ISTITUTO
PER L’AMBIENTE
E L’EDUCAZIONE
SCHOLÉ FUTURO
ONLUS
Culture of Sustainability
Culture della Sostenibilità
International Journal of Political Ecology
ISSN 1972-5817 (print) 1972-2511 (online) web: culturesostenibilita.it
Capitalismo delle piattaforme e materialità sociale
Degradazione del lavoro e della natura lungo la filiera del
coltan
Platform capitalism and social materiality
Degradation of work and nature along the coltan supply
chain
Giorgio Pirina
Corresponding author: giorgio.pirina2@unibo.it
To cite this article: Pirina G.. (2020). Capitalismo delle piattaforme
e materialità sociale. Degradazione del lavoro e della natura lungo
la filiera del coltan. Culture della Sostenibilità, 25. DOI 10.7402/
CdS.25.07
2020 · Istituto per l’Ambiente e l’Educazione Scholé Futuro Onlus
Published on line: 31 luglio 2020
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Culture della Sostenibilità - ISSN 1972-5817 (print), 1973-2511 (online)
Anno XIII - N. 25/2020 - I semestre: in print- DOI 10.7402/CdS.25.007
Capitalismo delle piattaforme e materialità sociale
Degradazione del lavoro e della natura lungo la filiera del
coltan
Giorgio Pirina1
Riassunto
Scopo di questo articolo è verificare la materialità sociale della cosiddetta società dell’informazione e del capitalismo delle piattaforme, mostrando le
contraddizioni tra capitale, lavoro e ambiente naturale. Per farlo, useremo la
lente delle filiere produttive delle materie prime alla base dei nuovi dispositivi
elettronici, focalizzandoci su uno dei cosiddetti minerali insanguinati, cioè il
coltan (columbite-tantalite). In un primo momento ci concentreremo sulle regioni minerarie del Kivu (Nord Kivu e Sud Kivu), nella Repubblica Democratica del Congo orientale: esse sono caratterizzate da una produzione mineraria
prevalentemente di tipo artigianale (Artisanal and Small scale mining), in cui
persistono numerose forme di coercizione extra-salariale a causa dell’attività
di numerosi gruppi paramilitari e della diffusa economia informale ed illegale. Successivamente, ci focalizzeremo sulla propagazione digitale per mostrare
l’altro volto della materialità sociale della società dell’informazione e del capitalismo delle piattaforme. Dagli anni ’10 del XXI secolo ad oggi il numero di dispositivi elettronici portatili (smartphone, pc, ecc.), diventati centrali nelle interazioni della nostra vita quotidiana, è aumentato vertiginosamente. Il peso della
crescente domanda è ricaduto sui lavoratori del Sud globale (e di paesi come la
Cina), i quali sono sottoposti a pressioni enormi e a ritmi lavorativi massacranti
al fine di garantire la produzione dei dispositivi elettronici. Parimenti, l’impronta ecologica ha assunto forme sempre più marcate: oltre all’impatto ambientale
dovuto alla produzione vera e propria e alla circolazione delle merci, vi è anche
l’enorme consumo di energia elettrica necessario a mantenere operativi le infrastrutture informazionali alla base del capitalismo delle piattaforme.
Parole chiave: Coltan, capitalismo delle piattaforme, Congo, ambiente,
filiere produttive, digitale.
1
Dottorando in Sociologia, Università di Bologna – giorgio.pirina2@unibo.it
1
Giorgio Pirina
Platform capitalism and social materiality
Degradation of work and nature along the coltan supply
chain
Abstract
This paper aims to analyse the socio-materiality of so-called information society and platform capitalism, showing the contradictions between
capital, labour, and natural environment. To do so, we will use the lens
of raw materials’ production chains at the basis of consumer electronics,
focusing on a so-called conflict-mineral: coltan, a contraction of the words
columbite-tantalite. At first, we will focus on Kivu mining regions (Nord
Kivu and South Kivu) in Eastern Democratic Republic of Congo (DRC):
these regions are mostly characterized by artisanal and small-scale mining
(ASM) and by the spreading of extra-wage compulsory work exploited by
several armed groups. Then, we will focus on the global digital propagation
to show the other side of the socio-materiality of information society and
platform capitalism. From the beginning of the XXI century the number of
consumer electronics devices (smartphone, pc etc.) has increased dramatically, and the burden of the market demand fell on the workers of the Global
South (and countries such as China), that are subjected to gruelling pace
of work. Finally, we will try to analyse the ecological footprint. In fact, this
issue has become more and more relevant: besides the environment impact
due to productive and labour processes and to the movement of commodities, also exist a massive electricity consumption necessary to keep operational the informational infrastructures at the basis of platform capitalism.
Keywords: Coltan, Platform capitalism, Congo, Environment, Production
Chains, Digital
n Introduzione
Nella tensione che si presenta nel sistema capitalista tra paesi ad economia
avanzata e paesi che non lo sono si è consolidato, a partire dalla fine degli
anni ’70, un tessuto socioeconomico frutto della rimodulazione dei processi
di valorizzazione e di accumulazione del capitale, connotato da dinamiche di
delocalizzazione e di ristrutturazione dell’organizzazione del lavoro, con la
ricerca costante di flessibilità da parte delle imprese (Antunes, 2018; Antunes
& Braga, 2009; Silver, 2003). In questo solco, ha trovato spazio la retorica
secondo la quale, grazie al progresso tecnologico, le esternalità dovute al pro2
Capitalismo delle piattaforme e materialità sociale
cesso produttivo si ridurranno, ipotizzando una improbabile fine del lavoro
grazie all’automazione e una tendenza all’immaterialità della produzione e
del consumo. Queste assunzioni si basano semplicemente sull’estetica di un
fenomeno, senza appunto guardare alle contraddizioni tra capitale, lavoro e
natura che si presentano lungo il percorso.
Da un lato, nei paesi del Nord globale la ristrutturazione del capitale,
lungi da liberare dal lavoro alienante ed usurante l’essere umano attraverso
l’automazione, si è tradotta in precarietà delle traiettorie di vita e di lavoro
(Gallino, 2007, 2014). Le innovazioni susseguitesi nei campi della cibernetica, dell’elettronica, dell’informatica, la svolta di internet e del digitale,
hanno portato alla coniazione di nuovi concetti per descrivere le trasformazioni in corso: società dell’informazione e post-industriale, economia digitale, nuova economia, net economy, economia informazionale. In questa
effervescenza, negli ultimi anni si è radicato il paradigma organizzativo noto
come capitalismo delle piattaforme (Srnicek, 2016). Esso, come vedremo
più avanti, si caratterizza per il ricorso a forme di lavoro degradanti ed alienanti, con pochissime tutele sociali nei confronti dei lavoratori. I casi di
Uber, delle piattaforme del food delivey, dei lavoratori del click – l’esercito
di lavoratori e lavoratrici che svolgono i microlavori, come trascrizioni, etichettamento, risposte a questionari ecc., alla base dell’intelligenza artificiale
e dell’economia di piattaforma – sono esemplificativi (Antunes, 2018; Casilli, 2019; Fuchs, 2014; Huws, 2014, 2016). Ma sostenere la dematerializzazione della produzione e del consumo significa anche (e soprattutto) non
considerare nell’analisi l’altra metà del cielo, ovvero i processi produttivi
e di circolazione del capitale che si sviluppano nei paesi del Sud Globale.
Per esistere, il modello economico ed organizzativo del capitalismo delle
piattaforme (ma in generale il capitalismo) ha bisogno di un differenziale
di sviluppo tra regioni del mondo e di una costante riduzione del costo del
processo produttivo, di cui fanno parte la forza lavoro e l’ambiente naturale.
Una lente utile per smontare la retorica della dematerializzazione, svestendoci dei panni eurocentrici, sono le filiere produttive delle materie prime: nel
nostro caso il coltan (e quindi il tantalio). Lungo esse, infatti, si può cogliere
la socio-materialità2 del capitalismo delle piattaforme, la quale è data dalle
forme di precarietà e degradazione del lavoro – declinate in maniera diversa a
seconda del polo di riferimento –-, che mostrano le modalità con le quali avviene il processo di valorizzazione del capitale. Parimenti, i processi di valorizzazione e di accumulazione del capitalismo delle piattaforme determinano
un profondo impatto ambientale, non solo nell’ambito dell’estrazione e della
2 Il concetto di materialità sociale (o socio-materialità) è di derivazione STS (Science and
Technology Studies) e sta ad indicare il crescente intreccio tra tecnologia (il lato materiale)
e le varie forme del sociale (lavoro, pratiche, culture organizzative ecc.). Inoltre, guarda alle
tecnologie in maniera processuale, dunque come il risultato di pratiche sociali, culturali ed economiche che ne indirizzano la funzione (Per ulteriori approfondimenti si vedano, tra gli altri:
Leonardi, 2012; Mongili, 2007; Parmiggiani & Mikalsen, 2013). In questo articolo, verrà data
enfasi agli aspetti della socio-materialità in relazione all’accumulazione del capitale, tenendo
conto della degradazione del lavoro e della natura nel capitalismo delle piattaforme.
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Giorgio Pirina
produzione in senso stretto, ma anche per il funzionamento delle infrastrutture
socio-materiali alla base delle nuove tecnologie.
n Il coltan e la Repubblica Democratica del Congo
Tra i vari nodi in cui la contraddizione capitale-lavoro-natura si materializza, in questa prima parte ci focalizzeremo sulle miniere della Repubblica
Democratica del Congo (RDC). Essa, storicamente, ha rappresentato una fonte enorme di risorse naturali, sia nella fase coloniale che in quella attuale. Dal
caucciù al cobalto, passando per uranio, diamanti, legname e oro, la RDC ha
sempre avuto quel tipo di risorsa fondamentale per il modello socioeconomico vigente. La transizione post-coloniale non è stata lineare e pacifica ma, al
contrario, ha determinato il consolidamento e la diffusione di relazioni sociali
informali ed illegali e lo smantellamento di gran parte del tessuto industriale
estrattivo. Ad esempio, prima della guerra del Congo (1998–2003), esisteva una compagnia mineraria moderna a partecipazione statale, la SOMINKI
(Société Minière et Industrielle de Kivu). Dopo diverse trasformazioni - prima
in SAKIMA e poi in SOMICO – e infine con la sua dismissione successiva
alla guerra del Congo ed a tutti i cambiamenti politici intervenuti, il metodo
artigianale è divenuto predominante (Martineau, 2003).
Figura 1: Localizzazione dei siti minerari
(Fonte: http://www.saesscam.cd/SAESSCAM/Map/)
artigianali
di
coltan.
L’innovazione nei campi della cibernetica, dell’elettronica e dell’informatica e, in generale, la transizione verso quella che è stata definita società dell’informazione e società post-industriale (Bell, 1973), ha avuto delle ripercussioni
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Capitalismo delle piattaforme e materialità sociale
concrete anche nella RDC, laddove si sono rese necessarie le materie prime alla base delle infrastrutture socio-materiali della società suppostamente
post-industriale. Tra la fine del XX secolo e l’inizio del XXI, si è cominciato a
parlare di “corsa al coltan” (coltan rush) per indicare l’intensificazione dell’estrazione della columbite-tantalite, appunto il coltan (Nest, 2011). Quest’ultimo fa parte dei minerali insanguinati, o conflict minerals – i cosiddetti 3TG
(tantalio, tungsteno, stagno [tin] e oro [gold] –la cui estrazione avviene in
zone di guerra, sotto violenza e coercizione e i cui profitti finanziano i gruppi
armati. Dal coltan si ottiene la tantalite e, infine, il tantalio, utilizzato per la
produzione di condensatori elettronici ad elevata capacità e piccole dimensioni. Nell’industria elettronica queste applicazioni risultano centrali, poiché
permettono la miniaturizzazione dei dispostivi mantenendo uno standard
prestazionale elevato. In un contesto di propagazione digitale e di pervasività nella vita quotidiana delle ICTs, il tantalio (e quindi il coltan) ha perciò
raggiunto una crescente importanza: non solo per le caratteristiche sopra brevemente accennate, ma anche come alternativa al tantalio ottenuto tramite
produzione industriale (in paesi come, ad esempio, l’Australia). Infatti, il coltan estratto nelle miniere artigianali della RDC è stato fondamentale durante
la crisi economica del 2007 poiché, a seguito del rallentamento dell’industria
elettronica, esso ha garantito alle imprese coinvolte nella filiera di recuperare
tantalio ad un costo inferiore. Ad esempio, la produzione e l’esportazione di
coltan sono aumentate durante gli anni della crisi economica, con un picco di
produzione raggiunto nel 2011 di oltre 2 milioni di tonnellate3. Per quanto riguarda i profitti, si stima che i gruppi paramilitari abbiano ricavato, nel 2009,
dal commercio dei minerali circa un miliardo di dollari (British Geological
Survey, 2011).
Per aiutare a comprendere questo passaggio, è necessaria una breve introduzione sui modi di produzione. In generale, il tantalio si ottiene in tre
modi: l’estrazione mineraria, il riciclo da rifiuti elettronici e come sottoprodotto della lavorazione di altre risorse, in particolare dello stagno. L’attività di
estrazione si suddivide in artigianale, con una produzione su scala ridotta (Artisanal and Small-Scale Mining, ASM), e industriale. Una delle variabili per
determinare il costo del tantalio e la quantità che viene immessa nel mercato
globale è il modo di estrazione: nel caso dei siti industriali ad alta intensità
di capitale, vengono stipulati contratti di lunga durata tra società minerarie e
compratori, i quali però sono meno elastici al mercato. Al contrario, la produzione artigianale riesce a rispondere più velocemente alle fluttuazioni. Altre
variabili per il ricorso a minerali provenienti da siti artigianali sono di natura
giuridica e ambientale: una minore tutela dell’ambiente naturale e del lavoro
abbatte i costi di produzione (Nest, 2011).
Se l’estrazione e l’immissione nel mercato mondiale di altri minerali in3 È importante rilevare che anche i dati sulla produzione ed esportazione di coltan dal Ruanda
hanno segnato un incremento. Secondo l’ITSCI, tra il 2012 e il 2015 questo paese ha esportato
oltre 6300 tonnellate di coltan, a fronte di una produzione totale di circa 1500 tonnellate (ITSCi,
2015). Per i dati aggiornati al 2016 si veda (ITSCi, 2017).
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Giorgio Pirina
sanguinati, come l’oro e i diamanti, è stata regolamentata ormai da diversi
anni attraverso l’istituzione del sistema di certificazione del processo di Kimberley4, per quel che riguarda il coltan il processo si è avviato solo recentemente mediante la rete di standard internazionali5 e di leggi (Dodd-Frank Act
e direttiva UE sulla tracciabilità) e di campagne promosse da Ong e delle Nazioni Unite. Ma i riflessi positivi nel Kivu e nell’est della RDC sono ancora da
verificare. Infatti, continuano a persistere numerose miniere di coltan illegali
e i controlli vengono aggirati trasportando il minerale in Ruanda, certificando
da qui la provenienza. Anche il governo centrale congolese ha emanato un
divieto di esportazione dalle miniere illegali, il quale ha causato una riconfigurazione delle strutture di potere e delle reti commerciali, in diversi casi
a favore di gruppi militari come le FARDC6 (Cuvelier et al., 2014: 1-2). Per
evitare questo problema, la direttiva europea ha inserito invece la volontarietà
da parte delle aziende europee di tracciare i minerali provenienti da zone di
conflitto: essa si applica solo alle imprese che importano il materiale grezzo
(lo 0,05% delle società europee), mentre esclude i produttori di cellulari (Barana, 2015)7.
1. Le regioni minerarie del Nord Kivu e del Sud Kivu
Il Kivu è la regione più ad Est della RDC, confinante con Uganda, Ruanda
e Burundi, ed è suddiviso in Nord Kivu, con capitale Goma, e Sud Kivu, la
cui capitale è Bukavu. Queste regioni sono connotate da una grande diffusione di siti minerari, ed è da qui che proviene la maggior parte del coltan, la
4 Il processo di Kimberley rappresenta un accordo avviato nel 2003 - sottoscritto da numerosi paesi produttori ed importatori di diamanti, così come dalle multinazionali coinvolte nella
catena di produzione –, il quale certifica che l’estrazione ed il commercio di questa risorsa non
finanzi gruppi armati e guerre civili nei paesi di estrazione. Per maggiori dettagli, si veda: https://www.kimberleyprocess.com/. Ultimo accesso: 10 lug. 2020. Per una ricostruzione critica,
si veda: https://www.globalwitness.org/en/campaigns/conflict-diamonds/kimberley-process/.
Ultimo accesso: 10 lug. 2020.
5 Tra di questi, uno dei più importanti è l’OECD Due Diligence Guidance for Responsible
Supply Chains of Minerals from Conflict-Affected and High-Risk Areas dell’OCSE, il quale rappresenta una delle strutture guida per le politiche aziendali in merito alla responsabilità sociale, e
che hanno contribuito alla formazione di protocolli che fornissero uno strumento utile alle imprese per certificare l’intera filiera produttiva. Disponibile in: http://www.oecd.org/corporate/mne/
mining.htm. Ultimo accesso: 20 gen. 2020. Per quel che riguarda la certificazione delle raffinerie
e delle fonderie che non adoperano tantalio proveniente da zone di conflitto, il caso più importante
è il CFSI (Conflict-Free Smelter Iniziative), una delle principali risorse a cui attingono numerose
aziende per sviluppare le proprie politiche conflict-free. Il CFSI consiste in una serie di attività, il
conflict-free smelter program, il conflict minerals reporting template, il due diligence guidance e
lo stakeholder engagement, che vanno a comporre le aree programmatiche dell’iniziativa. L’insieme di regole e procedure che compongono il programma della CFSI formano il Conflict-Free
Smelter Program Assessment Protocol. Disponibile su: http://www.responsiblemineralsinitiative.
org/responsible-minerals-assurance-process/. Ultimo accesso: 20 gen. 2020.
6 Sono le Forze Armate della Repubblica Democratica del Congo.
7 Disponibile in: http://www.rivistaeuropae.eu/esteri/esterni/tracciabilita-dei-minerali-direttiva-al-vaglio-del-pe/. Ultimo accesso: 20 gen. 2020.
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Capitalismo delle piattaforme e materialità sociale
cui estrazione ha conosciuto un’impennata a partire dagli anni ’90. L’International Peace Information Service (IPIS)8 ha riportato che nell’area orientale
della RDC (che comprende, oltre al Nord Kivu e al Sud Kivu, anche l’Ituri),
alla fine del 2018, il numero di miniere attive ammontava a circa 2400 unità,
con circa 382 mila minatori impiegati (Matthysen et al., 2019: 10). Per quanto
riguarda la sola estrazione di coltan, nel 2013/14 i minatori impiegati erano
circa 7 mila, contro i 32 mila per la cassiterite e i 176 mila per l’oro (Yannick
et al., 2016). Secondo altri report, il numero di minatori artigianali varia tra
le 500 mila e le 2 milioni di unità e, prendendo in considerazione l’indotto, le
persone che dipendono dall’attività mineraria sono circa 10 milioni, ovvero il
16% della popolazione (Bleischwitz et al., 2012).
Per quanto concerne il dato del coltan, nell’intervallo temporale che va dal
2009 al 2014 la quantità di miniere in cui è stato estratto è rimasta simile (da
52 nel 2009/10 a 58 nel 2013/14), tuttavia con un mutamento della geografia
della produzione. Infatti, se nel primo periodo i siti minerari erano presenti in
tutte le province, nell’ultima fascia temporale i settori di Maniema e Ituri non
presentavano più miniere attive di coltan, mentre aumentano in Katanga (da
7 a 12) e nel Sud Kivu (da 9 a 33). Quest’ultimo dato è interessante, poiché è
rappresentativo di come il richiamo del coltan abbia condotto ad una triplicazione dei siti attivi lì dove la presenza di conflitti è maggiore, ma anche perché
l’anno di riferimento è successivo alla stipulazione degli standard internazionali per incentivare i minerali conflict-free. Tuttavia, sia in questi anni che
agli inizi del 2000, la cosiddetta “febbre del coltan” ha condotto ad un picco
produttivo con l’apertura di numerose miniere per la costante crescita della
domanda di questo minerale (Usanov et al., 2013).
2. L’organizzazione del lavoro
La scala gerarchica nelle miniere è ben definita e composta da vari attori con ruoli specifici. Innanzitutto, deve esserci qualcuno che si occupi
di vagliare quale sia la zona migliore per l’estrazione e che negozi col proprietario del terreno per ottenerne i diritti: questa figura prende il nome di
“prospecteur-creseur” e, una volta ottenuta la concessione ad un prezzo che
varia tra i 300 e i 1500 dollari, crea la propria squadra, diventando in questo
modo lo “chef de l’équipe” (Ivi). La persona che decide di assumere questo
ruolo non ha un percorso biografico casuale, ma generalmente ha maturato
un’anzianità lavorativa tale per cui decide di mettersi a capo di una squadra
di minatori, la quale è composta in media da sei uomini di età giovane. Data
la scarsa disponibilità economica, gli strumenti da lavoro iniziali sono rudi8 L’IPIS è un istituto di ricerca indipendente belga, il cui scopo è fornire un’informazione
personalizzata, analisi e capacità in supporto a tutti quegli attori che sono interessati a tematiche
quali la pace, i diritti umanitari e lo sviluppo sostenibile. Esistono tre tipi di certificazione: la
certificazione verde, che indica le miniere libere dalle milizie armate e nelle quali può essere
avviato il processo di etichettatura dei minerali; la certificazione gialla, con la quale le miniere
hanno un permesso temporaneo di estrazione; la certificazione rossa, che proibisce le attività
minerarie a causa della presenza di gruppi armati (Matthysen et al., 2019).
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Giorgio Pirina
mentali, e possono appartenere fin da subito ai minatori (creseurs), oppure
questi decidono di affittarli dal capo squadra, lasciando come tributo parte del
materiale estratto. I cresuers in alcuni casi sono sia minatori che combattenti
e non svolgono questo lavoro sempre nella stessa miniera, ma si muovono tra
le tante del Kivu (Nest, 2011). Ciascuna squadra estrae circa 4 kg di coltan
alla settimana, di cui:
le chef d’équipe s’approprierait 2 kg afin de payer les affaires courantes
et les autres travailleurs se partageraient 2 kg, dont la moitié servirait à
acheter le vivres pour la semaine.
(Martineau, 2003: 22)
Il minerale verrà poi caricato in sacchi e trasportato in spalla, prevalentemente da ragazzi e da donne, fino ad un punto di smistamento situato in un
villaggio dove si trova il petit négociant, il cui scopo è di controllare, seppur
in maniera approssimativa, con acido cloridrico, bilancia e una placca di zinco, la qualità del minerale (ossia la percentuale di tantalio presente). È qui che
avviene il primo pagamento, che varia a seconda di fattori come il rischio e i
check-point militari9 incontrati lungo il tragitto, le dinamiche commerciali e
il prezzo nel mercato, sebbene generalmente si tratti di 30 dollari ogni 20 kg
(Ivi). La fase successiva consiste nel passaggio dal petit negociant al negoziatore principale: anche qui il pagamento varia a seconda delle fluttuazioni
del mercato, in un intervallo compreso tra i 50 dollari al kg (2.50 dollari per
percentuale di tantalio) nel periodo di massima richiesta, ed i 25 dollari al kg
quando la domanda internazionale diminuisce. È da questo punto che il costo
del coltan subisce un balzo importante. Qui il negoziatore, che si trova in
prossimità di un centro minerario e di una pista per gli aerei:
teste plus formellement la teneur en tantale du coltan par densimétrie. Ce
procédé est plus exact que celui utilisé par le petite négociant et nécessite
l’emploi d’une balance électronique (valeur approximative 250-300 dollars US).
(Martineau, 2003: 23)
Anche in questo passaggio troviamo delle “tasse” che il negoziatore deve
pagare per inviare la merce (circa un dollaro al kg), oltre a 50 centesimi da
pagare ad un funzionario pubblico e altri 75 centesimi all’agenzia di trasporto
aereo. Una volta scaricato dall’aereo in una delle tre città principali - Goma,
Bukavu e Bunia - il coltan viene preso in carico dal responsabile del comptoir
d’achat, colui che si occupa di esportare il minerale. È importante che questa
figura conosca gli andamenti dello spot market in modo tale da piazzare al
meglio il prodotto. In riferimento al 2009, la quantità minima di coltan da
vendere per poter essere immesso nel commercio internazionale era di 275
tonnellate (Bleischwitz et al., 2012).
Anche per quanto riguarda la gestione della miniera esiste una gerarchia
ben delineata. Secondo Nest, all’apice troviamo un singolo individuo (chef de
9 Con questo termine mi riferisco alle varie tasse informali che, lungo il tragitto, chi trasporta
i sacchi di coltan deve pagare per poter procedere.
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Capitalismo delle piattaforme e materialità sociale
colline) in rappresentanza del proprietario della miniera o del membro più anziano del gruppo armato, il quale deve gestire la miniera. Tra i suoi compiti vi
sono quelli di assegnare il lavoro e i permessi per accedere alla miniera (2011:
40). L’autore riporta il caso della miniera di coltan ubicata nel Kahuzi Biega
National Park, nella quale lo chef de colline ha una squadra per il controllo
della miniera composta da almeno dieci persone:
a president director general, secretary general, a chef de groupe (who collects fees from workers), a union representative, a chef de camp (in charge
of non-mining camp management), a commandant du camp (in charge of
security, who represent the local police of armed group), a chef de chantier
(in charge of site infrastructure and logistic) and a number of individuals
in charge of prospecting for more coltan deposits.
(ibidem).
Ognuno degli attori sopra menzionati ricopre un ruolo specifico il quale,
collegato agli altri, non lascia spazio al caso. All’interno di questa organizzazione piramidale, è il capo a stabilire chi può lavorare e a quale retribuzione.
Secondo Nest, quest’ultima è compresa in un intervallo tra 1 e 3 dollari al
giorno. Tuttavia, Martineau sottolinea che questi dati non sono completamente esaustivi, poiché esistono diverse sovrattasse soprattutto per quanto riguarda il fattore militare. Per questo motivo, hanno inserito la variabile frais de
passage divers, in modo tale da considerare nell’analisi le altre tasse lungo
il percorso (2003: 25). Ad ogni modo, le istituzioni congolesi hanno tentato
di regolamentare le dinamiche informali esistenti. Ad esempio, dal 2009 è
necessario un documento attestante il permesso di estrazione (carte de creseur), che viene rilasciato dal ministero delle miniere per conto del governo
al costo di 25 dollari, con decorrenza di un anno. Tuttavia, sulla base delle
informazioni ottenute dell’IPIS, nelle miniere indagate (il 54% del totale) solo
il 25% dei minatori possedeva questo documento ufficiale (Matthysen et al.,
2019: 45).
n Forme di dipendenza, schiavitù e lavoro forzato
La Convenzione n. 29 del 1930 (C29 Forced Labour, 1930) definisce “lavoro forzato” nella seguente maniera: “all work or service which is exacted from
any person under the menace of any penalty and for which the said person has
not offered himself voluntarily”. La successiva convenzione ILO n. 105 del
1957 (C105 Abolition of Forced Labour, 1957) specifica che il lavoro forzato
non può mai essere usato a scopi di sviluppo economico o come strumento di
educazione politica, discriminazione, disciplinamento del lavoro o punizione
per avere partecipato a scioperi. All’interno di questa cornice, la minaccia
aperta o latente non è solo quella del ricorso alla violenza o della sanzione
penale, ma può assumere le forme più varie, dall’attivazione di timori culturali (ad esempio credenze magiche), obblighi parentali tradizionali, fino alle
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Giorgio Pirina
minacce di licenziamento o ai ritardi nei pagamenti (Belser et al., 2005).
Per ottenere una visione più adeguata sulle dinamiche che si instaurano
lungo la filiera del coltan, è opportuno fornire una cornice teorica per quanto
riguarda le relazioni sociali nell’Africa sub-sahariana. Fabio Viti, nella sua
opera dal titolo “Schiavi, servi e dipendenti”, riprendendo la distinzione marxiana tra dipendenza personale e dipendenza materiale10, evidenzia come le
forme di dipendenza che si instaurano in Africa siano rivolte al controllo degli
uomini e non al controllo dei mezzi di produzione, come terra e strumenti di
lavoro. Qui esiste uno stretto legame tra appartenenza e dipendenza, caratteristiche intrinseche che un soggetto assume su di sé in quanto appartenente ad
un gruppo sociale. Il discrimine risiede nel fatto che l’appartenenza comporta
“un rapporto necessario di subordinazione e di dipendenza” al gruppo sociale di riferimento. Reciprocamente, la non appartenenza «implica la desocializzazione e la totale subordinazione ad un soggetto esterno (è il caso dello
schiavo)» (Viti, 2007: 12). Secondo Viti, la condizione di piena accettazione
della sudditanza e della subordinazione è un fattore estremamente radicato
in Africa, con profonde ripercussioni anche sul piano psicologico (Ivi, p. 15).
Inoltre, si crea una forma singolare di rapporto schiavistico per il quale, a differenza di quelli dell’antichità e precoloniali, vengono esercitate forme di coercizione e dipendenza attraverso cui chi sta più in alto nella piramide riesce a
esercitare un controllo totale su chi sta più in basso, senza tuttavia doversi fare
carico delle spese per la riproduzione del sottomesso. Claude Meillassoux offre un’ulteriore lettura in merito alla relazione tra produzione e schiavitù. Secondo l’antropologo francese, quest’ultima «permette un accrescimento non
differito della produzione mediante l’apporto immediato di lavoratori attivi
(…) la schiavitù rende il produttore immediatamente disponibile.» (1992: 97).
Inoltre, coglie un elemento di estrema rilevanza, ossia che il trasferimento
di popolazioni dovuto alla schiavitù consente un processo di accumulazione
migliore rispetto, ad esempio, al servaggio. In aggiunta, in un contesto in cui
guerre e commercio illegale sono costanti, «il ritmo di riproduzione ed accrescimento degli effettivi è più agevole e più rapido di quello consentito dalla
crescita demografica» (Ibidem).
Per quanto riguarda l’analisi delle dinamiche che avvengono nella RDC in
generale, e nei due Kivu in particolare, sono riscontrabili diversi aspetti che
convergono con quelli evidenziati da Viti e Meillassoux, sebbene non sia opportuno parlare di schiavitù in senso tradizionale nell’ambito dell’estrazione
mineraria, bensì di lavoro forzato. Diversi studi sulle regioni orientali della
RDC hanno identificato sei tipi di coercizione extra-salariale: lavoro forzato
o coatto, servitù debitoria, matrimonio forzato, traffico sessuale e lavoro minorile estremamente degradante, fino a sfociare nella schiavitù aperta (Bales,
10
La dipendenza personale caratterizza le forme economiche precapitalistiche, mentre la dipendenza materiale è propria dei rapporti di produzione capitalistici, “dove il denaro diventa
il nexus rerum et hominum e dove l’indipendenza personale è fondata sulla dipendenza dalle
cose” (2007: 11).
10
Capitalismo delle piattaforme e materialità sociale
2016; Free the slaves, 2011, 2013; Haider, 2017). In un recente report redatto
per conto del GSDRC (Governance and Social Development Resource Centre), il quale riporta i dati di numerosi studi chiave e del Global Slavery Index
(GSI), risulta che nella Repubblica Democratica del Congo nel 2016 erano
presenti circa 873 mila persone in condizioni riconducibili alla categoria della
cosiddetta “schiavitù contemporanea”11, posizionandosi come nono paese su
167 (Haider, 2017). È opportuno sottolineare che, in molti casi, si tratta di una
scelta volontaria quella di fare il minatore, dovuta al fatto che l’estrazione
comporta una fonte di reddito maggiore rispetto a quella che possa offrire, ad
esempio, l’agricoltura. Ad ogni minatore spetta una retribuzione giornaliera,
certamente irrisoria, la quale però gli consente di riprodursi e di espletare
alcuni bisogni minimi. Inoltre, sebbene i gruppi armati e i responsabili
della miniera abbiano il potere di disporre interamente dei minatori (la
subordinazione la subisce ogni gradino della piramide da quello più alto), non
esiste un legame di proprietà sulla persona inteso come relazione riconosciuta
per legge. Da questo punto di vista la condizione dei minatori, ma anche delle
donne coinvolte nel processo lavorativo, risulta ancora più complicata poiché
sono sottoposti alla duplice pressione di lavorare in condizioni rischiose con
il controllo serrato dei paramilitari e, parallelamente, la loro retribuzione è
appena sufficiente per soddisfare i bisogni primari. Infatti, generalmente non
riescono ad accumulare un guadagno sufficiente per poter inviare alla famiglia
una quota. In alcuni casi i minatori non solo non guadagnano abbastanza, ma
si indebitano a causa delle tasse che vengono richieste dal gruppo armato che
gestisce la miniera, per pagare gli attrezzi, per comprare il cibo.
Essere catturati come prigionieri di guerra è un atto che sradica completamente l’individuo dalla comunità di origine, quindi il lavoro, quandanche
forzato e sotto minaccia, può rappresentare la ricostruzione di un senso di appartenenza che lo convince a non andare via. Questa scelta può essere rafforzata anche dalla presenza di una rete sociale attorno alla miniera, per cui una
volta terminato il turno i minatori comprano le sigarette, consumano alcol,
frequentano le prostitute. Inoltre, la situazione di guerra permanente destabilizza il tessuto produttivo e sociale e induca ad una migrazione interna, con riorganizzazioni da pratiche agricole all’attività mineraria. Se i profughi vanno
a lavorare in miniera, le profughe generalmente lavorano come trasportatrici
dei sacchi di minerale o come prostitute. L’indebitamento diventa un elemento
centrale per quanto concerne la servitù debitoria, la quale risulta essere il tipo
di lavoro forzato più diffuso nelle regioni orientali della RDC (Free the slaves,
2013): ciò accade in quanto, spesso, i nuovi lavoratori devono chiedere prestiti
per acquistare cibo, attrezzi, o perché hanno ereditato debiti da un membro
Quello di schiavitù contemporanea, sviluppato in particolar modo da Kevin Bales e utilizzato anche nei report citati in questo articolo, è un concetto abbastanza controverso. In particolare, l’impostazione di Bales ha contribuito a sottostimare il totale delle persone sottoposte alle
diverse forme di lavoro forzato e schiavistico a livello globale, escludendo, inoltre, la violenza
esercitata dagli Stati. Per uno studio approfondito su queste tematiche e per una critica al lavoro
di Kevin Bales, si veda: Zanin, 2002 e 2017.
11
11
Giorgio Pirina
della famiglia deceduto.
In un documento prodotto recentemente, la Banca Mondiale ha evidenziato come l’attività mineraria, a differenza dell’agricoltura, sia un modo veloce
per ottenere denaro, poiché la paga viene data direttamente in mano. Inoltre,
i centri abitati che sorgono attorno alle miniere offrono un riparo dai conflitti: questo paradosso si presenta poiché il gruppo armato che gestisce la
zona, pur di proteggere i propri interessi, offre sicurezza dagli attacchi esterni
(World Bank Group, 2015). Anche in questo caso quanto detto da Viti trova
conferma, poiché si consolidano rapporti di dipendenza che derivano da una
protezione di fatto e dal reperimento di un guadagno. Inoltre, le miniere rappresentano un modo per fuggire dalle strutture familiari di origine e creare
una nuova vita (Ivi). Ma nonostante la gravità e le difficoltà che derivano dal
lavoro in miniera, così come la percezione di un’asimmetria nella redistribuzione dei profitti, esso rappresenta una opportunità migliore rispetto al lavoro
agricolo per aiutare la propria famiglia e contribuire al mantenimento della
comunità di appartenenza, così come per coloro che non hanno altra scelta per
sopravvivere. Nel rapporto troviamo un altro elemento interessante, ovvero il
contrasto tra percezione e fattualità del lavoro forzato in miniera e i risvolti
economici che ne derivano per i villaggi locali, i quali rendono complesso il
processo di intervento da parte di organizzazioni private e pubbliche per migliorare le condizioni (World Bank Group, 2015:15). Il report descrive anche
la rete che si è sviluppata attorno alle miniere. Essa è composta da ristoranti,
bar, uomini d’affari, costruttori, i quali hanno determinato una circolazione
del denaro e, dunque, la creazione di nuovo lavoro nelle attività suddette, sebbene con forti disuguaglianze nella redistribuzione dei profitti (Ivi:16).
n Il capitalismo delle piattaforme
Come anticipato nell’introduzione, il modello economico-organizzativo
nato sul solco della rimodulazione dei processi di valorizzazione e di accumulazione del capitale avviata negli anni Settanta, della disarticolazione della
«società salariale» e dello svuotamento delle tutele del lavoro e sociali da essa
derivanti (Castel, 2015), è stato definito in modo fuorviante società dell’informazione e post-industriale. Luciano Gallino, già negli anni ’80, si interrogava sull’ambiguità della rivoluzione informatica per ciò che concerne la
qualità e la forma del lavoro. Egli ha sottolineato che, sebbene da un lato essa
garantisse la sopravvivenza e lo sviluppo di organizzazioni di grandi dimensioni, dall’altro stesse conducendo alla riduzione di alcune attività lavorative
(evidenziando, in ogni caso, come non fosse una tendenza generalizzabile)
e ad una parcellizzazione del lavoro in micro-attività semplici, segmentate
ed eteronome (1983). D’altronde, lo stesso autore diversi anni più tardi, in
riferimento alla net economy e ad un modello organizzativo basato sul justin-time, ha affermato che si sono venute a creare situazioni di intensificazione
e densificazione dei lavori a media e bassa qualificazione, il che vuol dire un
12
Capitalismo delle piattaforme e materialità sociale
aumento delle attività condotte nello stesso arco di tempo e una riduzione
delle pause (Gallino, 2007).
Il capitalismo delle piattaforme rappresenta un esito del percorso storico
sopra brevemente delineato. Esso è stato declinato in varie accezioni, a seconda della caratteristica maggiormente messa in risalto: economia collaborativa
e della condivisione (sharing economy), economia dei “lavoretti” (gig economy), lavoro on-demand, crowdwork, ecc. Se, nella fase iniziale, vi è stato il
tentativo di passare da una logica consumistica e di proprietà di beni e servizi
ad una di condivisione, collaborazione e relazione tra pari, al di fuori dei
meccanismi di mercato, in poco tempo è avvenuta la sussunzione nei processi
capitalistici. Ciò si è tradotto in una mercificazione delle relazioni sociali, con
la diffusione di micro-attività da eseguire tramite piattaforma localmente o
deterritorializzate (gig economy, lavoro on-demand e crowdwork).
Al centro di questo modello vi sono, appunto, le piattaforme digitali,
ovvero le grandi imprese delle ICTs, in particolare Amazon, Facebook, Google e Microsoft. Una delle prime imprese a contribuire a sviluppare questo
tipo di economia è stata Amazon, con Amazon Mechanical Turk (AMT)12.
Questa piattaforma si basa su un semplice assunto: l’informatizzazione non
è in grado di sostituire qualsiasi attività umana. Dunque, essa permette ad
altre imprese di esternalizzare tutte le micro-attività che i software non sono
in grado di effettuare, facendole eseguire dai turkers13 (Casilli, 2018; Mosco,
2014). Negli ultimi anni, si sono aggiunte molte altre piattaforme digitali,
di cui le più rappresentative (a causa di recenti controversie lavorative) sono
Uber, Glovo e Deliveroo. Il fulcro di queste piattaforme lean è la riduzione
al minimo degli asset proprietari e, dunque, dei costi di transazione e del
lavoro, diventando uno strumento attraverso cui aumentare l’estrazione di
valore da beni quali i dati e le informazioni del web (Srnicek, 2016). A causa della loro ubiquità e della loro caratterizzazione come meri intermediari
tecnologici, le piattaforme digitali sono riuscite a sfruttare alcuni vuoti, o
perlomeno incertezze, normative legate alle fattispecie contrattuali. In particolare, sono riuscite a sfruttare gli interstizi presenti nelle differenti normative nazionali del lavoro, sfruttando tipologie contrattuali atipiche che
privano i lavoratori di gran parte delle tutele sociali previste dai contratti
di lavori dipendente (Aloisi, 2016; Ciccarelli, 2018; De Stefano, 2016; De
Stefano e Aloisi, 2018).
Dietro l’apparente immaterialità dell’economia digitale e del capitalismo
delle piattaforme14 – espressa attraverso terminologie quali economia colIl nome deriva dal Turco Meccanico (archetipo dell’intelligenza artificiale), un presunto
automa creato a fine ’700 la cui unica operazione consisteva nel giocare a scacchi. Questa macchina, in teoria, riusciva ad anticipare le mosse del proprio avversario riproducendo il funzionamento della mente umana. In realtà, ciò accadeva in quanto era comandato da un essere umano
posizionato al suo interno. Il meccanismo sotteso ad AMT è il medesimo: una moltitudine di
esseri umani sparsi sulla terra, esegue micro-lavori (crowdwork) che l’intelligenza artificiale
non è ancora in grado svolgere.
13
Turker è la denominazione dei lavoratori digitali di Amazon Mechanical Turk.
14
Per un dibattito critico in merito alla questione della dematerializzazione nell’ambito
12
13
Giorgio Pirina
laborativa e della condivisione (sharing economy) – troviamo il lavoro vivo
di migliaia di lavoratori di tutto il mondo, eseguito in condizioni di degradazione e precarietà estreme, ad alta intensità e poco remunerato (Antunes,
2018; Antunes e Braga, 2009; Casilli, 2015, 2019; Fuchs, 2014; Huws, 2014,
2016; Scholz, 2013). Gli individui che decidono di aderire alle piattaforme
digitali (definiti come lavoratori del click, digital laborer, tap workers e
platform workers) appartengono, tendenzialmente, a tre categorie: lavoratori che contestualmente hanno un contratto a tempo pieno e, dunque, dedicano una parte esigua del proprio tempo alle piattaforme; lavoratori che
hanno un contratto part-time; disoccupati (Rosenblat, 2018). È evidente che
chi appartiene alle ultime due ultime categorie dedica alla piattaforma una
maggiore quantità di tempo. Per quanto riguarda l’Italia, fino al 2016 circa
il 22% della popolazione ha partecipato ad attività di crowdwork, sebbene
nella maggioranza dei casi in maniera saltuaria; una fetta più ridotta, circa
il 5%, ha invece ricevuto introiti da queste attività pari alla metà o oltre del
proprio reddito; il 41%, infine, possedeva un contratto a tempo indeterminato (Holts et al., 2019; Huws et al., 2017). Per i lavoratori impoveriti che non
riescono ad uscire da questa condizione nonostante lo svolgimento di più
lavori, la gig economy può rappresentare uno strumento utile per bilanciare
la situazione in cui versano.
1. La propagazione digitale e l’impatto ambientale
Se fino ad ora abbiamo descritto lo sfruttamento del lavoro vivo (o la
contraddizione tra capitale e lavoro) alla base del capitalismo delle piattaforme e delle nuove tecnologie, ora proveremo a mostrare la seconda contraddizione, quella tra capitale e natura. È opportuno ribadire ancora una
volta che queste due contraddizioni non devono essere interpretate come
separate, quanto piuttosto unite da un legale biunivoco. Infatti, rappresentano due facce della stessa medaglia, ovverosia lo sfruttamento delle risorse
umane e ambientali alla base del capitalismo delle piattaforme. Una nozione
che ci può aiutare a delineare meglio la contrapposizione tra capitale e ambiente naturale è quella di violenza delle merci. Giorgio Nebbia in essa racchiude tutti quei fattori che nel corso della storia umana hanno determinato
la trasformazione della natura per mano dell’uomo e le conseguenze sul lato
ecologico che da ciò derivano. Usando le parole dell’autore, «la violenza di
alcuni uomini su altri, di alcune classi su altre, si è tradotta ben presto anche
in una violenza contro la natura (…) Così nella, anzi ‘sulla’, biosfera si inserisce un nuovo mondo, la tecnosfera, l’universo dei beni naturali trasformati
in merci dagli esseri umani.» (Nebbia, 2002: 18-21). Con l’avvento del cadell’attuale modello economico e della creazione di percorsi alternativi di esistenza materiale
– che tengono in considerazione non solo l’essere umano, ma la molteplicità di esseri viventi
e le relazioni tra di essi – si veda l’approccio dell’ecologia politica, in particolare: Asara et al.,
2019. Inoltre, per un approfondimento sulla questione antropocene e capitalocene, si veda:
Moore, 2015, 2017.
14
Capitalismo delle piattaforme e materialità sociale
pitalismo industriale, la tecnosfera ha cominciato a prevalere sulla biosfera.
La violenza risiede nel fatto che le merci in realtà non vengono consumate,
nel senso che non scompaiono, ma ritornano all’ambiente naturale. Questo
elemento è estremamente evidente per quanto riguarda le filiere produttive,
poiché in ogni fase della lavorazione si forma sempre una quantità di scarti
che si deposita e non viene smaltito. Ad esempio, un ulteriore effetto che
deriva da questi comportamenti è la creazione di enormi quantità di rifiuti
(rifiuti elettronici o e-waste), di cui la maggior parte viene smaltita nei paesi
del Sud globale. L’impatto per queste regioni del mondo è duplice. Infatti,
se in origine vengono depredati delle loro risorse naturali, alla fine del ciclo
esse diventano delle discariche, con annesse attività di recupero in condizioni lavorative degradate e insalubri.
Qui si innesta anche il ragionamento sul ciclo di vita dei prodotti e sulla
rilevanza di forme secondarie di produzione, come il riciclaggio ed il riutilizzo di artefatti. La sharing economy ha provato a collocarsi in questo
solco, utilizzando la retorica della collaborazione e della condivisione di
beni e servizi sottoutilizzati, tendenzialmente fuori dalla logica di mercato
e riducendo le dinamiche consumistiche. Come abbiamo visto prima, dal
punto di vista del lavoro questa tendenza è stata velocemente rimpiazzata
da forme di lavoro precarie, prive di forme di protezione sociale. Ma vi sono
delle criticità anche in merito alla diminuzione del consumo. Il sistema capitalista, infatti, per la sua stessa riproduzione deve sviluppare dinamiche
di produzione continua e di accumulazione per l’accumulazione, sostenute da campagne di marketing che inducono il pubblico a consumare. Ad
esse si collega una pratica della vita quotidiana estremamente impattante
sull’ambiente, vale a dire l’usa e getta. Serge Latouche spiega questa pratica
partendo dai concetti di obsolescenza tecnica, obsolescenza psicologica o
simbolica e obsolescenza programmata: col primo termine, indica il superamento di artefatti dovuto all’introduzione di innovazioni tecniche; col secondo termine intende la desuetudine dovuta alla persuasione occulta dovuta alla pubblicità e dalla moda; infine, l’obsolescenza programmata consiste
nel far terminare anticipatamente il ciclo di vita del prodotto, introducendo
artificiosamente un difetto in un dispositivo per interromperne la corretta
funzionalità. Questo tipo di obsolescenza è stata concepita appositamente
per vendere più prodotti, ed è connessa a quella simbolica attraverso un
rapporto simbiotico (Latouche, 2013). In questo modo si intacca l’etica del
durevole per consolidare le pratiche dell’usa e getta.
Per quanto riguarda la società dell’informazione ed il capitalismo delle
piattaforme, rilevano in particolare due aspetti in merito all’impatto ambientale, o violenza delle merci: uno più evidente, legato all’inquinamento dovuto
al processo di produzione necessario per creare le componenti ed assemblare
i dispositivi elettronici; l’altro, più subdolo, dovuto al loro utilizzo: il funzionamento dei datacenters che consentono di usufruire dei servizi digitali e,
affinché ciò possa avvenire, la fornitura continua di energia elettrica ai server.
Inviare un messaggio, utilizzare servizi di streaming, cloud computing, inter15
Giorgio Pirina
net ultraveloce o, in poche parole, stare costantemente connessi assorbe una
quantità di energia elettrica immensa. Secondo Vincent Mosco, il consumo di
energia elettrica dei datacenter delle cosiddette Big Four (Google, Amazon,
Microsoft e Facebook) più o meno equivale a quello di una città di piccole/
medie dimensioni (Mosco, 2014). Anche Greenpeace, in un rapporto del 2012
ne aveva enfatizzato la rilevanza:
Datacentres are the factories of the 21st century information age […] These cloud datacentre, many of which can be seen from space, consume a
tremendous amount of electricity […] unfortunately, most of IT companies
are rapidly expanding without consider how their choice of energy could
impact society.
(Cook, 2012 :5)
Prendiamo come esempio un caso di infrastructure space: le reti globali
di banda larga sia per pc che per smartphone (Easterling, 2016: 17). Il numero
di persone che utilizzano Internet negli ultimi 15 anni è aumentato in maniera esponenziale. Secondo i dati dell’International Telecommunication Union
(ITU) – un’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di definire gli standard
nelle telecomunicazioni –, dal 2005 al 2019 la percentuale è passata dal 16,8%
al 53,8% della popolazione globale, ovverosia 3,9 miliardi di persone utilizzano Internet15 (State of Broadband Report 2019, 2019: 4). La crescita più
consistente è data dal numero di abbonamenti di cellulari, che ad oggi risultano essere più numerosi della stessa popolazione mondiale: ciò non significa
che ogni persona possieda un abbonamento di questo tipo, bensì che vi sono
molte persone che ne detengono più di uno. Infatti, secondo l’ITU il 76.4%
della popolazione ha un cellulare (ITU, 2018: 5). Secondo la Banca Mondiale:
In 2016, there were more than 7.3 billion mobile-cellular subscriptions
worldwide. Globally, 3.5 billion people were using the Internet, of which 2.5 billion were from developing countries. Mobile-broadband subscriptions have risen constantly to reach 3.6 billion, while the number of
fixed-broadband subscriptions reached more than 840 million during the
same period.
(World Bank, 2018: v)
Un’ulteriore variabile della crescita degli indicatori della società dell’informazione è il costante declino del prezzo dei servizi, il quale ha reso questi
ultimi più economici e alla portata anche della popolazione dei paesi in via di
sviluppo. Secondo la Banca Mondiale, ad esempio, dal 2010 al 2016 il costo
mensile di abbonamenti cellulari e linee a banda larga fisse è passato da 15.5$
a 9.5$ per i primi, e da 26.3$ a 20.1$ per i secondi. Da questo quadro emerge
che il consumo di apparecchi elettronici è cresciuto di molto, e dunque anche
la produzione del manufatto, in tutte le sue fasi, ha conosciuto un incremento.
Ciò è in sintonia con quanto detto nei paragrafi precedenti in merito all’intensificazione dei processi lavorativi e delle pressioni esercitate dalle aziende
15
Per maggiori informazioni si veda https://www.itu.int/en/ITU-D/Statistics/Pages/stat/default.aspx. Ultimo accesso: 10 gen. 2020.
16
Capitalismo delle piattaforme e materialità sociale
committenti su quelle appaltatrici, e da queste a loro volta sulle maestranze,
al fine di produrre più dispositivi possibili nel minor tempo16. La crescente
richiesta è stata innescata non tanto dai Paesi ad economia avanzata, quanto
da quelli in via di sviluppo nonostante il reddito percepito in questi ultimi sia
nettamente inferiore ai primi.
Le società a economia avanzata si devono confrontare, perciò, con due
tendenze tra loro incompatibili nell’ambito del sistema capitalista: da un lato
garantire le condizioni per un lavoro decente e agire contro il cambiamento
climatico, con i governi nazionali e le organizzazioni sovranazionali impegnate nella riduzione dell’impronta ecologica mediante l’adozione di nuove
fonti energetiche e l’abbattimento dei consumi elettrici; dall’altro il bisogno
di creare e mantenere in funzione le infrastrutture informatiche e digitali necessarie alla riproduzione della nostra vita quotidiana. Per quanto riguarda
la conversione energetica, le soluzioni proposte ad oggi si sono rilevate insufficienti, soprattutto perché inquadrate ancora in un’ottica di mercato17. In
riferimento alla creazione delle infrastrutture, abbiamo visto che l’impatto
sulle risorse umane e ambientali è enorme, sia nella fase iniziale per ottenere
le materie prime e creare i manufatti, sia per il loro utilizzo.
n Conclusione
Utilizzare la filiera del coltan e del tantalio come studio di caso ci ha consentito di osservare i nodi in cui si materializza la contraddizione capitale-lavoro-natura della società dell’informazione e del capitalismo delle piattaforme. Focalizzarsi sui due poli – da un lato la degradazione del lavoro estrattivo
nei paesi del Sud del mondo, dall’altro il capitalismo delle piattaforme e la gig
economy nel Nord globale – ci ha permesso di meglio inquadrare alcune tensioni emergenti. Ciò non toglie che, anche lungo l’intero processo produttivo
e di circolazione delle merci (il caso della logistica è paradigmatico), non si
concretizzino tali tensioni. Tutt’altro. La scelta di focalizzarmi sui poli è stata
dettata da due motivi principali: lo spazio insufficiente per affrontare anche
le controversie inerenti alla logistica e la conoscenza di testimoni privilegiati.
La condizione di minatori nel Kivu, secondo quanto riportato dalle fonti qui
utilizzate, può ricadere nella fattispecie del lavoro forzato, in tutte le sue varie
declinazioni. La profonda degradazione e informalità del lavoro, consentono
una accumulazione di capitale e una produzione ed estrazione di (plus)valore
enorme, in particolare nel contesto del Artisanal and small-scale mining. La
presenza di conflitti di lunga durata ha favorito un esodo continuo di persone,
le quali, come evidenziato da Viti e da Meillassoux, sradicate dal gruppo
sociale di appartenenza cadono in una condizione di subordinazione e di dipendenza, che le conduce all’indebitamento e ad un intenso sfruttamento la16
Il caso della Foxconn è emblematico da questo punto di vista. Per un maggiore approfondimento si veda (Ngai et al., 2015).
17
A questo proposito, si veda Jacobin Italia, N° 4/Autunno 2019.
17
Giorgio Pirina
vorativo. Parimenti, la condizione di donne e minori è altamente degradata: se
le prime finiscono nel giro della prostituzione, i secondi corrono alti rischi di
diventare bambini-soldato o di essere sfruttati come minatori e trasportatori.
Per quel che concerne l’altro polo della relazione, ossia le trasformazioni
del lavoro occorse a partire dagli anni ’70, si sono moltiplicate le evidenze
in merito alla perdita dei diritti acquisiti dalla classe lavoratrice, in favore di
una maggiore flessibilità richiesta dalle imprese. Il capitalismo delle piattaforme e la gig economy rappresentano una lente efficace con cui leggere le
forme di degradazione del lavoro – precarizzazione, intensificazione e dequalificazione – a cui stiamo assistendo, con una diffusione dell’impoverimento
del lavoro. La retorica del lavoro flessibile ha condotto alla proliferazione di
contratti precarizzanti, agevolando l’introduzione di forme di lavoro consone
alle imprese del capitalismo delle piattaforme, le quali esternalizzano a terzi
la responsabilità e pongono in capo ai lavoratori i rischi. Parimenti, l’analisi
della filiera produttiva, dalle infrastrutture socio-materiali base della società
dell’informazione e del capitalismo delle piattaforme alle pratiche di consumo
connesse alla propagazione digitale, evidenzia un significativo impatto ambientale e alti livelli di nocività.
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