit. Ivi, p. 350. In un aforisma del 1978 Ángel Crespo afferma: “La bajada al infierno del escritor es la inevitable y necesaria inmersión en la problemática de sus estrechos tiempos, pero quien no sale de ellos es un condenado”. 13 143 necessità poetiche, guidate da un altro concetto di proporzione spazio-temporale (come nel caso di Dante e Virgilio che percorrono lunghe distanze in tempi brevissimi); lo cual es lícito precisamente porque la poesía, cuando es verdadera poesía, está fuera –o por encima– de la experiencia física, habla de cosas, de realidades mentales o espirituales que no pueden subordinarse al mundo y a la medida de lo material. De ahí que el mundo de la poesía sea otro mundo, no el mundo de las ciencias experimentales. Al crearlo, el poeta establece su estructura y sus leyes y una vez establecidas se atiene a ellas a lo largo de su obra. Ésta es la lógica, la coherencia de la obra poética, la cual consiste, no en la imitación servil de las leyes naturales sino en su imitación libre 14 . Non c’è identità tra l’universo poetico e quello naturale, ma un parallelismo che il poeta utilizza per permettere al lettore di avvicinarsi al suo mondo, creazione letteraria di una nuova realtà 15 . La geografia fisica e la cosmologia dantesche, sono dunque creazioni perfettamente coerenti e costituiscono una metafora morale. Nell’universo dantesco la struttura fisica e quella morale non sono separabili: una è metafora dell’altra. La topografia fisica esprime con immagini e metafore la dottrina della redenzione, secondo un processo costruttivo per cui non è la dottrina a dettare aprioristicamente l’immagine, ma la dottrina si induce dall’immagine. Se pure la scienza moderna ha superato la visione della cosmologia medievale, l’universo morale di Dante non ha perduto la sua validità perché è un cosmo poetico che risponde genialmente all’intenzione del suo autore. I suoi concetti sono più duraturi di quelli scientifici, in un certo senso sono eterni, in quanto la poesia si sottrae alle strette coordinate del razionalismo scientifico. Uno degli aspetti della personalità dantesca che Crespo mette in evidenza in due articoli 16 che sottolineano particolarmente il valore morale e civile della poesia dantesca, è quello della protesta morale contro i mali del suo tempo. L’ammonizione ai contemporanei si basa sul razionalismo culturale di un laico, tratto che accomuna Dante ai grandi oracoli dell’antichità e ai profeti veterotestamentari: su ideal era que la Iglesia se limitase a ejercer su poder espiritual y dejase en mano de los seglares, es decir de los políticos, la administración de la 14 Ivi, p. 343. Nei diarî si legge questa affermazione del poeta Crespo: “la poesía se muestra – además de por otros caminos – a través de la creación (literaria) de nuevas realidades”. Los trabajos del espíritu, cit., p. 27. 16 Il primo articolo è Dante profeta de un mundo mejor, cit., in cui Crespo si riferisce al testo di Raffaello Morghen, Dante profeta tra la storia e l’eterno, Jaca Book, Milano 1983. Il secondo articolo è Dante escriba de Dios y de la historia, cit. 15 144 sociedad y del Estado; lo que significa que nuestro poeta confiaba en la madurez intelectual de la sociedad a la que se dirigía, e incluso en su madurez moral y religiosa. Ello le llevó a repudiar con igual decisión tanto al desprecio del mundo, propio de la sociedad eclesiástica medieval, como a su conquista en favor de la fe mediante el uso de la fuerza de las potencias terrenas, pues creía en un mundo pacificado por la razón, a la que representaba el Imperio, y por una Iglesia previamente pacificada y dignificada mediante la renuncia al poder político. En el fondo estaba profetizando el prestigio de los valores que veía en el horizonte del futuro período humanista. 17 Dante stesso, parlando del “poema sacro al quale han posto mano cielo e terra” qualifica come profetica la sua missione di poeta, e si riconosce scriba dei, quindi profeta non solo come anticipatore di eventi futuri, ma come testimone investito da Dio di un’autorità morale cui è tenuto a prestare voce. La voce dantesca viene recepita dal suo interprete moderno come potente richiamo, ancora attuale: la lección de la Comedia, – y de la obra dantesca en su conjunto – afirma en la actualidad su vigencia poética invitándonos a una integración espiritual de nuestros conocimientos y vivencias en pro de una sociedad más justa en la que el hombre pueda realizarse hasta superarse a sí mismo 18 . 17 18 Dante profeta de un mundo mejor, cit., p. 143. Dante escriba de Dios y de la historia, cit., p. 113. 145 2. Le metamorfosi della specie umana nella Commedia Lo studio del significato e il valore della metamorfosi nella Commedia, Las metamorfosis de la especie humana en la Divina Comedia, costituisce la proposta di critica dantesca più originale 1 di Crespo. Il concetto di “metamorfosis” possiede un significato chiave nella mens crespiana, in cuanto “la poesía no es otra cosa que pura metamorfosis 2 ”, e la metamorfosi è cambio di forma intesa a rivelare la vera natura delle cose3 , realtà afferrabile solo dalla parola poetica. Nella tradizione greco-latina, la metamorfosi è connaturata alla teofanía: el héroe o la heroína transmutados en árbol, piedra, estrella o dios (Mirra, Niobe, Orión, Ganímedes) muestran su naturaleza eterna, inmutable, es decir, divina, en su metamorfosis, de la misma manera que el dios metamorfoseado en hombre, toro, caballo o niebla (Afrodita, Zeus, Posidón o Hermes) muestra, al re-metamorfosearse, momento en que se produce la teofanía, su naturaleza verdadera. 4 Il fine della Divina Commedia, proprio nell’intenzione del suo autore, è primariamente trasformante: “l’obiettivo della Commedia e di questa cantica [il Paradiso] consiste nell’allontanare i viventi, durante la loro esistenza, dallo stato di miseria spirituale, per condurli alla salvezza 5 ”. Il “poema sacro”, scrive infatti Crespo, è tutto impregnato dell’idea di trasformazione, come destino finale dell’uomo, il quale non è che “vermo in cui formazion falla”(Purg. X, 129). La sensibilità del poeta spagnolo individua nella metamorfosi delle anime, conseguenza della loro vita terrena e dell’intervento divino su di esse, una questione poetica centrale della Divina Commedia, supponendo che la concezione poetica dantesca dell’uomo si fondi sulla teoria aristotelica di atto e potenza, 1 In un’annotazione diaristica durante la stesura della monografia Dante y su obra, l’autore stesso scrive: “el último capítulo (que está totalmente dedicado al problema de las metamorfosis) – no he podido dada la falta de espacio sino resumir mi estudio publicado en la Revista de Letras – y las traducciones son, además de la estructura del libro, mi aportación más personal.” Ángel Crespo, Los trabajos del espíritu, cit., p.223. 2 Á. Crespo, Notas para una lectura alquímica de las Metamorfoses de Jorge de Sena, in ID. Por los siglos cit., p. 216. 3 La raccolta poetica crespiana Ocupación del fuego (1986-1989), in Poesía 1996, tomo 3, è totalmente incentrata sull’idea della metamorfosi come rivelazione del segreto dell’essere. 4 Á. Crespo, Notas para una lectura alquímica de las Metamorfoses de Jorge de Sena, cit., p. 216. 5 Epistola XIII, a Cangrande della Scala, c. 15. 146 en el sentido de que el hombre sea, durante su vida terrestre, un ser provisional, en potencia, que sólo se encontrará realizado, en acto, en el otro mundo en el que adquirirá su verdadera y eterna forma, en virtud del uso que en este hizo de sus extraordinarias potencialidades 6 . In una lettera personale all’editore della traduzione della Commedia, il poeta Pedro Gimferrer, Crespo sintetizza così la questione: Mis trabajos en torno al libro [la Commedia] y a la poesía latina – sobre todo la de Ovidio – me han hecho pensar – y creo que ver claro – que su eje estructural es el proceso de metamorfosis que en él se desarrolla en profundidad. Es decir que si Virgilio es un modelo filosófico de Dante, puede que el verdadero modelo poético sea Ovidio (por otra parte, el autor más citado y aprovechado en el poema: unas doscientos veces explícita e implícitamente). Ya he publicado un trabajo sobre el tema [...] varios dantistas se han mostrado interesados [...] 7 . Ovidio, come personaggio della Commedia, appare solo tra i grandi saggi del limbo, con cui Dante discute “cose che ‘l tacere è bello / sì com’era ‘l parlar colà dov’era” (Inf. IV, 104-105). L’influenza di Ovidio è però percepibile in molte parti del poema. Ovidio, infatti, non è solo la principale fonte dantesca 8 per la mitologia grecoromana, ma l’ispiratore dei numerosi processi di trasformazione contenuti nel poema. Le metamorfosi dantesche non hanno scopo decorativo, non costituiscono un carattere solo stilistico del poema, ma influiscono potentemente sul senso e la struttura dell’opera. Nella fictio della Commedia esiste, secondo Ángel Crespo, una sorta di “plasticità poetica” della specie umana, per cui un essere umano può trovarsi nell’aldilà trasformato in albero (Pier della Vigna) oppure in spirito glorioso, che dopo il Giudizio Finale sarà rivestito di un corpo risorto. Tra una e l’altra forma di vita eterna corre un abisso vertiginoso che non si spiega filosoficamente nè teologicamente, ma solo poeticamente. Nell’Inferno le anime soffrono le metamorfosi più eclatanti, mentre le anime dei penitenti del Purgatorio non subiscono trasformazioni esteriori, ma sono sottoposte ad una metamorfosi tutta interiore. Se fossimo davanti ad un’analogia meramente retorica o 6 Las metamorfosis de la especie humana en la Divina Comedia, cit., p. 335. Lettera a Pedro Gimferrer da Mayagüez del 30 ottobre del 1977, riprodotta in appendice al volume. 8 Crespo basa questa sua idea su una affermazione di Gilbert Highet, tratta da The Classical Tradition, Oxford University press, 1970, p. 79: “there are about 100 references to Ovid, whose Metamorphoses were Dante’s main source for Greco-Roman mythology”. Cfr. Las metamorfosis de la especie humana en la Divina Comedia, cit., p. 339. 7 147 stilistica i riferimenti a personaggi del mito metamorfizzati sarebbero meno frequenti nel Purgatorio. Il poema è invece uniformemente disseminato di allusioni a personaggi del mito, la cui metamorfosi è nota. Si tratta dunque, conclude il traduttore, di una questione strutturale riferibile all’antropologia dantesca. Dal confronto dei riferimenti alle Metamorfosi presenti nell’Inferno con quelli della seconda cantica, che Crespo ripercorre, emerge il significato del modello ovidiano nella Commedia. I riferimenti infernali hanno tutti un valore negativo di degradazione di uomini e donne tramutati e snaturati in mostri, serpenti, roccie, piante o acqua: Cariddi e Medusa tramutate in mostri, Sabello e Nassidio (e questa è l’unica metamorfosi tratta da Lucano e non da Ovidio) in seguito al morso di serpenti velenosi, il primo si incenerisce e l’altro è sfigurato in un orrendo edema, Cadmo trasformato in serpente, Mirra in albero, dopo essersi macchiata del peccato dell’incesto, Tiresia cambiato da uomo in donna, Narciso in fiore e Aretusa in fonte (dove questi ultimi esempi con il loro tono più luminoso fanno da contrasto e accentuano l’orrore degli altri). Le citazioni nel Purgatorio, regno della purificazione e della preparazione alla definitiva trasformazione dell’anima in lume di beatitudine, evocano trasformazioni più luminose, stelle, uccelli: le Piche, Progne trasformata in rondine, Filomela in usignolo, Aglauro in sasso, Castore, Polluce e Callisto in costellazioni. In queste allusioni il traduttore scorge un senso di ingravida ascensionalità. Le metamorfosi evocate nel Paradiso risultano anch’esse rivelatrici di questa idea: Dafne amata da Apollo trasformata in alloro, il pescatore Glauco tramutato in dio marino, di nuovo si ricordano Callisto e Narciso, Arianna trasformata da Bacco in corona di stelle, Semele incenerita dallo sguardo di Zeus, Europa rapita da Zeus sotto forma di un toro bianco, gli amori di Zeus sotto forma di cigno con Leda, madre di Castore e Polluce, Elice amante di Zeus trasformata insieme a suo figlio nelle costellazioni dell’Orsa. Nelle citazioni ovidiane del Paradiso, donne amate da Giove (e Cristo stesso è chiamato “sommo Giove” in Purg. VI 118) sono oggetto di metamorfosi glorificanti. In generale, le metamorfosi citate nel Paradiso sono trasformazioni gloriose. La funzione strutturale del modello ovidiano è quella di fondare il concetto di uomo come “ser necesitado de una metamorfosis para adquirir una forma fija y eterna en el más allá 9 ”. I versi danteschi al momento del passaggio dal cielo della Luna al cielo 9 Cfr. Las metamorfosis de la especie humana en la Divina Comedia, cit., p. 350. 148 di Mercurio in Par. V, 97-99 recitano: “e se la stella si cambiò e rise, / qual mi fec’io che pur da mia natura / trasmutabile son per tutte guise!”: l’uomo per natura è un essere trasmutabile, soggetto a tutti i possibili cambiamenti 10 . L’idea dell’attuale fallacia della forma umana e della sua necessaria e futura trasformazione è potentemente espressa nelle terzine di Purg. x, 121-129: O superbi cristian, miseri lassi, che, de la vista de la mente infermi, fidanza avete ne’ retrosi passi, non v’accorgete voi che noi siam vermi nati a formar l’angelica farfalla, che vola a la giustizia sanza schermi? Di che l’animo vostro in alto galla, poi siete quasi antomata in difetto, sì come vermo in cui formazion falla? La natura umana è difettosa e transitoria, solo nella vita eterna può giungere ad una forma definitiva, infinitamente magnificata nella beatitudine eterna o infinitamente degradata nella condanna eterna. Questa dottrina è mutuata in Dante da un’affermazione di S. Agostino “nam omnes homines de carne nascentes, quid sunt nisi vermes, et de vermibus angelos facit 11 ”, e da quanto scrive S.Paolo nella prima lettera ai Corinzi (15, 51) “non tutti, certo, moriremo, ma tutti saremo trasformati”. L’uomo è dunque verme in questo mondo e crisalide nell’altro, in attesa del Giudizio Finale, quando risorgerà nella carne immortale. 10 A questo proposito è significativo il senso che il verbo trasmutare assume nello sviluppo del poema, che Crespo esamina e le cui occorrenze ripercorre (cfr. Las metamorfosis de la especie humana en la Divina Comedia, cit., pp. 351-353.). Se ne trovano tre occorrenze nell’Inferno (XV, 113 “fu trasmutato d’Arno in Bacchiglione” in traduzione “llevado / fue”; XXV, 101 “due nature mai a fronte a fronte / non trasmutò” in traduzione “no trasmutó”; XXIX, 69 “qual carpone / si trasmutava per lo tristo calle” in traduzione “se arrastraba a gatas”) dimostrano il suo significato come trasferimento di un corpo materiale da un luogo a un altro, e, come seconda accezione quello della metamorfosi che si produce nello scambio contemporaneo tra due nature. Nelle altre due cantiche il verbo assume prima il senso di metamorfosi come trasformazione della forma e della natura di qualcosa (in Purg. XVIII, 145 “e ‘l pensamento in sogno trasmutai” in traduzione “el pensamiento en sueño trasmutando”; XXXI, 126 “ne l’idolo suo si trasmutava” in traduzione “se trasmutaba”; XXXIII, 80 “la figura impressa non trasmuta” in traduzione “sin que mude del sello la figura”). Nel Paradiso (III, 58-60) parlando a Piccarda, Dante dice che qualcosa di divino risplende nei volti dei beati e li “trasmuta” (in traduzione “os trasmuta”) tanto da rendere difficile il riconoscerli: il verbo si impregna qui semanticamente di una nuova idea di cambiamento come metamorfosi “angelizadora”, infatti anche i beati sono soggetti a metamorfosi diametralmente opposte a quelle cui sono soggetti i dannati. Dante riassume in sè la metamorfosi catartica delle anime del Purgatorio e quella gloriosa dei beati finchè la sua natura è tanto “trasmutata” da essere in grado di contemplare Dio. 11 In Ioannis Evangelium Tractatus I, 13. 149 La causa di tutte le metamorfosi, regressive e progressive, sarebbe individuabile, secondo il traduttore nel peccato originale, metamorfosi iniziale che degradò l’originale natura gloriosa dell’uomo. Questa è anche la giustificazione poetica dell’immagine dantesca, in cui l’elemento magico e meraviglioso è solo l’aspetto esteriore. Il nucleo umano e poetico delle mutazioni dantesche è la motivazione etico-religiosa e soprattutto la trascendenza escatologica, totalmente cristiana, che, infatti, manca al loro modello classico. Sostiene ancora Crespo che nell’antropologia della Commedia l’uomo stesso è prodotto di metamorfosi. In Purg. XXV, ai vv. 34-108 Stazio espone la teoria della generazione dell’uomo. In questa lunga dissertazione di embriologia, il poeta latino non parla come uno scienziato ma come un teologo, mettendosi nella posizione di chi rivela misteri della provvidenza divina (“se la veduta eterna li dislego”). Questo è propriamente il significato del fatto che Virgilio delega a Stazio la spiegazione: il nucleo del discorso, cioè l’infusione dell’anima razionale direttamente da Dio nell’uomo, e il destino dell’anima dopo la morte, costituisce, infatti, un problema teologico che la ragione non basta a spiegare. Secondo la teoria della generazione esposta da Stazio, che prende le mosse da Aristotele 12 , il sangue maschile dotato di “virtute informativa”, cioè della capacità di dare forma, stilla, fecondandolo, su quello femminile nel “natural vasello” (l’utero). La virtù attiva del seme forma la nuova materia come vita vegetativa, e continua poi la sua opera fino a formare gli organi delle facoltà sensitive. Non appena nel feto giunge a perfezione la formazione del cervello, Dio si volge lieto a questo nuovo essere e insuffla in lui la vita intellettiva “spirito novo, di vertù repleto”, che si fa un’anima sola unita a quella vegetativa e sensitiva (“fassi un’alma sola, / che vive e sente e sé in sé rigira”). Dopo la morte del corpo l’anima si slega dalla carne, e, nel pieno possesso della sua memoria, intelligenza e volontà, giunge alle rive di Acheronte dove conosce quale sarà il suo destino eterno. In quel momento, per un’irradiazione dell’anima sull’aria che la circonda, lo spirito viene dotato di una nuova forma corporea, eterea, chiamata ombra, attraverso la quale sente e si esprime. 12 Come dimostrato da Bruno Nardi, la teoria che qui Dante sostiene, è fondata su Aristotele (De generatione I, II) ed è comune a tutti gli scritti di embriologia del suo tempo. Sul nucleo centrale del tema, cioè la generazione dell’anima razionale e il suo rapporto con quella vegetativa e sensitiva, erano svariate e discordanti le opinioni dei teologi. Quella esposta da Stazio, che già appare nel Convivio (IV, XXI), riproduce a grandi linee quella di Alberto Magno esposta nel De natura et origine animae. 150 In questa descrizione del processo di formazione del feto umano, si riscontra la forte presenza dell’idea di una serie di trasformazioni attraverso cui passa l’essere umano dalla sua protoesistenza come seme, alla nascita. Questa catena di metamorfosi prefigura quella complicata metamorfosi post-mortem che è l’attribuzione del corpo aereo, per cui nella sua nuova esistenza come ombra l’anima si trova in uno stato di crisalide in cui risiede la potenzialità di far parte della “angelica farfalla” oppure di cadere nell’infima degradazione dell’essere dannato. La caratteristica delle metamorfosi subite dai dannati, è quella di essere trasformazioni di tipo regressivo, compendiate per eccellenza di degradazione in quella disgraziatissima degli angeli ribelli in demoni e soprattutto in quella di Lucifero. In Inf. III, Dante compara le anime dannate a foglie sparse dal vento, e a uccelli che accorrono al richiamo, anticipando la natura bestiale o vegetale che assumono le anime dei dannati. Queste metamorfosi regressive sono disposte in ordine progressivo di degradazione. La rappresentazione delle trasformazioni dei dannati, che, senza perdere necessariamente le loro sembianze umane, sono mutati in mostri, animali, piante, minerali, si distingue per crudezza visiva e poetica. Nella sua analisi, Crespo classifica le metamorfosi infernali secondo quattro categorie predominanti. La prima categoria è quella dei mostri nella quale include gli indovini della quarta bolgia con la testa volta indietro (Inf. XX); i seminatori di discordia della nona bolgia divisi e scempiati nella loro carne, tra cui si trova Bertrand de Born col capo mozzo tenuto per i capelli “a guisa di lanterna” (Inf. XXVIII) e infine fra Alberico e Branca Doria, le cui anime di traditori rovinano nella Tolomea (Inf. XXXIII) mentre il corpo in terra è posseduto da un demonio. La seconda categoria individuata da Crespo è quella delle anime dannate che si trasformano in serpenti nel celebre canto delle metamorfosi dei ladri (Inf. XXV), dove Dante cita esplicitamente il modello classico e intima il silenzio a Ovidio e Lucano per la straordinarietà dello spettacolo infernale. Ancora si trova una regressione dell’anima al regno vegetale nel caso di Pier della Vigna nella selva in cui i suicidi sono tramutati in alberi e cespugli (Inf. XIII). L’ultima categoria è quella dei minerali nei quali Crespo include Vanni Fucci trasformato in cenere (Inf. XXIV), le anime conficcate nella ghiaccia di Cocito, natura immobilizzata nel congelamento, priva di ogni aspetto di moto e di vita. Ancora gli ipocriti oppressi sotto cappe di piombo (Inf. XXIII) e infine i giganti che Dante scambia per torri della cinta muraria di Monteriggioni (Inf. XXXII). 151 Crespo ripercorre poi nel suo studio le frequenti similitudini dei dannati con animali per dimostrare come l’atmosfera infernale sia impregnata dell’idea della degradazione delle anime. I lussuriosi sono paragonati a “stornei” (Inf. V, 40), “gru” (Inf. V, 46), “colombe” (Inf. V, 82), dove le immagini non sono tanto peggiorative, ma comunque pongono l’anima umana a confronto con animali irrazionali. I golosi latrano come cani (Inf. VI, 19), gli iracondi si mordono come fiere rabbiose (Inf. Virgilio li paragona a “porci in brago” (Inf. VIII, VIII, 42) e 50). Ancora si trova chi si gratta come un cane (Inf. XVII, 49-51), uno si lecca come un bue (Inf. XVII, 74-75), di un’altro si dice che ha il muso (Inf. XVIII, 104). Le anime dei barattieri immerse nella pece bollente sono paragonate alla carne nel suo sugo (Inf. XXI, 55-57) e poi a delfini e rane (Inf. XXII, 19 e 25), e uno in particolare a una lontra e poi ad un’anatra (Inf. XXII, 36 e 130). Più avanti, Vanni Fucci si definisce mulo (Inf. XXIV, 125), uno muggisce (Inf. della decima bolgia si squamano come pesci morti (Inf. sono equiparati a bestie (Inf. XXX, 24), porci (Inf. XXIX, XXX, XXVI, 7), i falsari 83-84), ancora i dannati 27), rane (Inf. XXXII, 31-32), cicogne (XXXII, 36), e dalla loro gola emettono latrati (Inf. XXXII, 108). Il Purgatorio risulta invece tutto improntato di uno spirito ascensionale. Nell’antipurgatorio le anime assumono l’aspetto di esseri convalescenti, pallidi ed umili, dalle reazioni nervose come di persone dalla salute instabile (Purg. IV, 25-42). Nel Purgatorio inizia il processo della loro metamorfosi, che per la lentezza delle operazioni, la paziente attesa, l’esattezza dei riti, possiede uno spirito di alchimia, trasformazione attraverso la purificazione col fuoco. In questo lento processo catartico le anime devono acquistare purezza e leggerezza per salire al cielo. Il clima è quello di una meravigliosa attesa: como el aspecto exterior de la crisálida – estático y nada bello – no cambia hasta que no surge de su interior, cual de improviso, la alegría alada de la mariposa, así estas sombras, pegadas al suelo, a una pared rocosa, envueltas en humo o llamas, ocultan a nuestros ojos el maravilloso cambio que se está operando en su interior 13 . Gli effetti di questa metamorfosi si manifestano nella acquisizione di facoltà straordinarie come il volo. A questo proposito mi pare interessante notare che il poeta spagnolo sente la necessità di specificare che il volo di Dante e Beatrice differisce da 13 Las metamorfosis de la especie humana en la Divina Comedia, cit., p.378. 152 quell’“amoroso lance” della mistica sanjuaniana, per il fatto che è una realtà propriamente poetica, per cui non si trovano spiegazioni nella teologia o nella mistica. Dante stesso è oggetto di una trasformazione i cui effetti si manifestano nel Paradiso: il pellegrino riassume nella propria persona la metamorfosi che si realizza nelle anime del Purgatorio. Dopo il rituale del lavacro purificatore sulla spiaggia dell’Antipurgatorio, Virgilio dichiara che la natura della montagna è tale “che sempre a cominciar di sotto è grave; / e quant’uom più va su e men fa male” (Purg IV, 89-90). Le sette P sulla fronte sono il segno esteriore del trasumanare dantesco, processo che si compie nei riti catartici del Paradiso Terrestre con l’immersione nel Letè e nell’Eunoè (Purg. XXXI). La metamorfosi di Dante è sintetizzata nel verbo trasumanar. Nei versi di Par. I 67-72 14 , Dante stesso si paragona a Glauco dichiarando quindi il suo entrare nella dimensione divina, per cui si perde e si trasforma in altra la sua natura umana 15 . Nel Purgatorio i paragoni delle anime con animali sono meno frequenti che nell’Inferno. Quelli che vi si trovano hanno comunque diversa natura evocando nella maggior parte dei casi animali alati, gradevoli (pecorelle), o nobili per carattere (leone), o per operosità (formiche), comunque privi di connotazioni negative 16 . Per quanto riguarda i beati, essi subiscono una metamorfosi che trascende la loro natura umana. Quando Dante incontra, in Par. III, 58-60, l’anima beata di Piccarda Donati, le si rivolge con queste parole: “Ne’ mirabili aspetti / vostri risplende non so che divino / che vi trasmuta da’ primi concetti”. Crespo spiega così questo episodio: Dante quiere significar que la nueva apariencia del alma se corresponde con una forma nueva que le obliga a formarse otra idea, otro concepto de este ser, que ya no es como en la tierra un hombre […] porque estas sombras gloriosas han trascendido, gracias a su metamorfosis progresiva a la naturaleza humana 17 . 14 “Nel suo aspetto tal dentro mi fei, / qual si fé Glauco nel gustar de l’erba / che ‘l fé consorto in mar de li altri dèi. / Trasumanar significar per verba / non si poria; però l’essemplo basti / a cui esperienza grazia serba.” 15 Il celeberrimo neologismo dantesco esprime qui in un verbo ciò che afferma S.Tommaso nella Summa: “La facoltà di vedere Dio non compete all’intelletto creato secondo la sua natura, ma in virtù del lume di gloria, che stabilisce l’intelletto in una condizione in qualche modo divina” (I, q.12 a.6). 16 Si trovano colombe in Purg. II, 125, pecorelle in Purg. III, 79, l’anima di Sordello è paragonata a un leone in Purg. VI, 66, ancora “augei” in Purg. XXIV, 64-67, formiche in Purg. XXVI, 35 e gru in Purg. XXVI, 43. 17 Las metamorfosis de la especie humana en la Divina Comedia, cit., p. 383. 153 Più avanti, Beatrice, invitando Dante a porre con fiducia le sue domande ai beati, lo rassicura sull’infallibilità delle loro risposte con queste parole “credi come a dii” (Par. V, 123), conferendo quindi alle anime beate uno status di divinità. Gli spiriti beati, per una straordinaria grazia concessa a Dante, rivestono diverse apparenze nei vari cieli, per mostrarsi ad un intelletto ancora legato ai sensi, mentre formano contemporaneamente la “candida rosa” della contemplazione di Dio nell’Empireo. Questo tipo di trasformazione ricorda più da vicino, secondo l’interpretazione crespiana, le metamorfosi teofaniche con cui gli dei pagani si mostrano agli uomini. Le apparenze con cui Dante percepisce i beati sono tutte descritte in termini di altra forma e altra natura in confronto all’aspetto umano. Crespo ne raccoglie una serie di esempi che riporto qui. Le anime beate appaiono come “specchiati sembianti” nel cielo della Luna (Par. III, 22), “splendori” nel cielo di Mercurio (Par. V, 103), nel cielo di Venere sono “lucerne” (Par. VIII, 19) e “fin balasso”, cioè rubino attraverso cui filtra il sole (Par. X, IX, 69), nel cielo del Sole ghirlanda di “fulgori vivi e vincenti” (Par. 64), in quello di Marte “luci scintillando” in forma di croce in cui si riflette l’immagine di Cristo (Par. XIV, 110), in quello di Giove luci in forma di un’aquila che parla con Dante (Par. XVIII, 76), in quello di Saturno splendori e fiammelle che salgono e scendono per una scala di luce (Par. XXI, 32), nel cielo delle Stelle Fisse sono sfere danzanti luminose (Par. XXIV, 10-24). I paragoni con animali ritornano nel Paradiso, dove, ad eccezione della similitudine con i pesci (Par. V, 101) animale collegato simbolicamente a Cristo e alla rinascita battesimale, evocano per lo più immagini di volo 18 . L’ultima estrema metamorfosi progressiva, che si realizzerà dopo il Giudizio Finale, sarà quella dei corpi gloriosi immersi nella luce della beatitudine. La metamorfosi definitiva dell’uomo si compirà dunque, totalmente solo dopo il Giudizio Finale, ma c’è un’eccezione all’aut aut della dannazione o della beatitudine eterne: le anime del Limbo, che hanno subito la prima metamorfosi per cui l’anima si appropria dei sensi corporali, dopo la resurrezione della carne porteranno avanti la loro esistenza senza tempo nel bel giardino infernale, senza tormenti, ma eternamente privati della speranza di contemplare Dio. 18 Si trovano “augelli” in Par. XVIII, 73, un falcone in Par. XIX, 34, una “allodetta” in Par. XX, 73, “pole” cioè cornacchie, in Par. XXI, 35, un colombo in Par. XXV, 19. 154 Una nueva especie, medida y contada, sin posibilidades de propagación ni de muerte, se encontrará en uno de los últimos rincones del universo, donde dará testimonio de lo que fue aquella especie humana que llevaba en sí la potencialidad de originar por metamorfosis seres tan varios oscilantes entre la piedra insensible y pesada y el ángel leve y lleno de gracia 19 . 19 Las metamorfosis de la especie humana en la Divina Comedia, cit., p.390. 155 3. L’introduzione alla traduzione: una lettura della Commedia tra spiritualità e impegno civile L’introduzione crespiana al volume che riunisce la traduzione delle tre cantiche1 , costituisce la sintesi della modalità in cui il poeta novecentesco recepisce l’opera dantesca. Nel suo approccio critico al poema, Ángel Crespo ricerca una posizione priva di ideologie o dottrine precostituite che dia il massimo rilievo ai valori puramente poetici “tal como hoy [dopo l’esperienza simbolista] los entendemos 2 ”. In un breve excursus della storia della critica dantesca il traduttore osserva che le interpretazioni storicistiche trascurano gli aspetti che fanno della Commedia un’opera eterna e universale; egli ricerca invece una comprensione del significato unitario e globale del poema “que sólo puede tratarse de captar por medio de un estudio profundo de su estilo y de su estructura poética 3 ”. La sua lettura della Commedia rifiuta le interpretazioni romantiche dei suoi più celebri personaggi, per lo più infernali, “a lo tremendo”, eccessivamente romanzesche e “costumbristas”, spesso considerate compendio dell’intero messaggio dantesco, che promuovono una visione idealistica e sfocata del poema e della intentio operis. Equivoco cui contribuiscono anche i commentatori grafici del poema come Gustavo Dorè, Delacroix o Gericault, riguardo alle cui illustrazioni della Commedia Crespo si esprimeva negativamente gia nelle Notas sobre el Infierno de Dante sulla “Revista de Letras” 4 , in quanto dipingono un oltretomba “demasiado realista y terrenal en los detalles y excesivamente abstracto en el conjunto 5 ” non comprendendo adeguatamente la struttura generale del poema. Infatti, l’orrore dell’Inferno dantesco non è quello causato dall’irrazionale o dall’imprevisto di qualcosa che sta al di fuori dell’ordine naturale delle cose: l’Inferno fa parte della creazione della Provvidenza divina e così i castighi imposti ai dannati. La creazione dei tre misteriosi regni è 1 Mi riferisco qui all’edizione citata per la traduzione presso l’editrice barcellonese Planeta del 1999, introduzione alle pp. XI-XLIX. Questa edizione è preceduta dalla prima edizione Seix Barral di ogni singola cantica (Inferno 1973, Purgatorio 1976, Paradiso 1977) ognuna accompagnata da prologo e note del traduttore, cui seguono svariate edizioni degli anni ottanta e novanta (per cui cfr. la bibliografia). L’introduzione cui mi riferisco qui è composta dall’unione dei tre singoli prologhi delle edizioni precedenti. 2 Introduzione a Divina Comedia 1999, p. XI. 3 Ivi, p. XIV. 4 Cfr. supra p. 142. 5 Introduzione a Divina Comedia 1999, p. XV. 156 conseguenza delle azioni dell’uomo, suprema sapienza e giustizia di Dio di cui anche i dannati sono coscienti. Neanche la dannazione priva l’uomo della sua originale dignità, e la condanna non degrada i dannati a cui è dato di scontare la propria pena con lo stesso possesso delle facoltà con cui si procurarono la dannazione eterna. Le descrizioni delle pene dei dannati non presentano mai aspetti di orrore che possano turbare la lucidità del lettore, e l’atteggiamento di Dante nei loro confronti è, salvo rare eccezioni, pieno di compassione e rispetto. Per una giusta comprensione della Commedia nella sua integrità, in cui “Dante abarcó el universo […] no sólo como unidad sino en la totalidad de sus aspectos” con grandezza poetica e trascendenza teologica, occorre avvicinarsi alla sua struttura con una forma mentis disposta ad accordarsi con lo spirito del simbolismo e dell’allegorismo medievale “tan cercano en muchos aspectos al del simbolismo poético contemporáneo, tan influyente en nuestro modernismo 6 ”. Tale premessa rivela l’ottica post-simbolista a tendenza gnostica dell’approccio crespiano al poema dantesco. Del resto proprio l’esperienza delle avanguardie postbelliche (in particolare il Postismo) fu la via dell’avvicinamento crespiano a Dante 7 . In questo senso mi pare eloquente un’affermazione, non esente da una leggera nota polemica di militanza poetica: “Dante, quizá más moderno que muchos de nuestros contemporáneos, era cualquier cosa menos un materialista 8 ”. Questo tipo di prospettiva si percepisce nei termini in cui il poeta traduttore descrive l’oltretomba dantesco: “es el juego de las alegorías, los símbolos, los emblemas, los enigmas, las insinuaciones, lo esotérico, en fin, o lo aparentemente esotérico, el de la ambigüedad poética, decisiva para la claridad del mensaje de quienes la administran con genialidad9 ”. La selva oscura appartiene alla geografia dello spirito, come mondo del peccato e della confusione mentale e sentimentale. L’Inferno ha una struttura morale, determinata dai comportamenti che allontanano l’uomo da Dio, si trova perciò nelle profondità della terra e vicino al suo centro, dove è conficcato “lo ‘mperador del doloroso regno”, nel punto più lontano dall’Empireo e dalla luce divina, per la forma 6 Ivi, p. XVII. Come spiegato supra, cap. 1.2. 8 Introduzione a Divina Comedia 1999, cit., p. XXII. 9 Ivi, p. XXI. 7 157 sferica dell’universo, come era concepito dagli astronomi medievali e dal pensiero esoterico. Il Purgatorio è l’unico regno temporale, non eterno, dove il lettore percepisce un clima di “alchimia spirituale”, in cui le anime sono sottoposte a una serie di lente e minuziose operazioni che le rendono pronte, dopo l’immersione rituale nei fiumi Letè ed Eunoè, per l’ascesa al regno dei cieli. Il Purgatorio è “una especie de alambique” a cui si accede mediante una misteriosa caverna che solo gli iniziati conoscono. Il ruolo di Virgilio è dunque quello di un iniziatore: “nuestro poeta accedió al Infierno por la puerta de una iniciación que requería la muerte simbólica del neófito para, después de ella, subir resuscitado y purificado por el Purgatorio, al reino de los cielos 10 ”. Per Crespo, appare infatti evidente il significato iniziatico del percorso sul corpo di Lucifero e dell’ascensione sulla spiaggia purgatoriale nell’emisfero australe, dove la stessa arte poetica vive una morte e resurrezione catartiche “qui la morta poesì risurga” (Purg. I, 7). Se nell’inferno Dante e Virgilio sono spronati dall’urgenza di abbandonare il doloroso regno, e non ci sono pause nel cammino, il Purgatorio è invece il “regno della calma”. Dante percorre le cornici della montagna non come un estraneo ma come un’anima che sta compiendo la sua personale purificazione per poter godere poi della beatitudine della contemplazione di Dio. Il Purgatorio, nell’immagine che ne dà Crespo, è come il quadro centrale di un trittico, fatto per abituare gli occhi provenienti dalle oscurità infernali ad una luce tutta umana, che renda capaci di sostenere lo splendore più abbagliante, che mai mente umana possa immaginare. Il Purgatorio tratteggia la più verace rappresentazione della condizione umana: el Purgatorio es, de las tres regiones del Más Allá, la más parecida al mundo de los vivos. Es una mezcla de inacción y actividad, de luz y tinieblas, de pasado, presente y futuro. Y, como a nuestro mundo le llegará su último día, mientras que el Infierno y Paraíso son eternos [...] . Siempre es de noche en el reino de Dite; siempre es de día en la Roma en que Cristo es romano; pero en el Purgatorio amanece y anochece al mismo ritmo que en Florencia. ¿Quién que haya leído a Dante puede decir que el verdadero Infierno es nuestro mundo? No: nuestro mundo será, en todo caso, el verdadero Purgatorio, es decir una especie de arriesgado anticipo de ese otro en el que es preciso recuperar el tiempo perdido en éste; en el que se ofrece, a quien se la ha ganado su última posibilidad – y seguridad – de salvación. [...] El Purgatorio es, en la invención dantesca, el dominio de las mujeres, los ángeles, el arte (escultura y música sobre todo) y, naturalmente, de los 10 Ivi, p.XIX. 158 poetas. [...] El Purgatorio, en fin, es la única de las tres cantigas en la que suena – como tantas veces sonó en la tierra – el nombre de Dante 11 . La suprema visione del Paradiso è una rivelazione che il pensiero non può riprodurre perché si è attuata senza il suo intervento, ed è contemporaneamente una realtà e una profezia che solo la teologia o la cabala, possono spiegare simbolicamente. La Commedia è quindi, innanzitutto, l’avventura intellettuale dell’uomo alla ricerca della sua salvezza, cioè di Dio, origine e fine di tutte le cose, nella visione cristiana, così come nella concezione neoplatonica e cabalistica del mondo. No estamos ante un poema místicamente intuitivo, … sino ante una obra en la que una de las imaginaciones más portentosas que jamás haya habido aborda el conocimiento poético de la verdad 12 . Secondo il traduttore i passi di poesia allegorica, didattica o teologica, non oscurano lo straordinario valore poetico del testo, anzi si accordano profondamente con esso per il contenuto e per la trasparenza dell’espressione. In Dante l’amore è conseguenza della conoscenza, per questo le speculazioni filosofiche e teologiche sono presenti fino alla visione finale di Dio e ne sono imprenscindibile condizione 13 . Perciò la poesia stessa dipende dalla teologia, e il riconoscimento di questo aspetto è essenziale per la comprensione del poema dantesco. La teologia di Dante è, da parte sua, una teologia poetica, cioè basata più sull’intuizione artistica che sulla filosofia. Come scrive Thomas Stearns Eliot, Dante è capace di fare di una dichiarazione filosofica diretta grande poesia. Ancora secondo Ángel Crespo nella profonda unità strutturale della Commedia, tutte le fiamme provengono dallo stesso fuoco: si tratta di una struttura poetica nella quale ogni parte gioca un ruolo parimenti efficace e parimenti significante. Ángel Crespo segue le opinioni di Gian Roberto Sarolli, nell’affermare qui che la intentio dantis sia quella di scrivere a imitazione della Sacra Scrittura 14 . Quest’idea si basa su quanto dichiarato da Dante stesso riguardo ai quattro sensi della scrittura nella 11 Ivi, pp. XXVIII- XXX. Ivi, p. XXXIII. 13 Nell’epistola a Cangrande della Scala, Dante stesso scrive: “se in qualche brano o in qualche passaggio il linguaggio si fa simile a quello della filosofia speculativa, questo avviene non in virtù di un fine speculativo, ma per necessità intrinseche all’opera stessa”. 14 Nella poesia Dante Alighieri (in En medio del camino, tomo 1 di Poesía, cit., p. 265), il futuro traduttore descrive così l’opera di Dante: “La tarde inevitable y el poeta/ casi extranjero – una edición/ en biblia, las paredes/ llenas de sus palabras”. L’espressione edición en biblia, se certamente allude al papel biblia delle edizioni pregiate, accosta inevitabilmente la poesia dantesca all’idea di Sacra Scrittura, e della preziosità di un’opera che assume la dignità di una rivelazione divina. 12 159 Epistola XII a Cangrande della Scala 15 , metodo esegetico applicato alla Sacra Scrittura, che Dante chede si applichi alla lettura del “poema sacro / al quale han posto mano cielo e terra” (Par. XXV, 1-2), che si doveva dunque interpretare come un testo ispirato, di cui egli è “fatto scriba” (Par. X, 17), per cui la Commedia, come i testi sacri dell’Antico e del Nuovo Testamento, è frutto della collaborazione tra il poeta e la divinità. Senza tenere conto di questo presupposto, secondo Crespo, si pregiudica la visione globale del poema. Nello spalancare al lettore spagnolo moderno le porte del poema dantesco, il poeta traduttore conclude con quest’ultima osservazione circa l’eterna vigenza della poesia di Dante Alighieri e la sua vicinanza allo spirito della modernità. No cabe duda de que el estilo poético de Dante está hoy más cerca de nosotros, lectores y traductor, que lo estuvo ayer de los lectores y traductores del siglo XIX y principios del presente; y ello se debe, en especial, a los hábitos de lectura e interpretación que han creado en nosotros el simbolismo y el post-simbolismo, escuelas, o más bien tendencias, poéticas que han recuperado buena parte de la visión medieval del mundo como manifestación del espíritu. En la Comedia encontramos, encuadernados con amor en un solo volumen cuantos deseos y aspiraciones, inquietudes amores y odios se desencuadernaban, y terminaron por desencuadernarla a ella misma en aquella Edad Media Luminosa de la que Dante ha sabido darnos la más asombrosamente completa síntesis, abriendo así las puertas a la poesía moderna. De ahí que el traductor esté modestamente seguro de que su temerario esfuerzo no habrá sido en vano, pues el lector de nuestros días ha de hallar en Dante a un poeta actual – no antiguo ni moderno –, a uno de los suyos, de los nuestros, porque supo que todos los esfuerzos y sentimientos humanos, todos los conocimientos y ambiciones nobles, pueden sintetizarse en una fórmula capaz de hacer que nos comprendamos y creamos en el poder salvador de la inteligencia 16 . 15 “Occorre sapere che non è uno solo il senso di quest’opera: anzi, essa può essere definita polisensa, ossia dotata di più significati. Infatti, il primo significato è quello ricavato da una lettura alla lettera; un altro è prodotto da una lettura che va al significato profondo. Il primo si definisce significato letterale, il secondo, di tipo allegorico, morale oppure anagogico. E tale modo di procedere, perché risulti più chiaro, può essere analizzato da questi versi: “Durante l’esodo di Israele dall’Egitto, la casa di Giacobbe si staccò da un popolo straniero, la Giudea divenne un santuario e Israele il suo dominio”. Se osserviamo solamente il significato letterale, questi versi appaiono riferiti all’esodo del popolo di Israele dall’Egitto, al tempo di Mosè; ma se osserviamo il significato allegorico, il significato si sposta sulla nostra redenzione ad opera di Cristo. Se guardiamo al senso morale, cogliamo la conversione dell’anima dal lutto miserabile del peccato alla Grazia; il senso anagogico indica, infine, la liberazione dell’anima santa dalla servitù di questa corruzioe terrena, verso la libertà della gloria eterna. E benchè questi significati mistici siano chiamati con denominazioni diverse, in generale tutti possono essere chiamati allegorici, perché sono traslati dal senso letterale o narrativo. Infatti allegoria viene ricavata dal greco alleon che, in latino, si pronuncia alienum, vale a dire diverso.” Epistola a Cangrande, c.7. 16 Introduzione a Divina Comedia 1999, pp. XLVIII-XLIX. 160 4. La monografia Dante y su obra (Dante, Dopesa, Barcelona 1979) La stesura di questa monografia su Dante nasce dal desiderio di offrire ai lettori l’immagine di Dante e della sua opera, che si è formata nella mente dell’autore durante il lungo lavoro della traduzione. L’intento di questo saggio non è quello di essere uno studio scientifico sulla figura e l’opera dantesca, ma piuttosto quello di delineare in maniera suggestiva un ritratto poetico di Dante che incontri la sensibilità del lettore spagnolo contemporaneo. Il libro è strutturato in sette capitoli. Il primo e il secondo capitolo,“Dante en Florencia” e “Dante en el exilio”, dividono significativamente in due epoche la vita del poeta, evidenziando il suo rapporto con la città e la sua forzata lontananza da essa. I capitoli terzo e quarto sono dedicati alle opere dantesche, e gli ultimi tre alla Commedia, prima secondo una visione generale, passando poi all’analisi dell’allegoria, della simbologia numerica e degli enigmi, e concludendo con la riproposizione dello studio sul ruolo strutturale delle metamorfosi. Il capitolo relativo ai primi anni della vita di Dante a Firenze si apre con un’estesa citazione ed analisi del sogno premonitore della madre di Dante, riportato dal Boccaccio nel suo Trattatello in laude di Dante 1 . Il passo viene appositamente tradotto da Crespo. Questo sogno, allegorico e profetico, funge, nel saggio, da dichiarata messa a fuoco del valore della figura e dell’opera dantesche di cui il primo presupposto è che “Dante fue fundamentalmente y por encima de todo un poeta incomparable 2 ”. Il sogno costituisce un’allegoria profetica, di cui il Boccaccio stesso offre l’interpretazione in conclusione del Trattatello. Secondo la spiegazione boccaccesca, la nascita del bambino sotto l’alloro rappresenta il particolare dono poetico di Dante, che, nutrendosi esclusivamente della Poesia e della Filosofia (nel sogno la “chiarissima fonte”) diventa capace di dare nutrimento spirituale, “datore di pastura agli altri ingegni 1 “Pareva alla gentil donna nel suo sonno essere sotto uno altissimo alloro, sopra uno verde prato, allato ad una chiarissima fonte, e quivi si sentia partorire uno figliuolo, il quale in brevissimo tempo, nutricandosi solo delle orbache, le quali dello alloro cadevano, e delle onde della chiara fonte, le parea che divenisse un pastore, e s’ingegnasse a suo potere d’avere delle fronde dell’albero, il cui frutto l’avea nudrito; e, a ciò sforzandosi, le parea vederlo cadere, e nel rilevarsi non uomo più, ma uno paone il vedea divenuto. Della qual cosa tanta ammirazione le giunse, che ruppe il sonno; né guari di tempo passò che il termine debito al suo parto venne, e partorì uno figliuolo, il quale di comune consentimento col padre di lui per nome chiamaron Dante”. Giovanni Boccaccio, Trattatello in laude di Dante, c. II, in La letteratura italiana storia e testi, vol. 9, Riccardo Ricciardi editore, Milano- Napoli 1965, p. 572. 2 Dante y su obra, cit., p. 11. 161 di ciò bisognosi 3 ”. Lo sforzo di raggiungere le foglie dell’alloro significa invece “l’ardente disiderio avuto da lui […] della corona laurea; la quale per nulla altro si disidera, se non per dare testimonianza del frutto” e il cadere in questo tentativo rappresenta la morte del poeta. In ultimo, il mutamento in pavone, allegoria della Commedia, indica il sopravvivere della fama di Dante. Le quattro caratteristiche del pavone raffigurano quelle della Commedia 4 : l’incorruttibilità delle sue carni rimandano all’immortalità del significato del poema, la bellezza del piumaggio e i cento occhi rappresentano la sua bellezza e la divisione in cento canti, i “sozzi piedi e tacita andatura” sono allegoria della lingua volgare e dell’umiltà dello stile comico “a rispetto dell’alto e maestrevole stilo letterale”, cioè il latino. Infine, quanto all’orribile voce del pavone, essa corrisponde al “sapor di forte agrume” (Par. XVII) del messaggio dantesco: “Chi più orribilmente grida di lui, quando con invenzione acerbissima morde le colpe di molti viventi, e quelle de’ preteriti gastiga? 5 ”. Il significato di tale premessa è quello di porre gli elementi dell’allegorico e del meraviglioso come presupposti di base per la comprensione e l’interpretazione dell’opera dantesca, considerando tali fondamenti la sua più evidente caratterizzazione poetica, e ciò che massimamente rende l’opera di Dante vicina all’epoca contemporanea in cui “lo mágico, lo esotérico, lo sobrenatural, en suma, ha vuelto a preocupar a unas generaciones desencantadas de la actitud pobremente racionalista que dominaba, hasta hace no tantos años a buena parte del pensamiento occidental 6 ”. Il primo nucleo tematico del testo è costituito dal ritratto di Dante. Un dato di interesse per Ángel Crespo è che Dante, attraverso la sua origine da Cacciaguida e la sua stirpe, che si vuole discendente dai romani fondatori di Firenze, giunge a considerarsi cittadino di quell’Impero Romano voluto dalla Provvidenza che vide la nascita di Cristo, fattore determinante nella concezione dantesca del mondo e della storia. 3 Cfr. Trattatello, cit., c. XXIX. Secondo le parole del Boccaccio “per lo qual mutamento assai bene la sua posterità comprendere possiamo, la quale, come che nell’altre sue opere stea, sommamente vive nella sua Commedia, la quale, secondo il mio giudicio, ottimamente è conforme al paone, se le propietà de l’uno e de l’altra si guarderanno. Il paone tra l’altre sue propietà per quello che appaia, n’ha quattro notabili. La prima si è ch’egli si ha penna angelica, e in quella ha cento occhi; la seconda si è che egli ha sozzi piedi e tacita andatura; la terza si è ch’egli ha voce molto orribile a udire; la quarta e ultima si è che la sua carne è odorifera e incorruttibile”. Trattatello, cit., c. XXIX. 5 Ibidem. 6 Dante y su obra, cit., p. 16. 4 162 Gli elementi che l’autore evidenzia in questa prima parte a carattere storico e biografico mostrano quale immagine della personalità di Dante Alighieri si sia formata nella mens del poeta spagnolo contemporaneo durante la sua lunga frequentazione dell’opera dantesca. Vi si legge tra le righe, una frequente identificazione del travagliato periodo storico vissuto da Dante, con quello non meno tormentato della guerra civile e della dittatura franchista, e attraverso questa identificazione un aperto messaggio ai contemporanei di invito al rinnovamento dell’uomo e della società. Il paradigma dantesco si pone quindi come ritrovamento delle proprie istanze poetiche e morali. Crespo comincia la sua trattazione delineando un bozzetto storico della Firenze ai tempi di Dante e descrivendo il travaglio della città preda delle continue lotte intestine tra differenti fazioni, disegnando il contesto della formazione culturale e poetica di Dante. Racconta poi l’amicizia di Dante con Guido Cavalcanti, di cui dice “tenía fama de extravagante y herético7 ”, e descrive la figura di Brunetto Latini ambasciatore fiorentino presso la corte di Alfonso X, supposto tramite di Dante con la cultura mistica islamica, e in particolare con le teorie del mistico Ben Arabí de Murcia, secondo gli studi di Asín Palacios 8 del 1919. Nel progredire della sua esposizione, Crespo offre una scelta contestuale di passi dal Convivio, dalle Epistole, dalla Vita Nuova, dalle Rime e dal Fiore, che traduce e commenta. Come emerge dal carteggio con Pedro Gimferrer, riportato in appendice, l’ambizione del poeta era quella di tradurre tutta l’opera dantesca. Queste traduzioni sono dunque da lui considerate il suo apporto più personale ed originale 9 alla dantologia ispanica. Un altro momento della vita di Dante significativo per Crespo, e la cui descrizione è occasione per tradurre un passo dal Convivio 10 , è il racconto della temporanea cecità di Dante, per cui il lume delle stelle gli sembrava opaco, e della sua guarigione con il riposo e i bagni di acqua fredda, per intercessione di S. Lucia, che per 7 Ivi, p. 24. Ángel Crespo si riferisce qui all’opera La escatología musulmana en la Divina Comedia, presente nella sua biblioteca personale nell’edizione del Instituto Hispano Árabe de Cultura, Madrid 1961. 9 Mi limito a riportare e commentare le traduzioni dei sonetti danteschi nel capitolo precedente, come proseguimento del discorso sulla traduzione poetica svolto in questa tesi. Tralascio invece l’analisi delle traduzioni crespiane della prosa dantesca, limitandomi a darne notizia, perché non coerenti alla mia trattazione sulla traduzione poetica. 10 “Per affaticare lo viso molto a studio di leggere, in tanto debilitai li spiriti visivi che le stelle mi pareano tutte d’alcuno albore ombrate. E per lunga riposanza in luoghi oscuri e freddi, e con affreddare lo corpo dell’occhio coll’acqua chiara, riuni’ sì la vertù disgregata che tornai nel primo buono stato della vista”. Convivio, III, IX, 15, la traduzione in Dante y su obra, cit., p. 27. 8 163 questa ragione è colei che, nella Commedia, sotto forma di aquila, trasporta Dante alla soglia del Purgatorio. Nel delineare la personalità civile e morale di Dante, è significativa la descrizione della sua implicazione nella vita politica fiorentina e le vicende che ne determinarono l’esilio. Nel ricordare l’ambasciata a Roma del 1301, Crespo cita la celebre frase tradizionalmente attribuita a Dante “Se vado, chi resta? E se resto, chi va? 11 ”. La comune sorte della lontananza forzata dalla patria costituisce un punto di immediata sintonia esistenziale tra Crespo e Dante: in uno dei saggi brevi precedentemente commentati 12 Dante è nominato “el genial desterrado”. Per descrivere lo stato d’animo di Dante nei primi anni dell’esilio Crespo cita e traduce un altro passo dal Convivio 13 , evidenziando la condizione del doloroso peregrinare dell’esule di corte in corte e l’umiliazione di dover vendere i suoi servigi di letterato presso chi non sempre ne riconosceva il valore morale e intellettuale. Nel resoconto storico delle vicissitudini dell’esilio, Crespo traduce un brano dell’Epistola I 14 per descrivere le circostanze che determinarono il tentativo armato dei Bianchi di rientrare a Firenze, represso violentemente con la sconfitta dei Guelfi Bianchi nella battaglia della Lastra, e la separazione tra Dante e i suoi compagni d’esilio, di cui parla Cacciaguida nella sua profezia in Par. XVII. 11 Ivi, p. 31. Cfr. Lo dantesco, cit. p. 99. 13 “Poi che fu piacere de li cittadini de la bellissima e famosissima figlia di Roma, Fiorenza, di gittarmi fuori del suo dolce seno – nel quale nato e nutrito fui in fino al colmo de la vita mia, e nel quale, con buona pace di quella, desidero con tutto lo cuore di riposare l’animo stancato e terminare lo tempo che m’è dato –, per le parti quasi tutte a le quali questa lingua si stende, peregrino, quasi mendicando, sono andato, mostrando contra mia voglia la piaga de la fortuna, che suole ingiustamente al piagato molte volte essere imputata. Veramente io sono stato legno sanza vela e sanza governo, portato a diversi porti e foci e liti dal vento secco che vapora la dolorosa povertade; e sono apparito a li occhi a molti che forseché per alcuna fama in altra forma m’aveano imaginato, nel conspetto de’ quali non solamente mia persona inviliò, ma di minor pregio si fece ogni opera, sì già fatta, come quella che fosse a fare.” Convivio I, III, 45, la traduzione in Dante y su obra, cit., p.35. 14 Scritta a nome dei fuoriusciti fiorentini di parte bianca e del loro capitano generale (Alessandro da Romena) a Niccolò Albertini da Prato, vescovo di Ostia e Velletri, nonché legato apostolico a Firenze (dove era stato incaricato da Benedetto XI di tentare una riconciliazione tra Bianchi e Neri), la lettera, che risponde a una missiva del cardinale, esordisce scusando il proprio ritardo, causato non da ignavia o negligenza, ma dalla necessità di concordare all’interno della Fraternitas dei Bianchi una risposta comune all’ambasciatore del pontefice. Dopo aver dichiarato di aver preso le armi contro Firenze solo per difendere la libertà e la pace dei suoi abitanti, libertà e pace che agli esuli stanno a cuore tanto quanto al cardinale, Dante ringrazia l’Albertini per la sua opera di mediazione, meritevole di ricompense celesti, assicurandolo che egli e i suoi compagni sono pronti a porre fine alle ostilità in qualsiasi momento. La lettera, che preannuncia un’altra risposta di carattere ufficiale, si conclude con una professione d’obbedienza incondizionata degli esuli nei confronti del cardinale. La traduzione in Dante y su obra, cit., p. 38. 12 164 Nelle pagine successive, il poeta traccia un vero e proprio ritratto di Dante esiliato: “Dante vagó durante estos primeros años de su destierro de un lugar a otro, siempre con sus libros y sus papeles y con la esperanza, nunca perdida de volver a Florencia 15 ”. Crespo dà anche informazioni che non hanno carattere storico, ma sono una sorta di immedesimazione con le condizioni di vita del poeta: “Dante, a pesar de los inconvenientes del exilio, debió sentirse libre, tal vez más libre que durante sus últimos años florentinos, tan mediatizados por la política, para dedicarse a su verdadera vocación de escritor 16 ”, osservazione che ne ricorda una analoga di Crespo stesso riguardo al suo proprio esilio: “tengo todo el tiempo que no dedico a mis labores académicas para continuar siendo un escritor 17 ”. La lettura dell’Epistola 18 III a Cino da 19 Pistoia e del sonetto che essa accompagna che qui Crespo traduce , in cui si trattano questioni poetiche d’arte e d’Amore, motivano l’immagine di Dante esule che “ocupado por los estudios y el amor, debía sentir que pese a todas las circunstancias adversas, se estaba realizando como escritor, y ello no podía por menos de darle fuerzas y hasta producirle optimismo 20 ”. Crespo segue le vicende biografiche e gli atteggiamenti che Dante assume negli eventi politici attraverso le epistole: dei tempi della discesa di Arrigo 15 16 17 VII l’epistola V 21 Ivi, p. 39. Ivi, p. 40. Ángel Crespo, Notas sobre el exilio, manoscritto autografo, Mayagüez, 11 de marzo 1983. Inedito. 18 La lettera, comitatoria del sonetto “Io sono stato con Amore insieme”, risponde a un testo di Cino da Pistoia, che interroga il poeta “se l’anima possa passare da una passione a un’altra [...] secondo la stessa potenza e per oggetti diversi di numero ma non di specie”. Ringraziato il suo interlocutore per avergli offerto la possibilità di accrescere la propria fama, chiamandolo a rispondere a un quesito molto dibattuto, Dante ammette che la passione per un oggetto possa affievolirsi e infine estinguersi, contemporaneamente al formarsi, nell’anima, dell’amore per un altro oggetto. Per dimostrare ciò il poeta ricorre a un sillogismo, le cui premesse dichiara di lasciare alla dimostrazione di Cino: ogni potenza che non si esaurisce con l’estinzione di un atto si conserva naturalmente per un altro; le potenze sensitive, permanendo l’organo, non si esauriscono col cessare di un solo atto e si riservano naturalmente per un altro; poiché la potenza del desiderio, che è la sede dell’amore, è una delle potenze sensitive è evidente che dopo l’estinguersi di una passione tale potenza rimane disponibile per un’altra passione. Rinviando per un’adeguata esemplificazione ad alcuni brani delle Metamorfosi ovidiane (III 611; IV 192), Dante invita l’amico a sopportare con paziente rassegnazione le avversità della Fortuna, leggendo Seneca e meditando sul versetto evangelico “se voi foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo” (Giov 15, 19). 19 Dante Alighieri, Rima LXX, la traduzione di Crespo in Dante y su obra, cit., p.41. Cfr. supra, cap. 2.5 per il commento alla traduzione. 20 Dante y su obra, cit., p.41. 21 Epistola V [settembre-ottobre 1310]. In apertura a questa lettera Dante chiama se stesso “exul immeritus”. Dopo aver annunciato l’avvento di una nuova èra di pace e di giustizia, invita l’Italia a rallegrarsi per l’imminente discesa del suo sposo, il neoeletto imperatore Arrigo VII, il quale porrà riparo alle discordie intestine che la affliggono. Biasimata la barbarie della stirpe lombarda, ribelle al potere imperiale, Dante esorta gli italiani ad assecondare la venuta del nuovo “Hectoreus pastor”, la cui autorità 165 “a tutti uno per uno, i Re d’Italia, e ai Senatori dell’alma Urbe, e ai Duchi, ai Marchesi, ai Conti, ai Comuni”, la VI 22 “agli scelleratissimi fiorentini”, e la trittico epistolare della discesa di Arrigo VII 23 VII che conclude il , diretta all’imperatore stesso, in cui Crespo nota i toni del profeta “que increpa por amor a su proprio pueblo que se ha desviado del buen camino 24 ”. Sono gli anni in cui Dante compone la Monarchia. Lo stesso tono profetico di Dante “libre de prejuicios humanos” si ritrova anche nell’epistola XI 25 . discende direttamente da Dio, come dimostra la storia stessa dell’impero romano, giunta al suo apice in quei dodici anni della pax augustea che la divina Provvidenza aveva predisposto per l’incarnazione di Cristo. Per questo Dante invita a onorare in Arrigo VII colui che lo stesso papa Clemente V (con l’enciclica Exultet in terris) illumina della luce della sua apostolica benedizione. 22 Epistola VI [31 marzo 1311]. Composta nella medesima occasione a cui si riferisce la lettera precedente, quest’epistola, diretta agli “scelestissimis Florentinis intrinsecis”, esordisce ricordando che l’impero romano fu predisposto dalla Maestà Divina per assicurare agli uomini una società ordinata e pacifica, circostanza provata dal fatto che quando il seggio imperiale è vacante l’intero genere umano esce dal retto cammino e l’Italia cade in preda a laceranti lotte intestine. Rivolgendosi poi direttamente ai Fiorentini che, vittime della loro insaziabile cupidigia, si rifiutano di fare atto di sottomissione ad Arrigo VII e si preparano a opporgli resistenza armata, Dante invita i suoi concittadini a desistere dai loro empi propositi, ammonendoli sulla punizione riservata da Dio a chi contrasta la sua volontà, e mette in guardia Firenze dalla vendetta dell’imperatore, preannunciandole le molteplici devastazioni di un lungo assedio e di un’infausta capitolazione. Ricordando, che la vera libertà consiste nella lieta e spontanea sottomissione alle leggi dell’impero, fatte a immagine della “iustitia naturalis”, Dante inveisce contro la miserabile stirpe fiesolana, a cui profetizza una imminente distruzione. Infine la lettera esorta i Fiorentini a pentirsi per tempo della loro folle presunzione. 23 Epistola VII [17 aprile 1311]. Questa lettera, scritta dall’“exul immeritus” a nome suo e degli altri fuoriusciti fiorentini (“omnes Tusci qui pacem desiderant”), si rivolge direttamente all’imperatore, salutandolo come sole a lungo desiderato, sorto a segnare l’alba di un’èra finalmente felice. Dopo aver ricordato ad Arrigo che la giurisdizione del suo impero si estende per diritto naturale su tutte le terre del pianeta e che lo stesso Cristo, sottomettendosi al censimento della popolazione decretato dall’editto di Augusto, sancì la legittimità del potere imperiale, Dante esorta il principe romano, allora intento a sedare la rivolta di alcune città lombarde, affinché rotto ogni indugio scenda risolutamente in Toscana per estirpare la vera radice di quella ribellione, annidata nella città di Firenze. Questa, infatti, non solo fomenta l’insurrezione delle altre città italiane contro l’imperatore, come una pecora infetta che contagia il gregge del suo padrone, ma cerca anche di seminare discordia tra lui e il pontefice. La lettera si chiude con l’auspicio di un prossimo rientro degli esuli nella città toscana, finalmente ricondotta sotto il vessillo augusteo. 24 Dante y su obra, cit., p. 44. 25 Epistola XI [maggio-giugno 1314]. Indirizzata ai cardinali italiani riuniti nel conclave che avrebbe portato all’elezione di Giovanni XXII (1316), la lettera, che si apre con la citazione di un versetto delle Lamentazioni di Geremia (I, I), esordisce paragonando la Gerusalemme assediata e distrutta, pianta dal profeta, a Roma, la sede apostolica consacrata dal sangue dei santi Pietro e Paolo, ma abbandonata dai pontefici dopo il trasferimento di Clemente V ad Avignone. Denunciato lo scherno di cui è fatto oggetto il culto cristiano da parte degli infedeli, dei giudei e dei pagani a causa dell’esilio del papato in terra di Francia, Dante accusa i cardinali di aver condotto il carro della Chiesa fuori dalla via tracciata da Cristo e rammenta loro la punizione divina che li attende. Pur riconoscendosi ultima pecora del gregge cristiano, il poeta confida di poter suscitare con le sue parole sentimenti di vergogna e di pentimento in quei pastori della Chiesa che sono animati, non dalla giustizia o dalla carità, bensì dalla cupidigia. Dopo aver dichiarato che il suo sdegno è condiviso da molti, rinnova ai propri interlocutori l’invito a pentirsi e, rivolgendosi in particolare ai cardinali romani, cerca di muoverli a compassione per la sorte della loro città natale. Infine, rimproverati Napoleone Orsini e Jacopo Gaetano Stefaneschi per aver assecondato, in 166 Mi pare significativo il fatto che, mentre queste epistole sono soltanto citate, quella tradotta per intero è la celebre epistola XII, “all’amico fiorentino” che Dante scrive in risposta all’amnistia concessa ai fuoriusciti fiorentini a condizioni infamanti 26 . La fierezza e l’integrità che qui Dante dimostra nel suo assoluto rifiuto di alcun compromesso, ne fanno un modello di eroismo morale particolarmente caro al poeta che viveva un esilio volontario per ragioni morali: “porque ya no podía soportar el ambiente de corrupción moral que se respiraba en España después de casi treinta años de dictadura 27 ”. Dante diventa, quindi, modello umano e culturale, figura etico-politica del poeta che per la verità va in esilio. A conclusione della biografia di Dante Crespo cita gli anni ravennati, ricorda la figlia di Dante, Antonia che entrò in monastero con il nome di Beatrice, e l’ultimo viaggio a Venezia durante il quale Dante contrasse la febbre che provocò la sua morte. Proprio a Venezia Crespo visse un anno del suo esilio, ed a questa città rimase sempre particolarmente legato come testimoniano la sua traduzione delle Memoires d’Espagne di Giacomo Casanova, la sua frequentazione dei poeti dialettali veneziani e un’intera raccolta poetica dedicata a Venezia 28 . nome d’interessi personali, il trasferimento della sede pontificia in Francia, Dante invita i cardinali italiani a fare ammenda delle loro colpe adoperandosi per riportare a Roma la sede del papato. 26 Epistola XII, A un amico fiorentino. [maggio 1315]. “Ho accolto con la riverenza e l’affetto che vi devo la vostra lettera – e ho ben compreso, con grato animo, come profondamente vi stia a cuore il mio ritorno alla patria. E tanto più mi sento a voi obbligato, quanto è più raro agli esuli trovare amici. La mia risposta non sarà quale forse la vorrebbe la viltà di alcuni; pure caldamente chiedo sia esaminata e discussa e giudicata nel consiglio vostro. Ecco dunque che dalle lettere vostre e di mio nipote, nonché di numerosi amici, vengo informato come, grazie ad un ordinamento di perdono ai fuoriusciti, promulgato da poco in Firenze io potrei essere assolto e fare immediato ritorno qualora fossi disposto a pagare una certa somma e a subire di essere offerto. Due argomenti ridicoli e malvagiamente architettati, o padre; voglio dire da coloro che li han proposti, poiché la vostra lettera, ben più discreta e saggia, nulla di simile conteneva. Ebbene questo sarebbe il magnanimo editto di grazia, con cui si richiama in patria Dante Alighieri costretto all’esilio per quasi quindici anni? Questo gli meritò la sua innocenza a tutti manifesta? la sua assidua, sudata fatica negli studi? No, lungi da un uomo vissuto di filosofia una bassezza d’animo così temeraria da tollerare di offrirsi quasi in catene come un Ciolo qualunque o un altro infame. Lungi da chi predica la giustizia, sofferte le iniquità, il versare il proprio avere a chi l’offese, quasi a benefattore! Non questa è la via del mio ritorno in patria, o padre; se un’altra se ne trovi, o da voi, o anche da altri, che non leda il nome e l’onore di Dante, quella io accetterò, e senza indugio. Ché se a Firenze non s’entra per una via siffatta, io non entrerò a Firenze mai più. E che? Non avrò forse ovunque negli occhi la visione del sole e degli astri? Potrò pure, sotto ogni cielo, contemplar le più dolci verità, anche se non mi arrendo inglorioso, anzi ignominioso, al popolo e alla città di Firenze. E non sarà il pane a mancarmi.” 27 Ángel Crespo, Notas sobre el exilio, cit. Cfr supra, cap 1.2. 28 Plata en la Laguna (in Poesía 1996, tomo 3), interamente dedicata a Venezia, fu pubblicata nella traduzione italiana di Bruna Cinti col titolo Argento sulla Laguna (Piovan editore, Venezia 1990). L’anno precedente, Crespo riceveva alla Scoletta di S. Zaccaria, il 3 ottobre, le chiavi d’oro della Città di Venezia, come riconoscimento ufficiale per la sua poesia. 167 Il secondo nucleo tematico del volumetto in questione è l’illustrazione delle opere dantesche. Il primo paragrafo è dedicato alla spiegazione del significato poetico, basilare per tutta la successiva poesia italiana, del Dolce Stil Novo e della scuola dei Fedeli d’Amore, che Crespo arriva a qualificare come “religione poetica” per l’aspirazione, condivisa dagli intellettuali afferenti al gruppo, di fare della poesia la guida spirituale del paese. Crespo non accetta la tesi che Dante facesse parte di una setta esoterica dei Fedeli d’Amore capitaneggiata da Guido Cavalcanti, anche se la ritiene molto attraente; certamente però, considera Dante e il gruppo di intellettuali Fedeli d’Amore degli anticonformisti che coincidían sobre una serie de puntos fundamentales, entre los que se contaba su denuncia de la corrupción eclesiástica, su aspiración a una religiosidad más espiritual en la teoría y en la práctica que la predicada por Roma, basada sobre todo en la caridad, y en la expectación de una sociedad nueva y justa. […] No cabe duda de que hay cierto esoterismo en el lenguaje de los fieles de Amor, pero se trata, al parecer de un esoterismo poético y, en su más amplia acepción, cultural 29 . Senza dubbio questa interpretazione della religiosità dantesca dice molto della spiritualità crespiana, svincolata dall’apparteneza a qualsiasi istituzione religiosa, tutta individuale, vissuta come intuizione dell’animazione mistica del mondo, basata su letture e conoscenze teosofiche e gnostiche, e portata avanti mediante la tensione della lettura segreta del mondo, la ricerca poetica e conoscitiva dell’aldilà delle cose, della “realidad entera 30 ”. Dalla Vita Nuova, Crespo cita e traduce 31 in questo paragrafo il primo sonetto, relativo al sogno di Dante dopo il saluto della Donna. Amore sostiene tra le braccia Madonna addormentata, che, svegliatasi, si ciba del cuore di Dante. Amore si allontana quindi piangendo. Il significato decisivo di questo sonetto è quello di porsi come avvio simbolico dell’amicizia di Dante con Guido Cavalcanti, e di una nuova stagione poetica, dopo quella improntata sulla poesia guittoniana, segnata dalla scoperta di una nuova forma di Amore e di Poesia che trova il proprio fine nella lode della donna amata. 29 Dante y su obra, cit., p. 54. Scrive Ángel Crespo: “Adquirí conciencia, durante mis largas temporadas de lectura, aislamiento y meditación, de que [...] hay una antiquísima tradición conceptual que no es unícamente cristiana, sino también pagana, y que se refiere, como término ideal y real al mismo tiempo más que a un más allá situado en el Empireo, a una realidad otra que se halla latente en lo cotidiano, en nuestro mundo y que sólo la poesía puede iluminar mediante una síntesis de lo racional y lo intuitivo”. Mis caminos convergentes, in AA.VV. El tiempo en la palabra, cit., p. 26. 31 Vita Nuova, c. III. La traduzione in Dante y su obra, p. 56. 30 168 Come esempio di poesia guinizzelliana, di cui la stessa Vita Nuova costituisce il superamento dantesco, Crespo traduce il celebre sonetto Amore e cor gentil sono una cosa 32 , in cui Dante definisce l’essenza di Amore secondo la concezione della scuola stilnovista. Il poeta-traduttore considera il rinnovamento estetico, che la scelta della poesia della lode apporta alla poesia dantesca, di grande interesse e modernità, come riflessione metapoetica sulla potenzialità della parola di essere significante. Questo rappresenta, del resto, il nucleo centrale e la svolta più significativa della Vita Nuova: quando Beatrice gli nega il saluto beatificante, Dante decide di abbandonare l’uso di parlare dei propri tormenti, e scopo dell’Amore diventa la capacità della parola poetica di lodare la Donna, aspirazione che culminerà nel proposito di un’opera che dica “quello che mai non fue detto d’alcuna” (Rima passo del cap. XXIX XLII). Beatrice è miracolo, secondo il celebre della Vita Nuova 33 in cui Dante tratta dell’importanza del numero nove negli eventi relativi alla gentilissima, che Crespo riporta in traduzione commentando “la cita puede parecer esotérica”, e puntualizzando l’importanza rivelatrice della numerologia simbolica nella mentalità medievale. Riguardo la dibattuta questione sull’attribuzione del Fiore, Crespo, sulla base delle argomentazioni di Contini, Mazzoni e Vallone, ne riconosce la paternità dantesca e lo spiega, concordando con gli studi di Aldo Vallone, come frutto di un decennio (12901300) di crisi morale seguito alla morte di Beatrice. Un riscontro che testimonia questa crisi si trova nel sonetto XLI di Guido Cavalcanti rivolto a Dante, che Crespo cita e traduce in questa monografia 34 . 32 Vita Nuova, c. XX. La traduzione ivi, p. 57. Vita Nuova, XXIX, 2-3: “Perché questo numero fosse in tanto amico di lei, questa potrebbe essere una ragione: con ciò sia cosa che, secondo Tolomeo e secondo la cristiana veritade, nove siano li cieli che si muovono, e, secondo comune oppinione astrologa, li detti cieli adoperino qua giuso secondo la loro abitudine insieme, questo numero fue amico di lei per dare ad intendere che ne la sua generazione tutti e nove li mobili cieli perfettissimamente s’aveano insieme. Questa è una ragione di ciò; ma più sottilmente pensando, e secondo la infallibile veritade, questo numero fue ella medesima; per similitudine dico, e ciò intendo così. Lo numero del tre è la radice del nove, però che, sanza numero altro alcuno, per se medesimo fa nove, sì come vedemo manifestamente che tre via tre fa nove. Dunque se lo tre è fattore per se medesimo del nove, e lo fattore per se medesimo de li miracoli è tre, cioè Padre e Figlio e Spirito Santo, li quali sono tre e uno, questa donna fue accompagnata da questo numero del nove a dare ad intendere ch’ella era uno nove, cioè uno miracolo, la cui radice, cioè del miracolo, è solamente la mirabile Trinitade.” La traduzione in Dante y su obra, cit., p. 60. 34 Rime di Guido Cavalcanti, testo stabilito da Gianfranco Contini in Poeti del Duecento, vol. II Milano, Napoli, 1960, la traduzione in Dante y su obra, cit., p. 65. 33 169 Crespo definisce il Fiore, “lleno de ingenio y soberbiamente construido 35 ”, come un’opera poetica totalmente amorale 36 , di carattere allegorico, in cui l’allegoria è trattata come materia reale 37 . Prima di affrontare la spiegazione della Commedia, Crespo passa ad analizzare le cosiddette “opere minori”, rifiutando una visione staticamente armonica dell’opera dantesca, senza quindi esaminare le altre opere in funzione della Commedia, o come un processo evolutivo lineare. Le opere di Dante, considerando anche le rielaborazioni e riletture d’autore a posteriori, non sono collegate in maniera lineare, ma sono come i diversi astri di una costellazione. Attraverso le opere si segue la formazione delle idee dantesche, nelle loro trasformazioni a volte violente ma sempre dotate di grande carica poetica, non secondo il cammino razionale della ricerca critico-filosofica, “sino según el intuitivo y lleno de pasión del poeta 38 ”. Nonostante la grande cultura filosofico I’ vegno ‘l giorno a te ‘nfinite volte e trovoti pensar troppo vilmente: molto mi dòl della gentil tua mente e d’assai tue vertù che ti son tolte. Al día voy mil veces a tu lado y te encuentro pensando muy vilmente duélome entonces de tu gentil mente y de tanta virtud que te ha dejado. Solevanti spiacer persone molte; tuttor fuggivi l’annoiosa gente; di me parlavi sì coralemente, che tutte le tue rime avie ricolte. Entre muchos, sentíaste enfadado y siempre huías de molesta gente hablabas tú de mí tan cordialmente que cuanta rima hiciste he recordado. Ya no me atrevo, por tu mala vida, Or non ardisco, per la vil tua vita, far mostramento che tu’ dir mi piaccia, a decir que me agrada tu poesía né ‘n guisa vegno a te, che tu mi veggi. ni voy a ti de modo que me veas. Se ‘l presente sonetto spesso leggi, lo spirito noioso che ti caccia si partirà da l’anima invilita. Puede que este soneto aún releas, y el espíritu vil que te acompaña salga entonces de tu alma envilecida. 35 Ivi, p.66. Riguardo al giudizio crespiano sull’amoralità radicale mi pare opportuno accennare qui al fatto che Crespo è stato anche studioso e traduttore delle opere di Sade e di Casanova. Sinteticamente la sua opinione su questi due rappresentanti della cultura del secolo dei Lumi, è racchiusa in queste due affermazioni: “La Histoire de ma vie [di Giacomo Casanova] es […] un canto a la libertad del individuo, a los derechos de la sensibilidad y de la intuición, y de una ruptura con las convenciones y los prejuicios morales e ideológicos en general de la sociedad culta de su siglo”. Ancora “la obra de Sade es la poesía heróica del erotismo. [...] Así como el héroe tiene una moral peculiar [...] de la misma manera el libertino se conduce de acuerdo con unas reglas que no son las de la humanidad común [...] el libertino, como el héroe, eleva sus principios a regla absoluta y subordina a ellas todas las demás consideraciones.” (Cfr. Á.C., Giacomo Casanova, un clásico incómodo, e Los héroes de Sade in AA.VV. El tiempo en la palabra, suplemento, cit., pp. 70-74). 37 Dei sonetti del Fiore, Crespo traduce il CI e il CLVIII in Dante y su obra, cit., rispettivamente alle pp. 69 e 70. 38 Dante y su obra, cit., p. 73. 36 170 teologica su cui si basano le sue opere, Dante opera come un poeta anche negli scritti teorici: tanto en El Convite como en La Lengua Vulgar y en La Monarquía, está pronto al movimiento pasional de la invectiva, que suele propinar con imágenes y metáforas puramente poéticas; cree, además, que todo cuanto es bello, incluso la forma silogística de un razonamiento, es verdadero; interpreta muchas veces la realidad como figura y alegoría, lo mismo que en sus escritos poéticos; no es realmente metódico, ni en ninguno de sus escritos emprende la tarea, propia de todo filósofo, de establecer unas bases sistemáticas de pensamiento; y, sobre todo, muestra un tono profético en ocasiones, incluso cuando más entregado se halla a la argumentación filosófica. 39 Le opere teoriche costituiscono quindi un complemento indispensabile per comprendere il mondo poetico dantesco, e in questa funzione vengono presi in considerazione dall’analisi crespiana il Convivio 40 , il De vulgari eloquentia, e la Monarchia. Nel primo dei tre capitoli dedicati alla Commedia, Crespo delinea una visione generale della conformazione dei tre regni e della loro topografia morale 41 . Riguardo al Paradiso Crespo scrive, approfondendo uno spunto già accennato nello studio introduttivo alla traduzione 42 : se ha dicho que en el Paraíso abundan más que en las otras dos cántigas las disquisiciones teológicas y filosóficas. Es cierto, pero ello no obsta a la calidad poética de la cántiga tercera; y menos aún si pensamos que el pensamiento sistemático no está reñido con la poesía cuando es expresado, no como un silogismo, sino como una revelación. [...] Aparte de ello, es tal la precisión de Dante en el empleo de las palabras, son tan audaces y expresivos los neologismos que se ve obligado a inventar para poder expresar sus casi inefables pensamientos, que la materia lingüística del 39 Ivi, p. 74. Alla p. 75 Crespo cita e traduce dal Convivio il passo I, XII, 1-2, che commenta con queste parole: “¿No está Dante enseñando a razonar poéticamente?”. “Se manifestamente per le finestre d’una casa uscisse fiamma di fuoco, e alcuno dimandasse se là dentro fosse il fuoco, e un altro rispondesse a lui di sì, non saprei bene giudicare qual di costoro fosse da schernire di più. E non altrimenti sarebbe fatta la dimanda e la risposta di colui e di me, che mi domandasse se amore a la mia loquela propria è in me e io li rispondesse di sì, appresso le su proposte ragioni. Ma tuttavia, e a mostrare che non solamente amore ma perfettissimo amore di quella è in me, e a biasimare ancora li suoi avversarii ciò mostrando a chi bene intenderà, dirò come a lei fui fatto amico, e poi come l’amistà è confermata.” 41 A questo proposito, per spiegare l’ordine dei cieli paradisiaci, Crespo cita e traduce alla p. 102, dal Convivio II, III, 7. 42 Cfr. supra, p. 21. 40 171 poema se eleva, sin más, a la categoría de lo poético por el camino de la intensificación 43 . Nel secondo dei tre capitoli dedicati alla Commedia, “Alegorías figuras y enigmas”, Crespo pone le premesse della comprensione del poema sulle parole di Dante stesso a Cangrande della Scala 44 , evidenziando gli elementi che considera decisivi per la comprensione del poema: il concetto di figura come forma di allegoria prettamente cristiana, secondo l’omonimo saggio di Auerbach, da Crespo ritenuto un contributo decisivo e rivelatore. Seguendo gli studi del Sarolli 45 , l’autore passa ad un’analisi del valore simbolico e strutturale del numero nella Commedia, secondo il detto sapienziale “omnia in mesura, pondere et numero disposuisti” (Sap 21, 20), da cui discende l’architettura estremamente calcolata delle opere dantesche. L’analisi si sofferma poi sugli enigmi del Veltro (Inf. I, 99) dove Crespo concorda con Sapegno sulla genericità simbolica di questa figura come un riformatore politico che riporterà l’ordine divino sulla terra; e quello celebre “cinquecento diece e cinque” profezia di Beatrice in Purg. XXXIII, 43, identificazione parallela a quella dell’Apocalisse di una guida imperiale (cambiando l’ordine delle cifre del numero romano DXV, si ha la parola DVX); anche in questo caso Crespo concorda con l’opinione di Sapegno. L’ultimo capitolo del volume riprende lo studio sul significato delle metamorfosi 46 nella Commedia ribadendone il valore come “el más profundo sentido de la Comedia y, en consecuencia del conjunto de la obra de Dante”. Il materiale considerato in questo capitolo, come regesto degli studi crespiani su Dante, documenta l’impegno culturale del traduttore nel ricostruire il contesto dell’opera dantesca e il mondo a cui essa si riferisce. D’altra parte costituisce anche una significativa testimonianza del magistero dantesco che agisce, attraverso i secoli, su una personalità poetica dei nostri giorni, come spinta ad un approfondimento irreversibile della sua visione e comprensione del mondo. Concludendo vorrei osservare che la percezione crespiana della figura e dell’opera di Dante, mutuata dalla decisiva lettura poetica di Eliot, giunge posteriore all’amplissimo dibattito critico tra i diversi modelli interpretativi, alcuni contrastanti, 43 Dante y su obra, cit., p. 105. A questo proposito Crespo traduce il passo dell’Epistola XIII relativo all’allegoria. Ivi p.108 45 In particolare il saggio di riferimento qui è Analitica della Divina Commedia. 46 Cfr. supra cap. 3.3. 44 172 altri complementari che si svolgono dialetticamente tra i due centenari danteschi dal 1865 al 1965, a partire dal metodo storico foscoliano, attraverso la scuola di filologia testuale fiorentina di Barbi e Contini, dei cui strumenti Crespo volentieri si avvale, le ricerche filosofiche di Nardi e Gilson, la critica estetica di Benedetto Croce e quella stilistica di Spitzer, e guardando con interesse anche le interpretazioni dell’allegorismo morale simbolista e post-simbolista di Rossetti, Pascoli e Troya, si giova ecletticamente di questa feconda e differenziata focalizzazione dei molteplici aspetti del mondo dantesco 47 , per inserirsi, certamente in modo personale e secondo la propria sensibilità artistica, nel filone della recente esegesi dantesca che prende le mosse dalla concezione figurale di Auerbach, e con Singleton scopre il concetto di simbolo (allegoria) come fondamento dell’interpretazione scritturale della Commedia. In generale la conoscenza crespiana delle interpretazioni del mondo dantesco risponde ad un criterio di eclettica erudizione, e non si ascrive chiaramente a un deteminato modello interpretativo. Senz’altro però si può delineare una tendenza a prediligere una lettura di Dante che non releghi niente del messaggio dantesco alle circostanze storiche in cui si originò (quindi è certamente alieno da tagli interpretativi storicistici), per restituirlo, nei suoi molteplici aspetti innanzitutto di sommo poeta e maestro di stile poetico, di cives, di esempio di umanità, ad una lettura attuale e vicina alla sensibilità dell’uomo contemporaneo. 47 A questo proposito cfr. supra, appendice avvale il traduttore. II come testimonianza dell’ampia documentazione di cui si 173 Capitolo 4. Ángel Crespo poeta di fronte a Dante 1. Dante personaggio della poesia crespiana: “onore e lume” L’opera di Ángel Crespo resta segnata in maniera indelebile dalla lunga osmosi con il testo dantesco, che l’opera di traduzione della Commedia significò per il poeta. “Vagliami ‘l lungo studio e ‘l grande amore/ che m’ha fatto cercar lo tuo volume” (Inf. I, 82-84); le parole che Dante rivolge a Virgilio alle pendici del “dilettoso monte” nella selva oscura, potrebbero essere messe in bocca ad Ángel Crespo e rivolte a Dante. Come Virgilio nella Commedia, Dante è, infatti, per Crespo, “figura que ilumina a los seguidores del arte poético el camino de la sabiduría 1 ”. L’atteggiamento ed il modo di manifestarsi dell’auctoritas dantesca sono quelli del portatore di luce (“ilumina”), di una fiaccola che si eleva al di sopra dei valori dell’ars poetica per indurli al proprio seguito. L’avvenimento fondamentale, che si impone a questo movimento senza fine (“camino”), è propriamente la mozione dell’arte: ecco la realtà di Dante, messianica e profetica, quotidiana dell’esperienza politica e morale, e mistica della luce e della verità. Coloro che si pongono in questa direzione, teorica, pratica e sperimentale vengono poi a costituire come una categoria eletta, quasi una distinzione professionale, vocazione o missione della poesia e del suo farsi, sotto la tutela sapienziale del maestro, “duca” e “signore”. La figura di Dante come guida dell’anima nell’esperienza della trascendenza, appare legata all’esperienza del fuoco catartico decisiva per conoscere la verità di sé stessi, e per ricevere l’illuminazione e il riverbero di quella stessa verità. Il significato del personaggio di Dante nella poesia crespiana, emerge chiaramente nella poesia Indicios del temor 2 , che rivive l’impasse del poeta davanti alla barriera di fuoco del canto XXVII del Purgatorio. Il testo è tutto percorso (o percosso) da un brivido di fonemi vibranti: la coppia di vocale e vibrante presente nel titolo nella parola “temor” si ripete in ogni verso, a rappresentare il tremore per il passo decisivo, il timore di “dar un paso más” 3 . Il passo da compiere è tanto più decisivo, in quanto si tratta di quello che fa la 1 Cfr. Dante y su obra, cit., p. 120 Da Ocupación del fuego (1986-1989), in Poesía 1996, tomo 3, p. 225. 3 “Un paso más y me encontraré con un dios. Sería demasiado pequeño. Voy rodeando para no retroceder, para no encontrarle” (Ángel Crespo, Aforismos). Condannato dalla propria inadeguatezza (“sería pequeño”) ad un movimento circolare, improgressivo ed atemporale (uso dei verbi di modo infinito “voy 2 174 differenza tra la realizzazione della propria persona, e la non-realtà. Si legge, infatti, in un testo crespiano degli anni cinquanta dal titolo La huida 4 : “todo lo que he podido realizar/ y me faltó, no más, un paso”; la realtà in potenza verrebbe dunque realizzata in quel passo, e solo in quel passo (“no más”), che rappresenta l’espressione decisiva dell’umanità del poeta. Cito Indicios del temor: ¿El aire no ha de arder cuando sus cuerdas vibran para evocar – espejo – al fuego? ¿Y la garganta no han de sofocar sus presentidas llamas? Recuerdo a Dante, que al final entró en el fuego de la última cornisa de la montaña, y excesivo le pareció para fundir cristal aquel ardor sobrado. Mas ¿qué exceso será éste, que así funde - más sutil que cristal, más fugitiva que transparente es el cristal - la voz? De Dante, ni un cabello quemó, ni la orla de su túnica: ni el pespunte de la orla de su túnica ardió. Mas ¿siempre acaso el fuego muestra así su verdad, el ser de su verdad de claridad, a quien le huía y se le entrega luego? L’aria, il respiro vitale, si trasforma in uno strumento musicale, come se lo spasimo poietico producesse una vibrazione sonora (“sus cuerdas vibran”) che, infiammando l’atmosfera (“arder”), fosse capace di suscitare, o di reinventare, il fuoco, luce e calore, strumento di rivelazione e condizione di verità, che nella metamorfosi della consumazione restituisce le cose alla segreta ed essenziale nudità dello spirito. Allo stesso tempo il fuoco della verità è evocato (“para evocar … al fuego”) ma anche evocatore, cioè fattore scatenante la voce e la musica della poesia (“cuando sus cuerdas vibran”). L’atmosfera (“el aire”), condizione necessaria alla vita sulla terra, è concepita come spasimo di parola (di significato), specchio ed evocazione, vibrante per il rodeando”, “no retroceder”, “no encontrarlo”), il poeta tremante sembra ritrovare la sua energia nella sequela del paradigma dantesco. 4 Da En medio del camino (1949-1970), in Poesía 1996, tomo 1, p. 127. 175 riverbero del fuoco che riflette. L’ardore estremo della purificazione (“exceso”), può fondere la voce (“¿qué exceso/ será este, que así funde/ – más sutil que cristal, más fugitiva/ que transparente es el cristal – la voz?”) perché possa amalgamarsi, fondersi con le cose per scoprirne il nome esatto e mostrarle con la limpidezza e la trasparenza del cristallo, e non più “per speculum in aenigmate” (1Cor 13, 12). Il fuoco è ciò che trasforma la realtà in parola poetica, quindi nella sua verità. L’exceso è l’ardore eccessivo (“ardor sobrado”) della forgia che è la poesia nel suo ruolo di nomenclatrice del mondo, alla ricerca della coincidenza delle cose con il loro nome, e la barriera di fuoco luogo proprio del maestro dell’inventio poetica, Dante, che infatti resta incolume (“de Dante, ni un cabello/ quemó”). L’intuizione delle fiamme presentidas provoca un senso di soffocamento, causando un’arida impossibilità di parola (fisicamente percepibile nella secchezza dell’occlusione velare, del tratto fricativo delle consonanti e dell’incespicare delle dentali: “garganta”, “sofocar”, “sus presentidas llamas”). Non l’esperienza fisica del calore, ma un sentimento anticipato, divinazione attraverso impressioni indefinibili del fuoco di verità che è la parola, soffoca la gola per la percezione di ciò che la barriera di fuoco nasconde. È lo spasimo dell’esperienza mistica di un Amore violentissimo e totalizzante, vòlto a qualcosa di non conosciuto con la ragione, non visto ma solo presentito, quindi ancora temuto. (Anche Dante indugia davanti alla cortina di fuoco del ventisettesimo canto del Purgatorio nel timore di compiere il passo decisivo, fino a quando non apprende che Beatrice è oltre quella barriera). Dante è dunque colui che “al final entró”, cioè il portatore del supremo coraggio della Verità, figura emblematica di chi si assume il rischio del passo decisivo della conoscenza e della poesia senza timore di bruciarsi. Per questo Dante si innalza al ruolo di “duca” dell’anima nell’esperienza dell’oltre: “de tu mano/ – más feliz que de Ulises el gobierno– / llegué al opuesto lido” (A Dante Alighieri 5 ). La “última cornisa” è il momento fatale in cui compiere el paso más. Il mondo è vissuto come ineludibile scelta, tra il rischio della conoscenza, oppure il passo indietro nel silenzio delle cose conosciute. 5 Da Parnaso Confidencial (1971-1995), in Poesía 1996, tomo 2, p. 285. 176 L’attraversamento del fuoco “sin temor de apagarlo ni arder”, come Dante “casi al final de la ascensión”, in un processo di ascesi per conquistare la verità, è anche decretato da Hermes, il dio psicopompo, che, appunto, traduce le anime “al opuesto lido”, come condizione necessaria, unica via (“sólo”) per giungere a vestire la tunica trasparente degli dèi, per imparare la scienza dell’essere e del non essere (“es y no es”) che riporta all’Eden primigenio “donde todo verde es vergel”, luogo privilegiato in cui l’uomo è nomenclatore della realtà e detentore dell’Ursprache ormai preclusa ai mortali, la lingua della comunicazione tra l’uomo e Dio che fu negata alla discendenza adamitica a causa del peccato originale. È il dominio linguistico – a cui il poeta accede attraverso il fuoco e l’ascesi – in cui, abolita la condanna all’inadeguatezza della parola, la lingua si scioglie (“se discurre”) in un flusso che sa dell’essere e del niente (“por el que fluyen nada y ser”), che possiede la scienza del bene e del male. Questa è l’esperienza simbolica espressa nella poesia Palabra de Hermes 6 : Sólo acercándose a la llama sin temor de apagarla ni arder; entrando, como Dante, en la hoguera casi al final de la ascensión o (mejor) en el río de fuego que eternamente es y no es: sólo así se viste la túnica que viste, transparente a un dios, se escala la escala del monte donde todo verde es vergel o (mejor) se discurre en el río por el que fluyen nada y ser. La “parola di Hermes” è un Diktat sulla soglia dell’oltremondo, nel momento in cui il dio si accinge a trasportare le anime all’altra sponda. Siamo davanti ad una poesia sul limite della possibilità tra la “nada” e il “ser”. La condizione dell’uomo, tra l’essere e il nulla, è drammatica tensione contraddittoria di estremi che si negano a vicenda, nell’urgenza e nel timore di una scelta. Dante è l’uomo per eccellenza, capace del rischio dell’opzione e di quello del fuoco – misura della dignità e della statura umane – traghettatore delle anime che scelgano di seguirlo. Il timore di ardere impedisce l’esperienza del fuoco ed è perciò fatale, perché essa costituisce l’unica via alla trasparenza della tunica degli dèi (“sólo” e “únicamente” sono avverbi insistentemente 6 Da Ocupación del fuego (1986–1989), in Poesía 1996, tomo 3, p. 230. 177 collegati al fuoco in tutta la raccolta cui appartengono i due testi citati, Ocupación del fuego, appunto). La perennità del dilemma (“eternamente”) dell’essere o non essere si esprime efficacemente nell’atemporalità dei verbi all’infinito e gerundio delle prime tre coppie di versi (“acercándose”, “apagarla”, “arder”, “entrando”). Nei presenti impersonali dei versi successivi (“se viste”, “se escala”, “se discurre”), che esprimono il tono perentorio dell’enunciazione divina, e, in forte contrasto con la scomparsa del soggetto agente, la “nada” ed il “ser” si affermano fortemente nel loro fluire eterno come unici soggetti del testo, allegoria essenziale della dialettica di vittoria e sconfitta tra l’essere ed il nulla, che caratterizzano il mondo e la storia. Il movimento di ascensione, ribadito quattro volte nel testo (“al final de la ascensión”, “se escala la escala del monte”) rimanda direttamente al Purgatorio dantesco; richiamando al cammino ascensionale del mistico pellegrino ed a quello delle anime purificate (“en la primera cantiga, lo que se arrastra; en la segunda, lo que asciende 7 ”), confermando il valore catartico dell’esperienza del fuoco e della sequela di Dante. Il significato di catarsi è ribadito nel Homenaje a Dante, de su traductor8 dove si legge un’invocazione del poeta al “duca suo”: ...puríficame. Quema, perfuma, sana mis labios y mi lengua, y que mi mano transporte, a tu dictado en mis palabras lo que las tuyas de su nada hicieron. La compagnia catartica di Dante coincide qui con la possibilità di poesia, mentre l’immagine del poeta che purifica l’altro riflette l’immagine di Virgilio che, bagnatosi le mani di rugiada, deterge il viso di Dante della sporcizia infernale prima di entrare nel Purgatorio. Siamo così portati nell’ambito sacrale e vocazionale della poesia, con un rito iniziatico in cui il poeta riceve dal maestro l’unzione col crisma profumato che guarisce col fuoco (“quema, perfuma, sana”), sanando la lingua del poeta dall’inadeguatezza cui la parola umana è condannata nella sua condizione di approssimazione difettosa all’essere. Rivive qui l’immagine del poeta-scriba che ha trovato la sua immortalità nei 7 8 Cfr. Dante y su obra, cit., p. 129. Da Homenajes (1971-1978) in Poesía 1996, tomo 2, p. 451. 178 versi di Dante: “I’ mi son un, che quando/ Amor mi spira, noto, e a quel modo/ ch’e’ ditta dentro vo significando” (Purg. XXIV, 52-54). Nell’immagine dantesca il poeta scrive sotto la dettatura d’Amore. Nel testo crespiano il dettato del padre della poesia italiana infonde lo spirito poetico alle parole. Le parole del maestro si pongono quindi all’origine (“hicieron”, nel passato remoto delle origini) della propria parola come spartiacque tra il niente (“su nada”) e l’esistenza, garanti dell’esistenza stessa della parola e mimesi del gesto divino della creazione (“hacer” è il verbo della corporeità dell’atto produttore di vita). La mano del poeta (“mi mano”) si fa strumento dello spirito d’Amore, veicolo fisico dell’eredità poetica dantesca, assumendo così la capacità divina di creare l’essere dal niente. Pare, in questa grande possibilità di dire, di trovare rimedio alla disconformità con il mondo che mai abbandona il poeta-straniero: nella poesia Dante Alighieri 9 , le parole del poeta, trasformandosi in mura della città (“las paredes llenas de sus palabras”) costituiscono un ambiente eletto in cui è alleviato il peso dell’estraneità dell’esule (“casi extranjero”). La tarde inevitable y el poeta casi extranjero – una edición en biblia, las paredes llenas de sus palabras –, y no había quien le abriese las puertas de la ciudad (y ni siquiera era de aquí: le tengo visto tras las ventanas de mi pueblo) para que se enterrase entre el sol y la sombra y no me lo topara ahora yo saliendo del Infierno. L’enjambement del primo verso (“el poeta/ casi extranjero”) introduce il senso di un’incompletezza, che è tanto più tragica in quanto incrina e rende imperfetta l’appartenenza del poeta alla sua realtà ed alla sua gente: “no había quien le abriese las puertas de la ciudad”. Il poeta è lo straniero a cui è interdetto l’ingresso ad una città che pure è costruita dalle sue stesse parole (“las paredes llenas de sus palabras”), parole sacre come la bibbia (“una edición en biblia”), scrittura sacra di parole dettate da Dio, eppure destinate inevitabilmente ad un’estraneità, a restare extra moenia. 9 Da En medio del camino (1949-1970), in Poesía 1996, tomo 1, p. 265. 179 La fatalità dell’emarginazione rende la sera “inevitable”, circostanza odiosa, momento insopportabile che respinge irreparabilmente il poeta nell’estraneità, relegandolo fuori dalle mura cittadine. Il poeta è “quasi straniero”: neanche l’unico attributo che gli si riferisce giunge al suo compimento. Lo stesso senso di un compimento mancato si legge nel fatto che a questo soggetto non si riferisca nessuna azione attiva che ne rilevi la vita, ma che resti anzi schiacciato dalla sentenza “inevitabile” del suo essere straniero ed incompleto (“casi”), che lo relega al di fuori di pareti costruite dalle sue stesse parole (“las paredes llenas de sus palabras”) e lo condanna ad un’esistenza umbratile in negativo (“ni siquiera era”). “Non era neanche” è la condanna del non essere riconosciuti come appartenenti alle mura della propria città, del rimanere “dietro le finestre” senza poter entrare, e privati del proprio possesso. Le “palabras”, unico patrimonio di chi “neanche era”, restano all’interno di porte che nessuno apre al poeta (“no había quien”), perchè la sua stessa gente non lo riconosce e lo scaccia. È il dramma della dimora interdetta (“no había/ quien le abriese las puertas”) per cui il soggetto che non può (inevitabilmente) trovare pace o dimora viene negato (“ni siquiera era”). La finalità desiderata dal poeta (“para que”) sarebbe quella di “interrarsi” (“para que se enterrase/ entre al sol y la sombra”), di fissarsi, radicarsi nella terra, secondo le parole del poeta anclar los pasos, o meglio anclar la vida 10 , su un suolo che gli sia conforme. Eppure la contropartita, quasi insperato premio, di questa emarginazione è proprio l’universalità del poeta, il suo non conoscere confini (“le tengo visto/ tras las ventanas de mi pueblo”), e di conseguenza un allargamento universale delle mura stesse ad una koinè artistica oltre il tempo e lo spazio. Afferma lo stesso Crespo in uno dei suoi aforismi 11 : “sólo quienes han vivido siempre en su país son capaces de pronunciar la palabra extranjero”. La poesia A Dante Alighieri 12 , in cui il poeta assume in proprio il patrón metrico dantesco in una mimesi di voce e di canto, mi pare la sintesi emblematica del significato che la figura di Dante assume nella poesia di Ángel Crespo: 10 Cfr. Anteo Errante in Juego de sombras (1979-1984), in Poesía 1996, tomo 3, p.163. Á.C. La puerta entornada. Aforismos, ed. la Palma, Madrid 1998, p. 16. 12 Cit. supra n. 5. 11 180 Tras del secreto y circular verano adversario del sol, y del invierno que no obedece al Toro, de tu mano – más feliz que de Ulises el gobierno – llegué al opuesto lido, en la orilla donde se hace estación lo que era eterno vi las hacinas de la santa trilla ya sin la paja, todas destinadas tras la molienda a la candida cilla; y vi, tras escuchar voces amadas y hollar del hombre la mansión primera, a Beatriz y a las almas transmutadas. A Dios no vi, porque mi vista no era como la tuya inmune a lo divino, mas hice a mi palabra que fingiera con tanto amor tus versos, que el Destino no ha de impedir que estemos frente a frente cuando haya andado todo mi camino: y ya no sé vivir entre mi gente. Il senso dell’oltre significato nella preposizione tras (che ricorre tre volte nel testo, o meglio quattro, considerando il trans di “transmutadas”) trasferisce la poesia in un ambito di riferimento che trascende il mondo noto (“secreto”) in una navigazione “di retro al sol” (“adversario del sol”) come quella tentata da Ulisse oltre le colonne d’Ercole, descritta da Dante a rappresentare lo spirito indomito dell’uomo ed il suo infinito spasimo di conoscenza. Non è un caso, infatti, che in questo testo sia citata la figura dell’Ulisse dantesco, anima “transmutada” – termine che rimanda alla tematica delle metamorfosi – proprio in lingua di fuoco, e figura di ardore conoscitivo, di “non domato spirito” (Saba). La mano di Dante (senso salvifico dell’agape artistica), si mostra strumento più saldo e timone migliore di quanto non lo sia stato il “picciol legno” con cui Ulisse aveva intrapreso il viaggio: è esplicita qui la funzione di “duca” dell’anima (psicopompo) di cui Dante è investito. L’immagine della santa trebbiatura (“santa trilla”), nella metafora del mulino trascendente, rappresenta proprio la metamorfosi e la catarsi delle anime che, attraverso la molitura 13 , vengono consacrate, in quanto la molitura rende il grano MOLA cioè farina con cui viene cosparsa l’offerta sacrificale, quindi purificate (“cándida”) e destinate alla redenzione finale. 13 Molienda, dal lat. MOLENDA < MOLO, macinare, girare la mola. Il termine MOLA, oltre a designare la macina del mulino, indica la MOLA SALSA, cioè il miscuglio di farro macinato e sale che si spargeva sul capo della vittima del sacrificio, da cui IMMOLO, sacrificare. (Cfr. Moliner, s.v. molienda). 181 Il paradiso crespiano appare come l’attuarsi di ciò che è in potenza, e il ritrovamento della “mansión primera”, dimora originaria dell’uomo, prezioso palazzo della coincidenza armonica delle forme, non della disconformità dell’eccesso che sarebbe morte, ma della sosta 14 ricreativa al termine di un lungo viaggio. Nella pace della sosta diviene finalmente possibile il dialogo (“escuchar voces amadas”) come “celeste [...] corrispondenza d’amorosi sensi”. Se poi il destino finale dell’uomo è premio e conseguenza della sua vita, per il poeta, amoroso fictor della parola dantesca il premio alla fine del pellegrinaggio terreno, sarà poter stare “frente a frente” con Dante, parametro di una forte centralità umana politica e morale dell’uomo che realizza appieno l’Humanitätsideal crespiano della “poesía en su aire”. I due versi finali riportano il ritmo difficoltoso dei passi dell’esule nella durezza dell’occlusione consonantica (“cuando haya andado todo mi camino”) e la drammatica incapacità di appartenere alla propria gente (“y ya no sé vivir entre mi gente”), riproponendo così la fatica dell’esilio e dell’incapacità del poeta a vivere in mezzo al suo popolo. Ma il no saber accenna forse ad una sorta di deliberata scelta del poeta di non appartenere ad alcun popolo: in questo consiste la sua universalità, nel non conoscere i confini della propria terra (la limitata tranquillità dell’età aurea, “nulla mortales praeter sua litora norant 15 ”, gli sarebbe senz’altro insoffribile). Del resto è un’affermazione di Ángel Crespo che i veri poeti non debbano avere patria politica o razziale (“son gente aparte 16 ”), ed è pure vero che uno dei grandi valori di Dante è l’universalità, e la traduzione crespiana della Commedia, parte di un progetto di valorizzazione della cultura spagnola mediante la sua integrazione nella cultura universale 17 . Si tratta di un reale ecumenismo come creazione di un oikuménè poetico totale. La mansión desiderata non si intenda allora, mai come spazio delimitato in cui stanziarsi, ma come superiore unità di ordine culturale ed artistico di coloro che 14 Mansión, dal latino MANSIO, ONIS < MANEO, contrario di DECESSIO, EXCESSUS, indica la sosta dopo il viaggio, la casa. Oggi in spagnolo ha assunto l’accezione di dimora nobiliare. (Cfr. Moliner, s.v. mansión). 15 In Ovidio Metamorfosi I, 96, 16 Ángel Crespo, Los trabajos del espíritu, cit., p. 335 17 Cfr. Pilar Gómez Bedate, Para un estudio de la poesía comprometida de Ángel Crespo, in Ángel Crespo: una poética iluminante, BAM, Ciudad Real 1999, p. 129. 182 riconoscono senza riserve la “indisputable forma humana 18 ”, che si realizza nell’ambito della forma espressiva dell’arte. La Poesia e l’Esilio, dunque, la prima a costo del secondo, uniscono in un comune destino Dante ed Ángel Crespo e fondano la paternità d’elezione di cui il “florentín viajero” è fatto oggetto da parte del poeta esule spagnolo. Questa paternità emerge nei diarî crespiani come un’osmosi data dalla lunga frequentazione, che è addirittura normativa per la vita. Si legge in data 22 aprile 1979 19 : “L’uomo bono dee la sua presenza dare a pochi e la familiaritade dare a meno, acciò che ‘l nome suo sia ricevuto ma non spregiato” (Dante, Convivio, I, IV, 11). Nunca me ha costado trabajo actuar según esa norma. Il Convivio è cioè, espressione delle norme più confacentesi all’umanità del poeta, e l’umanità di Dante paradigma supremo. 18 19 Cfr. Ángel Crespo, Exilio y abismo, in AA. VV. El tiempo en la palabra, suplemento, cit., p. 104. Ángel Crespo, Los trabajos del espíritu, cit., p. 219. 183 2. La poesia crespiana negli anni della traduzione Scrive Octavio Paz 1 : “traducción y creación son operaciones gemelas [...] hay un incesante reflujo entre las dos, una continua y mutua fecundación. [...] Las obras, todas arraigadas a su suelo verbal, son únicas; únicas pero no aisladas: cada una de ellas nace y vive en relación con otras obras de lenguas distintas”. Questa convinzione appartiene anche all’esperienza crespiana di poeta e traduttore. Nell’Apunte finale alla prima edizione della raccolta poetica El bosque transparente 2 , Ángel Crespo scrive: mi larga intimidad con la obra del florentino, así como los estudios que hube de hacer para lograr una mejor comprensión de sus proposiciones, me impulsaron a tratar de profundizar de una manera que, hoy por hoy, considero irreversible una visión y comprensión de las cosas que ya se había iniciado en mi obra anterior, y a la que la crítica había dado el nombre de realismo mágico 3 . Ritengo, pertanto, di estremo interesse, ricercare le tracce di questo approfondimento della personale Weltanschauung del poeta che si sviluppa nell’osmosi esegetica del lavoro di traduzione della Commedia. Una premessa che mi pare significativa, riguardo al significato del modello poetico e umano di Dante nella poesia crespiana, è la descrizione, svolta nel citato Apunte, del tentativo di dare unitarietà alla propria opera poetica, come decisa e cosciente adesione alla vocazione della poesia “mi más decisiva señal de identidad, y desde luego, la celadora constante de mi libertad 4 ”, e della lunga elaborazione dei testi, realizzata nel silenzio editoriale. Un silenzio durato sette anni (dalla pubblicazione di En medio del camino nel 1971 a quella di Claro: oscuro e Colección de climas nel 1978), vissuto nella già pluriennale assenza dalla patria spagnola iniziata nel 1967, che viene sentita dal poeta come “una espera, a veces angustiosa 5 ” in cui la traduzione della 1 O. Paz, Traducción, imitación, originalidad, cit., p. 14. El bosque transparente, pubblicato a Barcelona nel 1983 da Seix Barral, è una seconda “obra completa” crespiana (dopo En medio del camino 1949-1970, Seix Barral, Biblioteca Breve, Barcelona 1971) e raccoglie la poesia del decennio creativo 1971-1981. I libri che compongono questa raccolta, dei quali era inedito solo il Libro de Odas, sono: Claro:Oscuro (1971-1975), Porvivir Independiente, Zaragoza 1978; Colección de climas (1975-1978), Aldebarán, Sevilla, 1978; Donde no corre el aire (1974-1979), Vasija, Sevilla 1981; Libro de Odas (1977-1980); El aire es de los dioses (1978-1981), Olifante, Zaragoza 1982. Nella poesia completa del 1996, El bosque transparente costituisce il nucleo centrale del tomo 2. 3 Á. Crespo, Apunte a esta edición in El bosque transparente, cit., p. 206. 4 Ivi, p. 205. 5 Ibidem. 2 184 Commedia si pone come unica soluzione all’assenza esistenziale, culturale e poetica dell’esilio. D’altra parte, gli studi danteschi, e in generale il lavoro di ricerca artistica e di critica letteraria, servono a rafforzare la fede poetica crespiana. Questo costante reflusso dall’operazione del tradurre al processo di crezione poetica, viene documentato dalle affermazioni di Crespo stesso: proprio nel pieno dei lavori di traduzione il poeta scrive al suo editore Gimferrer: mi poesía va cambiando tanto que casi no me atrevo a dar muestras en revistas, y, de momento, no lo hago. No es que cambie en otra dirección pero creo que estoy sacando ahora la difíciles consecuencias de cuanto he hecho en poesía antes de ahora 6 . Il silenzio editoriale è dunque gravido di intenso lavoro sulla propria poesia, potentemente sommossa dall’immersione nella parola dantesca. Ancora, in una lettera di presentazione di Claro:Oscuro a Pedro Gimferrer, Crespo parla in questi toni del suo lavoro di poeta: te envío Claro: oscuro. […] Le he dado vueltas y vueltas, como si fuese un escritor novel, he ordenado y reordenado los poemas. Creo que su disposición actual es la más conveniente, pero ¡cuánto me ha costado darla por definitiva! Sólo uno de los poemas – el último – ha sido publicado y el resto es rigurosamente inédito. Mi ilusión sería aportar algo nuevo, al cabo de seis años de no publicar un libro de poesía y de haber trabajado enormemente sobre este puñado de poemas. Jamás he puesto más ilusión en un libro mío. Me he entregado por completo a las virtualidades, al poder de la palabra poética. Quiero decir que es un libro sin prejuicios, o quizás con el único prejuicio de que la palabra poética lo puede todo. No sé si lo habré conseguido 7 . La lunga gestazione dell’espressione del proprio messaggio poetico, parallelo all’attività di traduttore, è dunque il tempo del continuo lavorio sulla parola, come materia da plasmare fino a renderla perspicua, capace di penetrazione nel mistero delle cose, e per ottenere da questa parola ispirata che il mondo le si consegni nel suo significato. Al termine del lavoro di traduzione, e dopo la pubblicazione della terza cantica, Crespo scrive queste parole che mi paiono estremamente significative: 6 Á. Crespo, lettera a Pedro Gimferrer da Mayagüez, 29 settembre 1973 (inedita). Cfr. il carteggio riprodotto in appendice al volume. 7 Á. Crespo, lettera a Pedro Gimferrer da Mayagüez, 15 gennaio 1976 (inedita). Cfr. il carteggio riprodotto in appendice al volume. 185 Anteayer me llegaron los ejemplares del Paraíso. Estoy muy contento de que hayamos dado cima a esta edición, que creo que ha quedado muy bien. Creo que con ella he cubierto una etapa, no sólo de traductor sino de mi propia poesía: tan identificado me siento con esos versos 8 . Il culmine del lavoro di traduzione ha portato ad un’identificazione del traduttore con i versi tradotti: questo significa un’interiorizzazione profonda di ogni verso dantesco con cui il poeta traduttore si è singolarmente misurato, desentrañando il significato di ogni parola di Dante per restituirla nel modo più completo possibile al sistema linguistico spagnolo. Un’interiorizzazione tanto profonda implica certamente un punto di non ritorno nell’arte poetica crespiana. Nella poesia di Ángel Crespo, la presenza dantesca è decisiva fin dalla prima raccolta poetica del 1971, anno in cui Crespo si vedeva già impegnato nell’inizio della traduzione della prima cantica della Commedia. Nel titolo En medio del camino, la citazione del primo emistichio della Commedia che corrisponde alla trasposizione che ne fa Francisco Imperial nel suo Dezir a las syete virtudes 9 , Crespo richiama un Dante già incorporato nella tradizione letteraria spagnola. Inoltre dà alle parole di Dante una risonanza esistenziale, oltre che prettamente artistica nello sceglierle per titolo alla propria prima “obra completa”, di un suma y sigue nel proprio cammino di vita, di poesia e di un esilio che dura già da quattro anni, nel segno della “verità del sacrificio di Dante” nella direzione “dell’uomo che prova personalmente gli scontri con il reale e li risolve in valori etici di alta durata estetica 10 ”. La traduzione della Commedia apporta dunque problematiche e campi semantici nuovi all’opera crespiana. La rielaborazione ed appropriazione della poesia dantesca da parte del suo traduttore, avviene secondo diverse modalità. La prima modalità in cui si manifesta la suddetta appropriazione, sta in un sistema di memoria che riprende, di testo in testo, moduli linguistici ricorrenti, nella forma della citazione, e quindi di un intenzionale e dichiarato rimando intertestuale ad un vissuto culturale dantesco condiviso da lettore ed autore, oppure trasformati, cioè inseriti vivamente e metabolizzati dall’interno. Si tratta di riscontri lessicali, ricorrenze di termini particolari che possono ampliarsi a includere da una singola parola, a un 8 Ángel Crespo, lettera a Pedro Gimferrer da Mayagüez, 30 ottobre 1977 (inedita). Cfr. il carteggio posto in appendice al volume. 9 Cfr. il ritratto allegorico di Dante nei versi di Francisco Imperial, cit. supra, cap 1.1, p. 6. 10 Gaetano Chiappini, Nota sulla poesia di Ángel Crespo, in Ángel Crespo, Autolettura a Parma, trad. integrale di Gaetano Chiappini, in “L’Albero”, n. 68, Lecce 1982, p. 48. 186 intero sintagma. Consideriamo quindi innanzitutto i casi di evocazioni e di citazioni, dove si intenda per evocazioni la ricreazione di immagini riconducibili a quelle dantesche, e per citazioni la ripresa di moduli linguistici danteschi. Gian Biagio Conte 11 , parlando della memoria dei poeti come ELOCUTIONIS, FIGURA spiega il senso di tali richiami come un desiderio del poeta di “risvegliare una vibrazione all’unisono tra la memoria del poeta e quella del suo lettore, in rapporto ad una situazione poetica cara ad entrambi”, per cui la citazione di un verso derivato da altro poeta in un testo farà sì che questo “includerà e sottometterà nel proprio originale movimento compositivo quello spunto iniziale – spunto […] legato indissolubilmente ad altra situazione poetica: sì che questa non potrà non essere convogliata insieme con quello, che ne è quasi il contrassegno visibile”. Si tratta quindi dell’esplicito desiderio del poeta di far trasparire nel proprio verso la memoria dell’altra situazione poetica. Tale richiamo provoca una fuga prospettica dell’intensità di suggestione del verso, la cui potenza evocatrice è portata ad aumentare esponenzialmente. I casi più manifesti in cui la poesia crespiana evoca vivamente figure della Commedia, ricreando una situazione poeticamente nuova ma geneticamente riconducibile alla memoria dantesca, sono quelli delle poesie Fuegos de Islandia e Metáforas del ausente. L’immagine, dantesca al pie de la letra, dell’anima che corona la sua ascesi con la conquista del Paradiso appare rivissuta nella poesia Fuegos de Islandia 12 , che risale appunto agli anni in cui Crespo è impegnato nella traduzione della Commedia. Cito la seconda parte del testo: Como el pájaro llega a donde se resiste la mirada, roza las llamas, y otra cosa no puede llevarse sino la aventura fénix, sino la herida herida al aire angosto; así al sobrevolar el cráter a que un triste viento sin centro sin cesar me empuja, lanzo un grito de miedo y de victoria: como un alma que gana el paraíso. 11 12 Gian Biagio Conte, Memoria dei poeti e sistema letterario, Einaudi, Torino 1985, pp. 9-11. Da Colección de climas, in Poesía 1996, tomo 2, p. 85. 187 Estremo rischio (“aventura 13 ”) del fuoco sulla montagna (cratere del vulcano, ma anche memoria della barriera di fuoco dell’ultima cornice del Purgatorio nel canto XXVII), destino (“AD–VENTŪRA” andare incontro alle cose che verranno) di rinascita dalle proprie ceneri (la fenice) in una maggiore saggezza, esperienza purgatoriale di sacrificio estremo del sé e ritrovamento della propria individualità incrementata dalla conquista del Paradiso (“alma que gana el paraíso”), aconfessionalmente inteso come vetta infuocata (“cráter”) della propria ascesi spirituale. La purificazione del fuoco è l’unico capitale che può ottenere (“otra cosa no / puede llevarse”) il poeta-pájaro nel suo volo estremo, anche grazie all’esperienza di un infernale “triste / viento sin centro” che trascina l’anima del poeta verso il cratere “sin cesar” (ricorda la “bufera infernal che mai non resta” che trascina le anime dei lussuriosi in Inf. V, 31). Mancanza di aria (“aire angosto”) e fuoco sono le condizioni per il processo di trasformazione degli elementi nell’alambicco, quindi è l’anima-pájaro del poeta ferita dal desiderio (da notare la ripetizione in enjambement del termine “herida”) che si fa ave fénix per incendiarsi senza estinguersi (“roza las llamas”) per poter giungere oltre il visibile (“llega / a donde se resiste la mirada”) ed ottenere un grado di conoscenza superiore, propriamente la perspicuitas paradisiaca. In un altro caso, l’esperienza dell’esilio, la sofferenza per l’ingiustizia subita e la poesia come via salvifica opposta all’angoscia della solitudine e dell’incomprensione, vengono descritte da Crespo in termini che evocano da vicino quelli danteschi nella poesia Metáforas del ausente 14 , un testo del 1978, anno successivo alla prima edizione della traduzione del Paradiso: El exilio no es una carga: por ejemplo, una cruz, un saco roto del que se caen las piedras y está lleno siempre; ni es una puerta, ni un muro en el que todas las salidas se estrellan, ni un canal que se lleva las barcas y los versos. Es más bien como una niebla sútil que cubre cuantas almas y cuantos gestos, una nube implacable que se llama niebla y otros llaman exilio. 13 14 Aventura come “empresa de resultado incierto, o que ofrece peligros”. Cfr. Moliner, s.v. aventura. Da Colección de climas, in Poesía 1996, tomo 2, p.97. 188 Envuelto en ella – siempre –, una alfombra se pisa de hojas secas, se bebe un agua tibia, un vino escaso que más parece almagre, se come un pan que huele a muchas manos – siempre lavadas y secadas en exceso–, se duerme entre la mar y la vigilia, pendientes – siempre – de lejanas torres que nunca dan la hora; sentados – siempre – en el brocal de un pozo. La definizione crespiana dell’esilio, possiede come prima caratteristica la privazione dell’essere. Innanzitutto “el exilio no es”, è dunque privo di qualsiasi realtà o identità, è un niente “implacable” che annienta tutto ciò con cui entra in contatto. A questo niente, che tutto priva di verità, sarebbe pure preferibile un peso da sopportare, che, anche paradossale (“saco roto / del que se caen las piedras y está lleno / siempre”), è pur sempre segno di vita 15 , o almeno di espiazione e recupero di vita, come nella cornice dei superbi del Purgatorio. L’esilio non è una porta, cioè elimina la comunicazione; il suo essere nocivo consiste nel fatto che non è qualcosa con cui ci si può scontrare o contro cui lottare (“un muro en el que todas / las salidas se estrellan”). La negatività dell’esilio è quindi proprio il suo alienante non essere, nebbia o nube di cui neanche il nome è certo (“nube implacable que se llama niebla / y otros llaman exilio”), che copre, cancellandoli, le anime e i volti, cioè oblitera l’essere di tutto ciò che tocca. L’esule, chi vive avvolto, preso d’assedio della nebbia del non essere, è defraudato dell’essenziale: l’acqua tiepida non disseta e provoca la nausea, come il vino ossidato (“almagre”), mentre il gesto della comunionalità per antonomasia, le mani che offrono il pane, perde la sua essenza e diventa menzogna, perché le mani hanno smarrito ogni carnalità e sono aride e asettiche mani di automi (“lavadas y secadas en exceso”). Qui riecheggia il dramma dantesco profetizzato da Cacciaguida del “pane altrui” che “sa di sale 16 ”. Il riposo degenera in un’agitata sospensione (“se duerme entre la mar y la 15 La croce e il sacco come carico che opprime le spalle, oltre a richiamare ‘l pondo dei massi che schiacciano le anime dei superbi del Purgatorio, appaiono in un testo molto precedente come figura di sofferenza, ma anche di potenza della vita: “Con un saco a las espaldas / –cruz o saco no me acuerdo– / todos nos vamos doblando /[...] / terrible carga pesada / [...] / pero también ocasión / para quitarse de en medio / la tela de araña fría, / el muro que no se ablanda, / [...] / Cruz o saco / que nos acerca a la tierra, / a la verdadera luz capaz de darnos impulso / –ya perdida la esperanza / creíamos– para, a fuerza / de fuerza y de corazón, / arrojar la cruz – o saco, / que en realidad no me acuerdo –, / después de leer las letras / de piedra, de aire y demás / espíritus y sustancias, / y arrancar al hombre vivo / de debajo de la cruz / – o del saco, que no me acuerdo”. Cruz o saco in Poesía 1996, tomo 1, p. 86. 16 Paradiso XVII, 59. 189 vigilia”) senza nessuna possibile coordinata temporale (“pendientes – siempre – de lejanas torres / que nunca dan la hora”) condanna ad una perenne (l’avverbio “siempre” si ripete due volte) instabilità nel rischio di essere risucchiati nella gola del non essere (“sentados […] en el brocal de un pozo”). Il titolo stesso dice di questo dramma dell’essere negato: l’esule è el ausente, cioè colui che è assente dalla sua terra, e, più profondamente, qualcuno che non è 17 . Per quanto riguarda la ripresa lessicale di elementi della Commedia, nella poesia crespiana cronologicamente parallela alla traduzione, la memoria dantesca emerge in diversi casi. In Solitario por Roma, una poesia contemporanea a quelle raccolte in El bosque transparente, esclusa da tale raccolta, ma poi riscattata nell’edizione vallisoletana della poesia completa, il poeta caratterizza la sera romana con lo strano termine di gelatina. Nella Commedia il termine gelatina compare una sola volta 18 – di qua la sua notevole peculiarità – a designare la zona ghiacciata dalle ali di Lucifero del lago Cocito. Il termine è usato da Dante nella particolare funzione di metafora dal referente culinario, conformemente allo stile del sermo humilis di tanta parte della cantica infernale 19 . Il referente concreto dell’uso dantesco si perde nella citazione crespiana, dove il termine gelatina viene inserito in un ambito gnoseologico: en plena lucidez de solitario, entre almacenes y palacios idos -y entre los restos de la prensa gialla, algunos de ellos voladores, entre la gelatina del anochecer y el ruido imaginado de la piedra, a las calles de la Urbe voy cosido 20 . Il ghiaccio metafisico dantesco diventa uno stato di eccezionale lucidità (“plena lucidez”), il poeta, in uno stato privilegiato di solitudine (“solitario”) si trova fissato (“cosido”) allo spazio della concinnitas classica (“las calles de la Urbe”) dalla cristallina trasparenza del ghiaccio, che rende geometricamente chiara la notte romana, in cui infatti si produrrà la rivelazione della nudità della Venere anadiomèné 21 . 17 ABSENS, ABSENTIS, participio presente di ABSUM, significa anche propriamente il non esserci, essere estraneo. 18 Inferno XXXII, 60: “tutta la Caina / potrai cercare e non troverai ombra / degna più d’esser fitta in gelatina”. 19 Cfr. Enciclopedia Dantesca s.v. gelatina. 20 Solitario por Roma, in Poesía 1996, tomo 2, p. 447. 21 Il poema in prosa analizzato si conclude cosí: “tu cuerpo desnudo y tú desnuda [Venus anadiomena] estáis junto a mí para entregarme la Verdad: que desmiente las ruinas”. L’apparizione di Venere anadiomèné riveste il significato di una rivelazione teofanica: “Afrodita anadiomena es la que sale del 190 Ancora lo stesso termine si ritrova in Contra el futuro 22 , dove appaiono dei “tambores de gelatina”. ¿Qué del futuro? [...] ¿Qué podrán hacerme aprender su lenguaje de algas o piedras tristes, su música de pífanos torcidos o de tambores de gelatina? [...] In questo caso, i “tamburi di ghiaccio” insieme a “pifferi contorti” costituiscono la voce ambigua di un futuro ignoto e temibile, linguaggio impossibile (“lenguaje de algas o piedras”) che non corrisponde alla possibilità di comprensione umana (“qué podrán hacerme aprender”), un linguaggio e una musica dai quali non è possibile ricavare conoscenza. Inoltre il corredo genetico del termine introduce la connotazione dantesca del ghiaccio infernale ed eterno, luogo più prossimo allo ‘mperador del doloroso regno, diametralmente opposto alla luce salvifica della conoscenza perfetta del Paradiso. A conclusione di un lungo poéme en prose intitolato La palabra No 23 , appartenente anch’esso al gruppo di poesie contemporanee a quelle raccolte in El bosque transparente, si legge: [...] La palabra No está modelada por dos vacíos. Lo cual significa que su estructura tiene algo que ver con la naturaleza de la Nada, aunque ésta es en verdad ilimitada y anonada. En cambio la palabra No tiene la virtud de despertar: entre los dos vacíos que la modelan – el de la nada y el de la eventualidad del poema – la palabra no posee un rostro casi afirmativo. […] Resulta, además, que la poesía se desarrolla en una sola y miserable dirección por el lado del Sí, mientras se abre en ilimitadas posibilidades expansivas por los misteriosos caminos del No (que lleva implícito un insidioso Sí). [...] De aquí puede y debe deducirse que la poesía gira siempre en las esferas del No, aun cuando su naturaleza sea afirmativa, igual que el sol y las demás estrellas. Dove riecheggia evidentemente il verso “aquel amor / que mueve el sol y las demás estrellas”, che è proprio la traduzione crespiana (e ponderata in maniera alquanto baño, del agua de la que se genera la vida. [...] Es la Afrodita total, la que representa todas las formas posibles de Amor y, en consecuencia, de vida.” Ángel Crespo, Notas para una lectura alquímica de las Metamorfoses de Jorge de Sena, in ID. Por los siglos (ensayos de literaturas europeas), Pre-textos, Valencia 2001, p.214. 22 Da Claro: oscuro, in Poesía 1996, tomo 2, p. 50. 23 In Poesía 1996, tomo 2, p. 433. 191 problematica 24 ) del sublime verso finale della Commedia: “amor che muove il sole e l’altre stelle”. La figura della negazione, si sostituisce dunque, nella mente poetica crespiana, alla forza motrice dell’Amore divino, ed è quindi istituita a primo motore e forza creatrice dell’universo. Essa costituisce infatti la categoria della pura potenzialità creativa in quanto la sua struttura “está modelada por dos vacíos […] el de la Nada y el de la eventualidad del poema”. La parola No, è quindi lo spazio privilegiato della possibilità, sfida radicale dell’estrema eventualità che il poeta possiede di parlare e quindi di esistere e di riscattarsi dal niente che annichila. Essa è la dimensione propria dell’operare paradossale e demiurgico – creare dall’assenza del creato – cui il poeta è potentemente chiamato dalla stessa esistenza della pura possibilità, che “tiene la virtud de despertar”. E il vuoto è l’estremo rischio del poeta, alternativa tra l’inesistenza e la poesia. Ancora nell’ambito della memoria dantesca, un verso delle Teofanías 25 recita quanto segue: “de verso a verso / hay un vacío, […] ya lo quieres / pasar, pero el pulso te tiembla” che richiama la paura di Dante “ella mi fa tremar le vene e i polsi” in Inf. I, 90 26 , quando alle pendici del “dilettoso monte” la lupa gli impedisce il passaggio dalla selva oscura alla luce della cima del colle illuminato dal sole. La paura che paralizza Dante davanti alle tre fiere si pone quindi come segno di riconoscimento del tremore del poeta traduttore, e profondo lettore delle parole dantesche, che ne riattualizza il significato all’interno della sua personale ascesi artistica sul rischioso discrimine tra l’avventura della conoscenza dell’ineffabile e il caos della selva oscura. Dopo aver individuato alcune referenze dell’attuare della memoria dantesca nella poesia crespiana, passo ora ad analizzare una seconda modalità in cui questa lunga osmosi con il padre della poesia italiana si manifesta nell’opera poetica del suo traduttore. Vorrei infatti ricercare le traccie di quell’“irreversibile approfondimento” dovuto alla lunga frequentazione dantesca che Crespo stesso legge nella sua poesia. Presupponendo comunque la profonda discrasia che esiste tra il grande poema dantesco, suprema sintesi artistica del mondo cristiano-medievale, e la personale ricerca della lirica crespiana, mi pare di poter individuare qualche non improbabile punto di 24 Cfr. il racconto di Pilar Gómez Bedate riprodotto nella terza appendice a questo volume. Da El bosque transparente, in Poesía 1996, tomo 2, p. 240. 26 Crespo traduce questo verso con “pulso y venas me han temblado”. 25 192 relazione. Lungi, quindi, dal cercare di operare un insostenibile parallelo tra la Commedia e la poesia di Crespo, descriverò le caratteristiche che assume la sua indagine poetica nel lasso di tempo in cui questa si affianca all’attività traduttoria della poesia dantesca. Secondo Pilar Gómez Bedate, si afferma nella poesia crespiana degli anni settanta, come strumento di una quête artistica che ha dell’iniziatico l’uso “del lenguaje del esoterismo antiguo y moderno – magia, alquimia, religiosidad mistérica, gnosis, teosofía – que ha empezado a manejar en su obra crítica a partir de la traducción de Dante y de sus estudios sobre el poeta toscano 27 ”. Ancora: “pienso que fue la inmersión en lecturas sobre mitología (a que primero le indujo su traducción de Dante y después un curso sobre Mitología y Literatura que propuso en la Universidad de Puerto Rico y luego enseñó durante varios años) lo que trajo, en seguida a su obra las figuras de los dioses antiguos cuyo significado y naturaleza mítica va a tomar como expresión de su vida psíquica 28 ”. La poesia di Dante diventa allora sostrato metalinguistico e culturale, veicolo alla conoscenza del linguaggio del mito, ed essa stessa strumento della ricerca gnoseologica crespiana. Meta reale del viaggio dantesco è l’unità del molteplice in Dio, e, fino alla vetta suprema della rivelazione definitiva, accompagna il pellegrino-poeta la preoccupazione dell’inadeguatezza della parola ad esprimere efficacemente la sostanza dell’essere (Par. XXXIII, 85-90) : Nel suo profondo vidi che s’interna legato con amore in un volume, ciò che per l’universo si squaderna: sustanze e accidenti e lor costume, quasi conflati insieme, per tal modo che ciò ch’i’ dico è un semplice lume. La meta ideale della ricerca poetica crespiana è poter carpire, attraverso la parola poetica il mistero dell’unità profonda degli esseri e delle cose: La poesía busca y procura la unidad de todas las cosas. Esa unidad es la armonía de sus incontables relaciones mutuas, inasible en los estados no 27 Pilar Gómez Bedate, Una aproximación a los dioses de Ángel Crespo: de Claro:Oscuro a Ocupación del fuego, in En Florencia para Ángel Crespo y su poesía, atti della giornata di studî, 7 dicembre 1999, Alinea, Firenze 2000, p. 115. 28 Ivi, p. 116. 193 poéticos; intuible, incluso sensible, pero apenas perdurable, en los poéticos. Esas relaciones mutuas no son únicamente del tipo de la proporción material (es decir de la existente entre los tamaños, los sonidos, las temperaturas las duraciones, etc.) sino de una proporción inmaterial de la que son manifestaciones estas otras, pero manifestaciones que a veces son desproporcionadas entre sí como consecuencia de su materialización. Sólo en el momento privilegiado de la epifanía – el que anuncia o cree anunciar, según los casos la inspiración – se siente esa unidad que, tras mostrársenos, en seguida se nos suele escapar sin dejar otro rastro que el de la palabra poética, si ésta ha sido capaz de semejante prodigio. El riesgo que corro y trato de evitar es que esa unidad, esa proporción sea cosa del poema, esté sólo en él, y, en consecuencia no refleje la de la realidad total de la que ese mismo poema forma parte. Y es lo que se hace cuando se cree que la realidad carece de esas cualidades porque sólo se ven sus fenómenos materiales – o bien cuando se encuentran esas cualidades en estos fenómenos aunque carezcan de ellas. En el primer caso nos encontramos ante una poesía convencional, falsamente consoladora; en el segundo, ante el más elemental de los realismos, el que sólo ofrece una parte, una de las caras de la realidad. Pero lo que yo quiero de la poesía es que me muestre y me enseñe a mostrar a los demás la realidad entera (con su parte aparente y con la oculta), de manera que concibo a la poesía en su fondo más profundo como un ejercicio de conocimiento por revelación, como una operación mágica. 29 L’itinerarium mentis crespiano, pellegrinaggio terreno in cerca della complessa unità del molteplice, prende le mosse da una selva. El bosque transparente è il bosco 30 come condizione di caos gnoseologico, ma trasparente, quindi un caos che permette l’intuizione di una trascendenza. L’itinerario della ricerca crespiana è doppio: al pellegrinaggio terreno “tras las huellas más puras / y ardientes de los dioses 31 ”, si affianca la discesa nella propria interiorità, descritta con il linguaggio dell’alchimia che, secondo quanto scrive Pilar Gómez Bedate es el vehículo de un concepto decididamente hermético: el de la metamorfosis personal, la posibilidad de la conversión del hombre en dios. O, más modestamente, el cultivo del germen o la parte de la naturaleza divina que el neoplatonismo admite como existente en la criatura humana con cuyo desarrollo es posible la salvación 32 . 29 Ángel Crespo, Notas Inéditas, in “La Alegría de los naufragios”, n.1-2, anno 1999, p. 29. Il termine bosque deriva dal catalano o dall’occitanico “bosc”, possiede in una sua accezione figurata l’idea di disordine e confusione, e richiama, nella sua etimologia, il bosco del Medio Evo europeo, luogo spaventoso e selvaggio dell’ignoto e dell’irrazionale. (Cfr. Corominas, s.v. bosque). 31 Errante, da El bosque transparente, in Poesía 1996, tomo 2, p. 208. 32 Pilar Gómez Bedate, Una aproximación a los dioses de Ángel Crespo, cit., p. 122. 30 194 Questa idea, “que Ángel defiende como concepto fundamental del hombre en la Comedia 33 ”, appare coscientemente nell’universo poetico crespiano, ancora secondo Pilar Gómez Bedate, a partire proprio dal lavoro di interpretazione della poesia dantesca. La duplice ascesi crespiana, come “dimensione di doppia verticalità, di mutua intesa totalmente perseguita nella correlazione bidimensionale del sé e degli dei 34 ”, si sviluppa tra due estremi: l’abisso infernale della solitudine e del silenzio delle cose 35 , da cui si giunge, tramite una profonda speculazione spirituale e l’identificazione con la parola salvifica, alla perspicuitas luminosa di un mondo che inizia a svelarsi nella sua possibilità di teofania dello spirito. Si possono quindi individuare tre tappe all’interno dell’itinerarium mentis crespiano, certo non come un percorso scandito linearmente, ma che comunque corrispondono ad una logica di Bildung interiore interna alla raccolta poetica, e certamente anche quella di una disposizione fisica delle poesie all’interno della raccolta El bosque transparente, coerente al Kunstwollen del poeta. Questo itinerario costituisce, del resto, il significato profondo del titolo della raccolta presa in esame: el título de este libro [...] refleja con bastante propiedad el tono general de esta etapa de mi poesía, que quiere ser una visión de la realidad que está más allá de la mera concepción sensual o física – a la que de ninguna manera excluye –, es decir más allá de las apariencias de las cosas, y no de las cosas mismas, y que explica y trata de humanizar a esta misma realidad de la que parte. La palabra “bosque” tiene, en este caso, un sentido [...] de espacio de la vida terrestre y sensible, lugar confuso e inevitable a través del cual el hombre tiene que abrirse camino, con o sin esperanza de trascenderlo; [...] la palabra poética tiende a tornar transparente a ese bosque, a iluminar a lo que hay por detrás de sus apariencias, a familiarizarse con ello de manera que la selva selvaggia y oscura de que habla Dante al principio de su Commedia nos haga maravillarnos, pero no temerla, nos muestre, a través de su aparente confusión, la misteriosa armonía en la que ser y no ser, saber e ignorancia, vida y muerte, nos ayuden – al poeta y a sus lectores – a ser nosostros 33 Ivi, p. 123. Si veda quanto descritto supra al cap. 3.2, riguardo all’ipotesi interpretativa proposta da Crespo sul tema delle metamorfosi della specie umana nella Divina Commedia. 34 Gaetano Chiappini, Nota sulla poesia di Ángel Crespo, cit., p.48. 35 Secondo le parole del poeta stesso, “l’inferno è, certamente, questa vita, alla quale mi sto riferendo [parla dell’esperienza della natura tropicale come di una totalità annientatrice], di solitudine, di silenzio”. Cfr. Autolettura a Parma, cit., p. 37. 195 mismos, a volvernos también trasparentes a nuestras propias miradas interiores 36 . Nella selva selvaggia si svolge la complessa e diversificata 37 ricerca di una rivelazione poetica che non si ottiene per passiva ispirazione ma grazie alla fatica dell’integrazione nello spazio-tempo della cultura. In questo suo uso della poesia come strumento di conoscenza, Crespo si vede inserito in una tradizione lirica, in cui lo precedono tra gli altri – secondo quanto afferma egli stesso – Dante, Rilke, Juan Ramón Jiménez e Fernando Pessoa, che “interpreta a la realidad natural como vehículo hacia una síntesis que, sin negarla, la transcienda 38 ”. La ricerca poetica prende le mosse dal personale inferno crespiano, l’abisso della solitudine e del silenzio delle cose, in un universo estraneo al “palpito cordiale 39 ” dell’anima del poeta, che corrisponde al mondo statico e congelato dei paesi nordeuropei, in cui Crespo trascorse alcune stagioni nei primi anni settanta, e costituisce un capitolo della vita spirituale del poeta come esperienza climatico-esistenziale di deserto interiore. In questo momento dell’esilio trascorso nelle “soledades tropicales y escandinavas” il contatto con la poesia dantesca e il lavoro della traduzione costituisce una sorta di ancora di salvezza, una soluzione all’angoscia dell’isolamento, in quanto riscoperta del mito e quindi di una possibilità di redenzione di quella realtà ostile che, popolandosi della presenza luminosa degli dei, concrezioni della presentita numinosità della natura e allo stesso tempo della vita psichica del poeta, può essere assimilata e concedere al poeta la possibilità di parola. Nel punto estremo della crisi, si offre, quindi, al pellegrino sconcertato l’appiglio dell’ascesi “a ritornar nel chiaro mondo” (Inf. XXXIV, 134). L’esperienza del silenzio di una realtà ostile, che non cede alle sue profferte amorose, è ciò che preclude al poeta un significante rapporto con le cose, in quanto non corrispondono i codici posti a confronto. La poesia Bosque de Uplandia 40 esprime quest’esperienza di alienazione: 36 Ángel Crespo, Presentación de El bosque trasparente, appunti autografi del poeta. Inedito. Crespo parla di inquisición diversificada perché, spiega, “los aspectos de la realidad que trato de explorar en mi poesía se refieren a varias esferas de interés, desde la naturaleza hasta el arte, desde la contemporaneidad hasta la antigüedad, desde lo instintivo hasta lo intelectual”. In Presentación de El bosque trasparente, cit. 38 Ibidem. 39 È un’espressione di Gaetano Chiappini nella sua Nota sulla poesia di Ángel Crespo, cit. 40 Da El bosque transparente, in Poesía 1996, tomo 2, p. 87. 37 196 Crece el arce indiferente a mi corazón ausente; lanzan las aves gemidos, ajenos a los latidos de mis sienes, y se mustia la flor – y no es por mi angustia – y el agua sigue corriendo mientras no la estoy oyendo. ¿Quién soy, quién somos, ajena naturaleza, sin pena ni gloria los dos, al lado uno del otro, ignorado nuestro ignorarnos? ¿Qué dios nos ciega, ciego, a los dos? Nel paesaggio nordico, esplicitamente caratterizzato (Uplandia, el arce, el Mosela), il non essere (“ausente”), e l’ignoranza (ridondante “ignorado / nuestro ignorarnos”), una mancata “corrispondenza d’amorosi sensi” (“indiferente”, “corazón ausente”, “gemidos / ajenos a los latidos / de mis sienes”, “se mustia / la flor– y no es por mi angustia”, “no la estoy oyendo”) costituiscono la condanna ad una solitudine alienante e all’impossibilità comunicativa tra il poeta e il cosmo, vissuta come la disperante menomazione fisica della cecità: “¿Qué dios / nos ciega, ciego, a los dos?”, tanto più grave in quanto impedisce la visione di questo mondo e dell’altro che esso adombra (“¿qué dios?”). Ancora questa condizione di ignoranza assillante è espressa nella poesia Atardecer junto al Mosela 41 Como el río no sabe qué destino final tendrán sus aguas que cumplir, y sin pausa ni cansancio camina, siempre en su sitio, y siempre de sí mismo perpetuo ignorante; y como el aire, que se ofusca y por el cauce corre, pero tampoco tiene una patria en que posar sus alas de una vez; y como la luz, que ya es y ya no es –¿y a dónde va, o no será su misma oscuridad?– así mis palabras, que son el otro río. 41 Ivi, p. 90. 197 Preclusione della vista quindi, ma anche della parola: l’ignoranza della meta (“no sabe / qué destino final”) priva il poeta delle facoltà di vedere e di esprimersi (“así / mis palabras”), in uno stato ambiguo di intermittente mancanza della luce (“aire, que se ofusca”, “luz, que ya es y ya no es”), situazione che ricorda quella infernale del viandante “che visitando [va] per l’aere perso” (Inf. “coscienza fusca” (Par. XVII, V, 89). Tale condizione di 124), implica anche la privazione di “una patria / en que posar sus alas de una vez”. Dove si conceda al termine patria il senso di uno spazio privilegiato di possibile corrispondenza interiore, anelata pausa ristoratrice, che il verso rappresenta con una esalazione spossata di sibilanti. L’insicurezza, derivata dalla mancanza di chiavi culturali per comprendere e interiorizzare il mondo circostante accomuna l’esperienza della natura nordica e di quella tropicale. Così il poeta rivive l’ostilità della natura muta in ¡Efeta! 42 : Salgo a ver las palmeras de este país. Procuro ganarlas con caricias de mis ojos y gustar en secreto de sus frutos. Levanto contra el cielo sus enjambres, suplico su palabra: – ¡Efeta! (Esto es, ¡Abríos!). Pero no eran palmeras. L’uscire è l’estasi 43 , l’evasione da sè del poeta totalmente assorbito nel tentativo totalizzante (“procuro”: fa tutto il necessario per ottenere ciò che desidera, unica direzionalità dell’agire) di conquistare il gusto segreto dei frutti: ganar esprime tutto lo sforzo del desiderio che conquista l’oggetto grazie alla sua stessa intensità. La gestualità del poeta si esprime nella sinestesia dove gli occhi acquistano la capacità delle mani di carezzare (“caricias de mis ojos”) per raccogliere la realtà in cui si imbatte. Gustare in segreto i frutti è un gesto di assunzione fisica, eucaristica, della materialità delle cose: la realtà di cui si desidera un possesso totale, viene compresa nella sua corporeità nel gesto sensuale dell’assaporare il frutto che essa offre (anche in un testo precedente, Laguna de Venecia 44 si ritrova la stessa gestualità: “He cortado las uvas / de Torcello [...] / Las he saboreado”). La parola con cui il poeta si rivolge al brano di realtà di cui chiede la 42 Ivi, p. 74. Estasi dal greco ÉKSTASIS è nome d’azione del verbo EKSÍSTĒMI ‘essere fuori di sè’. 44 Da En medio del camino, in Poesía 1996, tomo 1, p. 282. 43 198 rivelazione, “Effetà”, è la parola con cui nel Vangelo di Marco (Mc 7, 34) il Cristo restituisce la parola al sordomuto, gli dissigilla le labbra e l’udito. Nel vangelo il miracolo avviene, qui no: le palme non sono più palme; la lettura del mondo è impossibile, non c’è corrispondenza tra le capacità intellettive e il sistema di segni, il contesto è indecifrabile. Come per un improvviso black-out il poeta diventa cieco, sordo e muto, e non può spezzare il sigillo che chiude la realtà, precludendola alla sua conoscenza. Il poeta sta cercando il suo essere nel mondo e il mondo non glielo consegna. Eppure il tentativo di immedesimazione e assunzione profonda della natura, seppure qui fallimentare, costituisce una nuova direzionalità che conduce ad una reale possibilità di ottenere la rivelazione cercata. A questo punto, scrive Crespo: di fronte a questa incapacità di vedere e di udire non ci può essere altro che una distruzione o una ascesi. Distruzione non c’è dato che la poesia continua e, effettivamente, c’è un tentativo di ascesi che si riferisce allo spirito del poeta 45 . La personale ascesi del poeta “comincia con l’identificazione con la sua propria parola poetica 46 ”, e si sviluppa nella direzione di una mimesi della realtà e di una speculazione spirituale. Mímesis no significa, en este caso ni creo que pueda significarlo nunca remedo exterior de la realidad, sino inmersión en esa misma realidad, identificación profunda con ella, hasta el extremo de que, una vez descubierta sea imposible regresar al punto de partida, encontrar de nuevo la orilla de la realidad aparente. [...] pues ¿quién es capaz de renegar de una experiencia iluminadora, si la ha vivido con verdad y entrega? 47 Inmersión, identificación profunda ed entrega sono effettivamente le modalità con cui il poeta entra in una relazione totalizzante, fisica e spirituale con la realtà, nella speranza che essa ricambi, consegnando al poeta il suo mistero. Eternidad segunda 48 Metí las manos en el agua para parecerme a las islas. 45 Autolettura a Parma, cit., p. 43. Ibidem. 47 Ángel Crespo, Presentación de El bosque trasparente, cit. 48 Da El bosque transparente, in Poesía 1996, tomo 2, p. 43. 46 199 Por mis dedos pasaba el mar como el aire por las rendijas. Por debajo de mis palabras las sirenas se perseguían. cuando quise volver a la tierra ya no estaba la orilla. Il gesto sacrale dell’immersione delle mani nell’elemento acquatico, sta qui proprio a rappresentare la mimesi come immedesimazione fisica del poeta con il mondo. La penetrazione dell’acqua ha l’esplicito scopo di assimilarsi (“para parecerme”) agli elementi del paesaggio marino, mentre l’elemento primordiale ed archetipico (“el mar”) si costituisce flusso (“por mis dedos pasaba”) assoluto dell’elemento vitale (nella sua metamorfosi poetica in aria: “como el aire”), come da memoria eracliteana, esperienza cosmica dello scorrere del Tutto. L’esperienza in limine di assoluto, proprio en la orilla dell’assoluto, è una dedicazione totale che rende impossibile qualsiasi ritorno: la riva che scompare nega per sempre al poeta iniziato il ritorno alla stabilità delle certezze terrene, soprattutto perché egli oltre alle mani, ha immerso nella corrente cosmica le proprie parole, cui il cosmo ha dato la sua risposta di armonia nella danza delle Sirene (“por debajo de mis palabras / las sirenas se perseguían”). Del resto la parola poetica risulta essere una faccia inseparabile della medaglia che è l’identità del poeta. Il conio più antico e il più profondo. Por el metal profundo 49 ¿Quién sería capaz de separar las dos caras de una moneda? Delicado e inútil empeño: ¿quién nos la habría de tomar? ¿Qué luz, qué cántico, qué alas nos darìan por su media duplicidad? Una moneda – sus dos páginas – no tiene vuelta de hoja. Una es, no media y media. Si cae en el río, sus dos caras se ahogan en el limo o desembocan en el mar. Las mismas manos gastan sus dos lados simultáneamente. Y, contemplada por uno de ellos, sabemos que está entera porque, sin verlo, estamos adivinando, sintiendo – tocando casi siempre – al que no cupo en suerte. […] ¿Quién sería capaz de apartarnos a ti y a mi palabra mía? Unidos por lo no visible, por el metal profundo, repetimos – inauguramos – la más antigua de las acuñaciones. Somos – si somos – la moneda que no se gasta, que no se 49 Da El bosque transparente, in Poesía 1996, tomo 2, p. 139. 200 parte, pero se reparte. De una cara a la otra, el amor mide sus tamaños. Y siempre crece. Moneda viva, infinita: nada se niega a sus cifras protéicas. Moneda, no obstante que nada compra: porque todo – todo lo que existe o pueda existir – es absolutamente suyo. Identico destino condiviso, quello del poeta e della parola, in bilico tra la perenne alternativa dell’affogare nel fango o lo sfociare nel mare, tra l’opacità soffocante del fango e l’infinita potenzialità creatrice di un mare divinizzato dalla presenza di Proteo (“cifras protéicas”) e quindi luogo dell’oracolo. L’unità inscindibile delle due facce della moneta è anche cifra della stessa realtà del mondo, che nell’apparenza visibile di una sola delle due facce, lascia intuire quella nascosta (“sin verlo, estamos adivinando, sintiendo – tocando casi siempre – al [lado] que no cupo en suerte”). Nell’indagine poetica crespiana, il destino finale, conosciuto e fortemente voluto, è quello del trascendimento integrale della realtà verso la sua trasformazione in poesia “precipitado último, piedra filosofal, pues, del espíritu 50 ”. Scrive ancora Gaetano Chiappini 51 , c’è qualche cosa di esoterico nell’esplorazione profonda dell’essere, che postula una completa intesa invalicabile sul valore della parola, intesa sull’elemento magico di suono e di intatto mistero come aveva rivelato Pessoa. O nel senso di rarefatte esperienze come nel Paradiso dantesco. L’altra faccia di questa “profonda esplorazione dell’essere”, si manifesta, secondo quanto accennato più sopra, come speculazione introspettiva delle profondità spirituali, nella convinzione che la parola poetica è capace di spiegare l’apparente contraddittoreità del mondo fenomenico in una misteriosa armonia in cui “ser y no ser, saber e ignorancia, vida y muerte, nos ayuden – al poeta y a sus lectores – a ser nosostros mismos, a volvernos también transparentes a nuestras propias miradas interiores 52 ”. Il passaggio dalla cecità alla luce, costituisce una lenta e faticosa ascesi personale e poetica, in cui un’instancabile ricerca assedia le realtà mondane e spirituali in continui tentativi di espressione. Tale passaggio implica un processo di metamorfosi, una sorta di “alchimia spirituale 53 ” come fusione e trasformazione, che si svolge sotto il patronato del dio 50 Ángel Crespo, Notas para una lectura alquímica de las Metamorfoses de Jorge de Sena, cit., p.216. Gaetano Chiappini, Nota sulla poesia di Ángel Crespo, cit. p. 47. 52 Ángel Crespo, Presentación de El bosque trasparente, cit. 53 Con questa espressione Crespo descrive il clima del Purgatorio dantesco nella sua introduzione a Divina Comedia 1999, cit. p. XXVII. Cfr. supra cap. 3.2. 51 201 Hermes, il dio versipellis delle trasformazioni e della coincidentia oppositorum, inventore della parola (e non a caso “patrono” dell’arte traduttoria, la herméneutikè teknè), simboleggiato nel fuoco, l’ignis mercurialis (il fuoco è proprio il principale agente di metamorfosi nella poesia di Crespo, mentre, nell’alchimia, il mercurio costituisce l’agente di trasformazione dei metalli in oro 54 ) come lumen naturae, luce rivelatrice e mistica sorgente di conoscenza. Scrive a questo proposito Pilar Gómez Bedate 55 : la posibilidad de la metamorfosis personal y el trabajo en su cumplimiento, es el significado que podríamos llamar más literal de la poesía de esta época [gli anni settanta, che concidono con il lavoro di traduzione della Commedia] y es abordado desde múltiples perspectivas aunque siempre con un sentido moral que identifica el conocimiento con la perfección de la personalidad. Il codice cui Crespo si riferisce esplicitamente, come sostrato filosofico 56 della sua avventura poetico-gnoseologica, è il neoplatonismo di radice gnostica ed ermetica che il poeta mutua dalla sua conoscenza delle opere del Rinascimento fiorentino. Secondo quanto egli stesso afferma 57 : Creo oportuno decir algo acerca de mi concepto de aquella época [el Renacimiento] que, desde mi primer viaje a Italia, tanto ha influido en mi escritura. […] el Renacimiento revivió y vivificó a una importante corriente espiritual de carácter esotérico en obras tan fundamentales como las de Marsilio Ficino, Pico della Mirandola 58 , Giordano Bruno y tantos otros. Esto 54 Cfr. Carl Gustav Jung, La simbolica dello spirito, Einaudi, Torino 1975, Lo spirito Mercurio pp. 61-91. Il riferimento a Jung non è casuale, in quanto proprio quest’opera junghiana fa parte della biblioteca, e delle letture di Crespo. 55 Pilar Gómez Bedate, Una aproximación a los dioses de Ángel Crespo, cit., p. 123. 56 Nella stesura dattiloscritta di un intervento in occasione del “VIII Congreso internacional de fenomenología y literatura”, Ángel Crespo si esprime così riguardo alla relazione tra poesia e filosofia nella sua opera: “Soy lector asiduo de filosofía – de cierta filosofía – [...] y he descubierto que la poesía tiene mucho que ver con la filosofía, y con la teología, hasta donde esta ciencia es filosófica, y sobre todo desde que deja de serlo. Y he aprendido, que Dante era un escolástico con ribetes de platonismo, y no en cuanto filósofo, cosa que él no era, sino en cuanto poeta que amaba a la filosofía. Como consecuencia de ello, sin filosofía no es posible entender a Dante, el cual hacía poesía de la filosofía cuando intentaba filosofar. Petrarca, sintió un gran interés para la metafísica platónica; [...] Petrarca y Boccaccio, su discípulo [...] afirmaron que la poesía es teología, es decir una ciencia que mantiene estrechísimos contactos con la especulación filosófica. [...] Por su calidad poética la filosofía platónica sigue hoy viva [...] Platón se deja seducir por el misterio, por lo esotérico, y esto es lo que amamos los poetas, y lo amamos porque en el misterio reside la verdad”. Introducción a una lectura de mi poesía, 22 marzo 1983, inedito . 57 Á.C., Mis caminos convergentes, cit., p.28. 58 Proprio in Pico della Mirandola si trova codificato il significato più profondo della metamorfosi personale come suprema dignificazione dell’uomo che può usare liberamente il suo arbitrio per plasmare la sua propria forma: “All’uomo, nel nascere, il Padre assegnò semi d’ogni sorta e i germi di ogni specie di vita. Secondo quelli che ciascuno coltiverà, quelli si svilupperanno ed in lui produrranno i loro frutti: se 202 supuso la frecuentación de los presocráticos, de muchos de los cuales es herencia y compendio Platón y de la tradición filosófica hermética, que acompaña al platonismo y lo continúa y es la que explica la verdadera tradición espiritual – y, por supuesto poética – del Occidente. […] los renacentistas manifestaron un gran entusiasmo para el hombre, pero no por el hombre en acto, sino por el hombre en potencia. Creían haber descubierto la manera de restituir a la humanidad un cúmulo de conocimientos que le permitirían armonizarse 59 con un universo que la devolvería a su verdadero puesto en el cosmos. […] Para mí el Renacimiento no está representado por las formas estáticas, sino por el dinamismo de un fuego espiritualmente controlado que, lejos de destruir las formas, las templa, como las buenas aguas al acero. Come si capisce da questa citazione e da quanto spiegato nelle note, Crespo si allontana dall’oggettività della poesia dantesca per approfondirne i suggerimenti di carattere neoplatonico-gnostico, ricreandosi quindi, nel pretesto del “viaggio esoterico” di Dante, una nicchia personale in cui portare avanti il personale carattere della sua propria ricerca gnoseologica ed artistica. La poesia crespiana si arricchisce di profonde suggestioni simboliche alchemicoermetiche. Il fuoco diventa elemento privilegiato, in quanto elemento di luce, elemento metamorfico e principale agente di metamorfosi. Con un surplus di luce inizia la condizione in cui il poeta può riconoscere la sua propria forma: Luz en Lucerna 60 l’allitterazione della luce (luz – Lucerna) inaugura il recupero della vista interiore. Si fuese de la tierra, me podría pensar eterno: al menos como la cresta azul de la montaña inaccesible a las gaviotas que llegan de otro origen. Pero yo no soy de la forma vegetali, diverrà pianta, se sensuali, abbrutirà, se razionali ne sortirà un’anima celeste; se intellettuali, sarà angelo e figlio di Dio. E quand’anche non contento della sorte di nessuna delle creature, si raccoglierà nel centro della sua unità, divenuto allora un solo spirito con Dio nella brumosa solitudine del Padre che è costituito sopra gli esseri tutti, sovrasterà su tutti. Chi v’è che non ammiri questo nostro camaleonte? o che comunque non lo ammiri più di qualunque altra cosa? Che non a torto Asclepio Ateniese, in considerazione di questa sua versipelle natura in grado di trasformare anche se stessa, disse che nei misteri veniva rappresentato da Proteo. Di qui quelle metamorfosi celebrate presso gli Ebrei ed i Pitagorici.” Della dignità dell’uomo, trad. di Patrizia Moradei, Multimage, Firenze 2000, p.4. 59 Più avanti, Crespo riconduce a questa idea anche il motivo fondante le sue scelte di traduttore di poesia di prediligere sempre la restituzione esatta della forma del poema tradotto, in quanto imprescindibile veicolo “de una magia que no es otra cosa que el propósito de que nuestro ritmo personal … se contagie del de esa realidad trascendente que está dentro, y no fuera, del mundo”. Á.C., Mis caminos convergentes, cit., p.28. 60 Da El bosque transparente, in Poesía 1996, tomo 2, p. 91. 203 que se complace en sí misma hijo, y son mis alimentos el aire que, más alto la avasalla y el agua que por dentro y por fuera la va reduciendo a llanura sobre la que han de correr todas las tribus del deseo, y el fuego que es el único vencedor. Pues a todos nos sabe consumir. En él me sé más cerca de mi ser. Aria, acqua e fuoco, elementi dinamici, metamorfici, inafferrabili e meno definibili, sono quelli che formano e alimentano l’essere del poeta. Cui pure l’elemento terra darebbe una illusione di eternità (“si fuese … me podría”), ma, in quanto preclude ogni possibilità di metamorfosi, la forma statica “que se complace en sí misma”, che cioè trova soddisfazione nella sua staticità illusoria di forma, si allontana dalla verità dell’essere del poeta. Si noti il forte iperbato (“Pero yo no soy de la forma / que se complace en si misma hijo”), tratto stilistico di cui Crespo fa molto uso nella traduzione della Commedia, che pare proprio spezzare dall’interno la forma in cui il poeta non si riconosce. La forma definita si rivela illusoria in quanto assoggettata e modellata, a sua insaputa dal dominio dell’aria, dal lavorio dell’acqua e dal potere consumatore del fuoco. E proprio con la potenzialità di consunzione del fuoco, suprema ed unica metamorfosi capace di rivelare la verità e la divinità delle cose 61 , si identifica l’essere del poeta; luce e consumazione teofaniche, dignificazione ultima di tutto ciò che esiste, fuoco come “único vencedor” proprio in forza di questa sua capacità di luce e metamorfosi che lo rende gemello allo spirito di una poesia, come quella crespiana che tende instancabilmente alla parola teofanica imbevuta di luce. Fuoco come possibilità di trascendimento integrale, che consegnerebbe alla poesia il reale redento dalla sua opacità ed inconsistenza. Fuoco come ardore conoscitivo e potenza vittoriosa sulle tenebre dell’ignoranza e del non essere, che rappresenta la più profonda essenza della missione del poeta, secondo il celebre aforisma juanramoniano: “todo verdadero poeta lo es de transición. Su función es la de recojer la llama quemándose, quemarse él y pasarla quemando”. 61 “Sólo el fuego desvela la belleza / secreta de las cosas, / les desnuda el espíritu. / […] el estiércol / tejido / es, al arder, digno de un dios […] Todo, al arder, se iguala”. Celebración del fuego, in Poesía 1996, tomo 3, p. 169. 204 Ad una anteriorità di ignoranza si oppone ora la faticosa – e sempre parziale, in quanto sempre procurata con le proprie uniche forze, mai ricevuta per grazia – luce di una nuova visibilità, trasparenza dello sguardo interiore e rivelazione della perspicuitas delle cose, contro la loro esibita e costante inespressività. Così in El pabilo 62 , lo stoppino simbolico di una luce precaria, che pure enormemente si oppone alla “paciencia triste” delle cose, come una loro attesa rassegnata di una volontà che possa trarle dall’oscurità alla luce del significato. Lo stoppino possiede però l’ambiguità semantica della miccia, come possibilità di deflagrazione della luce. Enciendo la vela para verme, para contemplar lo que me rodea: es como un mar que va cediendo extensión y fondo, como un aire que quiere abrirme sus caminos más ocultos; lo mismo que un bosque de ramas y hojas transparentes. Lo distinto cede, el mar se puebla de árboles y aves el aire es ya continente sin muertes en sus entrañas, la tierra recobra altura – translúcida, huracanada – y, cuando todo comienza a ser luz (no la que yo he prendido, sino lumbre que las miradas enciende), apago el pabilo, y todo vuelve a su paciencia triste: no pude seguir mirando al interior de la llama Il gesto fortemente sottolineato in incipit del primo verso “enciendo”, riferisce tutta l’intensità volontaristica del creatore di luce: il poeta aggetta come soggetto attivo dell’atto luciferino, di cui si esprime chiaramente la finalità (“para” ripetuto due volte) conoscitiva nelle due direzioni dello sguardo interiore (“para verme”) e della contemplazione delle cose (“para contemplar lo que me rodea”). Ciò che si produce all’accensione del lucignolo, è, effettivamente, una deflagrazione luminosa, che investe, attraverso il fuoco della candela, l’elemento acquatico (“un mar”) e l’elemento aereo 62 Da El bosque transparente, in Poesía 1996, tomo 2, p. 168. 205 (“un aire”), tanto da ottenere la trasparenza del bosco. La deflagrazione della visione, pare produrre una sorta di onda d’urto di fronte alla quale si ritirano le acque del mare (“un mar que va cediendo extensión”) e le facili apparenze (“lo distinto cede”, cioè ciò che è chiaramente ed immediatamente visibile) e cambia l’aspetto consueto del mondo (“el mar se puebla de árboles y aves”, alla vita marina si sostituisce una vita terrestre, l’acqua si fa elemento respirabile e simbolicamente si creano le condizioni per la sussistenza del canto) affrancato dal limite della morte (“sin muertes en sus entrañas”). Si tratta quindi di una condizione edenica. La terra stessa è imbevuta di luce (“translúcida 63 ”), luminosità sconvolta (“huracanada”), in quanto la perspicuitas sovverte l’ordine apparente delle cose. La deflagrazione della luce provoca una totalità di luce (“todo comienza / a ser luz”) che si attesta su un principio di rivelazione (“comienza a ser”) e che trascende il gesto iniziale del poeta (che qui si riafferma come soggetto, sbalzando il pronome personale in chiusura di verso): “no la que yo / he prendido sino lumbre / que las miradas enciende”, e dichiara finalmente la sua qualità di luce intellettuale, lume di conoscenza capace di accendere gli sguardi; da cui si intuisce la missione corale della poesia come atto di rivelazione. La sacralità di tale rivelazione è denunciata dall’impossibilità degli occhi di persistere nella visione: “no pude seguir mirando”, occorre “apagar el pabilo” per non incorrere, come Semélè, nell’autodistruzione. L’affinamento della visione, come faticosa edificazione interiore, coltura totalizzante di potenzialità esistenti in nuce che devono esplicarsi in un lento cammino verso la perfezione, inaugura l’aprirsi di prospettive inedite nel mondo prima muto “cuando el poeta logra levantar el penúltimo velo, más tupido que los anteriores y menos que el siguiente 64 ”. La natura appare finalmente come possibilità di manifestazione, di teofania dello spirito in El Pedregal 65 : ¿Son alas deshojadas, huesos, tristes restos de algún naufragio, trances sin nombre, 63 Se l’aggettivo “lúcido”, indica di per sé uno stato di luminosità e trasparenza, l’aggiunta del prefisso trans- comporta proprio il passaggio della luce, quindi uno stato straordinario dell’elemento terra che si fa permeabile alla luce. 64 Á.C., Entre el temor y la esperanza, Notas acerca de mi poesía, in AA.VV. Ángel Crespo, una obra completa, cit., p. 11. 65 Da El bosque transparente, in Poesía 1996, tomo 2, p. 178. 206 tiempo derrumbado – o no son más que piedras? Detrás de ellas habrá un paisaje abierto o soledad tan sólo; habrá un vuelo, un tumulto acre de plumas, un fragor de olas contra el casco vivo, o una muralla, por la que pasean centinelas y brumas, y el mediodía se alzará lo mismo que una rama que crece. O tal vez no. Me paro junto a este pedregal: no me atrevo a dar un paso más hacia lo que me engaña revelándose. In questo testo è proprio la pietra, concrezione materica pura, inerzia dell’elemento terrestre, a farsi varco su possibilità appena accennate e ancora ambigue di rivelazione (“lo que me engaña revelándose”). I quesiti lanciati contro l’insieme disorganizzato di pietre (“¿… o no son más que piedras?”, “Detrás de ellas habrá un paisaje abierto / o soledad tan sólo”), denotano, nei giri avverbiali attorno a cui si svolgono, l’accendersi della visione di fughe prospettiche di universi alternativi al caos inespressivo dell’apparente con cui la realtà si presenta al primo impatto. Come dinanzi alla sacralità di una iconostasi, il poeta neofita della visione si arresta, “me paro [...] no me atrevo a dar un paso más”, preda di un’iniziale paralisi reverenziale innanzi alla possibilità di una rivelazione che trascenderebbe il suo stesso essere e la sua stessa ansia gnoseologica. Quel “paso más” viene osato 66 , secondo quanto afferma lo stesso Crespo, al aire de los dioses 67 , cioè nello spazio di assoluta trasparenza dell’elemento aereo, alla presenza numinosa e luminosa di quel sacro latente nella realtà fenomenica, ed in essa sempre ricercato in un costante assedio che giunge ora ad offrire i suoi primi frutti. La rivelazione teofanica non avviene mai “per grazia ricevuta”, ma nella faticosa opera del poeta la cui attività creatrice si attesta fortemente nella direzione di una fede non 66 Cfr. Autolettura a Parma, cit., p.46, dove, proprio dopo il commento della poesia El Pedregal, il poeta afferma: “il passaggio seguente, che infine oso fare nel libro ora in corso di stampa El aire es de los dioses […]”. 67 Al aire de los dioses, evidente citazione sanjuaniana con echi guilleniani, è il sottotitolo della prima parte della raccolta poetica El aire es de los dioses (1978-1981), che significativamente conclude El bosque transparente. 207 rivelata, ma totalizzante nella numinosità occulta dietro ogni aspetto dell’essere. La fede nel divino è condizione necessaria al fare poetico 68 : Sólo quien cree en los dioses, en sus pechos ni benignos ni aciagos, en sus ojos que todo lo someten, puede decirse hermano suyo y espejo ser de un dios. Él colaborará en la creación de otros mundos: irá a colocar la luz contra la piedra en un paisaje ciego [...] Il fattore primario della numinosità, non è qui il suo essere in rapporto all’uomo, il suo rivolgere al mondo uno sguardo benigno o infausto (“ni benignos ni aciagos”) 69 , ma il fatto di essere un assoluto totalizzante (“todo lo someten”). In questo verso riecheggiano le parole dell’antico Inno a Zeus di Cleante 70 che racchiude il nucleo della dottrina stoica, cioè l’affermazione del logos divino, sapienza ed ordine di tutto, che si diffonde in tutte le realtà. Se ogni manifestazione dell’essere è manifestazione divina, la creazione poetica deve necessariamente essere specchio di quella numinosità (“hermano suyo”, “espejo ser de un dios”). Solo così, si compie la condizione per cui il poeta può veramente coincidere con il suo essere poietés 71 , e collaborare alla creazione. E la collaborazione creativa del poeta consiste nel dare significato alle cose, proprio aprire il “paisaje ciego” a prospettive di inedite visioni (“otros mundos”). “Colocar la luz contra 68 Sólo quien cree en los dioses, in El aire es de los dioses (1978-1981), dalla raccolta El bosque transparente, cit. p. 159. (Esclusa dalla poesia completa del 1996). 69 Questo concetto del divino è strettamente rapportabile al concetto classico delle divinità grecolatine, che non intervengono nelle cose della terra, racchiuse in uno stato di beatitudine celeste alla quale non rinunciano per coinvolgersi con la vita dell’uomo. 70 Il celebre inno a Zeus, citato da S.Paolo, nel suo discorso areopagita, dice così: “Gloriosissimo tra gli immortali, dai molti nomi, sempre onnipotente, Zeus principio della natura che tutte le cose reggi e governi, salve. É giusto infatti che tutti i mortali si rivolgano a te, poiché da te siamo nati, avendo in sorte gli uomini l’immagine di Dio, noi soli fra quanti esseri mortali vivono e si muovono sulla terra perciò a te voglio inneggiare e sempre cantare la tua forza, a te questo cosmo tutto che si volge intorno alla terra, obbedisce ovunque tu lo conduca e di buon grado a te si sottomette. Quale servitore nelle tue mani invincibili la folgore a doppio taglio, infuocata e sempre viva, sotto il suo colpo cadono tutte le opere della natura e, con essa dirigi il comune logos che in ogni cosa si aggira mescolandosi all’astro più grande e a quelli più piccoli. Nulla avviene sulla terra senza di te, o nume, né sotto la divina volta celeste né sul mare, tranne quanto compiono i malvagi nella loro demenza. Ma tu sai rendere perfette anche le cose smodate e ordinare le cose disordinate poiché ciò che non è amico diventa per te amico.” 71 Il verbo greco poiéin possiede notoriamente l’accezione di creare,dare vita. 208 la piedra”, luce e pietra sono gli estremi della visione. Dove la pietra è la muta materia, seppure in tutta la sua inespressa potenzialità teofanica, la luce è invece la dichiarata messa a frutto del germe di vita razionale 72 che costituisce la fondamentale alternativa nella realizzazione dell’essere in potenza delle cose. L’assoluta trasparenza dell’aria, come elemento proprio del nume, si rende palpabile nell’acqua piovana, aqua vitae che discende dal cielo ad impregnare la terra della sua fecondità divinizzante. Il momento teofanico è esattamente determinato (“esta lluvia”) ed è afferrabile solo dal poeta (“os palpé [yo]”, “mis manos”, “mis dedos”) come soggetto privilegiato di una manifestazione individuale. En esta lluvia 73 : Os palpé en esta lluvia no en el aire, sino en la tierra, tras haber caído – entre la hierba fría y caliente, como una boca grande y verde que no devora tiempos: mis manos ahora huelen a aceite de podrido y lujuriante azahar (mis dedos ya planetas del árbol) y también a una axila rosa y al escozor de un vientre no virgen, tras la lluvia. Estábais allí tras el agua – o sea allí en la lluvia – como jugando a ser espejos más que su fibra ambigua, pero era vuestro el aire. La rivelazione è qui innanzitutto sensoriale, palpabile dalle mani e dita del poeta, concretamente colta in una terra feconda, “entre la hierba”, capace di essere alimento come pascolo erboso, e viva nei suoi contrasti (“fría y caliente”). Le mani del poeta, che si fanno qui forma del contatto con la terra sacralizzata dalla pioggia divina per appropriarsene (nei diarî si trova questa affermazione apparentemente casuale: “¿Mis sentidos? creo que el más agudo es el tacto 74 ”), ricevono da quel contatto una sorta di unzione sacramentale (“mis mano ahora huelen a aceite”) con l’olio del fior di zagara (“podrido y lujuriante azahar”) nella sua lussureggiante putrescenza, come intensità di 72 Cfr. supra, n. 58. Da El bosque transparente, in Poesía 1996, tomo 2, p. 224. 74 Á.C. Los trabajos del espíritu, cit., p.358. 73 209 profumo che ha potere lenitivo, e purezza simbolica di una catarsi avvenuta tramite il contatto con l’acqua divina. Attraverso la cortina di pioggia (“tras la lluvia”, “tras el agua”) il baluginare ambiguo del corpo della dea (“una axila rosa”, “un vientre”). Il contatto sensuale con questo corpo segnano profondamente le mani e le dita del poeta, che ne conservano la traccia come una bruciatura (il termine “escozor 75 ” rivela l’intervento del fuoco che completa la presenza dei quattro elementi) azzardato contatto con qualcosa di “vedado a los mortales 76 ”. La persistenza indelebile (“ahora huelen”) dell’odore e del fuoco sacro (“escozor”) rimane come testimonianza certa dell’ambigua visione (“estábais allí”) mai definitiva. Nell’universo poetico crespiano, l’unico contraltare all’eternità del dubbio, non è mai lo splendore definitivo ed assoluto della suprema rivelazione del Paradiso dantesco. La visione crespiana, più esattamente una divinazione, non trascende mai i confini del mondo e non si situa mai nell’Empireo, ma rimane nella göttlichgegenwärtige Natur, una natura che rende attuale la presenza della numinosità che essa stessa racchiude. La poesia significativamente titolata Al dios desconocido 77 , al dio ignoto 78 si pone nella tradizione grecolatina per cui si costruiva un altare anche per le divinità di cui non si sapeva il nome, per essere sicuri che ogni aspetto del dio fosse comunque onorato. Negli ultimi due testi, che prendo in considerazione, mi pare interessante sottolineare il passaggio al tratamiento de tú che il poeta riserva ora al dio in un dialogo che si mostra infatti sempre più personale e clarividente. Reluces en la piel de los toros, en los tobillos de la doncella, en las ondas vagas del agua del arroyo del prado, en la ceniza, en las paredes encaladas. 75 Il termine escozor propriamente la scottatura, è sostantivo derivato dal verbo escocer dal latino che indica “el hacerse sentir una parte del cuerpo con la sensación que produce una quemadura, el contacto de una cosa como un ácido en una herida”. Cfr. Moliner, s.v. escozor. 76 Orillas del Meno, da El bosque transparente, in Poesía 1996, tomo 2, p. 88. 77 Da El bosque transparente, in Poesía 1996, tomo 2, p. 218. 78 In Atti 17, 22, il discorso paolino nell’areòpago di Atene recita: “Paolo, alzatosi in mezzo all’Areopago, disse: Cittadini ateniesi, vedo che in tutto siete molto timorati degli dei. Passando infatti e osservando i monumenti del vostro culto, ho trovato anche un’ara con l’iscrizione. Al Dio ignoto. Quello che voi adorate senza conoscere, io ve lo annunzio. Il Dio che ha fatto il mondo e tutto ciò che contiene, che è signore del cielo e della terra, non dimora in templi costruiti dalle mani dell’uomo né dalle mani dell’uomo si lascia servire come se avesse bisogno di qualche cosa, essendo lui che dà a tutti la vita e il respiro e ogni cosa.” EXCOQUĔRE 210 Reluces en la oscuridad. ¿Qué dios eres? ¿O acaso eres diosa? ¿O no eres? Quiero ver tus ojos hondos o tus senos altos, pero me impiden sorprenderte mis ojos, en los que más reluces. Al lato della triplice domanda, espressione del dubbio inesauribile, si pone il relucir del dio, lucore pleonastico in se stesso, in quanto non si tratta di un semplice splendore ma di un raddoppiato ri-splendere, tre volte ribadito, e la forte espressione della volontà di vedere del soggetto (“quiero ver” espressione isolata ad occupare un intero verso trisillabo, e nel contesto della tendenza crespiana alla numerologia simbolica ed al ritmo simbolico del verso, il tre ricorre simbolicamente in questo testo come numero della divinità), a cui si oppone l’ostacolo paradossale degli stessi occhi del poeta come sede del maggiore splendore della divinità che acceca il poeta stesso. La metafora del cercatore cieco che procede a tentoni verso la divinità benchè essa non sia lontana da lui, che infatti in essa si muove ed esiste, ci riporta alla citazione paolina ed all’inno a Zeus (“[Dio] ha stabilito l’ordine dei tempi e i confini del loro spazio, perché cercassero Dio, se mai arrivino a trovarlo andando come a tentoni, benché non sia lontano da ciascuno di noi. In lui infatti viviamo, ci muoviamo ed esistiamo, come anche alcuni dei vostri poeti hanno detto: poiché di lui stirpe noi siamo”). Al culmine della visione dantesca si pongono le parole immortali della preghiera alla Vergine di San Bernardo, che implora per il poeta il disvelarsi de “l’ultima salute”. Seppure non si può parlare di culmine in un percorso che non concepisce rivelazioni, ma solo una inesausta ed inesauribile ricerca, a questo punto del percorso artistico ed esistenziale di Ángel Crespo, la voce intima del poeta si leva sobriamente in una personale parola rivolta al dio, in una totale entrega, nella preghiera che il dio stesso si appropri profondamete della sua parola 79 . Del mundo que yo ignoro tú procedes ardiente de belleza que yo ilumino porque sé que existe tanta hermosura. Vienes tú, de frente tú como cae la hoja 79 El dios soñado, in El aire es de los dioses (1978-1981), dalla raccolta El bosque transparente, cit. p.167. 211 del árbol y hasta mí la empuja el viento; como uno de sus rayos – que es él – me envía el sol; como yo digo una palabra – que soy yo – y te digo que vengas, que un momento dejes de ser silencio y sueñes mi palabra. Il tú, ancora ignoto (“del mundo que yo ignoro”), ma ormai certamente saputo (“sé que existe”), si fa qui messaggio ardente di una bellezza che è l’oggetto della costante ricerca poetica. Attività poetica come processo di illuminazione (“yo ilumino”) operato in prima persona dal poeta (“yo”), per cui la lunga ricerca del cammino alla perfezione porta all’esperita certezza dell’esistenza del mondo della divinità di luce e bellezza. Risultato dell’inesausto struggle poetico per conquistare il significato delle cose è l’avvento (“vienes”) “de frente” del dio, ancora parziale annuncio del mondo da cui proviene, come una foglia è parte all’albero, eppure parte che ne è essenza compartecipe, come il raggio è parte del sole ed insieme il sole stesso (“como cae la hoja / del árbol y hasta mí la empuja el viento; / como uno de sus rayos / – que es él – me envía el sol”). La dinamica della entrega tra poeta e divinità è reciproca, al movimento del dio verso il poeta, che il poeta ha meritato con la sua opera, si oppone il movimento del poeta della consegna di sé al dio: il poeta consegna se stesso sub specie di parola, la sua voce e il suo decisivo segnale di identità. E chiede al dio che nella sua dimensione di silenzio, che è il trascendimento in purezza della parola, sia accolta e fatta profondamente sua la parola poetica, che la parola del poeta possa essere ricreata, resa possibile nel sogno del dio dormiente. 212 3. La presenza di Dante nei diarî di Ángel Crespo La linea guida delle annotazioni diaristiche 1 è quella della riflessione e del lavoro sulla poesia e sulla figura di Dante 2 , fattore costituente le giornate, tanto da essere, spesso, l’unica annotazione insieme alla data, testimonianza di un costante lavorio sempre inserito nel ritmo vitale dei giorni, e di una assimilazione osmotica di sensibilità. Le prime menzioni di Dante risalgono all’estate 1971, in cui il poeta si trovava ad Upsala impegnato nel suo dottorato di ricerca. 24 de julio, 1971 3 haciendo un balance del año casi completo que estoy aquí (en Upsala), no puedo quejarme: he aprobado todas las asignaturas del doctorado, he dado dos seminarios, tengo muy avanzados los trabajos de documentación para mi tesis sobre El moro expósito, he leído mucho – sobre todo lecturas sobre la Edad Media – he refundido toda mi poesía en el libro En medio del camino, he escrito poesía nueva, he traducido a Dante … In quei primi mesi di riflessione critica sulla poesia dantesca si delinea già chiaramente quale sia l’enfoque prediletto dal poeta traduttore nella sua lettura della Commedia come assoluto valore estetico, libero da letture storicistiche o modelli interpretativi che si rifacciano ad idelogie religiose o politico-sociali: 25 de julio, 1971 4 Que Dante fuese güelfo, y luego, gibelino, que sus ideas sobre el Imperio fuesen atrasadas o, por el contrario, una profecía, está muy bien traído cuando se trata de escribir una historia de la política, que sus ideas religiosas sean cátaras, tomistas o deístas es algo que se puede discutir en relación con la historia del cristianismo; que Beatriz fuese la Portinari u otra, o no fuese, está bien discutirlo en la pequeña crónica local de Florencia o en la historia de los sentimientos eróticos occidentales, lugar también apropiado para discutir si Dante fue, como parece, un hombre voluble y apasionado o un amante platónico. Lo que interesa es su obra, la interpretación estética de su obra, a la que pueden concurrir como datos – más bien que aclaratorios, 1 Tutti i riferimenti ai diarî sono tratti da: Ángel Crespo, Los trabajos del espíritu, Seix Barral Biblioteca Breve, Barcelona 1999. 2 Il diario pubblicato riguarda gli anni 1971/1972 e 1978/1979. Nella prima tranche si parla infatti del lavoro della traduzione, nella seconda del lavoro relativo alla stesura del testo Dante per la collezione conocer dell’editore Dopesa di Barcellona (prima edizione 1979). 3 Ángel Crespo, Los trabajos del espíritu, cit., p.20. 4 Ivi, pp. 22-23. 213 evitadores de un descarrío a sensu contrario – los que acabo de anotar. Pueden ser límites, puntos de referencia, estímulos de la crítica pero no convertirse en su materia y, sobre todo, no mezclar esta materia no estética con la materia artística de la obra. […] ¿Qué dijo? Ésta es la pregunta que nos indica que nos encontramos ante un gran escritor: ¿qué dijeron Dante, Cervantes, Kafka, Joyce, Rabelais? La massima attenzione è posta dunque sull’arte dantesca della parola (“¿Qué dijo?”), che corrisponde pienamente alla scelta della fedeltà stilistica e filologica della traduzione. Dante diventa maestro della “palabra en su sitio 5 ”, come sommo fictor capace, attraverso la parola, di giungere alla conoscenza del mistero divino. Il testo seguente indica nell’universalismo della cristianità medievale il modello di un vero ecumenismo culturale possibile oggi, e nella poesia il mezzo per assumere piena coscienza della propria identità europea – e di conseguenza mondiale – e la via privilegiata per il raggiungimento dell’unità di tutti gli uomini in nome di una humanitas che possa trascendere qualsiasi nazionalismo o prepotente imperialismo. 25 de septiembre, 1971 6 Ahora nos toca a nosotros esa unidad europea – para contribuir, si es posible a la de toda la humanidad – que destruyeron precisamente los humanistas y renacentistas. Leyendo La filosofía en la Edad Media de Étienne Gilson, me asombra comprobar con que saña atacó Petrarca a los bárbaros que eran para él todos los no italianos. Su nacionalismo – que es una forma de imperialismo cultural – contrasta fuertemente con el universalismo de Dante; su ego vir italicus, con el nos autem cui mundus est patria del florentino. Desde el fondo cada vez más y mejor iluminado de la Edad Media, surge la voz que clama por la unidad del Occidente, y yo la oigo y vengo oyéndola – primero, por instinto; después, por determinación conciente – desde que en mi adolescencia leía a Dante, entendiéndole sólo a medias en una mala traducción en prosa. Ahora cuando le traduzco en verso, me doy cuenta de que antes de emprender este trabajo he tenido que escribir poemas a Florencia, a Reims, a Roma [...] Ahora me doy cuenta, después de la lectura de hoy, de por qué el petrarquismo español al que siempre he respetado me resultaba lejano y ajeno. (En realidad el primer poeta que me impresionó antes de leer a Dante, fue Berceo.) Mi pare di estremo interesse la riflessione sulla necessaria assimilazione di sensibilità per poter giungere a quella che sarà effettivamente una riscrittura di Dante 5 6 Cfr. ivi, p. 90. Ivi, p.79. 214 “essendo Ángel Crespo” (“antes de emprender este trabajo he tenido que escribir poemas a Florencia, a Reims, a Roma”). Si nota che il poeta traduttore vuole mettersi in condizione di poter comprendere la lingua dantesca come portatrice di una precisa visione del mondo, e vuole quindi giungere a ripensare il mondo come il poeta poteva averlo visto. Secondo quanto ha scritto recentemente Umberto Eco 7 , proprio la comprensione del mondo che un testo come quello della Commedia rappresenta è condizione necessaria per la sua comprensione e traduzione. Vorrei sottolineare la determinazione – anche morfologica – con cui il soggetto esprime la sua cosciente identità, l’universalità del suo “trabajo” intellettuale e la forte responsabilità che sente di assumere su se stesso nella sua missione poetica (“yo la oigo”, “le traduzco”, “me doy cuenta”, “emprender este trabajo”). Nella documentazione diaristica dei lavori su Dante il lettore rivive intimamente tutta la passione e la fatica – “il lungo studio e ‘l grande amore” nei confronti del poeta fiorentino – che segnano gli anni danteschi di Crespo nel farsi dell’opera di traduzione e commento della Commedia. 26 de noviembre 1971 8 A veces después de seis o siete horas de trabajo continuo me encuentro con que sólo he traducido cinco o seis tercetos del Infierno. Pero me da la sensación de que no he tardado más de una hora. No cabe duda que el tiempo vivido de que hablaba Séneca no es el de la creación poética. Sigo absorbido por la traducción del Infierno y sólo leo algunos libros sobre el pensamiento medieval. Il lungo studium dell’opera dantesca diventa una convivenza reale con la figura di Dante, un rapporto quotidiano (in cui, come in ogni convivenza, si presentano anche curiosi problemi): 2 de diciembre 1971 9 Ayer, el canto XXVIII del Infierno me planteó un curioso problema – no demasiado fácil de resolver –: encontrar dos rimas para la palabra pedo. 7 Dire quasi la stessa cosa, cit., p. 45. Cfr. Los trabajos del espíritu, cit., p. 87. 9 Ivi, p. 90. 8 215 La solennità lapidaria degli appunti seguenti sottolinea, la fatica del lavoro, che rende tanto maggiore il senso di esultanza per la conquista della vetta intellettuale raggiunta (“Deo gratias!”): 14 de diciembre 1971 10 Esta madrugada he terminado de traducir el Infierno. 6 de febrero 1972 11 Hoy he terminado de preparar el original definitivo de la traducción prólogo y notas del Infierno que mandaré la semana que viene a Gimferrer ¡Deo gratias! Nei primi giorni dell’anno 1972, Crespo si trova a Napoli per una visita a Mario di Pinto, con cui aveva già un decennale rapporto di amicizia e collaborazione. Il soggiorno napoletano diventa l’occasione per incontrare un gruppo di italianisti della locale Università a cui sottoporre la traduzione della prima cantica. Queste annotazioni testimoniano come costante preoccupazione culturale la costituzione di un oikuménè poetico, che diventa vettore guida dell’azione e dei rapporti reali: Nápoles, 1 de enero 1972 12 Le he leído [a Mario Di Pinto] algunos de mis nuevos poemas y dos o tres cantos de mi traducción del Infierno. Hemos pasado unas horas magníficas pues se ha entusiasmado. Por mi parte, he conseguido que me dé veinticuatro poemas suyos para publicarlos en la Revista de Letras. Hoy hemos pasado la tarde con Giancarlo Mazzacurati, Antonio Palermo y Vittorio Russo. El objeto de la reunión era leer unos cantos de mi traducción del Infierno a Russo y que éste me diese su consejo e indicaciones bibliográficas sobre Dante. Todo ha marchado muy bien y Russo me ha dicho – nos ha dicho – que le parece mentira que haya podido traducirlo como lo he hecho. Esperamos estar en contacto. Va a preparar un número sobre Dante para la Revista de Letras. Mazzacurati y Palermo dicen que prepararán otro sobre poesía italiana de postguerra pues están muy interesados en la revista. La traduzione costituisce la prima strada dell’ecumenismo poetico crespiano, come strumento fondamentale di integrazione culturale. 10 Ivi, p. 91. Ivi, p. 99. 12 Ivi, p. 93. 11 216 La seconda parte del diario copre gli anni 1978/ 1979, in cui, ormai compiuto l’opus magnus della traduzione integrale della Commedia, Ángel Crespo è nuovamente impegnato in lavori danteschi per la stesura della monografia Dante, che sarà pubblicata nella collezione conocer dell’editore Dopesa di Barcellona a fine 1979. 24 de febrero 1979 13 Debo empezar a redactar el librito sobre Dante para Dopesa, pero antes necesito leer otra cosa. Leo a Saba. […] Cuando Saba se acerca a los “herméticos” , no es tan escueto y seco como Montale: escueto sí, pero, lleno de jugo; es como una cereza, a veces, o como una aceituna ya aderezada, a veces; no es tan émulo a contrapelo de Petrarca como Ungaretti; está demasiado vivido, se nota que no desdeña, sino que ama a Dante; amaría, y tal vez sobre todo, sus cantos de Malebolge. No puede parecerse a Petrarca. En todo caso, al poeta de Il giorno (a pesar suyo?). Tan vivo por lleno de contradicciones. Agli occhi di Ángel Crespo, assiduo traduttore ed interprete della letteratura italiana 14 , Dante e Petrarca 15 , rimangono attraverso i secoli modelli e punti cardinali imprescindibili in tutto lo sviluppo della poesia italiana, come intramontabili maestri. La preoccupazione fondamentale con cui viene portato avanti il lavoro di redazione di questo studio, e la finalità che ne nobilitata la fatica, sono quelle di avvicinare Dante, la sua opera, e il modello intellettuale che rappresenta, al lettore contemporaneo, facendosi tramite responsabile dell’opera del grande poeta fiorentino: 25 de febrero 1979 16 No quiero, ni podría en el espacio de ciento y pico páginas, escribir un libro erudito sobre Dante, ni es éste el fin de la colección Conocer, de Dopesa. Me propongo, pues, escribir una obrita que sea más bien un ensayo de lectura bien documentada y sin pedanterías. Algo que acerque a Dante a quienes no le conocen. [...] De esta manera el lector puede acercarse al ambiente intelectual en que fueron escritas e interpretadas por vez primera las obras de Dante. En los demás capítulos, narraré la vida del poeta y explicaré lo que más me impresiona de sus textos – pues no otra cosa es un ensayo – apoyándome en abundantes transcripciones de los mismos, traducidas todas por mí. 13 Ivi, p. 188. Si confronti la nota bibliografica sulle traduzioni di Ángel Crespo dalla letteratura italiana, in chiusura del cap. 1.3. 15 Si ricordi la traduzione crespiana del canzoniere petrarchesco (cit. supra cap. 1.3). 16 Cfr. Los trabajos del espíritu, cit., p. 189. 14 217 26 de febrero 1979 17 Por la noche, después de clase me dedicaré al libro sobre Dante para el que todavía tengo que hacer lecturas de sus obras y traducciones de fragmentos de la mismas. 10 de marzo 1979 18 Sintetizar y organizar datos para el capítulo (o dos capítulos) de la vida de Dante, me está costando mucho trabajo, pues quiero darle un sentido no habitual, citando poesía y prescindiendo de hipótesis eruditas pero sin caer en la invención. Hoy, y para este primer capítulo, he traducido el soneto “Amor e ‘l cor gentil son una cosa”. Il proposito di “prescindere da ipotesi erudite” detta effettivamente il carattere del libro in questione 19 . Si tratta infatti, di un commento alla figura di Dante da poeta a poeta, in cui il traduttore tratta esaustivamente la propria personale interpretazione dantesca, dando particolare rilievo a temi a lui cari in quanto particolarmente vicini al suo temperamento poetico ed alla sua vicenda esistenziale. La pagina del diario dell’8 marzo 1979 riporta un’interessante discussione, svolta ovviamente in absentia, su alcune scelte linguistiche della traduzione della prima cantica della Commedia criticate in una recensione dall’ispanista veneziano Giovanni Meo Zilio: 8 de marzo 1979 20 Recibo el número 3 de “Rassegna Iberistica”, de Milán con una crítica de mi traducción del Infierno hecha por Giovanni Meo Zilio, que empieza así: «el último traductor de Dante al español, el uruguayo J. Freire, en la introducción a su hermosa versión antológica de la Comedia (Editorial Letras, Montevideo 1970) confesò haber “vertido los endecasílabos rimados en tercetos de Dante por un igual numero de tercetos de endecasílabos blancos, es decir sin rima, para no afrontar la dificultad casi insuperable de la forma total del poema (p.5)”. Unos años después, Ángel Crespo, casi milagrosamente, ha logrado salvar esta “dificultad casi insuperable” y ha realizado con soltura versal y altura poética una traducción en versos rimados a la manera dantesca que nos deja asombrados a los que sabemos lo que significa traducir en versos poemas difíciles y de tanta extensión.» Se adhiere después toto corde 21 , a las ideas que expongo en el prólogo 22 , me 17 Ivi, p. 191. Ivi, p. 195. 19 Cfr. supra, cap. 3.4. 20 Ivi, p. 193. 21 È un’espressione dello stesso Meo Zilio, nella recensione citata, redatta in lingua spagnola, in “Rassegna Iberistica”, n. 3, dicembre 1978, p. 65. 18 218 llama “prestigioso filólogo 23 ”, y para seguir el método germánico, trata de encontrar algun lunar en la traducción 24 . No es afortunado, aunque lunares hay, y algunos los he advertido yo sólo, releyendo. Dice que la gaetta pelle de la pantera del Canto I [Inferno I, v. 42] significa piel manchada. Yo lo sabía, y me lo habia dicho Mario di Pinto, el perezoso, cuando le leí la traducción recién hecha, pero mantuve la mía de gaya piel, porque me hacía gracia y creo que una piel manchada es gaya, alegre frente a la uniforme. Bien, en vista de que todos vienen a dar en la misma observación, corrijo en mi ejemplar: “aunque la pinta fiera allí estuviese”, pinta, pintada, con pintas 25 . No estoy de acuerdo en lo que dice del verso 126 del mismo canto 26 ; no entiende lo que traduzco en español de los versos 64-65 del Canto V 27 ; admito mi descuido en el verso 94 que corrijo así: “todo cuanto queráis oír y hablar 28 ”; no se da cuenta de que digo “ellas” en el verso 115, porque el sujeto es “almas 29 ”. Y tiene toda la razón cuando critica mi versión del verso 99, que ahora queda así: “a buscar paz allí con su partido 30 ”. Por lo demás todo son elogios en la crítica de este excelente hispanista que acaba diciendo que mi trabajo es una “traducción lograda que supone un esfuerzo 22 Nell’articolo in questione (ivi, p. 64) Meo Zilio mostra particolare apprezzamento per le idee crespiane esposte nel prologo alla traduzione della prima cantica, nell’edizione Seix Barral del 1973, quali la fedeltà al testo di partenza, all’ambito culturale che lo ha prodotto e la rinuncia da parte del traduttore alle velleità esegetiche per restituirlo in tutte le sue possibili suggestioni di senso. 23 Ivi, p. 65. 24 In effetti, dopo gli elogi iniziali, Meo Zilio passa ad una rassegna di “ciertas défaillances” dicendo “la tensión y la y la atención filológica del traductor no pueden mantenerse constantes”. Ibidem. 25 In Divina Comedia 1999 il verso in questione suona invece cosí: “aunque a la fiera moteada viese”, dove il termine “moteada” deriva dal sostantivo di uso comune “mota” indicante una piccola macchia rotonda. Cfr. Moliner, s.v. moteada. In realtà l’oscillazione traduttoria crespiana riflette l’ambiguità esegetica del termine gaetta che può intendersi sia in rapporto al provenzale gai ossia “amorosa, amabile, seducente”, sia in rapporto al caiet medioprovenzale equivalente a “screziato, picchiettato”. Cfr. Enciclopedia Dantesca s.v. gaetto. 26 Il verso in questione è l’affermazione di Virgilio che spiega a Dante il perché non può essere lui a guidarlo nel Paradiso in quanto anima del Limbo, per cui Dio “non vuol che ‘n sua città per me si vegna”, dove “per me”, retto dall’impersonale “si vegna” è costrutto latino che significa “che io vada”, e non si deve tradurre con il complemento d’agente. L’obiezione di Meo Zilio si riferisce alla prima versione “que nadie por mí llegue allá procura”. In Divina Comedia 1999 il verso in traduzione risulta corretto rispetto alla prima edizione: “que yo no llegue a su ciudad procura”, e commentato in nota dal traduttore con queste parole: “la razón sola, si no está iluminada por la fe, es incapaz de conocer las verdades teológicas.” 27 La terzina dantesca di Inf. V, 64-66 “Elena vedi, per cui tanto reo / tempo si volse, e vedi ‘l grande Achille, / che con amore al fine combatteo” è resa nella traduzione crespiana con “mira a Helena, que al tiempo convocó / de la desgracia; a Aquiles esforzado / que por amor al cabo combatió”. Meo Zilio considera impropria questa traduzione, che infatti rielabora liberamente la lettera dantesca: da strumento passivo del fato Elena, nella versione di Crespo, diventa una figura attiva dotata di poteri quasi magici su un indefinito “tiempo de la disgracia”. Il verso, infatti, non viene corretto dal traduttore nelle edizioni successive. 28 Il verso, “di quel che udire e che parlar vi piace”, viene corretto da Crespo, che in questo caso accoglie le obiezioni di Meo Zilio, in Divina Comedia 1999. 29 Nei versi in questione (Inf. V, 114-115) la traduzione sostituisce costoro con almas, con cui concorda il pronome ellas contestato da Meo Zilio: “menò costoro al doloroso passo. / Poi mi rivolsi a loro e parla’ io”; “a estas dolientes almas trajo aquí. / A ellas después encaminé mi acento”. 30 Il verso “per aver pace co’ seguaci sui”, riferito al Po, nella prima edizione suonava così: “y es con sus afluentes absorbido”. L’obiezione di Meo Zilio riguarda l’eccessiva allitterazione di s all’interno del verso ed il fatto che questa traduzione svuota l’immagine dantesca, particolarmente pregnante per il contrasto tra la pace del fiume e dei suoi affluenti e la dannazione dell’anima di Francesca da Rimini. La correzione, che Crespo segna sul diario, riappare in Divina Commedia 1999. 219 poderoso y representa una lectura estimulante para todo hispanófono y ampliamente ejemplar para los especialistas”. Una particolare rilevanza è data – come ampiamente mostrato nel capitolo precedente – al tema delle metamorfosi, argomento che, come testimonia la seguente annotazione è particolarmente caro al poeta Crespo: 11 de marzo 31 Me he puesto a leer – a releer – su libro Metamorfoses [si tratta della poesia di Jorge de Sena] y me he puesto a leerlo porque el tema de las metamorfosis me preocupa mucho en Dante – y en general – y le voy a dedicar bastante atención en mi librito dantesco. La questione dell’importanza della struttura metrico ritmica del poema come imprescindibile veicolo di significato e mezzo di una più grande comprensione ed armonizzazione del poeta e del lettore di poesia con il respiro vitale del cosmo, che si trova teorizzato negli scritti crespiani 32 e che anima il modus operandi della traduzione crespiana, trova espressione anche nei diari e proprio in relazione alla riflessione sull’opera dantesca. 20 de marzo 33 Desde luego yo me desintereso de toda poesía – en prosa o en verso – cuyo ritmo no se hace aparente, no se impone independientemente de sus otros significados; pues el ritmo es un significado. En este sentido, Davie piensa que Dante es superior a Homero y a Shakespeare porque éstos no se apoyan tan consistentemente como áquel en la capacidad del lenguaje para corporeizar la idea, convertirla del concepto que es, en algo aprehensible por los sentidos. Este punto me parece fundamental y tiene mucho que ver con lo que dice Ungaretti, que también releo en estos días sobre el entendimiento de la poesía. Il susseguirsi quotidiano delle prossime note porta il lettore a seguire momento per momento lo sviluppo della stesura del saggio la cui realizzazione determina e scandisce il tempo del poeta. Le annotazioni che seguono sono spesso l’unica annotazione della giornata. 4 de abril 1979 34 31 Cfr. Los trabajos del espíritu, cit., p. 198. Cfr. la nota crespiana riguardo alla ricerca del ritmo in poesia supra, cap. 2.1, p. 42. 33 Cfr. Los trabajos del espíritu, cit., p. 205. 32 220 Lecturas de historia, para el libro sobre Dante. Notas y redacción de unas cuantas páginas a mano, no definitivas. 11 de abril 1979 35 Progreso en el Dante. 18 de abril 1979 36 Dante todo el día. 21 de abril 1979 37 Traduzco el soneto CLVIII de Il Fiore. Dante durante todo el día. 23 de abril 38 Preparado todo el material, empiezo a escribir el capítulo de las obras “menores” del exilio de Dante. No puedo evitar cierto tono polémico y un tanto apasionado, pues me fastidia la imagen hagiográfica del poeta que quineren ofrecernos mucho de sus compatriotas y sobre todo, su desconocimento del proceso poético, segun el cual parecen querer decir que Dante sabía desde que escribió el primer verso, que iba a ser el autor de la Comedia, y que no dió puntada sin hilo; y no es verdad, porque se ve claramente, sobre todo en el Convite , cuán grandes esfuerzos tuvo que hacer para tratar de ofrecer una visión unitaria de su producción, y de su producir que para mi no resulta convincente. En fin trato de explicar esto en le librito y, de paso, de recuperar al Dante que sólo se diferenció de los otros grandes poetas en que era mayor. 24 de abril 1979 39 Dante a destajo. 25 de abril 1979 40 Redacto el borrador de dos capítulos relativos a la Comedia. Dada la escasa extensión del libro, tengo que dejar fuera varios temas que me apasionan. ¿Podré alguna vez encontrar un editor que esté dispuesto a publicarme un libro extenso sobre Dante? 27 de abril 1979 41 34 Ivi, p. 211. Ivi, p. 214. 36 Ivi, p. 218. 37 Ivi, p. 219. 38 Ivi, p. 220. 39 Ivi, p. 221. 40 Ivi, p. 221. 41 Ivi, p. 222. 35 221 Dante durante la tarde y la noche. 1 de mayo 1979 42 Ayer y hoy he dedicado todas las horas de trabajo a organizar papeletas para los dos últimos capítulos del Dante, el primero de los cuales está casi terminado. 5 de mayo 1979 43 Prácticamente terminado el Dante: sólo me queda escribir el prólogo y pasar al limpio todo el libro, tratando de reducirle unas veinticinco páginas y de corregir el estilo. En realidad se trata de una segunda redacción. El último capítulo (que está totalmente dedicado al problema de las metamorfosis) – no he podido dada la falta de espacio sino resumir mi estudio publicado en la Revista de Letras – y las traducciones son, además de la estructura del libro, mi aportación más personal. 8 de mayo 1979 44 Planto un jobo en el jardín. Trabajo muy agotador en el Dante. 9 de mayo 1979 45 Abre la primera rosa de nuestro jardín. Sigue el agotador resumen del Dante, pero empiezo a verle el fin. 10 de mayo 1979 46 Toda la tarde y toda la noche, Dante. 13 de mayo 1979 47 Termino el Dante. Deo gratias. Mi pare significativo riportare le due annotazioni seguenti sulla scelta delle illustrazioni per la monografia dantesca, in quanto dicono dell’interpretazione crespiana della poesia di Dante in direzione platonica e simbolista. L’opinione di Crespo su alcuni dei più famosi commenti grafici alla Commedia viene espressa e motivata in forma teorica nell’introduzione alla traduzione 48 . Qui si assiste al backstage del momento della 42 Ivi, p. 223. Ivi, p. 223. 44 Ivi, p. 224. 45 Ivi, p. 225. 46 Ivi, p. 225. 47 Ivi, p. 225. 48 Cfr. supra cap. 3.3, p. 156. 43 222 scelta delle illustrazioni come commento al testo, e di conseguenza alla ricerca di coerenza con l’orientamento interpretativo proposto dal traduttore. 24 de junio 1979 49 Cenamos en casa de Orús. … Nos quedamos hasta la una de la noche viendo dibujos de Orús. Le sugiero que envíe reproducciones fotográficas de tres de ellos a Clotas para que se publiquen en mi Dante pues parecen hechos para ilustrar la Comedia 50 . 16 de agosto 1979 51 Envío a Clotas 17 posibles ilustraciones para el Dante, entre ellas, reproducciones de cuadros de Rossetti, Blake, Delacroix, Rafael y Holliday (del que no estoy muy convencido); el caso es que metan la menor cantidad posible de las nefastas ilustraciones de Doré. Le advertí a Wacquez que no lo hiciesen, pero no pareció quedar muy convencido. Come ricordato nella cronologia biografica del dantismo crespiano 52 , nel 1979 il Ministero degli Esteri Italiano di Madrid concesse a Crespo un premio in denaro per la traduzione della Commedia. Nel diario si trova il racconto di quella circostanza che vide l’intervento di Carlos de la Rica, poeta e sacerdote della città di Cuenca, amico di lunga data di Ángel Crespo e Pilar Gómez Bedate, a causa dell’impossibilità del traduttore di recarsi di persona a Madrid da Puerto Rico per la premiazione. Sempre dai diari risulta che fu l’italianista ed amico del traduttore Joaquín Arce a fare ilnome di Crespo per questo premio. 6 de marzo 1979 53 Ayer por la tarde recibí un telegrama del Instituto Italiano de Cultura de Madrid, en el que se me dice que el Ministerio de Asuntos Exteriores me ha concedido un premio del 100.000 pesetas por mis traducciones (entiendo que por la Comedia), que la entrega del premio será el día trece y que me escriben. Por la noche telefoneé a Carlos de la Rica y le pedí que me represente en el acto de la entrega. Esta mañana he telefoneado al Instituto Italiano, les he comunicado lo de Carlos y les he pedido que me envíen el cheque aquí; luego he vuelto a llamar a Carlos, quien me dice que se ocupará del asunto con todo interés. Asunto resuelto. 49 Cfr. Los trabajos del espíritu, cit., p. 262. Nell’edizione Dopesa del 1979 compaiono effettivamente illustrazioni di Orús 51 Cfr. Los trabajos del espíritu, cit., p. 314. 52 Cfr. supra cap. 1.2, p. 24. 53 Cfr. Los trabajos del espíritu, cit., p. 192. 50 223 Es el primer premio de mi vida; naturalmente, porque no hay que presentarse a él. Una cosa me intriga y otra me preocupa. Lo que me intriga es quiénes pueden haber movido el asunto en Italia o en España o en los dos sitios pues no tenía la más mínima noticia sobre el asunto. Lo que me preocupa es que algunos van a pensar que he hecho algo por obtener este premio; y no voy a andar explicando que no he movido un dedo para ello porque no iban a creerme dada la manía por ganarlos que tienen los escritores españoles. Un premio a estas alturas de mi carrera también tiene sus inconvenientes. 12 de marzo 1979 54 Carta de Joaquín Arce, al que no veía desde el congreso Dantista de Bari, en la que me dice que él fue quien propuso mi nombre para el premio del Ministero degli Esteri Italiano, lo que confirma la carta del Instituto Italiano di Cultura de Madrid que también llega hoy. 28 de marzo 55 Carta de Carlos de la Rica: “estuve a retirar el premio, estuvieron muy amables conmigo y nos deshicimos en elogios sobre tu traducción, sobre la auténtica recreación de tu versión. También los hicieron públicos en la breve nota que se leyó para justificar la donación de los premios que compartiste con Esther Benítez en su traducción de Los novios y que me estuvo preguntando por tí y las ganas que tenía de conocerte; ella misma puso tu obra por las nubes. pues bien, los amigos Ottavio Mulas y Cesare Greppo estaban acordes en que yo dijera algo pero el buen señor embajador levantó la sesión y todos nos quedamos con la boca abierta. La sesión fue corta pero solemne, en el salón de actos de la embajada, con asistencia de la televisión que luego hizo un pase y otro para Italia. Inmediatamente abrió la exposición de libros italianos que organizaban los editores italianos y luego se sirviò una cena fría en la que ya no estuve pues era muy tarde y había quedado en verme con otros poetas a esa hora. En cuanto a notas de prensa, Ottavio Mulas me aseguró se había dado información, mas yo nada he visto al respecto aunque la noticia se había difundido. En el acto no había más que una media docena de españoles, al menos todos hablaban italiano”. Concludendo, vorrei sottolineare l’interesse particolare delle annotazioni diaristiche riportate in questo capitolo, che risiede nel fatto che esse testimoniano nella maniera più diretta e personale la realtà della “larga intimidad” di Crespo con la figura e l’opera di Dante nel suo svilupparsi nel tempo, ed il suo significato come assunzione poetica esistenziale e umana del paradigma culturale che esse rappresentano. 54 55 Ivi, p. 199. Ivi, p. 209. 224 Appendice I Trascrivo qui fedelmente alcuni estratti dai carteggi intrattenuti da Crespo durante gli anni della traduzione dantesca con il poeta Pedro Gimferrer (allora membro della casa editrice Seix Barral che si incaricò della prima edizione della traduzione della Commedia) con Joaquín Arce (italianista ed autore di diversi studi su Dante nella sua relazione con la cultura spagnola). Riproduco infine alcune lettere che il poeta Jorge Guillén scrisse ad Ángel Crespo elogiando la sua traduzione della Commedia . Si tratta nei primi due casi di dattiloscritti, in quello delle lettere di Guillén di manoscritti autografi che non presentano particolari problemi di trascrizione. I titoli delle opere, che negli originali sono sottolineati, vengono resi in corsivo. I testi selezionati vengono riprodotti in successione cronologica e suddivisi in tre nuclei corrispondenti ai tre interlocutori, con i quali si intravvede da parte di Crespo una diversa relazione. Nel carteggio con Gimferrer le vicende editoriali attraverso le quali il progetto di traduzione della Commedia fu concepito e prese corpo progressivamente si intreccia con i toni di rispetto e ammirazione del giovane poeta nei confronti del maestro. In quello con Joaquín Arce traspare la reciproca stima per il lavoro svolto e un comune entusiasmo per un autore che sia il critico che il poeta contribuivano a diffondere. Infine le lettere di Guillén, la cui autorità come maestro di arte e di vita era già indiscutibile, decretano il valore e l’importanza culturale dell’opera di traduzione intrapresa da Crespo. In tutti e tre i casi si tratta di preziose testimonianze di una koinè poetica e culturale che, attraverso toni affettivi e colloquiali, porta alla luce dati, persone, fatti essenziali per la ricostruzione di una singolare microstoria. 225 1. Dalla corrispondenza inedita di Ángel Crespo con Pedro Gimferrer 1 (1970 –1977) Barcelona, 5 de enero 1971 2 Querido amigo, Que yo recuerde, no hemos llegado en ninguna ocasión a conocernos como no sea muy fugaz y ocasionalmente. Creo, con todo, que, si otra cosa no, la condición de poeta da derecho al tuteo – si queremos ser ceremoniosos – y a un tácito supuesto de amistad a priori. Por lo demás, te escribo para un asunto enteramente profesional, aunque no ajeno a la poesía. Como quizá sepas desde el pasado mes de septiembre tengo a mi cargo la Sección Literaria de la editorial Seix y Barral. En ella pensamos abrir una gran colección de poesía universal, que de cabida, en textos bilingües, al grueso de la obra poética – obras poéticas completas o casi completas, según lo que la extensión permita – de los más importantes poetas modernos. Uno de los primeros volúmenes que hemos pensado sería una representación lo más extensa posible de la poesía de Fernando Pessoa. En mi opinión, debería comprender la obra íntegra de los heterónimos y, por lo que respecta a la firmada por el propio Pessoa, una representación lo más amplia posible en el caso de que razones de extensión (no olvides que habrá que dar el texto bilingüe) desaconsejaran otra cosa. Pero, en cualquier caso, el parti pris ha de ser procurar la obra completa si es posible. Creo que, tanto por las cualidades de tus traducciones – a título de simple lector, permíteme decirte que imborrable recuerdo conservo de Gran Sertón: veredas – como por tu interés específico por Pessoa, tu serías la persona idónea para llevar a cabo este arduo e importante trabajo. (Imagino, por lo demás, que podrías utilizar libremente la traducción de los poemas de Alberto Caeiro que publicaste hace tiempo en Adonais, nunca reeditada). Estoy pendiente, pues, de tu respuesta para llevar adelante el asunto de tu acuerdo con la Editorial al respecto. Caso de que me digas que existe por tu parte posibilidad de un acuerdo de base, Juan Ferraté – director literario – convendría contigo las condiciones concretas del contrato. Por supuesto, en el caso de que debiera realizarse 1 Di questa corrispondenza crespiana si riproducono alcuni frammenti salienti e di particolare interesse riguardo alle questioni dantesche. 2 La copia originale di questa prima lettera che apre la corrispondenza tra i due poeti è stata esposta al Círculo de Bellas Artes di Madrid in occasione della mostra Ángel Crespo. Con el tiempo, contra el tiempo, svoltasi dal 20 aprile al 3 luglio 2005, e pubblicata nel catalogo relativo, edito dalla Fundación Jorge Guillén, Valladolid 2005, pp. 148-149. 226 una selección (aunque ya te digo que yo preferiría la obra completa) tú serías el antólogo. También podrías escribir un prólogo – independientemente de la circunstancia de que pensamos pedirle permiso a Paz para reproducir su ensayo sobre Pessoa – y una nota biobibliográfica. Pero esto es ya facultativo. A la espera, pues, de tus noticias, un abrazo, Pedro Gimferrer Uppsala, 27 de enero 3 1971 […] Ahora estoy traduciendo la Divina Commedia. Yo no sé si es una locura de la que puede distraerme la proposición que me haces 4 , pero en todo caso ya he publicado los seis primeros cantos, precedidos de unas notas en las que trato de explicar cómo quiero hacer dicha traducción. Han aparecido en el número 8 de la “Revista de Letras” de la Universidad de Puerto Rico, que dirige Pilar Gómez Bedate. Te mando un ejemplar de ese número, en el que también van unas traducciones mías de un importante poeta sueco vivo. […] Como tú andas entre editores, si mi traducción no definitiva de Dante (pues no hago más que corregir y corregir lo ya traducido) no te parece demasiado mala, te agradecería que me dijeses si para un futuro no demasiado cercano podría encontrar un editor que me admitiese también prólogo y notas. El problema consiste en que la universidad de Puerto Rico me publicaría la traducción y demás aditamentos pero me temo tropezar en el problema de la distribución y escasa difusión de este trabajo. Esto no es urgente de momento porque todavía tardaré bastante en terminar, corregir, estudiar y hacer notas, y se trata de un trabajo que hago en los escasos ratos libres, pero siempre anima una buena perspectiva de publicación. Cuando esté hecho lo de Pessoa, me gustará (pues ya ves que la traducción es para mí un vicio que simultanéo con con el de escribir mis propios y últimamente no publicados poemas) que me digas que otros poetas de una lengua que yo conozca van a ser publicados por vosotros. […] Ángel Crespo Barcelona, 1 de febrero 1971 3 Il ritardo della risposta fu dovuto ad un disguido logistico: la prima lettera di Gimferrer fu spedita a Puerto Rico, mentre Crespo si trovava già in Svezia per svolgere il suo dottorato di ricerca. 4 Quella di tradurre la poesia di Fernando Pessoa, occasione dell’inizio della corrispondenza tra i due poeti. 227 Querido amigo, me ha alegrado mucho recibir tu carta y ver, según lo que en ella me dices que existen amplias posibilidades de contar con tu colaboración. Ante todo, déjame decirte que tanto a Ferraté como a mí nos ha gustado mucho la traducción de los seis primeros cantos de la Divina Comedia. Puedes contar desde ahora con que estamos, no sólo bien dispuestos, sino además firmemente interesados, por lo que respecta a la publicación de tu traducción, prólogo y notas. No falta sino que nos vayas teniendo informados de la marcha de tu trabajo. […] Sería interesante que precisaras, si es que puedes tener noción de ello, el tiempo que crees que podría llevarte tu traducción de Dante, teniendo en cuenta que, al saber que tienes editor en firme, acaso podrías dedicarte a ella con más asiduidad. Quedo en la espera, pues, de tus noticias principalmente respecto al Dante y a tus “poesías completas” o como las llamemos. Este es un proyecto que podríamos activar tanto como quisieras, de modo que salieran incluso este mismo año, si es que tienes interés en ello. Pedro Gimferrer Uppsala, 8 de febrero, 1971 […] Respecto a la Divina Commedia, qué te voy a decir. Llevo varios años estudiando a Dante y su obra, aunque sólo lleve unos meses traduciendo. Sería difícil fijar una fecha de entrega de la traducción, prólogo y notas terminados. Pero tienes razón al decirme que la seguridad de contar con un editor – y tan bueno – va a estimularme y a hacerme trabajar más. En todo caso, yo espero terminar en mayo la intensa etapa de estudios a que me veo sometido, y a partir de ese mes podré dedicarle más o menos tiempo a la traducción de la Comedia según que hayamos o no empezado en firme con el asunto de Pessoa, pues supongo que los plazos editoriales jugarán en este caso un papel de urgencia que no se da en el caso de Dante. De todas formas si vosotros no creéis precipitado firmar un contrato por un término prudencial de entrega, ese contrato ayudaría a acelerar la traducción, y no por ningún factor psicológico, sino porque, una vez vuelto a Puerto Rico y mostrado el contrato en el decanato de estudios, me rebajarían las horas de clase para que pudiera trabajar en el libro. […] En cuanto se refiere a mis “poesías completas 5 ”, sólo te diré que me ofreces publicarlas precisamente 5 Si tratta in effetti della prima raccolta dell’opera crespiana che include la poesia dagli esordi del 1949 al 1970, pubblicata proprio a Barcellona da Seix Barral nel 1971, e significativamente intitolata En medio del camino. 228 cuando yo estaba preocupado por hacerlo, pues las ediciones en que aparecieron mis poesías son casi todas bastante cortas y prácticamente están fuera del alcance de quienes pueden interesarse en leer mis versos. Así es que considero esto bastante providencial. Estoy revisando mis versos – suprimiendo bastantes poemas, corrigiendo otros, etc. – desde hace varios meses. Por ello creo que podría tener listos los originales dentro de dos meses o tres, por lo que sería magnífico que, como dices me escribiese en seguida Ferraté. […] respecto a Dante, creo que no iba a tardar menos de un año y medio en tener el libro listo, pero trabajaré todo lo que pueda para tratar de acortar el plazo. Ángel Crespo Mayagüez, 29 de noviembre 1972 6 […] Sigo trabajando en la traducción del Purgatorio. Estoy entusiasmado con la extraordinaria capacidad (en cierto modo prerafaelita, sobre todo en los primeros y en los últimos cantos) de esta cantiga. Merece la pena poner de relieve en la traducción ese mundo ambiguo y poéticamente polivalente, tan difícil de captar y de fijar. [...] Ángel Crespo. Mayagüez, 20 de septiembre 1973 7 […] Llevo bastante adelantado el Purgatorio, que espero enviarte hacia enero. Y creo que me está saliendo mejor que el Infierno. ¡Qué poesía tan extraordinariamente humana y sabiamente estilística la de esta cantiga! Me sentiría satisfecho si los lectores futuros se aficionasen a ésta más que a la anterior parte del poema. 6 Le lettere che vanno dal febbraio 1971 fino a questa del novembre 1972, contengono per lo più scambi di informazioni tra i due poeti riguardo allo stato dei lavori di traduzione della prima cantica, i termini della consegna all’editore e anche riguardo all’edizione della poesia completa En medio del camino. Unici appunti salienti, in data 25 settembre 1971 il traduttore afferma di usare come edizione di riferimento della Commedia quella di Natalino Sapegno e per consultazione anche quella della Società Dantesca Italiana; in data 16 dicembre 1971 Crespo annuncia di aver concluso la traduzione dell’Inferno. Al 2 luglio 1972, Crespo, ancora residente ad Uppsala per il suo dottorato, riceve la notizia che l’edizione dell’Inferno è in corso di stampa, e si ripropone di iniziare la traduzione del Purgatorio non appena tornerà a Puerto Rico. 7 In data 10 febbraio 1973, Crespo si fa tramite della richiesta all’editore da parte della Facoltà di Lettere di Mayagüez, di una fornitura di 2000 copie dell’Inferno, che verrà adottato come libro di testo per i corsi universitari. Annuncia inoltre all’editore il buono stato dei lavori di traduzione della seconda cantica che spera di concludre per il maggio seguente; in realtà il lavoro si protrae ancora per tutto il 1973. In data 15 novembre 1973 infatti, Crespo afferma, incoraggiato anche dall’entusiasmo per la buona riuscita dell’edizione della prima cantica: “estoy deseando poder terminar el Purgatorio, –e incluso el Paraíso que todavía no he empezado a traducir – para completar esta extraordinaria edición”; Gimferrer risponde, in data 5 dicembre 1973, che attende con ansia la traduzione del Purgatorio: “espero empezar el nuevo año leyendo tu Purgatorio”. 229 Mi poesía va cambiando tanto que casi no me atrevo a dar muestras en revistas, y, de momento, no lo hago. No es que cambie en otra dirección pero creo que estoy sacando ahora la difíciles consecuencias de cuanto he hecho en poesía antes de ahora. [...] Ángel Crespo Mayagüez, 27 de enero 1974 Querido Pedro, Me alegra saber que el Infierno está cayendo bien 8 , aunque habrá que esperar algún tiempo a que salgan críticas largas y detenidas. Creo que, de pronto, sólo saldrán reseñas. Hoy mismo he acabado de pasar a limpio el Purgatorio y su prólogo. Me quedan por pasar las notas, cosa que espero empezar a hacer esta misma noche; de manera que espero mandarte en seguida todo el original. Realmente debo confesarte que estoy muy contento. Creo que he tratado el asunto con el debido toque de lirismo (en lo que no hago más que seguir el original) y que la traducción de esta segunda cantiga puede ser un factor de equilibrio a favor de ella, tan mal comparada – por considerarla inferior, lo que no creo – con la anterior. […] Ángel Crespo Mayagüez, 8 de febrero 1974 Querido Pedro, Hoy mismo pongo en el correo, por fin, el original del Purgatorio 9 . He trabajado mucho en él durante los últimos meses, y claro está que no dejaré – cómo hice con el Infierno – hasta corregir las últimas pruebas. Entre amigos, te diré que estoy muy contento, (dentro de lo que cabe estarlo) de este trabajo, pues su fuerza lírica creo que me va muy bien, y pienso que te mando bastante de las mejores páginas que he traducido de la Comedia. Ángel Crespo Barcelona, 25 de marzo 1974 8 In data 11 gennaio 1974, Gimferrer comunicava al traduttore: “por aquí he oído comentarios elogiosos del Infierno”. 9 Nella lettera successiva, in data 14 febbraio, Gimferrer comunica effettivamente al traduttore di aver ricevuto l’originale del Purgatorio, e dà ulteriori notizie del successo editoriale della prima cantica. 230 Querido Ángel, […] No diré que tu Purgatorio supera al Infierno, porque ello no es posible, pero sí que no raya a menor altura y te confirma como uno de los mayores traductores poéticos en lengua castellana. Pedro Gimferrer Mayagüez, 25 de mayo 1974 Querido Pedro, Estoy trabajando mucho en el Paraíso 10 , pero no creo poder entregarlo antes de enero. Estoy contento de lo hasta ahora hecho, aunque el carácter de la cantiga es muy particular y necesito releer a cada paso lo ya traducido para estar seguro de que voy dando con el tono adecuado. Desde luego, cada cantiga que voy traduciendo me parece mejor que la anterior. ¡Qué difícil es decir en cuál de las tres estuvo Dante más afortunado! La densidad del texto es pareja en todas, y hasta su estructura, digamos orgánica, pero el color, el tono, la atmósfera son magníficamente distintos. Yo creo que lo mejor es que haga un prólogo semejante a los dos anteriores. Luego, haría otro librito titulado Aproximación a la Divina Comedia, o algo así en el que tocaría problemas como el del dantismo español, además del relativo al entendimiento del poema, en un tono que lo haga accesible a los lectores no filólogos. ¿Qué te parece? Constantemente tomo notas para este libro que sería el complemento natural de los tres tomos de la Comedia. ¿Para cuándo crees que habrá pruebas del Purgatorio? 11 Ángel Crespo Mayagüez, 14 de julio 1974 […] En Roma he estado con Aldo Vallone, quien va a hacer un largo artículo sobre mi Infierno, con el que está encantado, y me ha pedido colaboración para “L’Alighieri”, una de las dos grandes revistas dantistas. También me ha pedido que prepare un Lectura Dantis, cosa que haré, tal vez para el verano que viene. Estuve en Bari y me puse en contacto con Sarolli, quien me ha invitado personalmente, y va a 10 La prima notizia dell’inizio della traduzione del Paradiso porta la data del 4 di maggio. Questa lettera del 25 è la risposta a Gimferrer che, in data 13 maggio, chiedeva notizie sullo sviluppo della traduzione della terza cantica. 11 Nella risposta a questa lettera, il 10 giugno del 1974 Gimferrer comunica a Crespo alcuni disguidi che causano ritardi nella spedizione delle bozze del Purgatorio, e si mostra interessato al libro su Dante di cui parla il traduttore. 231 hacerlo oficialmente al congreso sobre Dante en España al que también ha invitado a Riquer, Dámaso Alonso y Joaquín Arce. El congreso se celebrará a partir del 12 de marzo, y no sé si la Universidad me pagará el viaje 12 . Pero lo importante es que me hayan invitado. Vallone y Russo se interesaron mucho en mi proyecto de introducción a la Divina Comedia, y en las líneas que pienso destacar en él 13 , y me han ofrecido hacer que se publique – tras aparecer en castellano – traducido al italiano. Ángel Crespo Mayagüez, 17 de noviembre 1974 14 Siento que el Purgatorio no pueda estar para marzo. Llevo muy adelantado el Paraíso. Es la gran experiencia poética. Dante usa ya las palabras con una libertad aproximativa que no han sabido entender sus traductores ni la mayor parte de sus comentaristas. Es increíblemente moderno en este sentido. Estoy entusiasmado pues mi traducción no va a parecerse, ni lejanamente, a ninguna otra. Cada terceto es un problema, una figura literaria, poesía de verdad. Aún los doctrinales, que abundan, como sabes. Tengo ya versiones definitivas de los XVI primeros cantos. Ahora corrijo muy despacio las versiones de otros diez y voy preparando la traducción de los restantes. Creo que tengo trabajo para unos dos o tres meses, pues también dedico tiempo a las notas. Ángel Crespo Mayagüez, 8 de enero 1975 Querido Pedro: recibí tu carta y, poco después una de Pujol, en la que me dice que se han producido ciertas demoras en la composición del Purgatorio, debidas a dificultades previas en la corrección de otros tres libros que hay en la misma imprenta. Estas son cosas normales, pero lo que me alarma un poco es que me diga que el asunto 12 Crespo partecipó in effetti al Secondo Incontro Internazionale sulla Letteratura e Filologia Italiana oggi: “Dante in Spagna”, Università degli Studi di Bari, con l’intervento intitolato La “Commedia” de Dante: problemas y métodos de traducción, proprio il 12 marzo 1975. 13 Crespo allude qui, con ogni probabilità al problema del ruolo strutturale delle metamorfosi della specie umana nella Commedia, che erano già state oggetto del suo interesse e del suo studio, e che, una volta conclusa la monografia su Dante, considererà il suo apporto più originale alla critica dantesca. 14 Precedono questa tre lettere nelle quali i poeti si scambiano informazioni sullo stato dei lavori di traduzione del Paradiso e di pubblicazione del Purgatorio, Crespo si mostra impaziente di ricevere le copie della seconda cantica in vista del seminario di Bari che terrà il marzo successivo, mentre Gimferrer desidera ricevere presto il manoscritto della traduzione della terza cantica. 232 va para largo. Doy por supuesto que no habrá ejemplares en marzo 15 , pero me gustaría tener una idea de cuánto se va a retrasar la salida del libro. Parece que Pujol es un poco pesimista: no creo que el asunto sea tan engorroso que no se pueda resolver en unas semanas. De todas formas, como no hay mal que por bien no venga, este retraso podría hacer que el Purgatorio y el Paraíso apareciesen simultáneamente o casi. De esta forma, el impacto sería mayor; y, por otra parte, estoy convencido de que la aparición de toda la Comedia incrementará las ventas notablemente (aunque no soy un técnico en estas cuestiones). Por ello, me atrevo a sugerirte que, mientras se resuelven las dificultades del Purgatorio, proyectes la salida del Paraíso para ganar tiempo, lo antes posible. Yo creo que dentro de mes o mes y medio estará este original en tu poder, en cuyo caso no te será dificil acelerar el proceso de producción de toda la obra. Díme qué te parece esto. Sí: terminé el Paraíso y creo que he conseguido una lectura y una traducción muy fieles y sin pérdida de valores poéticos. Es la cantiga que más problemas me ha presentado – era natural – pero la que más me compensa del trabajo invertido en ella. Creo – y perdona mi sinceridad, pero eres mi amigo y puedo decírtelo sin que lo creas presunción – que por primera vez se va a poder leer el Paraíso en castellano. Como pura poesía, el Paraíso es lo más grande de Dante. No creo que la teología y la filosofía nublen en absoluto ese mundo inefable de luz, de fuego y de espléndido amor cortés transformado en amor cristiano sui generis. He mantenido el uso dantesco de las palabras según un aura semántica que no cabe en los diccionarios pero que es maravillosamente poética y que coincide con lo que el poeta declaró al autor del Optimo. He transformado sus neologismos (y quedan muy bien en castellano) y estoy admirado de ver que Dante puede quedar aquí como un poeta moderno, simplemente siéndole fiel. Comprendo que, antes del simbolismo, era dificil entenderle; ahora en cambio, después del simbolismo es claro y transparente como estilista. No es, pues, mérito mío, sino de los tiempos. ¿Cómo iban a atreverse a conservar su estilo nuestros románticos, tan teñidos, siempre de neoclasicismo? Estoy deseando que leas la traducción y que me des tu opinión sobre ella. 15 Del Congresso che si tenne a Bari nel marzo 1975, Crespo riferisce entusiasta il riconoscimento ricevuto in una lettera a Gimferrer dell’11 aprile 1975. 233 Ya estoy pasándola a limpio y en seguida empezaré a pasar las notas y a perfilar el prólogo. Así es que, como te digo, espero que tengas el libro en febrero o primeros de marzo. Después hablaremos de mi Introducción a la Comedia, libro que creo bueno para el lector actual pues voy a darle un sentido vivo y actual, si soy capaz de ello 16 . [...] Puedes figurarte cuánto te agradezco lo que me dices sobre Claro: oscuro y Con el tiempo, contra el tiempo. Yo no tengo demasiados contactos ahí y tú eres la única persona a la que puedo confiar mi poesía. [...] Espero tener pronto la separata de tus poemas. Quiero que hablemos despacio un día – ojalá sea pronto para, entre mil cosas, hacerte consultas sobre una traducción de poemas tuyos al castellano. La verdad es que me gustaría mucho hacer este trabajo. Pero ya hablaremos más despacio para ver si podemos vernos este verano, que pienso pasar en Italia y en Occitania. [...] En fin, espero que este año se arreglen muchas cosas y que sea bueno para los dos, y, con este deseo, te mando un abrazo muy fuerte. Ángel Crespo Mayagüez, 10 de febrero 1975 Querido Pedro, Te mando hoy mismo el Paraíso, y lo hago con una gran satisfacción. ¡Por fin he dado cima a este trabajo! Durante el último mes he estado tan absorbido por él que ni siquiera sabía en qué día vivía. Pero, al terminarlo, me siento verdaderamente contento. Creo que ha quedado mejor que las otras dos cantigas – y no por mí sino porque su poesía es algo verdaderamente increíble. He tenido que pensar mucho antes de escribir algunos versos y de dar por terminados algunos cantos, pero ahora, – por favor no se lo digas a nadie, pues sólo me desahogo contigo – me siento asombrado de los resultados. Creo que he conseguido que el verso fluya claro – como el del original – hasta en los momentos de más abstrusa discusión doctrinal. En el Paraíso hay algo no del todo nuevo en la Comedia, pero sí intensificado: el hecho de que Dante usa el aura significativa de muchas palabras como si se tratase de un vocablo. Es algo a lo que me refiero de pasada en el prólogo. Pues bien creo que esto es lo que da fluidez a la cantiga, 16 Questo progetto si realizzarà successivamente con la pubblicazione della monografia Dante, Dopesa, Barcelona 1979. 234 y me parece que al descubrirlo y aprovecharlo he podido conseguir lo que me proponía. Pero, en fin, tú me dirás qué te parece la traducción. Yo no debería hablar así; sólo la alegría de haber terminado y la confianza de que hablo a tan buen amigo como tú me impulsa a hacerlo. Me parece estupendo que el Paraíso vaya a salir a la vez o poco después que el Purgatorio. Y en cuanto al nuevo lanzamiento del Infierno puedes figurarte lo que me alegra. Ahora me dedicaré a trabajar en mis libros. […] Luego veré si me pongo a traducir la poesía, el Cancionero, de Dante. La verdad es que mi ilusión sería traducir poco a poco toda su obra, incluso la latina. Ángel Crespo Rumein, 25 de julio 1975 17 […] quiero consultarte si tú crees que es mejor limitarme a una introducción a la Comedia o si sería más conveniente escribir una introducción a Dante. Yo me inclino por lo primero, porque en este caso sería inevitable referirse a las otras obras de Dante. Recordarás que hablamos de la posibilidad de publicar este libro como complemento de la traducción. […] El libro me llevaría más de un año de trabajo, pues, aunque tengo muchas notas también tengo entre manos otros trabajos menores. La idea directriz del libro sería la de la metamorfosis, idea que ha interesado mucho a los dantistas italianos, no solo a través de mis páginas en la “Revista de letras” sino también de mis conversaciones con ellos. Ruggiero Ruggieri y Sarolli coincidieron en que es incomprensible que a los italianos no se les haya ocurrido enfocar la Comedia desde este punto de vista; un punto de vista que, creo yo, pone en competencia con Virgilio a un Ovidio un tanto descuidado en los estudios dantistas. […] Ángel Crespo Mayagüez, 23 de septiembre de 1975 18 17 Nelle lettere precedenti, Gimferrer si mostra entusiasta della traduzione crespiana della terza cantica, che, in data 5 maggio 1975, chiama “recreación”. Crespo si mostra grato dell’affetto e della comprensione di cui si sente oggetto da parte dell’amico poeta. In data 6 giugno 1975, Crespo scrive di aver ricevuto le bozze del Purgatorio e si aspetta di ricevere le bozze del Paradiso entro la fine dell’anno. 18 In data 4 settembre 1975, Gimferrer comunicava a Crespo, da parte di Seix Barral, di non potere impegnarsi come editore del testo monografico su Dante oggetto di questa lettera. 235 Querido Pedro [...] el único libro que me procupa de verdad es Claro: oscuro. El año que viene cumpliré mi medio siglo, y me gustaría que ese fuese el año en que apareciera tal libro. No soy supersticioso de las fechas aunque algo pueda habérseme pegado de Dante y otro medievales. [...] Quedo en espera de las pruebas del Purgatorio y de las del Paraíso. Ángel Crespo Mayagüez, 11 de noviembre de 1975 Querido Pedro, Estoy preocupado por las pruebas del Purgatorio 19 . Creo que las dos últimas cántigas han quedado, en la traducción, mejor que la primera. [...] Creo que un poema largo es mejor para dar una visión no fragmentada del mundo y de la poesía. Ángel Crespo Mayagüez, 15 de enero de 1976 Querido Pedro, te envío Claro: oscuro. [...] Le he dado vueltas y vueltas, como si fuese un escritor novel, he ordenado y reordenado los poemas. Creo que su disposición actual es la más conveniente, pero ¡cuánto me ha costado darla por definitiva! Sólo uno de los poemas –el último– ha sido publicado y el resto es rigurosamente inédito. Mi ilusión sería aportar algo nuevo, al cabo de seis años de no publicar un libro de poesía y de haber trabajado enormemente sobre este puñado de poemas. Jamás he puesto más ilusión en un libro mío. Me he entregado por completo a las virtualidades, al poder de la palabra poética. Quiero decir que es un libro sin prejuicios, o quizás con el único prejuicio de que la palabra poética lo puede todo. No sé si lo habré conseguido. Ángel Crespo Barcelona, 6 de junio de 1976 20 Querido Ángel, 19 In una lettera del 24 dicembre 1975, Gimferrer rassicura il traduttore sul fatto che i disguidi che hanno causato il ritardo nella pubblicazione delle due cantichesono terminati e che i volumi usciranno nel 1976. 20 Le lettere che precedono questa, sono più che altro un fitto scambio di informazioni riguardo ai tempi della pubblicazione del Purgatorio e del Paradiso, in cui Crespo mostra trepidante attesa di vedere il frutto del suo lavoro. 236 El Purgatorio va a salir a fines de este mes 21 . La razón del retraso es la siguiente: estos dos libros se encuentran en poder de una emprenta a la que antes dábamos muchos libros y ahora casi ninguno, y ellos, a modo de venganza retrasan los que tienen. [...] Pedro Gimferrer Barcelona, 25 de octubre de 1976 Querido Ángel, El Paraíso está compaginado. Hemos pensado que tu conferencia sobre la traducción de Dante 22 puede añadirse, a modo de apéndice al final de este volumen. [...] Pedro Gimferrer Mayagüez, 30 de octubre de 1977 Anteayer me llegaron los ejemplares del Paraíso. Estoy muy contento de que hayamos dado cima a esta edición, que creo que ha quedado muy bien. Creo que con ella he cubierto una etapa, no sólo de traductor sino de mi propia poesía: tan identificado me siento con esos versos. Quedaba por hablar el asunto del libro sobre la Comedia. Mis trabajos en torno al libro y a la poesía latina – sobre todo la de Ovidio – me han hecho pensar – y creo que ver claro – que su eje estructural es el proceso de metamorfosis que en él se desarrolla en profundidad. Es decir que si Virgilio es un modelo filosófico de Dante, puede que el verdadero modelo poético sea Ovidio (por otra parte, el autor más citado y aprovechado en el poema: unas doscientos veces explícita e implícitamente). Ya he publicado un trabajo sobre el tema. Ahora – y tras hablar con varios dantistas que se han mostrado interesados – me gustaría hacer un libro sobre el tema. Ángel Crespo 21 In realtà il Purgatorio uscirà solo alla fine di luglio, e le copie verranno inviate a fine settembre 1976, al traduttore che si trovava in Olanda per tenere un corso all’Università di Leiden. 22 La conferenza a cui si riferisce Gimferrer è La “Commedia” de Dante: problemas y métodos de traducción, intervento in occasione del Secondo Incontro Internazionale sulla Letteratura e Filologia Italiana oggi: “Dante in Spagna”, Università degli studi di Bari, 12 marzo 1975, che si trova effettivamente in appendice a tutte le diverse edizioni della Comedia crespiana. 237 2. Dalla corrispondenza inedita di Ángel Crespo con Joaquín Arce Madrid, 9 de enero de 1975 Mi querido amigo: Al reincorporarme a mis tareas universitarias me encuentro con la grata sorpresa de tu poema en tan originales tercetos. Al felicitarte muy sinceramente por el mismo te hago notar que he percibido perfectamente lo original de esa rima que empleas que ni “ata” ni “libera” del todo. Es un experimento que técnicamente me parece muy interesante y que añadiré como colofón a mi estudio sobre el terceto dantesco cuando se reedite, si no me falta el tiempo para ello. Siempre con la esperanza de verte en Bari, recibe un fuerte abrazo de tu buen amigo, Joaquín Arce PS 23 : Perdona mi despiste: leí tu poema y no había visto la carta. Leo ésta tras haber escrito lo anterior: tú me lo dices lo de la rima, pero lo había notado. Creo que no tiene antecedentes en castellano, salvo una ocasional: Beltrán habla de ese tipo de rima y la llama “canto – cántica” (no en la acepción habitual). Montale, en Italia, hace algo parecido a veces apoyándose en Pascoli, pero de modo saltuario, no constante. Creo que lo original no está en el procedimiento en sí, sino en “institucionalizarlo” en un tipo estrófico ya consagrado. Mayagüez, 22 de enero de 1975 Mi querido amigo: me alegra mucho tu carta del día 9 y cuanto me dices en ella sobre mi experimento con la rima consonántica o aliterada – creo que es mejor consonántica, porque la aliteración puede ser también de vocales– y ello me anima a seguir experimentando. Creo que ahora voy a intentarlo con el soneto y en cuartetos y sirventesios; y te haré conocer los resultados. Me gustaría, claro, que tuvieses tiempo de incluir en tu libro sobre el terceto dantesco, tu opinión sobre mis experiencias. 23 Il post scriptum è aggiunto a mano alla lettera dattiloscritta. 238 Esperemos que sea posible vernos en Bari. Yo me preparo para el viaje y creo que no habrá inconvenientes de última hora. Deseo, con verdadera ilusión, que nos encontremos allí; el día 11, según acaban de comunicarme. Hasta pronto, recibe un fuerte abrazo de tu amigo Ángel Crespo Madrid, 19 de diciembre de 1977 Mi querido Ángel: En el último momento, antes de las vacaciones, te escribo apresuradamente sólo para decirte que he recibido el ejemplar del Paraíso. La impresión previa sigue confirmándose y acrecentándose. Espero poder decirlo, de la obra en conjunto, como te he dicho alguna vez, pero por el momento estoy increiblemente agobiado de compromisos incumplidos. Te he tenido en cuenta en una trabajo que mando ahora al Homenaje a Montanari y en el que vuelvo a la bibliografía hispano-dantesca. Sin tiempo para más, recibe mi más afectuosa felicitación, junto con tu mujer, en estos días navideños. Un abrazo de tu siempre buen amigo Joaquín Arce Mayagüez, 30 de marzo de 1978 Querido Joaquín: tu carta del 19 de diciembre me llegó ¡ayer! Estoy aquí durante todo este curso, y desde su principio, de manera que tu carta que llegó a Leiden el 23 de diciembre, debió ser reexpedida bastante tiempo después. Y me la han enviado por correo ordinario, lo que demuestra el espíritu ahorrativo de los servicios públicos holandeses, que no tienen en cuenta que las cartas que se reexpiden a su país desde aquí van por correo aéreo, cómo he podido comprobar por las que me han dirigido aquí durante mi estancia en Holanda. Sea de ello lo que quiera, tu carta me ha alegrado mucho. Que la traducción del Paradiso te parezca mejor que la de las otras dos cantigas me llena de alegría. Yo puse un gran entusiasmo en ella y veo que algo de lo que deseaba lo he conseguido. Guárdame, por favor, una separata de tu trabajo para el homenaje a Montanari. Y, para tu gobierno, imagínate con cuanta ilusión espero lo que publiques sobre mi traducción completa de la Commedia. [...] 239 Con recuerdos de Pilar para tí y para tu mujer, y míos, también para los dos, recibe un fuerte abrazo de tu amigo y admirador Ángel Crespo 240 3. Dalla corrispondenza inedita di Ángel Crespo con Jorge Guillén Nice, 19 de febrero ‘73 Mi querido y admirado amigo y poeta: me dice usted que está acabando su traducción del Infierno. ¡Magnífico! Gran empresa ¿qué tiene ya editor? Sé de un argentino, hijo de otro argentino, editor, gran persona, que ahora se encuentra aquí: y Maris Muchnik – me dice su padre – desea precisamente editar – en París – buenas traducciones de grandes obras. En seguida pensé en usted. Escriba, si le interesase a 5 rue Biscornet, 75 París 12me . Y cítele mi nombre. No he recibido su libro de poesía. ¿Lo envió a Cambridge? Aquí estaremos hasta mayo. Lo que me cuenta de sus viajes y de sus aprendizajes nórdicos me parece estupendo, y me alegra mucho. Recuerdos a Pilar, y un gran abrazo de su Jorge Guillén Cambridge, Massachussets, 24 de noviembre de 1973 Mi querido e inolvidable Ángel Crespo; Ausente de este Cambridge durante una larga temporada en Europa, –Niza, Florencia, Málaga, ¡hasta Madrid!– encuentro a mi vuelta dos libros suyos. Celebro que vaya a salir pronto su primer tomo de la Comedia. (Me escribió Pujol i Sanmartin, de la casa Seix Barral, donde se publicará un Cántico en “edición de bolsillo”: “la maravillosa traducción de Ángel Crespo”). Sí, será un gran enriquecimiento de su obra poética. ¡Y pensar que es usted Doctor de Upsala! Eso sí es una aventura. Su tesis sobre El moro expósito agota la historia y la crítica de ese poema. A mí siempre me ha sido simpático el Duque de Rivas. Usted analiza el texto con todo el rigor “estructural” posible y con la debida erudición (la erudición puede ser muy divertida.) En medio del camino – dice usted. El cálculo dantesco ya no rige. Hoy se encuentra il mezzo mucho más adelante. (Yo no he conocido nunca a un poeta de ochenta años, mi edad todavía. Pero hoy, los grandes ancianos –Picasso, Casals– abundan.) Bueno, he leído o releído sus versos con sumo interés. Bien hizo el traductor italiano en presentar su poesía al público de Italia. (Hace tiempo que no sé nada de Mario Di Pinto.) Me gusta mucho la energía de esos poemas, tan concretos, con tal 241 evidencia real que es ya visionaria. ¡Qué envidia le tengo en cuanto hombre que sale y siente el campo, la naturaleza, los pueblos con tal significado! No conocía la última vena o vuelo: la poesía del viajero y del crítico de arte. ¡Florencia! “Mi otra patria es Italia”. Por mi parte, yo me encuentro en aquel país como el pez en el agua. Muchos recuerdos a Pilar. Un gran abrazo de su amigo e admirador Jorge Guillén Cambridge, Massachussets, 5 de abril de 1974 Mi querido y admirado Ángel Crespo: por mucho que yo le diga y pondere esta carta no llegará a estar a la altura de esta circunstancia – dantesca nada menos. He abierto y leído no sé cuantas veces este Infierno doble: el de Dante y el de usted. Se trata mi muy querido Poeta de una hazaña, una gran hazaña. El verso, la estrofa verso a verso, cada canto; y siempre sale usted victorioso de la dificultad, que se presenta siempre o casi siempre. Y cuando pienso que todo va rimado como Dios manda … ¡Una hazaña, que se multiplica en hazañas innumerables! El texto, extraordinario, suena perfectamente en este español justo, rico flúido, a secas con una sencillez increíble. La supuesta sencillez señala el logro absoluto. ¡Y cuánto hay que saber para entender de modo preciso tantos pasajes que, sin erudición, permanecerían oscuros! Celebro de veras que un poeta amigo, poeta admirable, acometa esta labor ingente, sí señor, ingente, y salga victorioso. Mucho recuerdos a Pilar. Un gran abrazo de su muy amigo Jorge Guillén Cambridge, Massachussets, 11 de enero de 1976 Mi querido y siempre recordado amigo: No redacto estas lineas sólo para decirle la frase ritual – cada día más anacrónica en relación con la época, no dentro de una vida individual: ¡Feliz año nuevo! (Especialmente, en nuestro siempre difícil y dramático país.) Quería decirle que pasamos dos meses y pico – otoño– en Florencia. Estuve con el profesor Mazzoni, presidente de la Società Dantesca, quise descubrirle su versión del Infierno y elogiarla; y resultó que Mazzoni le conocía a usted y estimaba mucho su traducción. Lo que me alegró de veras. (¿Ha visto usted la Commedia en inglés del profesor Singleton? ¿Qué le parece?) 242 No se de usted, de ustedes hace tiempo. Yo se que en ese no remoto Mayagüez no dejan ustedes de trabajar. Trabajo y amor: ¿qué mejor camino en este planeta – casual? Feliz año nuevo. Para Pilar y usted, un doble abrazo de su Jorge Guillén 243 Appendice II FONDO BIBLIOGRAFICO DANTESCO. BARCELLONA ALIGHIERI, Dante, - Poesía, selección, traducción y prólogo de Juan Ramón Masoliver (verso libre), editorial Yunque, Barcelona 1939. - La Divina Comedia, traducción de Fernando Gutiérrez (endecasílabos blancos) , Plaza & Janés, Barcelona 1967. - Obras Completas, versión castellana de Nicolás González Ruiz (versión en prosa), Biblioteca de Autores Cristianos, Madrid 1945. - La Divina Comedia, (antología), versión y notas de Tabaré J. Freire (tercetos de endecasílabos blancos), editorial Letras, Montevideo, Uruguay 1825. - La Divina Comedia, traducida al castellano en igual clase y número de verso por el capitán general Juan de la Pezuela, Conde de Cheste, de la Real Academia Española, editorial Ramón Sopena, Barcelona 1965. - Divina Comédia, versió catalana d’Andreu Febrer, volum I INFERN. 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En la procesión, detrás de los heraldos, caminan las autoridades y entre ellas la persona a quien se haya honrado con la Medalla de Oro llamada della Nascita di Dante, que le es impuesta después de la ofrenda, tras de lo cual debe pronunciar un discurso de agradecimiento antes de la celebración final, que es un banquete magnífico. Nosotros – mi marido y yo – no sabíamos nada de todas estas cosas solemnes cuando una tarde del mes de mayo, al recoger la correspondencia en el Apartado de la Oficina de Correos de la Universidad, en Mayagüez, encontramos un telegrama dirigido a Ángel en que se le comunicaba la concesión de aquella medalla y se le pedía que si aceptaba, contestase a la mayor brevedad: sería huésped de la ciudad y le reservarían habitaciones en el Hotel Baglioni, frente a Santa Maria Novella. Al leer este mensaje (enviado varios días antes de la fecha en que lo recibimos y llevado sin duda a Mayagüez por correo ordinario desde San Juan, como solía hacerse por muy urgente que fuese el medio de expedición empleado en Europa) sentimos una emoción inmensa: la emoción de que en Florencia, que nos parecía el centro del mundo, la sede de la fama, se hubiesen acordado de este poeta perdido en los días tropicales de las lluvias que acababa de llegar empapado en sudor y en agua a la oficina de correos desde el aparcamiento lejano donde por fin había logrado djar el coche tras innumerables vueltas dentro del Recinto sin encontrar un sitio libre. Bajo un paraguas grande, que sin embargo no servía de nada contra los elementos, y con los zapatos y los pantalones salpicados del barro que se formaba cada tarde en la tierra rojiza, porosa y 1 Inserisco in appendice questo racconto di Pilar Gómez Bedate, moglie di Ángel Crespo, per il suo valore documentario di testimonianza diretta da un punto di osservazione privilegiato, del lavoro crespiano di traduzione della Commedia dantesca. La medalla de Florencia, in “Cuadernos de la Huerta de San Vicente”, n. 5–6, verano 2002. 259 resbaladiza de la gran explanada semiajardinada existente entre el Paseo de las Palmeras, Correos y el edificio de Humanidades, Ángel me miraba a mí, no menos mojada y sudorosa que él, y juntos, sonrientes, anhelantes, releíamos el telegrama y pensábamos que podíamos hacer para enviar una contestación inmediata. Correos no es Telégrafos y telegramas no podían ponerse sino desde una agencia de Comunicaciones que había en el pueblo, que cerraba media hora más tarde. En telefonear, no sé por qué, no pensábamos, seguramente determinados por el medio elegido para el mensaje. Ángel tenía clase ahora mismo, ¿me atrevería yo a conducir bajo aquella lluvia habiendo sacado el carné hacía tan sólo dos días y no habiendo conducido nunca sola? – Sí, sí – dije – voy yo, tenemos que contestar en seguida. Si no hasta el lunes no podremos. Ángel me miró con preocupada admiración, sopesando los riesgos. Luego me dio las llaves del coche y, despidiéndose con un beso, abandonó el refugio de correos y se fue a su clase, volviendo la cabeza y haciéndome señas con la mano de que tuviera cuidado. Después, se perdió tras la cortina de lluvia, con la ligera guayabera blanca pegada a la espalda que se transparentaba, carnosa y rosada, y los zapatos hundéndose en el barro del camino. Abriendo yo, a mi vez, mi paraguas goteante, me lancé en sentido contrario en busca del coche, sin atender a los truenos y relámpagos que empezaban a desatarse. Cuando salí, despacito, por el Paseo de las Palmeras y pude girar a la izquierda para enfilar la Calle Post me encontré con una larga caravana de coches que avanzaba penosamente hacia el centro del pueblo: era la hora de salida de las escuelas y casi choqué con un Ford color crema que me precedía y se detuvo sin previo aviso. Veo todavía la falda de mi vestido, color lila con puntitos azul marino, cayendo blandamente desde la rodilla hasta media pierna, y el pie derecho, metido en una sandalia sin talón y con tacón de madera, apretando el acelerador suavemente, con todo cuidado, con los cinco sentidos. En el retrovisor, mis ojos miraban el cristal trasero, cubierto de vaho: tenía que concentrarme y hacerlo bien, olvidarme ahora de Florencia y llegar sana y salva a mi destino. Después de mandar el telegrama volvería a recoger a Ángel y podríamos regocijarnos. Había tenido que subir las ventanillas dejando una pequeña rendija abierta para no asfixiarme: por allí entraba el agua que caía sobre la alfombrilla negra. No sé como pude aparcar porque nunca he sabido hacerlo bien, pero lo hice casi delante de la Agencia y llegué a tiempo. La fecha del festejo era magnífica, 260 podríamos ya quedarnos en Europa de vacaciones. Y el Hotel Baglioni nos estaba esperando. –¿Ves, Pilar? Hay que ser perseverante– me decía mi marido cuando, resplandeciente con la alegría del justo, tomaba su puesto al volante y empezábamos a subir por la carretera de Miradero hacia nuestra casa en las colinas. –¿Tenemos whisky?– –Sí, sí. –Hasta había podido pasar por la Bolsa, el colmado que hay junto a la Plaza de Colón, a comprar jamón prosciutto, como se llamaba al serrano que venía de Estados Unidos y se vendía sólo en aquella tienda de comestibles regentada por una viuda asturiana que, durante todos los años que vivimos allí, llevó siempre puesto el mismo suéter morado. Había dejado de llover, volvía a hacer calor, y de la tierray la vegetación exuberantes emanaban los vapores cálidos de después de 1as lluvias. Desde el repecho en que ya se veía nuestra casa en la ladera de una de las colinas, se contemplaba un extenso panorama de suaves ondulaciones de terreno cubiertas de vegetación; de los valles surgían columnas de vapor que parecían humo y se iban diluyendo a medida que se elevaban en la atmósfera. Miradero Hills, nuestra urbanización estaba al final de una bajada que desciende por una de las sinuosas carreteras con que se han ido atravesando aquellas colinas sobre las que antes se extendían grandes plantaciones de café, para construir pequeños grupos de viviendas campestres no muy alejadas del pueblo. Antes de torcer hacia nuestra casa, subiendo desde la Universidad y todavía en la carretera de Miradero, vivían los Cevallos, Carmen y Gabriel, ella andaluza y él ecuatoriano, que habían llegado a Mayagüez al año siguiente que nosotros. Y continuando la carretera de donde arrancaba la bajada a nuestra casa se iba a la de los Owen, Bill y Mirta, grandes amigos. Una de las casas que flanqueaban la nuestra era de Giorgio Biaggi, director de la sucursal del Banco Popular, y la del otro lado de un joven matrimonio cubano que eran dueños de las tiendas Don Juan de ropa de caballeros. La casa de enfrente había cambiado de propietarios: fue primero de un dentista de niños y luego de un agente del FBI que en una ocasión nos hizo el favor de sacar de entre los arbustos de buganvillas la carroña de un perro enorme que se había ocultado entre ellos para morir, para lo cual se puso una mascarilla y unos guantes de goma que sacó de su maletín de trabajo. Eran todos buenos vecinos que nos echaban una mano cuando teníamos problemas con el coche y nos vigilaban la casa durante las largas temporadas que pasábamos fuera. Tampoco protestaban del volumen de la música que salía de nuestro tocadiscos y se difundía, en grandes oleadas sonoras, sobre los plátanos 261 y los eucaliptos del barranco. Cuando se anunciaba la llegada de un huracán y teníamos que hacer preparativos para protegernos – poner tormenteras en las ventanas acristaladas, retirar del jardín los objetos que pudiera arrastrar el viento, hacer acopio de agua y latas de conservas por si se cortaban los suministros, y de pilas para la linterna y la radio – nos reuníamos después en casa de Giorgio Biaggi para celebrar el Huracán party, mientras llegaban las primeras ráfagas de viento que nos harían dispersar y encerrarnos en nuestras casas respectivas hasta que pasase la tormenta. Era, en realidad, una vida idílica la que llevábamos en Miradero Hills, y lejos estábamos de pensar que podríamos tener todo aquello la primera vez que estuvimos en Florencia, a principios de los años 60, en un viaje clandestino que nos facilitaron las circunstancias, de la lucha contra el franquismo en que Ángel participaba. Pero ahora queríamos volver a Europa: llevábamos en Puerto Rico mas de diez años y el franquismo, por fin, se había terminado. Después de haberlo sobrevivido y logrado escapar a la cárcel queríamos gustar algo de aquella libertad por la que nos habíamos sacrificado, y al menos saber que la obra de Ángel era estimada por sus lectores naturales, que su trabajo paciente y continuo no se desvanecía, como el vapor de agua, al elevarse sobre las colinas. La ciudad de Florencia (movida, sin duda, por Jorge Guillén y por Oreste Macrí, que tenían un gran aprecio no sólo por Ángel sino también por su traducción de la Commedia) venía en nuestra ayuda con esta medalla que le fue impuesta, efectivamente, el día 18 de mayo de 1980 en el Gabinete Vieusseux, al terminar , la procesión en que desfiló, precedido de heraldos y acompañado por los prohombres Florentinos y los embajadores de Rávena. Yo seguía la procesión junto con los, jóvenes colaboradores de Macrí que eran Laura Dolfi y Gaetano Chiappini, y otros menos jóvenes como Giovanni Meo Zilio, a quien conocimos entonces y que habría de desempeñar un papel importante en nuestras vidas invitando a Ángel a enseñar en la Universidad deVenecia. Muchas cosas habían pasado desde que estuvimos la primera vez ante los muros de la casa de Dante (que poco importa que no sea la verdadera casa de Dante), en el año 1963, jóvenes los dos y en circunstancias difíciles que el tiempo convirtió en novelescas porque terminaron bien. De los días que entonces pasamos en Florencia nacieron los poemas de Docena Florentina, publicados el año anterior a nuestro exilio y, tal vez por ello, de repercusión poco documentada aunque fecunda. La sombra Dante y la universalidad de su vida desterrada nel mezzo del cammin era lo que impresionaba entonces a Ángel que, como dice un poema de aquel libro, lo había, visto ya tras las, 262 ventanas de su pueblo y se lo había vuelto a encontrar en Madrid, siendo estudiante, en la voz de Eduardo Chicharro, que en 1as tertulias postistas leía en alto los versos de la Commedia en el toscano original. En el año 63 Eduardo estaba vivo y él fue quien había buscado a Ángel un profesor de italiano. Qué hablaron los dos sobre Italia a nuestra vuelta me gustaría mucho saberlo ahora, pero entonces no me daba cuenta de la importancia que hubiera tenido. Sólo vi a Chicharro una vez aunque él visitaba a Ángel con frecuencia e iba a su casa a leerle los artículos de opinión que escribía para el ABC: artículos que ni el ABC le pedía ni él les enviaba porque era un pasatiempo de desterrado interior. El Dante que Chicharro admiraba y transmitía a sus discípulos era sin duda il miglior fabbro del mejor verso y el poeta esotérico y misterioso pero en la ocasión de nuestro viaje como he dicho, a Ángel le atraía el hombre de accíon implicado en las cuestiones de la república y en mantener a la Iglesia lejos del gobierno: el que se había ganado el destierro en una época en que Florencia no era aun el prototipo de ciudad renacentista sino un oscuro burgo gótico donde acababa de construirse el palacio del Bargello y de elevarse la arriesgada torre del Vecchio. No había Uffizi ni Pitti, ni corredores del Vasari, ni Medicis y ensoñaciones prerrafaelistas sino el macizo y armonioso Baptisterio de mármoles coloreados en que había cristalizado la antigua Casa de Marte bajo una constelación de tal calibre que le hará durar eternamente si atendemos a la inscripción que se lee en su suelo y dice lo mismo si se combinan las letras de derecha a izquierda que de izquierda a derecha: en giro torte sol coelos, et rotor igne. El Baptisterio se dedicó a San Juan Bautista (decapitado en el solsticio de verano y emblema del sol que remonta el horizonte) y allí fue bautizado Dante, que en la Commedia lo llama il mio bel San Giovanni. En aquella ciudad empezó a intervenir en la vida pública: a los veinte años fue guerrero y a los treinta político. En 1301, siendo prior de la ciudad, se opuso a que se enviasen a Bonifacio VIII los cien hombres que reclamaba para luchar en laMaremma hubo de ir embajador ante él: el Papa le retuvo y, traidoramente envió a Florencia hombres armados que emprendieron una venganza feroz contra los suyos e hicieron que se le condenase como traidor. Desde entonces (tenia treinta y cinco años) no volvió a Florencia y peregrinó de una corte a otra; en Lunigiana estuvo con los Malaspina y en casentino con el conde Battifolle, en Verona con Cangrande della Scala y, por fin en Rávena, con Guido da Polenta, amigo suyo; 263 pero murió allí tres años después, y allí quedaron sus cenizas ante las que arde una lámpara perpetua, con el aceite que los florentinos envían cada año en desagravio. ¿Cómo no identificarse con aquel Dante irreverente y desdeñoso del poder cuando se vivía en la España franquista, en pleno nacionalcatolicismo, y se veía al Jefe del Estado caminar bajo palio tan rodeado de obispos? Hacía unos años Ángel se había afiliado al Partido Comunista y una tarde me lo había confesado, en Madrid poco después de conocernos, como si estuviera poniendo su vida en mis manos, porque se sabía perseguido por la policía por un asunto reciente y temía que le ocurriera uno de aquellos accidentes nada raros en que un coche de la Brigada Social camuflado atropellaba a alguien en un lugar poco frecuentado y se daba a la fuga. Ahora, este viaje a Italia lo habia facilitado la oposición clandestina para que discutiese allí ciertas cuestiones políticas, pero poco antes de salir de Madrid había intervenido en algo que podría resultar mal, firmando uno de aquellos manifiestos en que un grupo de personas conocidas en el mundo de la cultura y no demasiado significados como subversivos enviaban un escrito al Gobierno pidiéndole que investigasen la verdad sobre los rumores que circulaban con relación a determinadas injusticias o crímenes. El texto con las firmas, creo que se publicaba fuera de España para forzar su publicación también dentro de ella a pesar de la censura. Era un procedimiento alambicado pero así estaban las cosas, y en este caso la carta se refería a las torturas dadas por la policía a los mineros de Asturias que se habían declarado en huelga. Aquella carta se llamó el Manifiesto de los 102, pues ése era el numero de firmantes, y durante los días que habíamos pasado en Nápoles y en Roma la preocupación por lo que sucedería en España cuando se publicase acompañaba nuestros amores y nuestros recorridos artísticos: habría represalias o se pretendería demostrar a Europa que el Régimen se liberalizaba? ¿Se estaban dando realmente pasos hacia la liberalización? Era un especie de globo– sonda que, sin embargo, podía estallar en las manos a sus portadores. Por unos recortes de prensa enviados desde España a la Posta Restante supimos, antes de salir de Nápoles, que el escrito se había publicado y la respuesta oficial no se había hecho esperar: lo que se decía eran calumnias y los flrmantes culpables de traición. Se les abriría un proceso. Los amigos de Nápoles –y en especial Mario di Pinto, que estaba traduciendo a Ángel y fue un verdadero hermano– se habían ofrecido a buscarnos trabajo para que no volviesemos a España si aquel asunto no cambiaba de cariz y Ángel había prometido tener muy en cuenta aquella oferta. Luego, en Roma, fue una noche a una reunión de las altas jerarquías del PC, donde se proyectaba la película 264 Morir en Madrid y había vuelto impresionado. Medio dormida, yo le veía ir y venir por la habitación quitándose el reloj la camisa, los anillos, mientras me decía “¿Sabes? Estaba Togliatti y me han sentado junto a él. Me ha hecho muy buen efecto, tiene una mirada noble y es una persona culta, ya querría yo que en España tuviesemos a alguien así, que hiciese algo más que pasar a los intelectuales las consignas de la Pasionaria. Puedo entenderme con él. Me ha ofrecido ayuda para quedarme en Italia, me ha dicho que hay que tener cuidado con los coletazos del Regimen y me ha recordado lo que acaba de pasar con Grimau. No tenía que recordármelo, le he contado que el Ministro de Información, –que me tiene muy presente porque fui amigo de su hermano el que se ahogó y creo que me culpa de sus ideas de izquierdistas– me ha mandado hace poco a casa, un motorista a entregarme un dossier sobre la culpabilidad de Grimau para convencerme de lo justo que fue su fusilamiento por traidor. ¿Qué te parecería si nos quedásemos?” Pensar en quedarnos era mas fácil que hacerlo. El destino madura con lentitud y lo, que sería el pasado no lo era aún los dos teníamos lazos familiares no rotos un trabajo, una manera de vida. ¿Podía desarraigarse uno así, de repente, abandonando a su suerte a quienes continuaban allí? Además, Ángel creía en aquella sorda e interminable guerra de desgaste de las “estructuras del Régimen”. Terminados los días de Florencia y de la idílica locanda de la Via della Marmora (a continuación de Ricasoli) cogimos de nuevo el tren hacia Bolonia y Génova y, bordeando la Costa Azul; tal cómo habíamos hecho a la ida, volvimos a España. Atrás quedaba el viaje que en Docena florentina está tan recordado. Pasamos la frontera separados uno del otro como si no viajasemos juntos (si él era detenido yo tenía que avisar de lo que pasaba) y con el corazón en un puño, pero la costumbre de llevar en un puño era tan habitual en aquellos tiempos que casi ni se advertía. No hubo novedad entonces y lo que ocurrió algún tiempo después es que los firmantes fueron llamados a declarar en un proceso que se arrastró durante meses y que terminó siendo sobreseído, pero el juez instructor había sido profesor de Ángel en la Facultad de Derecho y le estimaba. Le tranquilizó por aquella vez, pero le aconsejó que fuese prudente y vino a decirle le mismo que Togliatti en Roma: –Y usted, Crespo, que tendrá oportunidad de encontrar trabajo fuera, ¿por qué no se marcha? Hay muchos cargos contra usted. –No tienen pruebas de nada, no pueden hacerme nada. –No sea ingenuo, otra vez puede tener menos suerte. 265 Tardaríamos aún cuatro años en exiliarnos verdaderamente y cuando lo hicimos parecía que el franquismo no se terminaría nunca. Ángel, que odiaba la nostalgia y no quería mirar atrás, se iba dispuesto a no volver y tal vez no hubiésemos vuelto si Dante no hubiera empezado a tirar de nuestra vida de manera sinuosa valiéndose de las traducciones de la Divina Comedia que teníamos a mano para un curso de “Introducción a la Cultura Occidental”, obligatorio para todos los estudiantes del Recinto 2 , supiesen o no italiano. Aquellas traducciones, en prosa nada poética, eran paráfrasis lamentables del original, descorazonadoras cuando se quería explicar el texto y transmitir algo de su grandeza. Una tarde Ángel llegó a casa lleno de indignación sacra anunciándome que iba a ponerse a traducir la Commedia en los tercetos en que había sido compuesta, porque si su autor había inventado la estrofa para esta obra por algo sería, y porque la forma es parte del significado. Por este empeño, que sería el comienzo de una nueva relación con la cultura de la España que habíamos dejado y del retorno de Ángel al mundo misterioso de la religión y la teología orillado en su etapa marxista, llegaba ahora la medalla que, en el momento a que me refiero al comienzo de estas páginas, nos rescataba de la estación portrriqueña de las lluvias. Encadenándose luego unas cosas con otras, fue también aquella traducción la que terminaría por hacernos volver definitivamente a España, como nos auguró el querido Oreste Macrí en la sesión de lectura de su poesía a la que invitó a Ángel en su seminario de la Via del Parione con ventanas que se abrían al Lungarno. Pero la génesis de la traducción de la Commedia y su culminación pertenecen a Puerto Rico: fue comenzada, por el motivo ya dicho, en nuestros apartamentitos del Darlington con un vulgar diccionario Italiano–Español lleno de errores y vaguedades por toda ayuda. Se continuó en Uppsala (ya con mucho mejor material bibliográfico y con la seguridad de que iba a publicarse en Seix Barral) y se terminó en la casa de Miradero Hills. En aquella especie de gran cabaña rodeada de palmeras y setos de hibiscos rojos Ángel solía salir a regar el césped, en la estación seca, a la caída de la tarde mientras yo terminaba de preparar la cena y uno de nuestros vecinos – eò decano Martínez Picó, dscendiente de chuetas mallorquines y muy protector nuestro –, que a esa hora salía a su porche a tomarse un trago, se abstenía de hablarle porque pensaba 2 La scrittrice si riferisce qui al Recinto Universitario portoricano di Mayagüez. 266 que estaba meditando en las rimas de la traducción, lo que seguramente era verdad en alguna ocasión. El canto final del Paraíso (es decir el verdadero final de aquella obra magna que Ángel decía tener la sensación de haber ido elevando él solo piedra sobre piedra como los sillares de una catedral gótica) lo terminó en la noche del 31 de diciembre de 1974, poco antes de las campanadas que darían comienzo al Año Nuevo. Stuart Ramos, que había venido a cenar con nosotros y nos había traído un enorme pez parecido al besugo, que yo había asado al horno, tomaba conmigo unos aperitivos en el cuarto de estar mientras esperábamos a que el poeta terminase de econtrar la manera de conservar en el último verso, el equivalente exacto del famosísimo amor che move ‘l sole e l’altre stelle sin desplazar de su lugar final la palabra estrellas, asunto imprescindible ya que es la que termina el Infierno, el Purgatorio y el Paraíso porque probablemente (según nota a pié de página) “es lo más alto que en circunstancias normales puede verse durante la vida mortal”. La complicación casi invencible era que stelle, al combinarse con la e final de altre funciona como una palabra de dos sílabas mientras que estrellas si se combina con otras (equivalente de altre) es irreducible: tiene tres sílabas. Y no podía omitirse otras (o demás en sustitución suya) porque en la presencia o la ausencia de esta pequeña partícula que parece un comodín sin importancia reside la referencia precisa a la cosmología de la época o su inexactitud: si el sol es una estrella como las demás estamos en el universo ptolemaico en que vivía Dante, pero si una cosa es el sol y otra las estrellas, en ese caso nos encontramos en pleno anacronismo, pues el pensamiento y la frase separarían al sol de las estrellas y nos trasladarían a un universo copernicano. A Stuart, que es biólogo y muy amigo de la precisión científica le encantaban todas estas particularidades de la traducción de Dante, que seguía con asiduidad desde que la había comenzado, y pacientemente esperaba conmigo a que la inspiración y los datos científicos se pusieran de acuerdo. Los dos confiábamos en que Ángel no tuviese que rehacer el canto entero porque sabíamos que, si deshacía una de aquellas rimas, ésta como el punto de un tejido de media, arrastraba consigo a todas las de los tercetos anteriores que había ido encadenando, y las uvas que teníamos preparadas junto al champagne para empezar el año bien corrían el peligro de quedarse fuera de lugar. Estábamos ya casi resignados a ello, cuando, abriendo la puerta del estudio donde trabajaba siempre con aire acondicionado, apareció el traductor alborozado y triunfante, con los pelos revueltos, quitándose las gafas con una mano y alzando las cuartillas con la otra: –¡Ya está, he podido con ello: mas a mi voluntad seguir sus huellas / como a 267 otra esfera hizo el amor ardiente / que mueve al sol y a las demás estrellas! Laus Deo: ¡ya podemos recibir al año dentro del sistema de Ptolomeo porque hasta que no se escriba un poema mejor que el de Dante yo seguiré creyendo que el sol es una estrella que gira alrededor de la tierra!– 268 BIBLIOGRAFIA CONSULTATA Opere di Ángel Crespo CRESPO, Ángel, - Poesía, ed. de Pilar Gómez Bedate y Antonio Piedra, Fundación Jorge Guillén, Valladolid 1996. - En medio del camino (Poesía 1949-1970), Ed. Seix Barral, Biblioteca Breve, Barcelona 1971. - El bosque transparente (Poesía 1971-1981), Ed. Seix Barral, Barcelona 1983. - Los trabajos del espíritu. 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