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MVLTA PER ÆQVORA Collection FERVET OPVS La collana Fervet Opus è diretta da Marco Cavalieri ed è pubblicata e diffusa dalle Presses Universitaires de Louvain, con il sostegno del Centre d’étude des Mondes antiques (CEMA) dell’Université catholique de Louvain. La collana ha come oggetto, da un lato, l’archeologia e la storia di Roma, dell’Italia e delle province romane; dall’altro, l’Occidente mediterraneo a partire dall’età del Ferro fino alla transizione tra tarda Antichità ed alto Medioevo. Volumi pubblicati nella collana: 1. Industria Apium. L’archéologie : une démarche singulière, des pratiques multiples. Hommage à Raymond Brulet, sous la dir. de M. Cavalieri, 2012. 2. Locum Armarium Libros. Livres et bibliothèques dans l’Antiquité, sous la dir. de N. Amoroso, M. Cavalieri et N.L.J. Meunier, 2017. 3. Cures tra archeologia e storia. Ricerche e considerazioni sulla capitale dei Sabini ed il suo territorio, a cura di M. Cavalieri; premessa di Ch. Smith, 2017. 4. Multa per aequora. Il polisemico significato della moderna ricerca archeologica. Omaggio a Sara Santoro, a cura di M. Cavalieri e C. Boschetti, 2018, 2 vol. In preparazione: 5. Il n’est guère de matière si vaste que celle des monumens de l’Antiquité. Étude et réception de l’Antiquité romaine au siècle des Lumières, sous la dir. de M. Cavalieri et O. Latteur. Collection FERVET OPVS 4 MVLTA PER ÆQVORA Il polisemico significato della moderna ricerca archeologica. Omaggio a Sara Santoro A cura di Marco Cavalieri e Cristina Boschetti Volume II © Presses universitaires de Louvain, 2018 Deposito legale: D/2018/9964/22 ISBN: 978-2-87558-691-9 ISBN per la versione pdf: 978-2-87558-692-6 Stampato in Belgio da CIACO scrl – numero 96657 Collana « FERVET OPVS » – n° 4 Questo volume è stato realizzato con il contributo del Centre d’étude des Mondes antiques (CEMA), del Museo Statue Stele (MUST) di Pontremoli e del Rotary Club Cesena. No part of this publication may be reproduced, stored in a retrieval system, or transmitted, in any form, by print, photoprint, microfilm or any other means without written permission of the copyright owner. Immagine di copertina ad opera di Mathieu Minet: la maschera del dio Oceano è ricomposta da diverse rappresentazioni della divinità marina note dal mondo antico. Vendita e diffusione: www.i6doc.com per l’edizione on line Su ordine in libreria o presso Diffusion universitaire CIACO Grand-Rue, 2/14 1348 Louvain-la-Neuve, Belgique Tel. +32 10 47 33 78 Fax +32 10 45 73 50 duc@ciaco.com Distributore per la Francia: Librairie Wallonie-Bruxelles 46 rue Quincampoix – 75004 Paris Tel. +33 1 42 71 58 03 Fax +33 1 42 71 58 09 librairie.wb@orange.fr Indice Volume I Introduzione. Un ricordo che diviene un omaggio Marco Cavalieri, Cristina Boschetti e Emiliana Mastrobattista 1 Bibliografia di Sara Santoro (Bianchi) (1976-2017) 9 I. Valorizzazione, comunicazione e progettualità Valorizzazione e comunicazione nell’attività di Sara Santoro Francesca Ghedini 33 Da Castelraimondo al Mediterraneo: ventidue anni di archeometria della ceramica grezza Gabriella Guiducci 45 Il contributo di Sara Santoro allo sviluppo delle ricerche archeologiche a Durazzo Afrim Hoti 51 Recordando a Sara Santoro Isabel Rodà de Llanza 61 II. Urbanistica, campagna e popolamento L’orto e il frutteto di una grande villa tardo repubblicana ai piedi dei Monti Lucretili in Sabina Lorenzo Quilici 73 Il santuario repubblicano di Montericco, Imola (BO): considerazioni sul processo di romanizzazione dell’Emilia orientale Valentina Manzelli 93 Sviluppo dell’aspetto della città e delle abitazioni nella Nora romana. Nuovi dati dai recenti scavi nel Quartiere Centrale. Giorgio Bejor 121 v Indice L’anfiteatro di Aquileia: nuovi dati da nuovi scavi Patrizia Basso 135 Aquileia in età tarda: alcune modificazioni dei quartieri extra moenia e la sopraelevazione delle strade all’interno delle mura Maurizio Buora 145 Continuità e discontinuità nelle ville di età tardoantica: il paradigma toscano Arnaldo Marcone 161 Strategie di interazione tra uomo ed ambiente nell’insediamento rurale. Una proposta di modello interpretativo Alberto Monti 177 III. Archeologia della produzione, archeometria e commerci I figli di un dio minore. Ceramica e archeometria in Italia. Le origini, le tendenze, i risultati nelle ricerche più recenti: alcuni casi di studio Simonetta Menchelli 191 Archeologia dell’artigianato e produzioni nella Sicilia romana: “proposte di metodo e prime applicazioni” Daniele Malfitana, Giuseppe Cacciaguerra e Antonino Mazzaglia 207 Stranieri nella ceramica grezza del Magdalensberg. Tracce di commercializzazione precoce oppure beni personali dei migranti? Eleni Schindler-Kaudelka, Federico Biondani 241 Codroipo-Quadrivium (UD-Friuli Venezia Giulia): per una rilettura del sito alla luce di alcuni complessi ceramici Paola Ventura, Tiziana Cividini 263 La manifattura romana di Scoppieto e i rapporti con gli opifici aretini Margherita Bergamini 287 Milk cookers o semplicemente vasi-filtro? Una problematica ancora irrisolta Paola Puppo 309 Anfore vinarie della Cisalpina in età augustea: un aggiornamento su alcune serie bollate Stefania Pesavento Mattioli, Manuela Mongardi 321 vi Indice Amphores bétiques à conserves de poisson importées en Gaule Cisalpine Iwona Modrzewska-Pianetti 347 La ceramica a Venezia e nel Veneto nel tardo Medioevo: un aggiornamento Sauro Gelichi 369 Il ciclo produttivo del ferro: nuove chiavi di lettura degli indicatori archeologici Maria Stella Busana, Leonardo Bernardi 399 A possible officina lanificaria in Augusta Emerita (Mérida, Spain). Architectural and functional analysis Macarena Bustamante Álvarez, Yolanda Picado Pérez 433 Miniature in steatite. Un passo nel mondo dei sigilli della civiltà dell’Indo Massimo Vidale, Ivana Angelini e Dennys Frenez 447 IV. Studi pompeiani A scala di insula. Pompei, IX 8 Antonella Coralini 473 Repertorio e scelte figurative di una “bottega” di pittori a Pompei: il caso del frigidario delle Terme del Sarno Monica Salvadori, Clelia Sbrolli 527 La domus pompeiana di D. Octavius Quartio: un contributo all’analisi del degrado delle murature e delle superfici affrescate Angela Pontrandolfo, Celestino Grifa 547 Un atelier de métallurgie du bronze et du fer à Pompéi ? Interprétations et terminologie Nicolas Monteix, Anika Duvauchelle 563 Elenco degli autori 593 vii Indice Volume II Introduzione. Un ricordo che diviene un omaggio Marco Cavalieri, Cristina Boschetti ed Emiliana Mastrobattista 603 V. Cultura iconografica A banchetto con Dioniso. Il programma iconografico dei mosaici della “Villa dei Mosaici” di Spello Marcello Barbanera 613 Pinxere et mulieres: Plin. Nat. hist. 35, 147 Maria Elisa Micheli 643 Alberi e culti. Un contributo all’analisi degli elementi paesistici nella scultura a rilievo di età romana Simone Rambaldi 661 Spolia Oceani. Note sull’iconografia oceanica a margine della ricerca di Sara Santoro Marco Cavalieri 689 Rilievi salernitani dell’ultima età longobarda fra Oriente e Occidente Giuseppa Z. Zanichelli 711 A city of gold for the queen: some thoughts about the mural crown of Assyrian queens Frances Pinnock 731 VI. Antichità, letteratura ed epigrafia Divi filius. Alle origini del potere di Augusto Mauro Menichetti 753 Diana e le altre: le donne a caccia nelle Metamorfosi ovidiane Isabella Colpo 773 En Gaule romaine, des enseignants partaient déjà au loin pour exercer leur profession : l’exemple du Biturige Cube Blaesianus, grammaticus à Augustoritum, Limoges Robert Bedon 795 viii Indice Le fonti nella fonte. L’ambra e le sue vie rileggendo Plinio (Nat. hist. 37, 30-53) Guido Rosada 807 Una Wunderkammer all’aperto: il teatro di M. Emilio Scauro tra la mostra e l’evento Elena Calandra 821 Druso minore sulla via Appia a Roma Daniele Manacorda 837 Il “consumo” delle antiche pietre. Alcuni esempi dalla città di Parma e dal suo territorio Maria Giovanna Arrigoni Bertini 861 Tre “pezzi in cerca di contesto” e un impossibile calcolo delle probabilità per ricostruire un frammento della tarda Antichità nel territorio di Populonia Enrico Zanini 881 VII. Archeologia dei Balcani Il rilievo architettonico dell’anfiteatro di Durazzo: il contributo per la conoscenza e la comprensione di un’architettura archeologica Paolo Giandebiaggi, Chiara Vernizzi 905 Sulle faglie il mito fondativo: i terremoti a Durrës (Durazzo, Albania) dall’Antichità al Medioevo Barbara Sassi 939 Crafts inside the amphitheater: an interdisciplinary analysis of medieval glass-working at Durrës, Albania Cristina Boschetti, Cristina Leonelli 963 Alcune riflessioni sull’Epiro settentrionale in età romana Enrico Giorgi 983 Elenco degli autori 1003 ix © Disegno di Mathieu Minet da foto di Serena Carattini Sara Santoro a Paestum in viaggio di studio con gli studenti dell’Università degli Studi di Parma, maggio 2000 Introduzione Un ricordo che diviene un omaggio Ricordare Sara Santoro, persona instancabile, sia come ricercatrice che come docente, non è semplice. Chi l’ha conosciuta ha certamente sperimentato la sua personalità forte, propositiva e concreta, proprio per questo talora non facile; il suo vulcanico dinamismo ha fatto sì che, in ambito accademico e non solo, fosse considerata un esempio per capacità fattiva ed energica operosità. Un tratto che la distingueva era la forza attrattiva che derivava dalla sua prorompente carica umana. Impossibile restare indifferenti: innamorata della vita, questo medesimo trasporto lo riservava anche al suo lavoro, trascinando il pubblico con la stessa intensità sia nell’illustrare una pittura pompeiana che nell’analizzare un impasto ceramico. Era il suo eloquio colto nei contenuti, ma sempre accessibile per forma, a catturare, con un alto grado di coinvolgimento, i suoi studenti e più in generale chi le prestava ascolto. Appassionata dei suoi progetti, cui si dedicava sempre col massimo impegno, richiedeva a tutti, sia sul campo, sia nell’elaborazione dei dati, abnegazione e cura per i dettagli. Era inoltre infaticabile: continuamente in viaggio per seguire le sue ricerche; tessere nuove collaborazioni in Italia ed all’estero; coinvolgere nuove forze e competenze nelle sue svariate progettualità. Vale la pena ricordarne alcune tra le più rilevanti succedutesi negli anni: i numerosi studi sull’urbanistica e sull’insediamento in Cisalpina, con particolare attenzione al sito minore prealpino di Castelraimondo (Friuli); le ricerche sulla Pantellerian Ware; a Pompei, con le analisi geofisiche ed archeometriche all’Insula del Centenario; in Spagna con il progetto Italia-Spagna 2001; in Albania, a Durazzo, con lo scavo dell’anfiteatro e con la pianificazione della salvaguardia del patrimonio archeologico urbano; in Francia, presso il Parco archeologico europeo di Bliesbruck-Reinheim, con le ricerche di campo al locale vicus gallo-romano; da ultimi, in ordine di tempo, lo scavo di Corfinio-Campus Santa Maria delle Grazie ed il progetto Tempus, di cui era l’attuale coordinatrice internazionale: un progetto europeo che, riunendo undici università, ha per fine la valorizza603 zione del patrimonio archeologico dell’area balcanica e del centro Asia. Questi progetti-quadro le hanno consentito, negli anni, di approfondire i suoi maggiori campi d’interesse: l’urbanistica romana e poi greca, la produzione artigianale, la ricezione dell’immagine nell’arte antica, la metodologia della ricerca archeologica con particolare riguardo all’archeometria, solo per citare i più noti e rimandando alle pagine che seguono per un esame più puntuale della sua ampia bibliografia1. Ma Sara Santoro non viaggiava solo per i progetti che coordinava, viaggiava anche con e per gli studenti dei suoi corsi, prima a Parma, a Chieti-Pescara poi2. Viaggi che erano imperdibili, nonostante fossero dei veri e propri tours de force per tutti, allievi, collaboratori e per lei stessa, che appariva, comunque, sempre, incredibilmente, la meno stanca. Era una docente stimata ed apprezzata, nonostante la sua nota e temuta esigenza anche durante gli esami. Suo punto di forza, collante nelle dinamiche interpersonali, era una innata capacità di fare squadra, e questo anche nei confronti degli studenti, creando gruppi di studio e ricerca dinamici e non di rado anche solidali. E questo giacché Sara Santoro credeva fermamente nell’insegnamento e nell’importanza della didattica. Era generosa nei suoi corsi ove confluivano sia le ultime novità delle sue ricerche che i principi e le nozioni fondanti del metodo archeologico e delle teorie storico-artistiche, sempre illustrati con chiarezza e lucidità. Soprattutto, offriva agli studenti gli strumenti dell’apprendimento procedendo attraverso l’analisi di nodi concettuali, secondo un metodo che potremmo definire simile al teaching problem-solving skills. Per questo le sue lezioni erano apprezzatissime: tutti riconoscevano in esse competenza e abilità comunicativa, qualità non sempre innate nel mondo della docenza universitaria. La sua apertura nei confronti degli altri e della vita è rintracciabile anche nel suo modo di concepire e di fare archeologia e ricerca. Se il lavoro di squadra era il suo modus operandi, la multidisciplinarità costituiva una costante del suo approccio metodologico. Sapeva coinvolgere nelle sue ricerche esponenti delle più varie discipline: chimici, fisici, architetti, ingegneri, geologi, restauratori etc.; riusciva con intuito e acume a tenerli tutti insieme, attraverso una magistrale opera di coordinamento. I progetti, inoltre, hanno anche una faccia 1 Cfr. infra. 2 Supplente all’Università degli Studi di Parma dal 1992 al 1997, da quest’ultimo anno al 2009 è professore associato di Archeologia e storia dell’arte greca e romana, Archeologia delle province romane e Metodologia della ricerca archeologica; dopo la chiamata ad ordinario all’Università “G. D’Annunzio” di Chieti-Pescara ed il conseguente trasferimento in Abruzzo nello stesso 2009, nell’Ateneo teatino ricopre anche la carica di presidente del corso di studi magistrali in Beni archeologici e storico-artistici. 604 Introduzione burocratica: ad essa non si sottraeva. Alle varie incombenze di segreteria si sottoponeva senza delegare; portava avanti in prima persona ogni aspetto, dalle fasi di studio alla pubblicazione, destreggiandosi con abilità inaspettate anche in un campo talora insidioso come quello dell’amministrazione. Un modello di ricercatrice, docente e manager dei Beni Culturali la cui alta competenza e professionalità non sono solo vivide nei nostri ricordi, ma nelle cifre: la sua presenza e la sua attività attiravano studenti, progetti, fondi. E questo è evidente, ad esempio, nel prima e dopo la sua attività presso le sedi universitarie dove lei ha operato negli anni. Fin qui il nostro ricordo di allievi divenuti negli anni collaboratori e poi colleghi. L’idea di questa Festschrift, in origine assolutamente personale ancor prima che istituzionale, è maturata spontaneamente, senza alcuna dietrologia interessata. Lo affermiamo in queste pagine introduttive perché è stato doloroso constatare come talora sia stata recepita, evidentemente in malafede, come un’indebita intrusione, in quanto concorrenziale, alle numerose attività in omaggio a Sara Santoro organizzate dai colleghi del DiSPuTer dell’Università “G. D’Annunzio” di Chieti-Pescara a novembre del 2017. A tal riguardo vale la pena ricordare come, ancor prima che il programma di tali iniziative fosse ideato, il progetto editoriale di questo volume fosse stato immediatamente reso loro noto e conseguentemente salutato, di ritorno, con vivo entusiasmo. Di questo siamo grati ai colleghi abruzzesi. In definitiva, di fronte ai processi alle intenzioni non si può rispondere che perseverando negli intenti, nelle circostanze contingenti forti anche del sostegno morale e fattuale di molti amici e colleghi, in particolare del Dipartimento di Beni culturali dell’Università degli Studi di Padova, i quali per primi, senza titubanza e finalità recondite, hanno aderito al progetto. La bontà e legittimità dello stesso, in conclusione dei fatti, si evince dalla qualità e quantità delle adesioni che ricompongono compiutamente il quadro dei contatti, della stima e degli interessi scientifici di Sara Santoro, travalicando, e lo ribadiamo con orgoglio, l’originaria iniziativa limitata ad alcuni ex allievi. È evidente che, al di là del ricordo personale supra riportato, in queste brevi pagine introduttive sarebbe inutile, perché certamente incompleto, tracciare un ritratto di Sara Santoro come studiosa: lasciamo giustamente questa dimensione più istituzionale dell’omaggio agli atti delle giornate di studio “Archaeologiae. Una storia al plurale. Studi e ricerche in memoria di Sara Santoro” in corso di edizione da parte dei colleghi della Sessione di Archeologia dell’Università “G. D’Annunzio” di Chieti-Pescara. In questa sede, invece, è possibile 605 Introduzione rendere conto di due scelte: quella del titolo di questo volume e dei temi ivi ripresi. La prima è più facilmente spiegabile: il titolo, Multa per aequora, com’è noto, è tratto dal primo verso del celeberrimo carmen ci di Catullo, dedicato al fratello prematuramente scomparso. Una composizione, di grande intensità ed urgenza drammatica, che, particolarmente cara a Sara Santoro per la musicalità del distico elegiaco, abbiamo ritenuto rappresentare compiutamente la sua dinamica esistenza professionale, portata per natura ad incontrare persone e a solcare metaforicamente molti mari, usque ad Oceanum, per le sue svariate passioni e progettualità. Quanto alla scelta di un progetto di Mélanges in suo onore (una categoria di letteratura accademica meglio nota come Festschrift) siamo consci di quanto la critica moderna oggi possa essere aggressiva in merito, rendendo le case editrici sempre più restie ad investire su tali iniziative; tale considerazione rende maggior merito alle Presses universitaires de Louvain, sempre attente in primis al valore dell’opera, prima che al ricavo che se ne potrebbe trarre. Le ragioni di tale diffidenza o pr esa di di stanza ri spetto a si ffatti pro getti edi toriali, com e è stato anche di recente sottolineato da Valentino Gasparini nella sua bella introduzione al volume in onore di Filippo Coarelli per le sue ottanta primavere3, si riassumono nella varietà tematica e metodologica di questi volumi, caratteristiche che limitano la propensione all’acquisto dell’opera ove gli articoli “interessanti” saranno dispersi in una pletora d’interventi estranei alla ricerca del lettore. Un libro, quindi, utile semmai ad arredare la libreria ove sarà posto e che pochi leggeranno: tra questi spesso (ancorché non sempre) coloro il cui fine s arà c omparire n ella t abula g ratulatoria, s tratagemma c he l e c ase e ditrici spesso impongono per garantirsi almeno un minimo rientro dalla spese. Ma anche tale pratica è stata generosamente rigettata dall’editore commerciale del presente volume, ad ulteriore suo onore. Il nostro è quindi un rischio, e nemmeno tanto calcolato, che ha il suo fondamento nella riconoscenza che dobbiamo a Sara Santoro; ma questo rileva dal personale. Da un punto di vista più ufficiale, in vece, ri teniamo ch e, se un volume, pur con standard tematici e metodologici vari, è organizzato con un principio solido e dichiarato, ancorché nato da una contingenza celebrativa, esso possa assolvere al ruolo di spazio utile alla diffusione della ricerca. A chiarimento dei principi sottesi all’impalcatura editoriale prescelta si pone in primis la volontà di dar conto della straordinaria curiositas dell’honoranda, capace di spaziare, e con competenza, in ambiti disciplinari apparentemente lontani e non sempre in facile dialogo tra loro. Ma a ben vedere, nel panorama dei suoi 3 Gasparini V. (a cura di), Vestigia. Miscellanea di studi storico-religiosi in onore di Filippo Coarelli nel suo 80° anniversario, Stuttgart 2016. 606 Introduzione molti campi di interesse, emerge un fil rouge, in linea per altro con il suo modo di essere. Al di sopra di ogni sua ricerca c’era, infatti, la volontà di conoscere l’uomo: nei suoi studi tutto può essere ricondotto a questo punto fondamentale. E così, anche la cultura materiale viene interessata da questo sguardo particolare che punta a scoprire nelle cose il volto umano. A tal proposito, che cosa fosse l’archeologia e quali fossero le sue finalità è lei stessa ad affermarlo in un suo recente articolo: “L’archeologia è una disciplina di grande fascino e di crescente successo, benché i presupposti teorici e la pratica archeologica siano piuttosto lontani da quel che il pubblico crede comunemente: in questa attività non ci sono cacce al tesoro, né spericolati Indiana Jones, ma grande pazienza, attenzione, meticolosa documentazione e classificazione, confronto, incrocio di innumerevoli dati forniti da indagini spesso appartenenti ad altre scienze, riflessione e infine interpretazione storica. Il risultato di questo lungo lavoro è la ricostruzione integrale delle vicende e della vita quotidiana di una comunità o di un luogo attraverso il tempo, senza escludere nessuna fase o aspetto per motivi estetici o ideologici. L’obiettivo del mio [n.d.e.] lavoro è lo studio dell’uomo e dei suoi comportamenti, delle sue capacità di adattamento all’ambiente naturale, sociale, culturale, dei suoi sforzi per trasformare quell’ambiente in un luogo migliore, adeguato ai suoi bisogni materiali e immateriali e alle sue aspirazioni. In questo senso, l’archeologia è uno dei metodi della ricerca antropologica, quello specializzato nel passato più o meno lontano”4. Dalle tecniche archeometriche alla storia dell’arte, i due estremi del suo lavoro, tutto era tenuto insieme dalle stesse domande, dal medesimo approccio antropologico, sempre rintracciabile nelle sue numerose pubblicazioni scientifiche. E così dall’archeologia si arriva alla vita vera, perché attraverso quest’ottica l’archeologia non è solo studio di ciò che è stato, ma anche interpretazione del presente alla luce del passato. Al centro del suo interesse, in realtà, non vi è solo l’uomo di ieri, ma anche l’uomo di oggi. In un gioco di rimbalzi, l’uomo di ieri torna ad essere vivo perché in dialogo con l’uomo di oggi; al tempo stesso l’uomo contemporaneo riacquista vividezza grazie all’uomo del passato. La conoscenza raggiunta, inoltre, non è mai fine a se stessa, ma ha una sua utilità pratica nel fare luce sul mondo contemporaneo e nel dare consapevolezza del proprio tempo. Questa è la lezione più alta di Sara Santoro che abbiamo cercato di riprodurre in questo libro vario e per certi versi frastagliato, ma del cui interesse 4 Santoro, S. “Archeologia, identità e guerra”, Il Mulino, n. 4/16, 705-714. 607 siamo certi, non fosse altro per l’alto numero di colleghi che vi hanno aderito — costringendoci così, cambiando il progetto editoriale originario, a pubblicare un’opera in due volumi — e questo malgrado i tempi stretti imposti dagli editori5 e gli immotivati tentativi di discredito messi in campo da alcuni. Partendo da queste considerazioni, si sono selezionati quarantacinque contributi, suddivisi in sette capitoli, talora disequilibrati quantitativamente tra loro ma sostanzialmente riproducenti il panorama degli interessi sviluppati negli anni dalla ricerca di Sara Santoro. Cercando di ricomporre un ideale fil rouge, il più possibile diacronico, siamo partiti proprio da un tema, ampio e multiforme, che fu alla base della sua formazione universitaria. Infatti, allieva di Guido Achille Mansuelli, agli esordi e lungo tutta la sua carriera, ella fu spesso confrontata agli studi del vivere romano per urbes vicosque, non tralasciando tuttavia neppure una dimensione più storico-artistica e, successivamente, produttiva della ricerca archeologica. Di qui il titolo di Urbanistica, campagna e popolamento per il primo capitolo dell’opera dove sono presenti contributi relativi al vivere in villa ed applicazioni esemplari del concetto, particolarmente caro all’honoranda, di romanizzazione. Non mancano neppure richiami ad un altro soggetto trasversale alla sua carriera, quello dei cosiddetti insediamenti minori, ambito di ricerca ove la sua sintesi, a partire dagli anni Novanta, fu più innovativa. Non a caso, pur presa dalle ricerche su Pompei e, più di recente, Durazzo, ella da tempo attendeva all’edizione del iii volume sul sito di altura di Castelraimondo (Friuli), i cui scavi si erano conclusi nel 2005. Anche in questo caso, così come per diverse altre ricerche pubblicate nel 2017, il lavoro uscirà postumo, ci auguriamo in questo stesso 20186. Archeologia della produzione, archeometria e commerci. In questo secondo gruppo di articoli predomina l’aspetto produttivo soprattutto, ma non solo, relativo alla classe ceramica, vera pietra miliare della ricerca di Sara Santoro, come ricordano i suoi studi sulla Pantellerian Ware e quelli, degli anni Ottanta, sulle lucerne di Laus Pompeia. Tale dimensione della ricerca che, pur tecnica, non tralasciava mai l’aspetto antropologico del quadro produttivo, era di sovente legata a quella di una forte contestualizzazione territoriale, economica e commerciale, come dimostra anche il recentissimo volume postumo Emptor et mercator. Spazi e rappresentazioni del commercio romano, Bari 2017. Intrinsecamente legata all’archeologia della produzione è la dimensione archeometrica della ricerca, contesto in cui 5 A tal riguardo la nostra gratitudine va al Service d’aide à la publication dell’Institut des civilisations, arts et lettres (INCAL) dell’UCLouvain, ed in particolare a Ghislaine Moucharte senza la cui acribia e forza di lavoro queste pagine non sarebbero state certo editate in così pochi mesi. 6 Cavalieri, M., Prenc, F. (a cura di), Castelraimondo III. In ricordo di Sara Santoro (Antichità Altoadriatiche), Trieste, c.s. 608 Introduzione ella fu una vera pioniera in Italia, in primis a proposito della cosiddetta “ceramica grezza”, oggetto di studi metodologici e applicazione archeometrica già dagli inizi degli anni Novanta. L’interesse, da principio relativo alla diagnostica geofisica e alla tecnica edilizia di contesti pompeiani7, poi ampliato alla pittura decorativa parietale ed alla sua interpretazione iconografica, hanno consentito la creazione di una sessione di Studi pompeiani, la cui natura tematica miscellanea ha come comune denominatore proprio il contesto pompeiano di provenienza. La dimensione dell’analisi ed interpretazione iconografiche di Sara Santoro, che non fu mai semplicemente un divertissement, benché minoritaria nella sua produzione scientifica quarantennale, è confluita nella sessione Cultura iconografica, ove compaiono contributi che, trasversalmente al tempo ed allo spazio, dalle immagini assire, passando per Roma, giungono fino all’alto Medioevo longobardo. Un nutrito gruppo di articoli è confluito nel capitolo Antichità, letteratura ed epigrafia, un approccio alla ricerca archeologica, soprattutto quello dell’esegesi dei testi letterari, che per Sara Santoro fu spesso propedeutico allo studio iconografico e dell’ambiente domestico. A questo ambito disciplinare abbiamo associato quello delle Antiquitates, approccio alla ricerca archeologica non particolarmente sviluppato dalla studiosa, ma considerato sempre con interesse ed apprezzamento proprio perché altro rispetto ad una pratica metodologica più familiare. Il tutto si conclude con una sintetica sessione consacrata alla Archeologia dei Balcani. Il ridotto numero degli articoli, del tutto casuale, non l’avrebbe contrariata: infatti, malgrado una sua copiosa produzione su Epidamnos-Dyrrachium e, negli ultimi anni, sul vicus di Bliesbruck-Reinheim (ubicato sul moderno confine franco-tedesco), Sara Santoro non si considerò mai propriamente una studiosa di province romane, quanto «un’archeologa di Roma con uno spiccato interesse a comprendere come i non-Romani fossero condotti a divenire Romani»8. Da ultimo, ancorché apra la serie dei temi trattati, l’opera propone un ampio capitolo introduttivo che vuole essere una porta d’accesso, un punto di vista privilegiato, alla ricerca multitasking di Sara Santoro, capace di operare contemporaneamente su contesti ed orizzonti geografici e comunicativi diversi, pur se sempre connessi. Di qui le analisi ed i ricordi di alcuni colleghi ed allievi i cui contributi sono stati scelti perché, in maniera complementare, permettono di ripercorrere gli spazi, le modalità e la natura del suo operare. Essi, infatti, hanno puntato la loro attenzione su Valorizzazione, comunicazione e proget7 S. Santoro (a cura di), Insula del Centenario (IX, 8). I. Indagini diagnostiche geofisiche e analisi archeometriche (Studi e scavi. Nuova serie, 16), Bologna 2007. 8 Matera, 16 marzo 2016, XXII Colloquio AISCOM, conversazione privata tra Sara Santoro e Marco Cavalieri: la frase è ispirata alle tesi dello storico Patrick Le Roux particolarmente apprezzate dalla studiosa cui è indirizzato il presente omaggio. 609 tualità, temi che rendono tangibile anche il taglio più comunicativo e l’approccio manageriale di un’attività scientifica protrattasi per decenni. Il volume, infine, non ha conclusioni. Non sarebbe stato opportuno averne, sia per la natura stessa della raccolta (la quale, per lo stesso motivo, non ha indici finali), sia per il fatto che la ricerca di Sara Santoro ed il suo magistero non si sono certo conclusi con la sua scomparsa. Essi continuano non solo nell’opera dei sui allievi e colleghi, ma in una maniera d’essere che trova concretezza in una frase che era solita proferire, soprattutto quando un progetto o un’attività non andavano come aveva sperato, un’espressione che la dice lunga sulla sua personalità: «Tieni il punto e vai avanti, qualsiasi cosa accada». Louvain-la-Neuve, febbraio 2018 Marco Cavalieri Cristina Boschetti Emiliana Mastrobattista Gli editori, sua sponte, operando in deroga alle prescrizioni delle P.U.L., desiderano esprimere il loro particolare ringraziamento per il sostegno morale e materiale ricevuto alla pubblicazione della presente Festschrift ai colleghi: Robert Donceel, già Université catholique de Louvain Ugo Fantasia, Università degli Studi di Parma Irene Favaretto, già Università degli Studi di Padova Jacopo Ortalli, già Università degli Studi di Ferrara Daniela Scagliarini Corlaita, già Alma Mater Studiorum – Università di Bologna Gemma Sena Chiesa, già Università degli Studi di Milano Pauline Voûte-Donceel, già Université catholique de Louvain 610 –V– CULTURA ICONOGRAFICA A banchetto con Dioniso. Il programma iconografico dei mosaici della “Villa dei Mosaici di Spello”* Marcello Barbanera Sapienza – Università di Roma Abstract Excavations conducted outside the walls of Spello from 2005 to 2009 have brought to light a peri-urban villa dating back to between the 2nd and 3rd centuries. The villa was probably located along the main road that crossed the city. The rooms with mosaic decoration overlook a partially preserved peristyle. The allegories of the seasons are depicted in the main room according to an established iconography that begins in the Trajanic age. Between one season and the next are four large spaces where satyrs are depicted. At the centre is a pseudo-emblem depicting a servant pouring wine from an amphora into a kantharos held by a cup-bearer. The wine comes out of the kantharos and ends in a crater resting on the ground. The presence of the seasons, of figures of the Dionysian world and the abundant wine, this latter recalled in the amphorae decorated floor, allows us to reconstruct a coherent figurative program and to advance hypotheses about the owner of the villa, whose activity was probably linked to wine trade or production. Nel luglio 2005, in occasione di lavori per la costruzione di un parcheggio nell’area denominata S. Anna, fuori le mura di Spello, presso Porta Conso- * L’occasione di studiare i mosaici mi è stata data dal Comune di Spello che mi ha incaricato del coordinamento scientifico del progetto di musealizzazione della villa da novembre 2016 ad aprile 2017. 613 Marcello Barbanera lare, sono stati scoperti alcuni ambienti pertinenti a una villa suburbana1. In alcuni di essi sono ancora conservati, in parte o del tutto, pavimenti a mosaico e tracce di decorazione parietale sui lacerti dei muri perimetrali2 (fig. 1). La villa era collocata probabilmente sul principale asse viario che attraversava la città3, costituito dal percorso urbano di una deviazione della via Flaminia verso Assisi, a poche decine di metri dalla città stessa4. I materiali rinvenuti — ancora inediti — non offrono testimonianze dirette che possano servire a datare la villa né a identificarne il proprietario5. Tuttavia la decorazione della pavimentazione può offrirci indizi per avanzare alcune ipotesi in tal senso. A distanza di molti anni dallo scavo e dal restauro dei mosaici manca ancora un’ipotesi di interpretazione: nei contributi finora pubblicati ci si è limitati a una superficiale identificazione di alcuni soggetti presenti nella decorazione dei mosaici senza stabilire un nesso tra di loro, peraltro incorrendo in numerose incongruenze iconografiche come argomenterò di seguito6. In particolare nessuno ha tentato di analizzare la decorazione musiva come un programma iconografico coerente, la cui interpretazione, come osservavo, rappresenta la testimonianza più importante per avanzare ipotesi sul contesto della villa, in assenza di altri dati. Gli ambienti con pavimenti a mosaico si affacciano su un peristilio di cui resta una porzione ampia sul lato occidentale, che consente di ricostruire la lunghezza intera di m 257. Il pavimento è realizzato con una semplice deco1 Gli scavi, condotti sotto la direzione della Soprintendenza archeologica dell’Umbria dal 2005 al 2009, hanno riportato alla luce sette stanze. L’area scavata è collocata tra via di Sant’Anna a Nord, dove sorgono le mura romane e medievali, via Martin Luther King a Ovest, via Paolina Schicchi Fagotti a Sud e un vigneto a Est; alcuni saggi recenti hanno consentito di individuare un’ulteriore estensione dell’edificio a Nord, verso le mura cittadine, attualmente in corso di scavo (Bonacci, Guiducci 2009, 134). L’edificio era conosciuto come villa di S. Anna, dal nome della zona in cui è stata rinvenuta. Per le prime notizie sulla villa e sulla decorazione musiva cfr. Salvatore 2008. 2 Bonacci, Guiducci 2009; 2012; 2016: si tratta dello stesso testo ripubblicato senza differenze sostanziali. 3 Corrispondente oggi a via Torre di Belvedere, Via Garibaldi, via Cavour: Baiolini 2002; in generale sulla via Flaminia cfr. Messineo, Carbonara 1993. 4 Sulla topografia di Spello cfr. Manconi, Camerieri, Cruciani 1991; Manconi 1997; Baiolini 2002; Bonacci, Guiducci 2012. 5 I materiali sono conservati in parte nella cittadina stessa, in parte nei depositi della Soprintendenza: nelle succinte pubblicazioni esistenti non vengono menzionate né iscrizioni, né monete, né tipologie ceramiche utili alla datazione. 6 Salvatore 2008: la conoscenza parziale dell’edificio fa incorrere l’autrice in affermazioni superate, in particolare riguardo la datazione della villa tra il iii e il iv secolo. Incomprensibili invece numerose affermazioni in Bonacci, Guiducci 2009, 2012, 2016, nel cui merito entrerò di seguito; per completezza bibliografica cfr. anche Manca 2012, che si basa sulle precedenti pubblicazioni senza nulla aggiungere. 7 Manca 2012. 614 Il programma iconografico dei mosaici della “Villa dei Mosaici di Spello” razione a tessere monocrome, bordata da una stretta fascia rossa, con roselline all’interno. Non si sono trovate tracce evidenti del colonnato che doveva correre lungo il perimetro del peristilio. Su quel lato la costruzione si arresta a causa degli interventi urbanistici moderni. Sull’asse del peristilio, verso Ovest, dovevano essere dislocati gli ambienti compresi tra l’ingresso e quest’ultimo, secondo una tipologia che probabilmente avrà previsto fauces, atrio, tablino e stanze attigue. Fig. 1. Pianta della Villa dei mosaici di Spello (cortesia Studio A. Barabani). Procedendo dall’atrio al peristilio, sulla destra di quest’ultimo sono disposti tre ambienti identificati come cubicoli o stanze di servizio8. Uno di essi, di dimensioni contenute (m 3 x 2,80), ha una pavimentazione a mosaico (m 2,40 x 2,20) con una composizione di file scalate di “croci di quattro squadre” incastrate sulla diagonale in colori contrastanti, con quadrati di risulta e con effetto di svastiche di quattro squadre su scacchiera (fig. 2); è una decorazione semplice ed elegante, giocata sul contrasto cromatico rosso-bianco che trova un 8 Bonacci, Guiducci 2016, 269-270, tav. 1. 615 Marcello Barbanera confronto con un mosaico di Ostia datato al ii secolo9. Le pareti erano ricoperte da pitture murali, conservate per un’altezza di cm 40 circa. Sono ancora visibili le campiture in rosso, giallo e blu, su cui, entro sottili partizioni geometriche, erano dipinti motivi decorativi floreali e appartenenti al mondo mitologico marino: questi ultimi (di solito ippocampi, leoni, tigri, tori e centauri marini, tritoni, nereidi ecc.) sono soggetti prediletti per le stanze più diverse: sale da pranzo e ambienti destinati al sonno e al riposo; il corteo marino si intreccia spesso con quello dionisiaco10. Fig. 2. Mosaico a ‘croci di quattro squadre’ incastrate (Foto A. Celani). La stanza comunicava con una attigua di maggiori dimensioni (m 5,70 x 5,24). Qui il pavimento a mosaico (m 4,05 x 4,53), conservato per gran parte, ha una decorazione costituita sul lato nord-ovest da cerchi formati dall’intersecazione di una tenia rossa e nera (fig. 3). All’interno del cerchio vi è un fiorone unitario di quattro elementi non contigui, a hederae con la punta rivolta al centro. Una fascia rossa, decorata con segmenti bianchi e frecce angolari, forma la cornice esterna sui quattro lati. Al centro del mosaico, il motivo principale è collocato entro un ottagono regolare a lati concavi. Quest’ultimo è circondato da figure geometriche che, giustapposte, danno l’effetto della tridimensionalità; contengono decorazioni a treccia a due capi, nodo di Salomone e un fiorone con otto elementi non contigui: quattro petali affusolati e quattro loti trifidi. 9 Becatti 1961, n. 305, tav. XXXVI. Le tessere sono di colore bianco, rosso (pietra del Subasio) e nero. 10 Kondoleon 1995, 188-190. 616 Il programma iconografico dei mosaici della “Villa dei Mosaici di Spello” All’interno dell’ottagono è raffigurato un volto, attorno al quale sono disposti due cerchi. Dal primo, quasi tangente, si dipartono elementi simili al loto trifido, alternati con peducci ricurvi; il secondo, invece, è circondato da loti trifidi. L’immagine è stata dapprima interpretata come un sole11 e, in un secondo momento, come un gorgoneion, senza una ragione che giustifichi il cambiamento dell’ipotesi12. In effetti i volti di Medusa sono frequenti nei mosaici e un repertorio di questa particolare iconografia è raccolto nello studio di Carolyn Hessembruch McKeon13. Dagli esempi portati da Hessembruch McKeon, il gorgoneion è sovente raffigurato al centro della decorazione pavimentale, per lo più associato a motivi geometrici e non naturalistici. Anche qualora non si ritenesse determinante questa associazione, nessuno degli esempi conosciuti — perfino quelli eseguiti in maniera più scadente — può essere richiamato nel nostro caso: i serpentelli che incorniciano il volto, annodati sotto il mento, sono sempre riconoscibili. Hessembruch McKeon nota che talvolta, in alcuni mosaici le teste di Medusa sono giustapposte ad altri motivi iconografici, determinando un’alterazione dell’immagine primitiva e dando vita a una nuova iconografia dai caratteri ibridi: esse vengono combinate con motivi marini, maschere teatrali e anche con immagini solari14. Tra gli esempi della combinazione tra il volto di Medusa schematizzato e il disco solare portati da Hessembruch McKeon15, i serpenti che incorniciano il volto sono sempre ben evidenti e anche quando sono ridotti a raggi16, non sono minimante confrontabili con il volto di Spello. Sebbene quest’ultimo presenti qualche ambiguità, l’associazione a un paesaggio e l’assenza di serpenti sono indizi che fanno propendere per una interpretazione come un sole radiante, che si deve immaginare irraggiare una vegetazione palustre, costituita da canne con infiorescenze. Tra di esse sono disposti alcuni uccelli: si riconoscono l’upupa dal becco lungo e con il ciuffo di piume sulla testa; l’anitra. Altri sono di più difficile identificazione: uno di essi con coda lunga potrebbe essere un tordo, accanto al quale si distingue una lucertola; alla sua sinistra uno scricciolo o un fringuello. Il sole, l’ambiente palustre e l’abbondanza di uccelli richiamano la fertilità del territorio; per quanto riguarda la lucertola, essa potrebbe essere un semplice elemento realistico allusivo alla calura dell’estate, ma va ricordato che nel Cronografo 11 Bonacci, Guiducci 2009, 143, fig. 231. 12 Bonacci, Guiducci 2016, 267: non viene presentato nessun confronto con il repertorio presentato nello studio di Hessembruch McKeon 1983, studio che peraltro è sconosciuto alle autrici, dato che non viene citato. 13 Hessembruch McKeon 1983. 14 Ibid., in part. 67-69. 15 Ead. 1983: mosaico di Fishbourne (n. 109), Bignor, stanza 33 (n. 112). 16 Ead. 1983: Albintimilium (n. 92), Treviri, Weberbacherstrasse (n. 97), Bignor, stanza 56 (n. 113), Bramdean (n. 114). 617 Marcello Barbanera questo rettile è associato al mese di settembre e serve come un simbolo apotropaico per il nuovo vino, per esempio in un mosaico con putti vendemmianti proveniente da Dougga17. Fig. 3. Mosaico con motivo del sole radiante e volatili in ambiente acquitrinoso (Foto A. Celani). Fig. 4. Mosaico con motivo a croce di anfore (da Bonacci, Guiducci 2009). 17 618 Yacoub 1993, 116, inv. 3331, fig. 124. Il programma iconografico dei mosaici della “Villa dei Mosaici di Spello” A questo punto ci si sposta verso l’area centrale della villa. Sul lato sud è collocata una stanza rettangolare, di notevoli dimensioni (m 6,04 x 4,51), che comunicava a Ovest con il portico colonnato (peristilio), a Est con la stanza del sole radiante e a Nord con la sala principale identificata come triclinio (fig. 4). La caratteristica particolare dell’ambiente è la decorazione del mosaico (m 5,30 x 3,88): la cornice esterna è resa con il motivo a spina continua che forma semicerchi rossi su base bianca; all’interno vi è un soggetto peculiare a croce di anfore, i cui orli formano un quadrato a lati concavi. Tra le anfore sono disposte figure geometriche create da una doppia pelta. Nella prima notizia data su questo pavimento, Mariarosaria Salvatore affermava di non conoscere “confronti puntuali di questo motivo”, richiamava invece confronti più generici con pavimenti da Ostia, dall’Aventino e da Motta San Giovanni in Calabria, databili in età severiana18. Le pubblicazioni successive ripetono pedissequamente quanto riportato da Salvatore, considerando il motivo un unicum e incorrendo nella stessa ingenua affermazione che esso faccia riferimento all’anfora cosiddetta di Spello19, dimostrando di non conoscere questa tipologia cui sono stati dedicati numerosi studi20. In realtà, questo motivo, già censito in Décor I21, era stato incluso da Marion E. Blake nel suo studio sui mosaici tardoimperiali provenienti da Roma e dal Suburbio22. Blake vide il mosaico nella Sala delle Nozze Aldobrandine in Vaticano dove tutt’ora si trova23, ma scambiò l’anfora per una daga, interpretando il collo del recipiente come impugnatura: “groups of four broad daggers arranged with their hilts bounding a curvilinear square and their points touching”24. Blake inoltre considerava il mosaico inedito e non disponendo all’epoca di informazioni sulla provenienza propo18 Salvatore 2008, 38: i mosaici citati provengono dalla domus Fulminata di Ostia, databili alla prima metà del iii secolo, dalla domus Pactumeiorum sull’Aventino e dalla villa in località San Lazzaro di Motta San Giovanni, sui quali rispettivamente cfr. Becatti 1961, 108, n. 204, tav. CXIII; Grandi, Olevano 1995, 361-374; Andronico 1997, 401-412. 19 Mi limito a citare la pubblicazione più recente: Bonacci, Guiducci 2016, 264: “Il tappeto musivo con il motivo dell’anfora stilizzata costituisce un unicum nel vastissimo repertorio dei mosaici pavimentali geometrici; la decorazione sembrerebbe legata alla produzione locale di anfore vinarie, la cosiddetta “anfora di Spello”, di cui sono stati rinvenuti scarichi di fornace in località Portonaccio…” 20 Tchernia 1986, 253-254; Manconi 1989; Panella 1989; Patterson, Lapadula 1997; di questa bibliografia basilare non si fa cenno in Bonacci, Guiducci 2016. 21 N. 159; ringrazio Claudia Angelelli che in sede di discussione nell’AISCOM 2017 a Narni ha attirato la mia attenzione su questo pavimento, rinviandomi al suo studio sulla produzione musiva di età severiana a Roma: Angelelli 2016, in part. 627-630. 22 Blake 1940, 86-87, tav. 34c. 23 Sono grato a Giandomenico Spinola per avermi fornito informazioni e fotografie del mosaico. 24 Blake 1940, 87. 619 Marcello Barbanera neva una datazione nei primi anni del iii secolo. Nel suo studio dei mosaici antichi presenti nelle raccolte vaticane, Klaus E. Werner riproduce un disegno con il pavimento musivo cui fa riferimento Blake25. Nel disegno si osserva che il mosaico con il motivo delle anfore era stato giustapposto a un pavimento decorato con viticci che emergono da un vaso, disposto a strisce. Nella condizione originaria, il vaso era disposto sulla parte più estrema del bordo destro e la maggior parte della rappresentazione era occupata dal motivo geometrico. Quest’ultimo, però, nella riorganizzazione fu completamente rimosso, il vaso fu collocato al centro e i viticci furono composti simmetricamente26. Il mosaico con il motivo del vaso da cui escono i viticci proviene dall’ambiente di una villa scavata da Luigi Biondi a partire dal 1816 nella tenuta di Tor Marancia appartenente a Marianna di Savoia, duchessa di Chablais27. I risultati degli scavi furono pubblicati da Biondi ben venti anni dopo28, quando la documentazione redatta all’epoca era diventata ormai inutilizzabile; perciò egli si basò su due articoli di Giuseppe Antonio Guattani, scritti rispettivamente nel 1817 e 1819, senza che quest’ultimo avesse potuto assistere personalmente agli scavi, ma basandosi su informatori come Gregorio Castellani29. Secondo entrambe le testimonianze, nell’area furono ritrovati quattro complessi edilizi, denominati villa di Munatia Procula, villa di Numisia Procula, un complesso termale autonomo e un tempio cosiddetto di Bacco30. La villa di Munatia Procula deve la denominazione a iscrizioni trovate sulle fistule plumbee e proprio da questa proviene il pavimento con il vaso e i tralci vitinei31. Biondi datò la villa ad epoca adrianea sulla base dei bolli laterizi, sebbene nella sua descrizione menzioni anche altri ritrovamenti che apparterrebbero alla fase iniziale del periodo dei Severi32. Altri elementi di datazione provengono dal pavimento con al centro un gruppo con un Satiro e una Menade inquadrati da un motivo a viticcio concavo e figure angolari di satiri entro un tralcio ovale. Gruppi di questo genere si trovano già in età adrianea ad Ostia nel Caseggiato di Bacco e Arianna e nella Domus accanto al Serapeo, in seguito, alla fine del secolo, anche nella Schola di Traiano33. Mentre 25 Werner 1998, 195 e 199; il disegno è conservato nella Biblioteca dell’Istituto di Archeologia e Storia dell’arte di Palazzo Venezia: BIASA Roma XI.59.2 foglio 68. 26 Werner 1998, 199. 27 Ibid., 91. 28 Biondi 1843; cfr. Werner 1998, nota 2. 29 Werner 1998, 191. 30 Ibid. 31 Ibid., p. 192. 32 Biondi 1843, 30; cfr. anche Buonocore 1982, 367, n. 4: iscrizione in cui si menziona il console del 165. 33 Becatti 1961, 153 s., n. 292, tav. 75-78 (Caseggiato di Bacco e Arianna); 149, n. 287, tav. 79 (domus accanto al Serapeo); 200 s., n. 379, tav. 88-89 (schola del Traiano). 620 Il programma iconografico dei mosaici della “Villa dei Mosaici di Spello” il motivo del viticcio a ‘nimbo’ compare solo dalla fine del ii secolo34. Werner propende per datare il pavimento con decorazione a viticci nel passagio tra il ii e il iii secolo35, ipotesi che rafforza anche sulla base dell’esame della decorazione parietale che tende a collocare soprattutto in tarda età antonina, senza escludere una datazione più tarda nei primi anni del iii secolo36. Werner non si sofferma sul motivo a croci di anfore per il quale all’epoca era disponibile un confronto con una decorazione musiva proveniente dal triclinio della domus di Gaudentius sul Celio, il cui scavo infatti ha portato alla luce numerosi pavimenti che per lo più sono riferibili a una fase precedente dell’abitazione, edificata nella tarda età antonina37. Il motivo qui però presenta una variante rispetto a quello spellano: i vasi sono panciuti, hanno collo cilindrico e orlo svasato e si intersecano con rettangoli, uno schema decorativo comune in età severiana con numerose varianti38. Una composizione a croce di vasi ‘panciuti’ è attestata già durante la prima metà del ii secolo a Ostia nell’insula delle Ierodule39 e nella domus Fulminata40. A Roma si trova in un edificio scavato sotto il Palazzo della Cancelleria e con una leggera variante nella domus Pactumeiorum41; nel suburbio ritroviamo lo stesso motivo nella villa di Capo di Bove42 e dei Gordiani43, tutti contesti databili ad età severiana. Nel caso di Spello si può ipotizzare che la decorazione abbia avuto un significato specifico riferito alla produzione di vino, anche tenendo conto della vicinanza del triclinio la cui decorazione è incentrata sul mondo dionisiaco, la vendemmia e il vino: forse si trattava di un oecus. Sulle pareti si notano scarse tracce di decorazione dipinta gialla e rossa. Accanto è collocata una stanza (m 6,60 x 4,30) con due accessi: uno a Ovest, comunicante con la Stanza delle anfore e uno a Est che conduceva a un ambiente forse di servizio (fig. 5). Il mosaico (m 4,77 x 3,24) ha l’aspetto di un tappeto poggiato sulla più ampia superficie dell’ambiente: la decorazione è geometrica con una cornice a bipelta continua, che racchiude losanghe a lati concavi alternati a quadrati, entrambi in rosso su 34 Ibid., 197, n. 377, tav. 83; per altri due confronti da Arco Muto cfr. Morricone Matini, Scrinari Santa Maria 1975, 59 sg., 66 sg., n. 53-55, tav. 13-14, 18-21; cfr. Werner 1998, 198. 35 Werner 1998, 200. 36 Ibid., 203. 37 Spinola 1992. 38 Angelelli 2016, 628; sui mosaici della domus di Gaudentius cfr. Carignani, Spinola 1995, 403-414 e 407-408; sulle varianti cfr. Morricone 1975, 76-77, n. 59. 39 Pellegrino 2012, 202, fig. 1. 40 Becatti 1961, n. 204, tav. CXIII; cfr. Décor I, 159b. 41 Grandi 2009, 183-186, in part. 184, 186, fig. 7; Grandi, Olevano 1995, 361-374, in part. 365, fig. 10. 42 Mazzotta 2006, 380, fig. 7. 43 Di Fazio, Morelli 2015, 144, fig. 6, 9. 621 Marcello Barbanera bianco44; tutt’intorno e al centro sono disposti triangoli isosceli. L’unione delle cornici forma un motivo a rombi tridimensionali. Entro la decorazione geometrica sono disposti sei ottagoni che racchiudono uccelli45: quelli associati con la vegetazione a cespuglio sono probabilmente pernici caratterizzate dal piumaggio cangiante, corpo tozzo e coda corta; le pernici non volano alto, sono spesso associate alla vegetazione bassa, in ambiente acquitrinoso e richiamano la caccia e la buona tavola. Un altro uccello è posto su un albero (ulivo?), di cui qui è rappresentato solo il ramo, mentre si nutre dei frutti. Sulle pareti della stanza, conservate per un’altezza di 45 cm circa, sono visibili resti della partizione geometrica a fasce rosse e riquadri entro i quali forse vi erano motivi decorativi. Fig. 5. Mosaico a decorazione geometrica con uccelli entro ottagoni (Foto A. Celani). A Nord dell’ambiente principale sono conservati i resti di un ambiente parzialmente scavato (m 5,34 x 3,40) decorato da un mosaico con motivi prevalentemente geometrici (m 4,50 x 3,13) (fig. 6). La cornice esterna è formata da pelte continue. All’interno, entro due cornici lineari rosso-nere sono disposti in fila rombi a lati curvilinei. Nella stanza attigua (scavata solo in parte) sono visibili i resti di un mosaico di cui rimane soltanto la cornice esterna con una fascia a rettangoli: l’assenza di materiali non consente di definirne la funzione. Nell’angolo nord-ovest, confinante con l’area del peristilio, si scorgono resti di una pavimentazione con una cornice decorata a squame affrontate dritte e sdraiate, formanti il motivo a bipenne. Nonostante l’esiguità del pavimento, si tratta di un indizio significativo per la datazione, poiché i confronti più vicini 44 45 622 Décor I, tav. 48; Blake 1940, tav. 11.2. La decorazione con uccelli è praticamente ignorata in Bonacci, Guiducci 2016, 267. Il programma iconografico dei mosaici della “Villa dei Mosaici di Spello” sono il pavimento proveniente dalla tomba di Attico, conservato nell’Antiquarium Comunale46, datato da Blake ai primi anni del iii secolo47 e, forse ancora più puntualmente, la variazione che troviamo in un mosaico da Acholla in Tunisia, datato tra ii e iii secolo48. Fig. 6. Mosaico a pelte continue (Foto A. Celani). Fig. 7. Mosaico del triclinio: il programma figurativo è incentrato sull’associazione tra le stagioni e figure del mondo dionisiaco (Foto A. Celani). 46 47 48 Gatti 1926, 237-238; Décor, n. 220.a. Blake 1940, 124, tav. 11, fig. 2. Décor, n. 220.b. 623 Marcello Barbanera Sul lato orientale sono disposti altri ambienti che sembrano appartenere a una fase anteriore della villa rispetto alle stanze decorate con mosaici, come si può desumere dal livello dei pavimenti, più bassi di 60 cm rispetto agli altri49. Alcuni di queste stanze erano riscaldate, come si può osservare dalla presenza di suspensurae50. Sulla parete ovest della stanza sono conservati frammenti del rivestimento in stucco bianco a rilievo, probabilmente di età augustea e perciò appartenenti alla prima fase dell’edificio. Durante la costruzione della villa di età imperiale gli ambienti precedenti possono essere stati riadattati attribuendo loro nuove funzioni. Èevidente che la stanza più importante per dimensioni (m 13,40 x 10,50) e decorazione è quella cui si accede dal peristilio, sull’asse centrale est-ovest (fig. 7). È stato ragionevolmente proposto di identificarlo con il triclinium51. La superficie a mosaico occupa una spazio di m 10,18 x 10.24. Il complesso figurato è inquadrato su tre lati (ovest, sud e nord) da una cornice in cui si alternano il motivo del meandro continuo con quadrati; al loro interno sono disposte decorazioni a fioroni bicolori rossi e neri. Sul lato est è inserita una fascia bicolore rossa e bianca a quattro foglie e quadrato concavo tra il bordo a doppia treccia del mosaico figurato e la cornice esterna a doppio meandro. La perdita della superficie sul lato ovest non consente di affermare che vi fosse una fascia analoga, anche se ipoteticamente vi sarebbe spazio sufficiente per il suo inserimento. All’interno dei quadrati della cornice esterna troviamo le seguenti decorazioni: un fiorone unitario di quattro elementi non contigui a petali biconvessi che si dipartono dal centro, con rosetta entro due cerchi; un fiorone composito di otto elementi non contigui, con quattro petali a foglia e quattro biconvessi a punta che si dipartono dal centro con rosetta entro due cerchi; un rombo a lati concavi; un fiorone a tre petali non contigui affusolati, un giglio stilizzato e una losanga a lati concavi; tirsi incrociati; doppio cerchio entro rombo con lati concavi, terminanti con un tondo pieno; (lato sud) si ripetono i motivi del lato est, cui si aggiunge un fiorone a rettangolo concavo con punte terminanti a foglie d’edera e spine concave ai lati; (lato nord) fiorone composito di quattro gigli con volute e centro a cerchio; fiorone a tre petali affusolati contigui entro tondo; sul lato ovest il mosaico è lacunoso. All’interno, in corrispondenza degli angoli, sono raffigurate le allegorie delle stagioni entro ottagoni concavi, secondo la ben nota iconografia che si 49 Sulla base dei dati fin qui pubblicati sembra che la villa abbia avuto due fasi di vita, una di epoca augustea e una coeva ai mosaici: Bonacci, Guiducci 2009, 272. 50 Bonacci, Guiducci 2016, 269. 51 Ibid., 265; Bonacci, Guiducci 2009, 136-140; sulla distribuzione degli spazi cfr. Parrish 1984, 69-76. 624 Il programma iconografico dei mosaici della “Villa dei Mosaici di Spello” afferma almeno dall’età traianea in poi e si diffonde nel periodo successivo52: alcuni giovani in nudità, coperti da un mantello svolazzante, reggono gli attributi caratterizzanti la singola stagione. Verso i lati esterni ciascuna di queste personificazioni è compresa entro cinque spazi composti da un’ellisse alternata a una campana. Questi, separati da una treccia a due capi, si incastrano entro i lati concavi dell’ottagono con la stagione: al loro interno sono collocate figure di animali. Tra una stagione e l’altra vi sono quattro grandi spazi quadrilobati, tre dei quali contengono figure maschili in nudità, mentre in quello rivolto verso il peristilio rimane una grande testa di felino. Al centro, sempre entro uno spazio ottagonale concavo, è collocata una scena rilevante, orientata verso i commensali (fig. 8): sulla sinistra un servitore versa vino da un’anfora appoggiata sulle spalle in un kantharos tenuto da un altro servo che regge a sinistra un piatto con cibo. Il vino fuoriesce dal kantharos e finisce in un grande cratere a campana poggiato a terra. La scena, a sua volta è circondata da quattro ellissi, sempre bordati da treccia a due capi, che si incastrano tra gli spazi quadrilobati con le figure in nudità e l’emblema centrale: in quello conservato è visibile un felino rampante. Sul lato ovest c’era verosimilmente un altro ottagono a lati concavi di cui ne rimangono tre, uno tangente allo spazio quadrilobato con la testa di felino e gli altri due rispettivamente alle ellissi con il cinghiale in fuga e la pantera rampante. Nell’angolo sud-ovest è incastrato uno spazio quadrilobato come quelli disposti attorno all’emblema con la mescita, in cui è visibile una figura con pedum e nebride, facilmente identificabile come satiro (fig. 9). Fig. 8. Mosaico del triclinio: pseudo-emblema con scena di mescita (Foto A. Celani). 52 L’introduzione di figure maschili per le stagioni sembra essere una novità dell’era di Traiano come si vede sui rilievi dell’arco di Benevento e subito dopo si diffonde nei mosaici e in altre produzioni: Kondoleon 1995, 96; Parrish 1984, 24. 625 Marcello Barbanera Dobbiamo ipotizzare che un altro fosse disposto specularmente sul lato opposto. Tra i due elementi quadrilobati c’è lo spazio per inserire un ottagono di dimensioni analoghe agli altri e quattro ellissi tangenti la fascia di bordo. Fig. 9. Figura frammentaria di satiro con ne- Fig. 10. Lato ovest del mosaico triclibride e pedum (Foto A. Celani). niare: in basso, entro l’ottagono a lati concavi, si nota la figura frammentaria dell’autunno (Foto A. Celani). A una visione d’insieme sembra abbastanza chiaro che tutta la composizione è costruita con uno schema a blocchi: le stagioni agli angoli, i motivi animali a commento di esse e — procedendo verso il centro — i quattro spazi quadrilobati, le quattro ellissi, lo pseudo-emblema centrale e il blocco occidentale con l’altro ottagono e i due elementi quadrilobati. Questa disposizione consente di stabilire un collegamento tra le singole partiture e una relazione più specifica tra le figure che evidentemente appartengono a un repertorio decorativo consueto — quello delle stagioni associate al mondo dionisiaco — qui variato secondo un uso peculiare, adattato al contesto specifico53. 53 Sulla diffusione del tema dionisiaco negli spazi triclinari cfr. Parrish 1984, 69-76; Kondoleon 1995, in part. cap. 6-7. 626 Il programma iconografico dei mosaici della “Villa dei Mosaici di Spello” Cominciamo con l’esaminare il gruppo delle figure nell’angolo a sud-est. Al centro dell’ottagono vi è la personificazione della primavera54 (fig. 7), come si riconosce dagli attributi del giovane: indossa una clamide che gli scende dalle spalle; con la sinistra regge un cesto di fiori, tra cui emergono le rose rese in rosso; dalla destra pende una ghirlanda di rose; di rose e altri fiori è intrecciata la corona che cinge la testa del giovane. Coerentemente con le caratteristiche della stagione, tra la personificazione della primavera e il bordo esterno sono raffigurati animali che normalmente hanno una relazione con essa: un capriolo in corsa55, un’anatra in ambiente palustre e una tigre marina56. Entro le campane sono raffigurate due fontanelle a tazza biansata: da una zampilla acqua, sul bordo dell’altra è appollaiato un uccello, probabilmente una colomba. Seguendo la disposizione antioraria, sull’angolo opposto si trova la personificazione dell’estate (fig. 7): qui il giovane, sempre vestito con una clamide, brandisce con la destra un falcetto, mentre con la sinistra regge un fascio di spighe57; la corona che reca in testa è in questo caso fatta di spighe. Dei motivi che erano posti intorno rimangono soltanto le due fontanelle entro le campane, identiche alle precedenti e lo stesso capriolo in corsa58. Segue l’autunno, parzialmente conservato59 (fig. 10): sono rimaste le gambe e il mantello che doveva essere lungo e pesante (paenula), dato che i lembi arrivano quasi fino ai piedi. I numerosi confronti che abbiamo consentono di ipotizzare che portasse in testa una corona di pampini e recava un cesto con l’uva appena recisa, oppure foglie di vite60. Degli animali associati rimane una lepre61 in corsa e la parte anteriore di un cinghiale in fuga. L’inverno invece si distingue chiaramente perché indossa la paenula (fig. 11): ben allacciata sul petto, copre fermamente le spalle ed è provvista di cappuccio. Il giovane afferra con la sinistra una canna palustre mentre con la 54 Sull’iconografia della primavera cfr. Parrish 1984, 34-37. 55 L’identificazione come gazzella (Bonacci, Guiducci 2009, 139, fig. 217) non è verosimile: sebbene l’animale assomigli a una gazzella, non avrebbe senso inserire un animale africano in un contesto in cui non ci sono altri animali esotici che non appartengano alla sfera mitica come le tigri o le pantere del seguito dionisiaco. 56 Errata è l’identificazione di questa tipica figura marina con un grifone: Bonacci, Guiducci 2009, 136; le autrici si correggono in Bonacci, Guiducci 2016, 265: “un animale acquatico con corpo serpentiforme”. 57 Un confronto vicino è quello del giovanetto nella domus del tablinum di Pesaro: Marconi 1933, 445-454; cfr. tra gli altri il mosaico della domus delle bestie ferite di Aquileia: Bertacchi 1963, 34-35, fig. 10-11; Ead. 1980, 167-168, fig. 139-140. 58 In Bonacci, Guiducci 2012, 23; 2016, 265, l’animale da gazzella è ora diventato un cervo. 59 Sull’iconografia dell’autunno cfr. Parrish 1984, 38-40. 60 Parrish 1984, cat. 23, 38. 61 L’associazione della lepre alla caccia risale ovviamente all’età greca arcaica: ad es. Sen., Cyn. 6, 13; 8,1; cfr. Parrish 1984, 33. 627 Marcello Barbanera destra regge una zappa da sarchiatura a quattro punte, appoggiata sulla spalla destra62. Delle figure associate rimane soltanto un cervo. Fig. 11. Lato ovest del mosaico tricliniare: raffigurazione dell’inverno (Foto A. Celani). Fig. 12. Figura frammentaria di satiro che regge un pedum a sinistra e un corno potorio a destra (Foto A. Celani). Negli spazi quadrilobati incastonati tra le stagioni e lo pseudo-emblema sono raffigurate figure singole. In quella sotto l’emblema63 il corpo è completamente perduto ma il braccio sinistro è quasi intero: attorno vi sono i lembi di una clamide, mentre la mano impugna chiaramente un pedum (fig. 12), il tipico bastone ricurvo usato dai contadini, dai pastori o dai cacciatori che dal iv secolo a.C. diventa anche l’attributo di Pan, dei Satiri, dei Centauri e in generale dei geni e delle divinità campestri 64. Il braccio destro non è più visibile a causa della lacuna: restano le dita della mano chiuse che reggono un oggetto identificabile come un rhyton visto da sopra, come suggerisce un confronto con il rhyton retto da Dioniso nel mosaico del iii secolo d.C., proveniente da Antiochia e conservato all’University Art museum di Princeton: qui il dio, sdraiato, 62 Preferibile all’interpretazione come rastrello in Bonacci, Guiducci 2016, 265; sugli strumenti agricoli cfr. White 1967, 43-47. 63 Non identificata in Bonacci, Guiducci 2009; 2012; 2016. 64 Sul pedum (il λαγωβόλον: letteralmente bastone per uccidere le lepri) cfr. Daremberg, Saglio, s.v., 368-369. 628 Il programma iconografico dei mosaici della “Villa dei Mosaici di Spello” beve con Eracle alla presenza di una Menade danzante65. La figura con il rhyton doveva essere simile a quella posta a destra della scena centrale: un giovane in Fig. 13. Figura di satiro con pedum e cesto di frutta e fiori (Foto A. Celani). Fig. 14. Figura di satiro con tirso (?) e liknon (?). (Foto A. Celani). nudità che reca un cesto di frutta con la mano destra; la testa sembra coronata con pampini; anch’egli regge un pedum con la mano sinistra66 (fig. 13). Specularmente è raffigurata una figura maschile di profilo, anch’esso con corona (di pampini?) (fig. 14): ha un aspetto più corpulento; incede sulla punta dei piedi come se stesse compiendo passi di danza: con la mano sinistra regge la parte inferiore di un bastone, probabilmente un pedum; al braccio era forse avvolta una clamide, di cui rimane il lembo inferiore sulla destra. Il braccio destro è allungato in avanti e la mano regge un oggetto che è stato interpretato come lampada senza la minima argomentazione a sostegno dell’affermazione67; in realtà, la forma a cassetta e le bende che pendono potrebbero suggerire piutto65 Levi 1947, I, 156. 66 Identificato erroneamente come tirso in Bonacci, Guiducci 2009, 137; 2012, 24; 2016, 265: evidentemente le autrici non sanno cos’è un tirso, dato che la sua punta terminante a pigna e l’edera che lo avviluppa difficilmente possono renderlo scambiabile con un pedum. 67 Cfr. nota precedente: le autrici interpretano l’oggetto come una lampada su suggestioni personali e non si basano infatti né su un confronto che corrobori la loro proposta né sulla congruenza iconografica della figura; eventualmente quest’ultima avrebbe recato una fiaccola o una lanterna di forma cilindrica. 629 Marcello Barbanera sto che si tratti di un liknon, il cesto basculante in cui era posto il dio fanciullo o il fallo, coperto da un velo, insieme alla frutta, un oggetto associato al culto di Dioniso anche in contesti non mistici, che veniva svelato a un certo punto del rituale68. L’ipotesi potrebbe essere corroborata dal confronto con un mosaico rinvenuto a Tigzirt in Algeria, datato all’età dei Severi, decorato con oggetti dionisiaci e maschere69: un oggetto sulla prima fila è stato identificato come liknon. La forma rettangolare richiama anche l’oggetto con sopra un elemento conico recato da una menade nel mosaico con il trionfo di Dioniso da Nea Paphos, che Christine Kondoleon interpreta come oggetto sacro da usare nei misteri dionisiaci70. Fig. 15. Testa di pantera (Foto A. Celani). Nello spazio quadrilobato sopra l’emblema rimane una grande testa di felino (fig. 15), rivolta verso il peristilio, quindi visibile entrando: non si tratta né di un orso né di una leonessa come è stato proposto senza evidentemente avere idea del contesto, ma della testa di una pantera, come i confronti lasciano facilmente comprendere71. Purtroppo la perdita di gran parte della superficie 68 Nilsson 1957, 66-98. Parrish 1984, n. 79; Dunbabin 1978, 179-80, tav. 179. Il liknon era un simbolo di conferimento di purificazione e fertilità, come spiegato da Servio (ad Geor. 1, 166). 69 Parrish 1984, 259, tav. 102b. 70 Kondoleon 1995, 198. 71 Bonacci, Guiducci 2009, 139; della testa di felino che rimane sul lato ovest si dice che sia un “(orso?)” (Bonacci, Guiducci 2009, 137; successivamente diventa una “leonessa (?)” (Bonacci, Guiducci 2012, 24; 2016, 265. 630 Il programma iconografico dei mosaici della “Villa dei Mosaici di Spello” non consente di stabilire se la pantera fosse sola oppure vi fosse un’altra figura, anche se lo spazio limitato farebbe propendere per la prima ipotesi. Quanto ai felini entro le ellissi, rivolti entrambi verso lo spazio quadrilobato, la proposta che si tratti di un puma è semplicemente risibile72: ovviamente anche qui si tratta di pantere o tutt’al più di tigri, non sempre raffigurate con il manto striato. Le tre figure in nudità possono essere identificate come satiri e parte di un thiasos dionisiaco, culminante nello spazio posto sull’asse dell’ingresso venendo dal peristilio. Questo climax dionisiaco verso Ovest sembrerebbe confermato dal satiro danzante che incede in quella direzione e dalla figura sull’angolo sud-ovest con pedum73 e nebride, cui doveva corrispondere una speculare. Come si notava, sembra che il programma figurativo sia stato concepito con un ‘crescendo dionisiaco’ sul lato ovest, che verosimilmente culminava in un ottagono a lati concavi analogo a quello con la scena della mescita, di cui si intravvedono tre lati. All’interno di questo spazio si può ipotizzare che vi fosse una figura di Dioniso74, così come nei mosaici di Antiochia sopra menzionati. Prima di tirare alcune conclusioni, torniamo al significato degli animali che sono collegati con le singole stagioni. Nei mosaici con le stagioni è consueto che queste siano associate a una fauna collegata al periodo dell’anno sia in senso metaforico (segni zodiacali come il leone75), sia con riferimento alle attività pratiche: uccelli (anitre, pernici76), cinghiali77, cani, cervidi, lepri, conigli, tutti con richiamo alle attività venatorie78; 72 Bonacci Guiducci 2009, 139, fig. 222; dei felini non si fa più menzione in Bonacci, Guiducci 2016, 265-266. 73 Anche qui erroneamente scambiato per un tirso: cfr. nota 64. 74 Dioniso poteva indifferentemente essere raffigurato come fanciullo o adulto: cfr. ad esempio Parrish 1984, n. 28 e 31. 75 Un leone cinto di spighe come personificazione dell’estate si trova sul mosaico del triclinio della domus di Licurgo e Ambrosia di Aquileia: Bertacchi 1963, 57-58, fig. 27-35; Ead. 1980, 161-162, fig. 136-138; per le testimonianze antiche: Ael., de nat. anim. 12, 7. 76 Associate con l’estate le troviamo nella Domus di Calendio e Iovina di Aquileia, Bertacchi 1963; Parrish 1984, 27 e 38. 77 Un cinghiale tra canne palustri viene usato per simboleggiare l’inverno nel mosaico tricliniare della domus di Licurgo e Ambrosia ad Aquileia. 78 Il riferimento “ad alcuni elementi tipici del paesaggio umbro” e “a esemplari della fauna locale” (Bonacci, Guiducci 2016, 272) è un’interpretazione semplicistica che dimostra di non aver minimamente sfiorato l’esistenza di un programma iconografico nella decorazione dei pavimenti della villa. Su questa scia le autrici si spingono verso affermazioni ancora più fantasiose: “… ricorrono animali fantastici e belve di provenienza africana, nonché il grande animale, di cui rimane solo la testa”. Si deve ipotizzare che con“animali fantastici” si riferiscano alla creatura marina, di cui non hanno compreso il significato, mentre ovviamente, non potendo identificare i felini e il loro collegamento con l’ambito dionisiaco, parlano di “belve di provenienza africana” e ipotizzano un collegamento con “il mondo delle venationes (cacce) o dei ludi (celebrati nell’anfiteatro, cui sembra alludere la presenza del cinghiale, della lepre, 631 Marcello Barbanera talvolta essi possono perfino simboleggiare la stagione senza la presenza della figura umana79. Basandoci sui confronti con altri mosaici — soprattutto africani — decorati con questo tema, l’uccello collegato spesso con la primavera è la rondine, mentre il fiore più comune è la rosa, che indica la bellezza e il colore della stagione: qui le rose sono presenti nella ghirlanda, nel cesto e sulla corona del giovane. L’uccello sul bordo della fontanella sembrerebbe più una colomba che una rondine, ma non sempre è possibile una identificazione certa e non c’è una regola ferrea nel repertorio degli animali. L’anatra, ad esempio, qui inserita in ambiente palustre, è per consuetudine connessa con l’autunno o l’inverno, ma anche in questo caso non vi è una norma precisa e talvolta è usata come motivo decorativo isolato80. Come ho ricordato in precedenza, le creature marine, quali ippocampi, leoni, tigri, tori e centauri marini, tritoni, nereidi ecc.) sono soggetti prediletti per le stanze più diverse e si trovano spesso associate al thiasos marino nei mosaici81. L’acqua è un elemento fondamentale per la crescita stagionale, oppure può far riferimento al mare e al commercio che ha portato ricchezza al possessore del mosaico. Inoltre, come accade nei sarcofagi a soggetto marino, qui il richiamo è anche al mondo beato delle Nereidi e dei loro compagni82, mentre quando si trovano pesci vi è un’allusione concreta al banchetto. Per quanto riguarda l’estate sembra che il mosaicista abbia ripetuto in parte gli stessi motivi utilizzando i medesimi cartoni della primavera; non si può dire se nelle due ellissi rimanenti, dove c’è una lacuna, vi fossero figure specifiche collegate alla stagione. Il riferimento più comune a questo periodo dell’anno è la mietitura, infatti spighe e falce sono gli attributi della figura allegorica. Talvolta si può trovare il pavone (simbolo della bellezza della natura), il leone (con allusione al segno zodiacale di luglio), la pernice (associata alla caccia) e il pappagallo (ammirato per il suo piumaggio)83. Gli animali associati all’autunno sono quelli tipici del repertorio: il cinghiale e la lepre fanno riferimento alla caccia stagionale: la lepre può anche avere un’associazione particolare con l’uva84, mentre la pantera è un chiaro riferidel cerbiatto e delle belve”. Ora, pur tralasciando il fatto che una conoscenza della bibliografia essenziale sui mosaici con stagioni avrebbe loro risparmiato di incorrere in queste inesattezze, dovremmo anche immaginarci che le venationes comprendessero innocue lepri e innocenti cerbiatti. 79 Parrish 1984, 26. 80 Ibid., 29. 81 Kondoleon 1995; Blazquez Martinez 1999; Dupont 2000-2001; Muth 2000. 82 Zanker, Ewald 2008. 83 Parrish 1984, 27. 84 Sulla caccia al cinghiale in inverno cfr. Orazio, Epodi, 2, 29-32; Parrish 1984, 26; la lepre però è considerata anche uno spazzino dell’uva ed è tenuta da un contadino che reca un canestro di uva nel mosaico di Lord Jiulius: Parrish 1984, n. 9 e nota 142. 632 Il programma iconografico dei mosaici della “Villa dei Mosaici di Spello” mento a Dioniso patrono della vendemmia85. Tra gli uccelli si trovano spesso il fagiano, l’upupa che migra in questa stagione e la gallinella purpurea86. L’attività agricola principale è ovviamente la vendemmia. L’inverno87 può avere come attributi canne, che rimandano all’umidità o rami di ulivo88; regge strumenti da lavoro tra cui la zappa e la vanga89; gli animali associati ad esso più comunemente sono il cinghiale e l’anatra con riferimento alla caccia90. I mosaici delle stagioni sono tra i più diffusi nell’impero romano, in particolare in Africa, dove godono di grande successo tra il ii e il iii secolo, quando la regione era nel momento della sua massima ricchezza91. Si tratta di un soggetto che ha conosciuto grande fortuna a partire dall’età ellenistica. A quest’epoca risale la più antica rappresentazione delle stagioni ormai canonizzate a quattro nella processione dionisiaca di Tolomeo Filadelfo in cui le Horai personificano i tempi dell’anno92. A partire dalla fine del i secolo vengono sostituite da figure maschili che prima appaiono in scultura e poi nei mosaici93. Il tema delle stagioni era un motivo convenzionale nel repertorio dei mosaicisti: il significato connesso con essi era la felicitas temporum, una espressione che non solo si trova sulla monetazione imperiale94, ma che ben si adattava anche a contesti privati. Nelle dimore private le stagioni erano associate alla prosperità e alla buona fortuna, richiamavano la nozione di una felicità costante, uno stato di benessere e piacere per il proprietario della casa. In un mosaico di vi secolo, rinvenuto in un ambiente interpretato come sala da banchetti nell’edificio denominato Palazzo di Teodorico a Ravenna, ove è raffigurato Bellerofonte e le quattro stagioni, un’iscrizione invita l’osservatore a trarre vantaggio 85 Nel mosaico di La Chebba una pantera è associata con l’Hora dell’Autunno che ha attributi dionisiaci: Parrish 1984, n. 49. 86 Parrish 1984, 27. 87 Per gli attributi dell’inverno cfr. Parrish 1984, 32-34. 88 Sulla presenza di piante cfr. Parrish 1984, 28-29. 89 White 1967, 43-47, n. 3, fig. 22-23: sarculum. 90 C’è un’eccezione a Volubilis in cui l’inverno è raffigurato nudo, cfr. Parrish 1984, n. 66. 91 Fondamentale Parrish 1984; un regesto dei mosaici presenti in Italia in Canuti 1993. 92 Rice 1983. 93 Hanfmann 1951, 71; Parrish 1984, 24; Kondoleon 1995, 87-109. Sebbene si concordi sul fatto che la personificazione maschile delle stagioni sia comparsa all’inizio sui sarcofagi, Matz 1958, 39, ritiene che il primo esemplare sia un sarcofago di tipo architettonico conservato a Villa Savoia, databile alla fine del ii secolo, in cui al centro sono raffigurati Dioniso e Arianna, fiancheggiati da giovani con attributi delle stagioni; Hanfmann (cit.) pensa che il primato debba andare a un sarcofago in cui sono rappresenta figure maschili di stagioni accanto a Dioniso che sta cavalcando una pantera su un sarcofago di Kassel, databile verso il 200-220. 94 Kent 1978, n. 354, tav. 103. 633 Marcello Barbanera dalla munificenza cosmica delle stagioni: Sume quod autumnus quod/ ver quod aestas/ alternis reparant et/ toto creant in orbe95. È per tale ragione che spesso la figura centrale di questo genere di mosaici è Dioniso, il tradizionale conduttore delle quattro stagioni, associato a esse già nella processione di Tolomeo e ancora prima nel cratere François96. Può essere raffigurato come un bambino o un adulto ed è accompagnato da membri del suo thiasos. Dioniso è un dio collegato con l’umidità, il mare e l’acqua, con la natura rigogliosa, soprattutto vegetale; è preposto alla crescita e alla maturazione dei frutti, infonde fecondità al suolo e agli esseri viventi97. I riferimenti alla caccia sono continui perché le stagioni sembrano simboleggiare una perenne munificenza e un rinnovamento della vita. È per questo motivo che sono un soggetto prediletto per i pavimenti degli spazi adibiti ai pasti e, in particolare, al banchetto. Sui mosaici policromi di ii e iii secolo d.C. ritrovati in molte parti dell’impero, dalla Renania alla Spagna, al Nord Africa e all’Asia Minore, le scene dionisiache occupano spesso spazi ampi, preferibilmente sistemati negli atri e nelle sale da pranzo98. Che si trattasse di celebrare in primo luogo il dio delle feste e del vino nell’ambiente destinato al banchetto, quello in cui gli si facevano sacrifici e si beveva in suo onore è confermato dal mosaico di Antiochia sopra menzionato, con Eracle e Dioniso che brindano, allietati dalla menade danzante che suona il tympanon; questo mosaico era collocato in un triclinio nello spazio libero tra gli ospiti sdraiati sui loro letti e l’immagine ovviamente rappresentava un doppio mitico della vita reale. Il banchetto festoso che si sta svolgendo nella casa viene messo in rapporto diretto col dio del vino e col suo vecchio compagno di bevute, che sembrano invitati a prendere parte alla festa del padrone di casa. L’allegria conviviale delle due divinità è un modello cui ispirarsi. I mosaici con il tiaso dionisiaco venivano spesso collocati sulla soglia della sala da pranzo, in modo da salutare gli ospiti che entravano nella stanza: in tal modo il loro ingresso avrebbe assomigliato al corteo dionisiaco in una sovrapposizione della sfera divina a quella umana99. Sempre su un mosaico da Antiochia il dio stesso, fiancheggiato da un Satiro 95 Berti 1976, 53-54, 78-81, n. 60, fig. 20, tav. XLVIII-LI.1; Stern 1978/2, 52-54. 96 Cfr. Ateneo, 5, 197-201. 97 Gasparri, Veneri 1986, 414: tra gli animali c’è il capretto (Apoll., Bibl. 3, 29; Hesych, s.v. Eriphios, cui si collega poi l’ariete connesso con Dioniso figlio di Ammon (Diod., 3, 73, 2); cfr. anche Geyer 1977, 127; Jeanmaire 1951, 277; Parrish 1984, 44-45. Dioniso come leone è già attestato negli Inni omerici (Hom. Him., Bacch. 44) e documentato fino a Nonno di Panopoli (Dion., 40, 44-45); altre concezioni teriomorfe di Dioniso connesse con la sua natura di “cacciatore”, in Euripide (Bacchae, 1189, 1192). Nonno, (sopra citato) lo collega anche con la pantera, l’orso e il cinghiale. 98 Parrish 1984. 99 Geyer 1977, 111. 634 Il programma iconografico dei mosaici della “Villa dei Mosaici di Spello” danzante e da una Menade, rivolge il suo saluto agli ospiti che entrano nella sala da pranzo100. In una villa di Nea Paphos a Cipro, al mosaico della soglia con thiasos dionisiaco, viene contrapposta, nello spazio libero tra le klinai, una grande scena di vendemmia con una superficie di oltre quattordici metri quadrati trasformata in un’unica grande vigna. Nella Maison de la Procession dionysiaque di El Djem, il mosaico dionisiaco sulla soglia introduce anch’esso in una sala da pranzo la cui zona centrale è occupata da un altro mosaico conservato purtroppo solo in frammenti, ma perfettamente ricostruibile con ghirlande di alloro intrecciate; sui lati brevi campeggiano i busti dei Geni delle stagioni. Il nesso diretto tra il tiaso, i Geni delle stagioni e i prodotti della terra destinati al banchetto ricorrente sui mosaici ma anche sui sarcofagi. Il dio della festa diventa il dio dell’esuberanza vitale, il cui seguito ama la natura aperta e partecipa al suo rigoglio col lussureggiare della vite. Per significare il rigoglio dionisiaco nell’Oriente greco era stato coniato il termine tryphé, con cui si intende lusso, allegria, clima di gaudente festosità. Le visioni dionisiache di un mondo beato nelle case erano istintivamente messe in relazione ai piaceri della vita e della tavola nello scenario di una natura rigogliosa; anche altri mondi beati come quelli abitati dalle Nereidi e dai loro compagni marini (che attraverso i pesci hanno pure una relazione concreta con il banchetto), le stagioni o l’ambiente bucolico possono mescolarsi con le figure dionisiache. Oltre alla figura del dio, normalmente collocata in uno spazio principale, talvolta ai bordi si trovano quadrupedi rampanti, figure dell’ambito dionisiaco, animali, xenia, tutte relative a immagini di felicità appropriate per un luogo dove si banchettava101. Come è noto, il triclinio romano prevede che uno spazio più o meno ampio davanti alle klinai venga lasciato libero; i convitati si distendono a tre e un solo tavolino è posto al centro. Si crea così un punto di vista privilegiato e una rigorosa gerarchia dei posti basata sul rango, con il padrone di casa e il suo ospite principale sdraiati nell’angolo in alto a sinistra rispetto all’ingresso102. Alla luce di queste considerazioni generali, esaminiamo i mosaici della villa per tentare una lettura più articolata e ricavarne alcuni dati utili per l’inquadramento dell’edificio. Se si prova a ricomporre gli elementi iconografici nei diversi ambienti, osserviamo una sequenza dall’esterno verso il centro così articolata: le stagioni, il thiasos dionisiaco, la scena della mescita nello pseudo-emblema tricliniare e il kosmos dionisiaco all’ingresso; sul pavimento della stanza attigua, comunicante, vi è il motivo delle anfore sul pavimento. Con ciò sembra 100 101 102 Come nei mosaici di Antiochia sopra ricordati. Per questi argomenti cfr. Parrish 1984, 16. Cfr. Catoni 2010, 84-87. 635 Marcello Barbanera di poter ricostruire un programma figurativo, basato in gran parte sul repertorio dei mosaici con le stagioni, con punto focale coincidente con lo pseudo-emblema tricliniare dove viene raffigurato l’esito finale preparato dalle immagini “periferiche”: la coltivazione dell’uva e la produzione del vino versato con abbondanza per i commensali, indizio di una copiosa produzione e della prodigalità del padrone di casa che lì riceveva i propri ospiti e dava manifestazione del proprio status e del proprio benessere. Due sono i punti di vista privilegiati nell’ambiente: quello rivolto verso l’ingresso, che consentiva a chi era introdotto nel triclinium di vedere forse Dioniso in persona o soltanto l’animale cui esso era associato103: qui il dio della vendemmia creava una spazialità sacra e introduceva idealmente allo svolgimento del banchetto come duplicazione del suo corteo. Una volta però che i commensali avessero preso posto sui loro letti da pranzo, lo sguardo si sarebbe posato sulla scena centrale, manifestazione evidente della protezione divina: un buon raccolto di uva e la dispensazione del vino. Le anfore nella stanza attigua rafforzano tutto il concetto, rimandando all’attività fiorente del produttore. Che esse facciano riferimento a un ampio stoccaggio del proprietario della villa e quindi alla sua ricchezza o a una commercializzazione (così in dettaglio ovviamente non si può andare), il riferimento al tema della produzione del vino è innegabile. Sono noti infatti esempi di mosaici in cui si riscontra la personalizzare di una scena o di un motivo iconografico, presumibilmente con riferimento ad alcune circostanze connesse con gli interessi specifici del committente. In una casa di Pompei, l’atrio era decorato con un mosaico in bianco e nero. Ad ogni angolo dell’ impluvium era raffigurato un urceus di forma pompeiana, un’anfora a collo lungo, recante un’iscrizione che identificava il contenuto come garum o liquamen dalla produzione di un tale Scaurus104. Si dovrebbe trattare di A. Umbricius Scaurus, menzionato in iscrizioni come un ricco produttore e commerciante di garum a Pompei105. È plausibile che con questa immagine egli volesse ricordare a chi entrava in casa qual era la fonte della sua ricchezza. Analogamente possiamo ipotizzare che i mosaici con le anfore e con le stagioni avessero lo scopo di asserire lo status del proprietario della villa106: il messaggio di prosperità associato alle stagioni viene rafforzato con un riferimento concreto alla produzione vinicola, secondo un processo di realismo concettuale che porta a costruire la 103 Con tigre e leopardo; Dioniso che cavalca una tigre o un altro felino ha una lunga tradizione; il più antico mosaico con questo motivo è quello proveniente da Pella, su leopardo; cfr. Parrish 1984, 44, nota 158. 104 Curtis 1984, 557-66, tav. 74-75. 105 Curtis 1988, 19-49. 106 In generale sull’argomento dei proprietari e del loro modo di autorappresentazione cfr. Dunbabin 1978, 317-325. 636 Il programma iconografico dei mosaici della “Villa dei Mosaici di Spello” realtà con elementi della vita materiale e di quella immateriale. In tale prospettiva, ogni lettura che interpreta le immagini come traduzione di una realtà oggettiva è destinata all’insuccesso: l’anfora sulla spalla del servitore non ha nulla a che fare con l’anfora cosiddetta di Spello107, un tipo di anfora panciuta, piede anulare e piccolo labbro piatto che appare a Ostia in epoca flavia108 e di cui un laboratorio è stato scoperto negli anni ’80 anche Spello109. Si tratta invece di un’anfora di tipo rodio o di Cos, qui probabilmente riprodotta come tipica anfora vinaria usata sulle rotte mediterranee. Va ricordato che l’area di Spello è collegata dalle fonti alla presenza di un vitigno poco conosciuto, l’hirtiola o irtiola110, citato da Plinio il Vecchio (XIV, 37) come tipico dell’Umbria, diffuso nei territori di Bevagna e del Piceno. L’hirtiola si diffuse tra l’epoca di Columella e quella di Plinio e le anfore del tipo Spello cominciarono ad apparire a Ostia nello stesso periodo. Tra la valle del Topino e del Clitunno venne creato un nuovo vigneto commerciale e al fondo di questa valle, verso la fine del i secolo, nell’area di Spoleto fu prodotto un vino abbastanza rinomato che Marziale cita a più riprese paragonandolo al vino dei Marsi. Ovviamente non è il caso di stabilire collegamenti precisi tra il proprietario della villa di Spello e la produzione di questo vino, ma i dati raccolti sembrano convergere verso un’attività del proprietario della villa legata al commercio vinicolo. Il complesso delle immagini della Villa delle anfore costituisce una conferma — la perdita della decorazione parietale perciò è tanto più incresciosa — di come le opere figurative nel mondo romano siano il risultato di una stratificazione creativa, la cui decifrazione necessita di categorie interpretative di grado diverso: quella della semplice rappresentazione, della convenienza e dello stimolo culturale che mette in circolazione il patrimonio delle conoscenze dei committenti e degli osservatori. Così come nel “rilievo storico”, nelle raffigurazioni parietali delle ville pompeiane, nelle statue ritratto o nei mosaici, la dimensione ‘reale’ è intrecciata con quella eroica, mitica e divina, contribuendo a formare una comunità di presenti (gli esseri viventi) e di assenti (dei, eroi, antenati), che attraverso le immagini diventano i membri di una “comunità concettuale”, sullo sfondo della quale dobbiamo inquadrare l’azione sociale111. Nel caso della Villa dei Mosaici di Spello la dimensione divina, mitologica e reale coesistono nella sovrapposizione di banchetto reale e banchetto divino: 107 Così come suggerito erroneamente in Salvatore 2008, 39 e Bonacci, Guiducci 2009, 264. 108 Tchernia 1986, 253. La loro distribuzione è in un’area molto circoscritta: Ostia, Luni, Bolsena, Settefinestre, Cures Sabini e per le scoperte sottomarine Gravisca, Civitavecchia e Pyrgi. 109 Patterson, La Padula 1997. 110 Tchernia 1986, 253. 111 Per una discussione del concetto di comunità concettuale cfr. Hölscher 2015, 51-63. 637 Marcello Barbanera l’azione divina non è semplicemente invocata come auspicio di una vita felice, è l’azione umana che non può avere realizzazione favorevole se non nella dimensione divina. Per quanto concerne la datazione, una serie di indizi, che vanno dalla popolarità del tema delle stagioni tra ii e iii secolo112 ai confronti discussi in precedenza, fanno propendere per l’esecuzione dei mosaici — e conseguentemente della seconda fase della villa — tra la tarda età antonina e la prima età severiana. L’edificio fu probabilmente abbandonato in seguito a un evento violento, dato che su tutta la superficie dei mosaici sono visibili tracce nerastre di combustione, forse causate dal crollo delle travi lignee113. In Umbria, dal ii secolo sembra interrompersi anche l’occupazione delle ville, coincidente con la cessazione della produzione di laterizi114. Bibliografia Andronico E. 1997, Scoperta di pavimenti musivi in contesto di villa romana di età imperiale in località Lazzaro di Motta San Giovanni (Reggio Calabria), in Bonacasa R. M., Guidobaldi F. 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Nat. hist. 35, 147 Maria Elisa Micheli Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo” Abstract The short list of six mulieres, with whom Pliny ends in the book 35 (147-148) the quotations of painters, opens a little insight about the status of woman-artist in the Greek and Roman world. The list, built on the model of the catalogue of the so called Muse terrene (i.e. the most important poetesses), allows even to introduce some considerations about the close connection between the pictorial practice — in its technical form of painting on canvas (35, 150) — and weaving. It also allows to follow a complex track on the connections between figurative and narrative compositions according to the ut pictura poësis clause, still in the dialectic balancing between the expressive power of images and words. Due quadretti e una pittrice Due piccoli quadri da Pompei, rimossi dalle originarie pareti rispettivamente di IV e di III stile, documentano con vivezza una pittrice al lavoro. Il primo, rinvenuto nel 1771 nella Casa del Chirurgo ed edito nel 1779 nel tomo settimo delle Antichità di Ercolano (fig. 1), mostra tre figure femminili con un piccolo servo in un interno arioso; un’ampia apertura tra due monumentali pilastri, il cui architrave è decorato al centro da un bucranio circondato da ghirlande, si apre su un giardino dove si intravedono una statua sulla sua base ed una 643 Maria Elisa Micheli Fig. 1. Antichità di Ercolano, VII, 1779, tav. I: Casa del Chirurgo, Pittrice al lavoro. 644 Pinxere et mulieres: Plin. Nat. hist. 35, 147 Fig. 2. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. Casa del Chirurgo, Pittrice al lavoro. Da PPM, IV 1993: rielaborazione R. Carneroli. colonna sormontata da un vaso1. In asse con l’apertura, che riempie di luce l’ambiente, è seduta su un elegante bisellio una pittrice, probabilmente intenta a riprodurre su tavola — poggiata a terra e tenuta dal servitorello — un’erma dionisiaca (o priapica) che le sta di fronte; la scatola con i colori, nei quali con un movimento lezioso intinge il pennello, è bizzarramente posata su un rocchio di colonna rovesciato. Le altre due donne sono alle sue spalle e poste ad una certa distanza: una, con il capo coperto dal mantello, si appoggia al pilastro come a volersi nascondere per non deconcentrare l’artista; l’altra, con il braccio 1 Casa del Chirurgo (VI, 1, 10), ambiente 19; Napoli, Museo Archeologico Nazionale, inv. n. 9018 (cm 45 x 45): PPM, IV 1993, 75, n. 45; Bragantini-Sampaolo 2009, 102, n. 1; Salvadori 2016, 71, fig. 1. Mi attengo alla “vulgata” per quanto concerne l’interpretazione del presunto rocchio di colonna. 645 Maria Elisa Micheli destro puntato sull’anca, porta alla bocca l’indice della mano sinistra, in un gesto insieme di concentrazione e di silenzio d’assonanza rituale (fig. 2). Fig. 3. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. Casa dell’Imperatrice di Russia, Pittrice al lavoro. Da PPM, V 1994: rielaborazione R. Carneroli. Il secondo quadretto, scoperto nel 1846 nella Casa dell’Imperatrice di Russia, visualizza un gruppo di tre donne entro un interno segnalato da una lieve struttura architettonica: una colonna ed un semplice architrave liscio, dal quale pende un velario2. Al centro, e in primo piano, è una pittrice seduta che tiene la tavolozza nella mano sinistra ed il pennello nella destra; sta comple2 Casa dell’Imperatrice di Russia (VI, 14, 42), cubicolo 3; Napoli, Museo Archeologico Nazionale, inv. n. 9017 (cm 50 x 50): PPM, V 1994, 414, fig. 9; Bragantini-Sampaolo 2009, 102, n. 2 (dove l’affresco è detto di provenienza sconosciuta); Salvadori 2016, 471. 646 Pinxere et mulieres: Plin. Nat. hist. 35, 147 tando su tavola, sistemata su una bassa trapeza, una figura femminile stante ed ammantata. Sullo stesso seggio, ma alle sue spalle, è assisa una fanciulla col Fig. 4. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. Casa dell’Imperatrice di Russia, Pittrice al lavoro. Disegno di G. Abbate. Da PPM 1995: rielaborazione R. Carneroli. capo coperto dal mantello che guarda il lavoro cui presta attenzione anche la terza donna, in piedi dietro la tavola che sostiene con la mano destra, rivolgendo lo sguardo sulla pittrice. Per non essere impacciata nei movimenti, costei ha la manica destra rimboccata sulla spalla, in modo che il braccio sia completamente libero dalla veste (fig. 3). Sul quadro sono oggi ben evidenti le tracce di picchiettatura che sono state eliminate nel disegno di Giuseppe Abbate3 realizzato all’epoca dello scavo (fig. 4); esse ricorrono anche sulle pareti di tutto l’am3 PPM 1995, 334, n. VI 14, 42, fig. 142. 647 Maria Elisa Micheli biente e sono quindi funzionali ad un progettato restyling della decorazione, ad indicare cioè la preparazione necessaria per sovrapporvi un affresco di IV stile. Pur accomunate da uno stesso soggetto, le due composizioni differiscono tanto nelle iconografie selezionate per le figure femminili quanto nello schema compositivo e, quindi, nell’impaginato; in entrambi, comunque, elementi conosciuti e solidamente traditi sono combinati e ri-combinati in un linguaggio “franco”, mirato a creare un mondo di simil-realtà per conciliare la conformità di un genere alle esigenze di riconoscibilità da parte del pubblico. Quest’ultima, ed ovvia, considerazione viene in certa misura confermata dalla predella a fondo rosso, oggi quasi perduta, nell’atrio della Casa di Adonide o della Regina Carolina, dove alcuni pigmei sono i protagonisti di una scanzonata parodia delle diverse operazioni che si svolgono in un atelier di pittura, amplificandole con intenzione, ma anche con discreta abilità imitativa. Ve ne sono due colti proprio ad osservare l’artista seduto, mentre questi è alle prese con un’enorme scatola di colori per scegliere quelli che meglio si adatteranno al quadro in via di realizzazione, posizionato su un cavalletto anch’esso sovradimensionato4. Tuttavia, se è pur vero che i due quadretti “al femminile” trattano di una Berufdarstellung, è altrettanto vero che si riferiscono ad un’attività inclusa tra le arti cosiddette liberali come non manca di ricordare Plinio (Nat. 35, 77: “… docerentur recipereturque ars ea in primum gradum liberalium…”), quando afferma che i ragazzi nati liberi potevano imparare e praticare la graphikè, ovvero la pittura su tavola/legno. Mi chiedo, quindi, se la presenza di un altro quadretto raffigurante un poeta seduto con dittico in mano, attorniato da personaggi femminili seduti e stanti, oggi quasi del tutto evanido, nell’edicola centrale della parete meridionale dello stesso ambiente 19 della Casa del Chirurgo5, mettendo in rapporto visivo immagini genericamente allusive all’ambito del fare intellettuale, non proponga — benché in maniera corsiva — un vago riferimento alla classificazione delle arti di matrice peripatetica ed un altro, più diretto e condiviso, allo stretto dialogo tra le arti della parola e le arti figurate, ben corrispondendo alla tensione culturale dell’epoca. Nell’affresco con pittrice dalla Casa del Chirurgo risalta netta la giustapposizione dei personaggi. Questi compongono una scena statica ed impostata sia a livello fattuale che concettuale, poiché il gruppo delle due donne è costruito per marcare quel momento di stupefatta attesa che precede la conclusione dell’opera, in cui verrà appunto disvelata la bellezza del segno dipinto: ed il pina4 Casa di Adonide o della Regina Carolina (VII, 3, 14): PPM, VIII 1998, 398, n. 5; Salvadori 2016, 472. Ovviamente diversa è l’attività che si svolge sulla famosa stele funeraria da Sens, dove vengono illustrate le varie e diversificate operazioni di un cantiere, con quattro personaggi impegnati a realizzare una decorazione parietale: Salvadori 2016, 474, fig. 3. 5 PPM, IV 1993, 80, n. 55. 648 Pinxere et mulieres: Plin. Nat. hist. 35, 147 kion appeso in alto sul pilastro di destra ne dovrebbe già costituire una prova. I modelli usati per le due figure femminili, che guardano stando in disparte, discendono da tipi meglio noti dalle cosidette Tanagrine e sembrano espedienti figurativi adattati all’occasione, al fine di adeguarsi alla teatralità di postura e gestualità della donna-pittrice che occupa il centro della scena. Presentata di tre quarti verso lo spettatore, con il busto rigido ed eretto, questa ha la testa di profilo, perché lo sguardo è puntato sull’erma sì da confermare il riferimento ad un’azione che si vorrebbe veridica e che è però contraddetta dalla falsificazione dei gesti. In particolare, colpiscono la posizione del braccio destro sceso lungo il busto (ed appena discosto da esso) con la mano che tiene il penicillum intingendolo nel colore il quale è posto, come accennato prima, entro una scatola in precario equilibrio; quella della mano sinistra, che è portata in avanti con il palmo levato a sostenere la tavolozza, come si evince dal quadro dalla Casa dell’Imperatrice di Russia, e non un piccolo pinax sul quale la donna si accingerebbe a dipingere. Incongrua ed irreale è anche la sistemazione della tavola riproducente l’erma; solo l’elemento “luce” — indicato dall’apertura sul giardino — sembrerebbe davvero confacente all’esercizio pittorico, aspetto che difetta un poco all’altro dipinto il quale, di contro, si conforma di più “al verisimile” grazie alla postura della donna-pittrice ed a quella delle astanti. Tutte le donne sul quadretto dalla Casa dell’Imperatrice di Russia sono comprese nella naturalezza di atteggiamenti e gesti consumati in uno spazio ed in un tempo unitari; compongono un coeso gruppo a tre figure, ricco di rimandi binari a partire dagli schemi usati per i due personaggi seduti — pittrice ed osservatrice velata — che si richiamano specularmente, in coerenza con la volontà comunicativa che ritengo sia implicata nell’actio: mostrare, cioè, l’artista al lavoro nel momento in cui sta terminando la sua opera. Ma, a differenza dell’altro quadretto, qui manca il modello di riferimento giacché non sembra verisimile che possa essere considerata tale la donna stante dietro al quadro, la quale per di più differisce quanto a ponderazione e vestiario da quella che la pittrice sta terminando. Nel piccolo quadro è forse sotteso l’intento di esprimere visivamente la capacità creativa, l’inventio, dell’autore che per realizzare la sua opera non ha bisogno di un modello, ma può attingere ad un repertorio mentale di forme e schemi codificati e persistenti, appresi durante la sua formazione nella bottega6. Inoltre, alcuni dettagli — meglio evidenti nel disegno ottocentesco di Abbate — fanno intendere che la pittrice stia tracciando con 6 Si consideri, ad esempio, quanto suggerito da Giulia Salvo per alcuni schemi compositivi e soluzioni iconografiche presenti sui sarcofagi, desunti verosimilmente dal citazionismo mnemοnico, dall’illustrazione libraria, dalle rappresentazioni sceniche o anche da un sapere letterario stratificato che nell’immaginario collettivo si è consolidato in “segmenti figurati”: Salvo 2015, 91-97. 649 Maria Elisa Micheli mano sicura e rapida una didascalia a completamento del dipinto: una prassi ben testimoniata dalle evidenze superstiti7. Questo elemento, inoltre, guadagna un ulteriore aspetto caro alla critica d’arte antica8, ossia la velocitas dell’artista nel definire l’opera che, nello specifico, in ragione dei ganci presenti sugli angoli si suppone pronta per essere appesa. Non ritengo, però, che la diversità tra le due scene dipinte possa essere estesa ad una lettura sociologica, quale quella accennata da Baldwin che vede nel primo quadro la rappresentazione del passatempo di una signora (dunque, in accordo con il modello pedagogico della matrona docta9), mentre nel secondo una pittrice professionista10. Le Antichità di Ercolano e il passo di Plinio Il commento settecentesco alla pittura dalla Casa del Chirurgo11, riprodotta nella raffinata incisione di Filippo Morghen su disegno del fratello Giovanni Elia, da subito la definisce “bella quanto mai possa dirsi, e certamente una delle più importanti, che abbia il Museo Reale”; si conclude con l’affermazione che “sarebbe questa pittura di un pregio veramente singolare, se potesse dirsi con sicurezza, esservi rappresentata la pittoressa Lala, celebre per le sue opere fatte in Italia, e in questi stessi nostri luoghi”. In nota è poi riportato il passaggio di Plinio relativo a Iaia [Lala] di Cizico (Nat. hist. 35, 147), estrapolato da un elenco di donne pittrici, ciascuna corredata di scarne informazioni biografiche, per lo più inerenti ai soggetti delle opere prodotte; interessante è, inoltre, la chiosa che avverte come il testo pliniano “sembra fatto a proposito per la nostra pittura: dove è ancora da avvertirsi la piccolezza e la rotondità del pezzo che tiene in mano la pittoressa per dedurne il sospetto se forse dipingesse sull’avorio coi colori in cera, come dice qui Plinio e che l’altro quadretto fosse posto per dinotare le due maniere in cui questa donna dipingeva e col cestro e col pennello”. Il bagaglio erudito alla base di questa suggestione interpretativa non poteva dunque che rinviare alla Naturalis Historia di Plinio il Vecchio. Fin dal Quattrocento, era quella la fonte letteraria più usata sia per compiere un virtuoso 7 Thomas 2016, 415-420. 8 In generale, Anguissola 2006, spec. 559. 9 In generale, Hemelrijk 1999. Va tuttavia sottolineato che l’educazione, intesa in quanto segno di status sociale, è assunta in alcuni ritratti (famosi quelli pompeiani, ad esempio, la cosidetta Saffo o Terenzio Neo con la moglie) che, attraverso la presenza di attributi quali stilo, tavolette cerate, rotolo, offrono una rappresentazione idealizzata di giovani donne di condizione ingenua e/o libertina (in veste di padrone della casa) tramite quei “valori” della cultura, propri delle donne delle classi alte: Hemelrijk 1999, 72-75. 10 Baldwin 1981, 20. 11 Delle Antichità di Ercolano tomo settimo o sia quinto delle Pitture: Le Pitture antiche di Ercolano e contorni incise con qualche spiegazione, Napoli 1779, i-xx, tav. I. 650 Pinxere et mulieres: Plin. Nat. hist. 35, 147 trasferimento delle conoscenze dalle “pagine” del testo alla “materialità” dei documenti sia per creare un lessico12, capace di procedere in maniera descrittiva nella ri-costruzione dell’antichità secondo la “forma delle Muse”. Nel caso in esame, mi sembra poi di un qualche rilievo il richiamo alle diverse tecniche che sarebbero praticate dalla pittoressa; sulla base antiquaria dei differenti strumenti loro peculiari, queste vengono ipoteticamente riconosciute una nel quadretto terminato ed appoggiato a terra e l’altra in quello che si opina presente nella mano sinistra della donna. Il penicillum, con l’estremità costituita da setole, presupponeva, infatti, la pittura a “tempera” su tavola; il cestrum, invece, un’asticella piatta da un lato per spalmare il colore, a punta dall’altro per ritoccare e rifinire i dettagli, secondo le fonti era lo strumento più spesso usato per la pittura ad encausto anche su avorio. Il richiamo alle tecniche è stimolante, perché scaturisce evidentemente — e si lascia così attualizzare — dalla più ampia querelle che all’epoca andava opponendo Antichi e Moderni e che, in virtù delle pitture scoperte nell’area vesuviana, aveva addirittura portato Caylus a teorizzare e far sperimentare l’encausto13. Joseph Marie Vien si presterà al meglio a tradurre in “tecnica e figura” le ipotesi empiriche del Conte, per di più re-interpretando secondo il gusto del tempo alcuni soggetti antichi, alquanto desueti e di tono epigrammatico: lo testimonia egregiamente il famosissimo La marchande d’Amours, originato dal quadretto venuto alla luce nel giugno 1759 nella villa di Gragnano presso Stabia14. Nel commento edito nelle Antichità di Ercolano, comunque, il metodo meccanicamente combinatorio — implicito nel paradigma fonte letteraria = documento materiale — risulta stemperato e si ferma ad un livello puramente ipotetico, sebbene assumendo tutte le scarne notizie riferite da Plinio e, per di più, contestualizzandole appunto nella Campania felix allora in via di esplorazione. Anche le donne hanno dipinto: Nat. hist. 35, 147, 1 Il testo di Plinio15 apre un significativo spaccato socio-antropologico, pur senza entrare nel merito dello statuto sociale e del ruolo culturale dell’artista ai quali non fanno alcun riferimento nemmeno i due quadretti pompeiani. L’idea 12 Cfr. Maffei 2007. 13 La sperimentazione era stata condotta nonostante non solo la carenza di attestazioni, ma anche l’incertezza delle fonti sulle modalità della sua preparazione: non era infatti sufficiente seguire la “ricetta” pliniana, com’è ben evidenziato da gran parte della pubblicistica settecentesca. Cfr. Carofano 2007; 2013: con bibliografia di riferimento. 14 Micheli 1992, 2-5. 15 Lefkowiz, Fant 2005, 216-217, n. 307. 651 Maria Elisa Micheli di elencare le donne pittrici pare in parte derivare dalla classificazione delle arti e dal gusto letterario di tradizione ellenistica; si allinea al canone delle nove famose poetesse, oggetto anche di un epigramma del poeta augusteo Antipatro di Tessalonica (Anth. Pal. 9. 427) che le paragona alle nove Muse. E questo motivo verrà esteso e banalizzato nel momento in cui si vorranno esaltare particolari pregi (artistici o meno) di una donna; lo si evince pure da alcuni versi di Marziale (Epig. 5, 12) nei quali il poeta canta l’anello dell’amico Stella che portet decem puellas, dove le puellae sono sì le nove Muse mentre la decima è Violentilla, moglie di Stella, che lo stesso celebrava nelle sue elegie. Non voglio addentrarmi in questa sede nella questione del “delightful and instructive puzzle” che, riprendendo le parole di Jerzy Linderski16, pone il passo di Plinio per quanto attiene alla critica testuale e su un punto davvero delicato: ovvero, quante sono le pittrici elencate? Chi sono e, nello specifico, Calipso è una pittrice? Il numero 6, infatti, ha suscitato vivaci prese di posizione circa l’effettiva sostanza (o meglio, la credibilità) delle artiste elencate, che presentano tutte contorni molto sfuggenti. E’ stato ampiamente sottolineato che si tratta in buona misura di figlie di pittori — anch’essi più o meno conosciuti — del mondo greco di periodo tardo-classico ed ellenistico17: è il caso di Timarete, figlia ed allieva di Micone il giovane; di Aristarete, figlia ed allieva di Nearco; di Irene, figlia ed allieva di Cratino. Di Olimpiade viene riferito sinteticamente che fu maestra di un altrettanto poco noto Autobulo, laddove di Iaia e della discussa Calipso — che preferisco mantenere nel suo ruolo di pittrice piuttosto che declassare allo stato di Ninfa, interpretandola come soggetto di un quadro di Irene — vengono sostanzialmente elencate le opere. Tre pittrici sono ateniesi e, in ragione della loro genealogia, danno credito al fatto che la techne veniva appresa all’interno di una bottega, spesso a conduzione familiare, sotto la guida di un artigiano/artista più maturo e sperimentato: e che anche alle donne non fosse preclusa la partecipazione ad alcuni mestieri di famiglia, lo lascia intendere lo stesso Plinio18 quando afferma che fu una talentuosa fanciulla corinzia ad avere “inventato” insieme al padre la coroplastica, avviando la produzione delle matrici (Nat. hist. 35, 151). 16 Linderski 2003, 83. 17 Arrigoni 2007, 18-23 (ivi altra bibliografia). 18 Baldwin 1981, 19. Ovviamente, il ruolo della fanciulla viene relegato nel resoconto di Plinio a puro accidente innescato dalla lontananza dell’amato; tuttavia, l’indubbio ingegno della ragazza emerge proprio dalle modalità messe in atto per mantenerne il ricordo. 652 Pinxere et mulieres: Plin. Nat. hist. 35, 147 Fig. 5. Milano, collezione Banca Intesa. Particolare della kalpis a figure rosse attribuita al Pittore di Leningrado. Da Lambrugo 2009: rielaborazione R. Carneroli. La celebre kalpis attica a figure rosse attribuita al Pittore di Leningrado19, rinvenuta in una tomba femminile di Ruvo insieme ad un ricco corredo di gioielli, fibule, ornamenti (alcuni in ambra) ed aghi crinali, mostra una scena di lavoro entro una bottega di vasai in un’atmosfera quasi rituale, di cui sono spia la presenza di Atena e quella di due Nikai (fig. 5). La dea — che dobbiamo intendere nella sua epiclesi di Ergane — avanza, porgendo una corona, verso il maestro artigiano che, ignaro, è seduto sul klismos, tutto intento a rifinire il suo prodotto; egualmente compresi nel lavoro sono i due giovani mestieranti assisi su sgabelli verso i quali si dirigono le Nikai, che impongono corone sopra le loro teste. A parte è una donna di proporzioni minori del maestro, ma maggiori di quelle degli altri due lavoranti; insieme al grosso cratere che sta ultimando (di dimensioni più grandi di quelli ai quali attendono i due lavoranti maschi), è sistemata su una bassa pedana; è seduta su un seggio senza spalliera, ma sotto cui emerge una stoffa decorata. Non riceve corone, anzi è isolata rispetto agli altri, e una Nike le volge addirittura le spalle; tuttavia, sopra la testa pendono un kantharos e una lekythos, certamente esito della sua attività: sono le stesse forme che, finite, si trovano ai piedi del maestro. I due vasi non vogliono soltanto manifestare le sue capacità, che essi dichiarano speculari a quelle del maestro, bensì vogliono costituire il suo premio se è accettabile l’ipotesi avan19 Lambrugo 2009: con bibliografia precedente e relative interpretazioni circa l’attività attesa nella bottega. Su questo aspetto in generale, cfr. Williams 2016. 653 Maria Elisa Micheli zata dalla critica che non le è consentito partecipare alla competizione con gli altri lavoranti-maschi incoronati dalle Nikai. I due, oltre al pezzo in via di completamento, hanno però realizzato solo piccoli skyphoi (uno apodo), che si intravvedono poggiati a terra. A fronte del diverso trattamento riservato alla fanciulla sulla kalpis, più che verisimile rappresentazione di una diffusa pratica sociale, da alcuni esegeti è stato comunque evidenziato il tono “corale e collettivo” della scena, unito alla volontà, decisamente palese, di risparmiare uno spazio altro per la donna, invero rispettoso dell’attività “desueta” che ella con estrema perizia — ed assorta concentrazione — sta svolgendo: e, ciò, nonostante le sia negato un concreto riconoscimento da parte delle tre dee e, soprattutto, di Atena. A tal riguardo, non vanno comunque trascurate le notizie circa l’efferatezza con la quale la dea punisce chi esercita le arti da lei inventate, ed in particolare una donna, nel momento in cui questa osa entrare in competizione con la divinità. Viene quindi naturale non respingere alcune osservazioni di Hurwit20 relative al ruolo della dea nella costruzione mitologica attuata ad Atene, dove le ripartizioni di gender, espressione dell’élite maschile, verrebbero garantite proprio da Atena tanto che in seguito sarebbero espresse a livello iconografico proprio sulla base partenonica tramite la stasi (espressione di passività) di Pandora, possibile alter ego della dea. Nella proiezione successiva, innescata dalla versione nelle Metamorfosi di Ovidio (Met. VI, 1-14) con ogni probabilità discendente da un aition ellenistico di matrice attica, colpiscono la furia e la punizione di Atena contro Aracne, colpevole soprattutto di avere disconosciuto la dea come sua maestra, rifiutandone i dogmata. Erano i dogmata scaturiti dal fatto che era stata la divinità a donare agli uomini il sapere della tessitura, trasferendo quindi un’attività originaria del mondo naturale ad un’azione umana di spessore civilizzante e culturale21. Come gli stessi Antichi riconoscevano, nell’unione di metis e techne la tessitura veniva assimilata all’arte del comporre letterario e, sebbene in maniera meno esplicita, anche a quella della pittura poiché il tessere implica la capacità di disegnare: casualità o meno, viene immediato pensare alla stoffa decorata, sistemata sul seggio della donna dipinta sulla kalpis, come ulteriore possibile segnale non tanto del suo status all’interno dell’oikos, quanto dell’arte praticata nell’ergasterion, alla quale si allude suggerendo un fine richiamo all’equazione pittura = tessitura. Plinio, che cita la sventurata Aracne soltanto come inventrice del lino e dei filati (Nat. hist. 7, 57,5), non manca ovviamente di connotare la tessitura come una pratica femminile, ma anche di assimilarla alla pittura (Nat. hist. 35, 150). Introduce, inoltre, un’interessante annotazione relativa al 20 21 654 Hurwit 1995. Micheli 2012. Pinxere et mulieres: Plin. Nat. hist. 35, 147 particolare campo della pittura su tela (che potrebbe forse aprire, con un’ancora maggiore credibilità, all’intervento femminile), aggiungendo che in Egitto veniva realizzata con una tecnica notevole che lo scrittore accomuna all’encausto per via del forte riscaldamento cui veniva sottoposta la materia colorante. Una pittrice di successo: Iaia di Cizico Nell’elenco di Plinio, però, una pittrice risalta con maggiore nitidezza rispetto alle altre grazie ad alcune informazioni più circostanziate, che permettono di delineare un profilo coerente con le tendenze artistiche del tempo in cui visse: si tratta di Iaia. Di lei siamo infatti in grado di stabilire il periodo di attività; di mappare i luoghi dove operò; di conoscere i soggetti che dipinse, per i quali — in controtendenza rispetto alle altre pittrici — resta liminare (se non addirittura esclusa) la tematica mitologica; di apprezzarne le competenze nelle diverse tecniche pittoriche; di valutare la fama raggiunta che è testimoniata da un indicatore inequivoco, ovvero dal prezzo elevato delle sue opere. Questo era superiore persino a quello dei dipinti di due famosi pittori suoi contemporanei, Sosipoli e Dioniso, elemento che riesce a mio avviso ad azzerare un invalicabile confine di genere. In realtà dei due pittori ben poco conosciamo, tuttavia quel poco è sufficiente per riuscire a modulare meglio sia il momento cronologico, sia la sfera d’azione che la preparazione professionale di Iaia. Di Sosipoli è Cicerone (ad Atticum IV, 18,4) a riferire che aveva una grande bottega con molti dipendenti ed a ricordare anche un suo — peraltro oscuro — allievo, Antioco Gabino, il quale aveva subito un processo nel 54 a.C.22; su Dionisio è lo stesso Plinio, riportando l’epiteto anthropographos, a segnalare l’ambito di specializzazione. Siamo informati della circostanza che Iaia, nativa di Cizico, dunque di quella pars orientalis del Mediterraneo che aveva già dato l’avvio ad una rilevante mobilità di artisti verso Roma dalla metà del ii sec. a.C.23, visse nell’Urbe durante la giovinezza di Marco Terenzio Varrone, ma aveva esercitato la sua arte anche a Napoli, rappresentando bene quella situazione di “ambiguità tra grecità e romanità” che Sara Santoro Bianchi ha individuato proprio nella pittura24. Iaia era nubile e questa notizia, all’apparenza di sapore aneddotico, serve a mio avviso a rafforzare la credibilità del talento della donna che, nel tracciato delle dee virgines, si era votata solo alla professione, dismettendo (così almeno 22 23 24 Becatti 1951, 69. Vollenweider 1966, 23-28. Santoro Bianchi 1997, 767. 655 Maria Elisa Micheli parrebbe) compiti, occupazioni e vocazioni tradizionalmente femminili25. Esperta in pittura da cavalletto, tanto a tempera quanto ad encausto, si distingueva soprattutto per la velocitas: molto incerto ipotizzare se questa era raggiunta o meno tramite l’uso di compendiaria e di pittura a macchia. Durante il soggiorno partenopeo aveva realizzato su tavola di grande formato il dipinto di una vecchia (che piacerebbe collegare alle raffinate rappresentazioni a tutto tondo dell’ellenismo maturo, esemplificate dalla cosidetta vecchia ubriaca), ed anche il suo autoritratto allo specchio. In coerenza con quanto le stesse pitture superstiti testimoniano, proiettando il doppio, lo specchio era lo strumento primo che rendeva visibile al destinatario la sua imago, restituendo la possibilità di intuire ciò che gli altri potevano vedere: elemento importante, poiché come si appare — e che cosa piace — dipendono inevitabilmente da una serie di convenzioni. Quindi, creare la propria immagine, che riceve la sua designazione dalla percezione collettiva, diventa lessico e sintassi di una formazione sociale che condivide codici nei quali per l’appunto si riconosce26. Il ritratto pittorico, come risulta fin dai passi plautini, esprimeva la convinzione — partecipata nel sentire comune — relativa alla capacità di riprodurre in modo veritiero la fisionomia (e Iaia usò appunto lo specchio per il suo autoritratto), tanto da consentirne l’interscambio con la descrizione verbale. Ove ci spingessimo ad interpretare l’anthropographia anche nell’accezione della ritrattistica, spiegandola come una branca autonoma della pittura, allora Iaia ne era una virtuosa. Le sue opere, rivolte ad una clientela che evidentemente si riconosceva nei soggetti (sui quali sempre Plinio riporta: imagines mulierum maxime), avrebbero potuto non essere destinate solo all’esibizione privata nelle gallerie dei ritratti di famiglia. Quelle su tavola, in particolare, avrebbero potuto essere inserite nelle pareti, rientrando nella categoria delle picturae ligneis formis inclusae così come è in seguito documentato da alcuni esempi ercolanesi e pompeiani27, forse disposte nell’atrio della casa per mostrare ad un tempo il prestigio sociale dei proprietari ed il valore attribuito alle opere stesse. Seguendo questa prospettiva, mi sembrano di rilevante interesse due piccoli medaglioni rotondi dipinti sulla sommità di due sottili e preziose colonnine con capitello corinzio e fusto gemmato, disposte con simmetria nella parete nord del cubicolo 15 della lussuosa villa di Boscotrecase. I tondi presentano due teste di profilo a differenza della tipologia più diffusa che contempla generici busti frontali, sia maschili che femminili; secondo il suggerimento avanzato 25 Così preferisco interpretare la notizia, piuttosto che come pura contrapposizione rispetto alla vita licenziosa condotta da un altro pittore, Arellio, attivo a Roma nella seconda metà del i sec. a.C.: Moreno 2010, 142-143. 26 Micheli 2011, 49-50. 27 Salvadori 2016, 478-485 (con bibliografia precedente). 656 Pinxere et mulieres: Plin. Nat. hist. 35, 147 da Anderson28, le teste non restituiscono tipi ideali maschili o tipi divini (uno maschile, uno femminile) o possibili ritratti maschili (per i quali sono stati proposti i nomi di Agrippa e Agrippa Postumo), ma profili femminili. Entrambi avrebbero fattezze connotate in senso individuale, tanto da presentare i volti di due donne importanti della casa di Augusto. Stante la plausibilità del genere femminile dei due volti, il punto non è ovviamente accertare se si tratti o meno di Livia e di Giulia Augusti, bensì di considerare le due teste come esito di una solida tradizione ritrattistica in pittura, apprezzandone l’applicazione entro il sistema decorativo della parete che qui esclude le più comuni imagines clipeatae. In tale accezione mi pare quindi che i due piccoli profili possano ben corrispondere alla traduzione picta sia di preziosi ritratti caelati sia di altrettanto pregiati ritratti realizzati cestro in ebore come pure su vetro29, arrecando un ulteriore tassello circa propensioni e gusto artistico commisurati al pregio degli arredi, che sono esplicitamente dichiarati dai motivi sui fusti gemmati delle colonne30. Con la sua origine cizicena Iaia, educata alla scuola pergamena ed abituata al lusso delle corti microasiatiche, dove si muovevano colte e volitive basilisse della statura di Cleopatra, figlia di Mitridate del Ponto, grazie alla sua arte avrà forse dato una diversa visibilità alle matrone romane. Bibliografia Anderson M.L. 1987, The Portrait Medaillons of the Imperial Villa of Boscotrecase, American Journal of Archaeology, 91, 127-135. 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L’autore si azzarda ad ipotizzare che i medaglioni siano stati dipinti in occasione delle nozze di Giulia e Tiberio. 29 Faedo 1976. 30 Cima 1986, 113-117. 657 Maria Elisa Micheli Carofano P. 2007, Il dibattito Caylus – Diderot e il primato della riscoperta dell’encausto, Bulletin de l’Association des Historiens de l’Art italien, 13, 82-95. Carofano P. 2013, Fortuna dell’encausto nel Settecento: i Saggi sul ristabilimento dell’antica arte de’ greci e de romani pittori di Vincenzo Requeño, Anales de Historia del Arte, 23, 177-192. Cima M. 1986, Il “prezioso arredo” degli Horti Lamiani, in La Rocca E., Cima M. (a cura di), Le tranquille dimore degli dei. La residenza imperiale degli Horti Lamiani, Venezia, 105-144. Faedo L. 1976, Un ritratto su vetro da Pompei, Prospettiva, 42-46. Hemelrijk E.A. 1999, Matrona docta. Educated Women in the Roman élite from Cornelia to Julia Domna, London. 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A very interesting example for this porpouse can be seen in a relief sculpted scene on a marble altar dedicated to the Matronae, coming from the Roman town of Angera, where four female devotees appear, engaged in a ritual dance under an oak. The comparison to other relief figurative scenes where landscape elements are present will be useful in order to better understand the value of the tree in that monument. Gli elementi paesistici nella scultura a rilievo romana, e soprattutto gli alberi, sui quali vorrei concentrarmi in questa sede, mostrano una notevole varietà di impiego, in rapporto col tipo e la destinazione dell’oggetto che contribuiscono a decorare e col registro stilistico adoperato. Lo spettro è molto ampio: dalle riproduzioni grandiose di intere foreste, quali si osservano un monumento ufficiale dello Stato come la Colonna Traiana, si arriva all’umile pianta appena stilizzata nel fondale di una scena di pastorizia, abbozzata su una stele funeraria periferica. Tuttavia le raffigurazioni di alberi sembrano essere motivate da logiche sostanzialmente analoghe, nelle loro molteplici occasioni di utilizzo nei 661 Simone Rambaldi diversi campi della scultura a rilievo romana. Nella maggior parte dei casi in cui si presenta, l’albero concorre a definire l’ambiente dove si svolge la scena nella quale è inserito. In talune circostanze, però, esso appare caricarsi di una valenza più pregnante, travalicando la funzione di semplice elemento di contorno e recando, così, un contributo significativo alla comprensione del contenuto raffigurato. Per l’analisi che intendo proporre vorrei basarmi su un monumento cisalpino, l’altare delle Matrone rinvenuto ad Angera nel 1909 e oggi conservato nel Museo Civico Archeologico di Varese. Si tratta di un’opera assai nota e più volte studiata, anche in tempi molto recenti, però la questione che qui mi interessa approfondire non è mai stata affrontata nello specifico. Dopo la fondamentale pubblicazione di Giovanni Brusin del 1944, ancora oggi di riferimento1, l’altare è stato generalmente considerato nel quadro di indagini più ampie, di volta in volta dedicate o ad Angera romana e alle sue testimonianze di scultura2, o al patrimonio epigrafico angerese e varesino3, o al culto di origine celtica delle Matrone nella Gallia Cisalpina4. Prima di prendere in esame l’argomento specifico che è all’origine del presente contributo, non sarà inutile ripercorrere le caratteristiche generali del manufatto e i suoi principali confronti. Pur nella sua frammentarietà l’altare, in marmo di Candoglia5, fornisce alcuni dati certi, intorno ai quali la sua interpretazione si è ormai sedimentata: un ignoto Sex(tus), di cui si conosce per intero solamente il praenomen, dedicò il monumento alle Matrone, come si ricava dall’iscrizione disposta su quattro linee, tutte purtroppo mutile della porzione destra, a causa dei seri danni, certo volontari, che il pezzo si trovò a soffrire6. Al culto delle dee ricordate nell’epigrafe rimanda con sicurezza la scena scolpita a rilievo sulla fronte posteriore, il lato che inevitabilmente ha sempre suscitato 1 Brusin 1944. Per le circostanze del recupero, avvenuto nella corte di un oratorio annesso alla chiesa angerese di S. Alessandro, cfr. Giussani 1917-1918, 71-75, n. 1, che contiene la prima descrizione del pezzo, con l’indicazione delle sue misure (m 0,95 x 0,60 x 0,44). Poiché si trovava in giacitura secondaria, unitamente ad altri materiali antichi pertinenti a un ipocausto, non è possibile identificare il punto dell’Angera romana da cui il manufatto proveniva. Per le vicende seguite alla sua scoperta, sulla base dei documenti d’archivio, cfr. Banchieri 2003, soprattutto 132-135 e passim. 2 Sena Chiesa 1982, 116-117 e 122-125; Tocchetti Pollini 1983, 171-174, n. 7; Sena Chiesa 1995, xxxiii; 2014, 76-77. 3 Sartori 1995, 39; Cantarelli 1996, 70-75, n. 18; Sartori 2009, 368, n. ANG 10.06. 4 Landucci Gattinoni 1986, 31-32, 87, n. 79; Zaccaria 2001-2002, 153, n. 34; Mennella, Lastrico 2008, 123, n. 53MA; Miedico 2016a, 210-212; 2016b, 49-50. 5 Cfr. Strada 1996, 240. 6 AE 1948, 203: Voto [soluto opp. suscepto] / Ma[tronis] / Sex(tus) S[…] / dic[avit]. A proposito dell’integrazione nell’ultima linea e della possibilità che, al posto del verbo, recasse il cognomen del dedicante, cfr. Cantarelli 1996, 73. 662 Alberi e culti. Un contributo all’analisi degli elementi paesistici nella scultura a rilievo il maggiore interesse. Qui si osserva una fila di quattro fanciulle, dai volti poco individualizzati e con le braccia reciprocamente intrecciate, danzanti sotto un albero, al cui tronco è appoggiata un’anfora (fig. 1). I guasti che la superficie scultorea ha subito nella parte inferiore, lungo il margine sinistro e soprattutto nella porzione superiore, interamente perduta, non ostacolano la lettura d’insieme della scena rappresentata. Sul più stretto fianco sinistro dell’ara (rispetto all’iscrizione), nella sostanza il meglio conservato benché lacunoso, si erge un rigoglioso e complesso stelo vegetale, dal quale si dipartono simmetricamente foglie lanceolate dalla superficie ondulata (in basso e sulla cima) e una serie di calici acantiformi sovrapposti, desinenti in un elemento somigliante a una pigna; altri gambi con fiori sbocciati accrescono la ricchezza di questa composizione fitomorfa, ribadita da un grosso festone di foglie di alloro appeso lungo l’orlo superiore della superficie scolpita, con bende ai due capi (un’analoga ghirlanda doveva corredare il lato delle fanciulle, come si evince dalla benda che scende dall’alto sulla destra, unico residuo rimasto). Con ogni probabilità anche il fianco opposto, il destro, doveva essere decorato a rilievo, ma purtroppo qui nulla è visibile, perché l’azione di scalpellatura subita dall’altare ha asportato completamente questo lato. La faccia con l’iscrizione, invece, oltre che lacunosa nella porzione destra, come si è detto, è priva anche di tutta la parte sottostante al testo epigrafico, dove però doveva trovarsi un’altra scena a rilievo, la cui originaria presenza è rivelata da due piccoli dettagli sopravvissuti, appena visibili lungo il margine della lacuna inferiore: la sommità di una testa umana a sinistra e quello che sembra essere un corno con un orecchio bovino un poco più in alto a destra. Da ciò si deduce che, sotto l’iscrizione, doveva essere rappresentata molto probabilmente una scena di sacrificio alle Matrone, secondo una prassi comune anche ad altri manufatti dello stesso tipo, come può ad esempio confermare un’altra celebre ara angerese, quella dedicata a Giove dai Qurtii, il cui lato frontale è similmente impaginato con l’epigrafe in alto e il rito sacrificale in basso7. Il culto delle Matronae, o Matres, è bene attestato in area celto-germanica, con una massiccia concentrazione di occorrenze nel territorio renano, in particolare nella zona in antico abitata dalla popolazione degli Ubii (tra Colonia e Bonn), dove erano specialmente venerate le Matronae Aufaniae. Dai loro santuari provengono numerose testimonianze scultoree di piena età imperiale 7 Il monumento, conservato al Civico Museo Archeologico di Milano, è riconducibile all’epoca claudio-neroniana: Sena Chiesa 1982, 112-113; Tocchetti Pollini 1983, 157164, n. 2; Schraudolph 1993, 225, n. L60. Se il rilievo frontale dell’altare delle Matrone raffigurava effettivamente un rito sacrificale, da quel poco che ne è rimasto si arguisce che la testa dell’animale si trovava più in alto di quelle dei celebranti, secondo una disposizione non tanto frequente nelle rappresentazioni di tale soggetto. 663 Simone Rambaldi che rappresentano di norma una triade di personaggi femminili, quasi sempre seduti l’uno accanto all’altro. In queste figure sono sicuramente da riconoscere le divinità stesse (oppure le statue di culto venerate nei loro templi), caratterizzate da lunghe vesti e, in molti casi, da tipici copricapi di dimensioni imponenti, di norma indossati solo dalle due dee che chiudono il gruppo ai lati8. In Italia la devozione è presente nell’area cisalpina, dove le Matronae (mai Matres) sono documentate soprattutto lungo la fascia pedemontana, da Ovest a Est, ricevendo di preferenza la denominazione di Iunones in ambito veneto9. Come avviene anche oltralpe, nel silenzio totale delle fonti letterarie, le uniche informazioni che si possono ricavare sul culto sono quelle fornite dai monumenti stessi che i devoti dedicarono a queste divinità. Il centinaio di attestazioni cisalpine giunte sino a noi è composto quasi solamente di brevi testi di dedica, privi di un apparato figurativo10. Le uniche eccezioni sono costituite dal nostro altare Fig. 1. Varese, Museo Civico Archeologico (Villa Mirabello): altare delle Matrone di Angera, lato posteriore (da Cantarelli 1996). 8 Nell’ambito di una tradizione di studi molto ampia, per un’informazione basilare segnalo, anche per la bibliografia che riportano: Bauchhenss 1997; Woolf 2003; Garman 2008; Eck, Kossmann 2009; Biller 2010; Thomas 2014. Alcune attestazioni transalpine di Matrone in piedi, iconograficamente più simili ai casi nord-italici, sono indicate da Spagnolo Garzoli 1996, 101. 9 Sulle affini Dominae, testimoniate nella Venezia orientale, cfr. Bertacchi 1992. 10 In generale Ihm 1887, 112-120, n. 20-101; Landucci Gattinoni 1986; Zaccaria 20012002, 132-133; Mennella, Lastrico 2008. Il culto della Matrone ad Angera è comprovato da altre due testimonianze epigrafiche (CIL V, 5475-5476), su cui cfr. Landucci Gattinoni 1986, 85, n. 50-51; Sartori 1995, 35-36; Zaccaria 2001-2002, 153, n. 32-33; Mennella, Lastrico 2008, 122-123, n. 51-52MA; Sartori 2009, 368, nota 247; Miedico 2016b, 50-52. 664 Alberi e culti. Un contributo all’analisi degli elementi paesistici nella scultura a rilievo e da altri due manufatti simili per tipologia e iconografia, provenienti dal territorio piemontese, l’uno da Avigliana e l’altro da Pallanza. Anche in questi due casi sono rappresentate a rilievo teorie di fanciulle danzanti, tanto che si è ipotizzato che l’associazione di simili figure col culto matronale potrebbe essere stata introdotta proprio nell’area interessata dal ritrovamento di tali monumenti, data la fondamentale diversità che essi manifestano rispetto agli esemplari transalpini11. Nell’altare di Avigliana, forse il più antico del gruppo, le fanciulle (dai volti molto consunti) sono cinque, tutte allineate sulla faccia principale, direttamente sotto l’iscrizione e senza elementi di contorno, né vegetali né di altro genere, se si eccettua la striscia irregolare di terreno su cui poggiano i piedi12. In quello di Pallanza sono tre, scolpite sulla faccia posteriore sotto una ghirlanda con bende pendenti, come nel rilievo di Angera, però qui senza ulteriori dettagli a precisare l’ambiente13. Mentre sui fianchi dell’altare di Avigliana sono rappresentati oggetti rituali (una patera e un urceus), su quelli dell’esemplare di Pallanza compaiono due fanciulle molto simili alle altre tre (a parte la diversa pettinatura della chioma dietro la nuca), una per ciascun lato, per cui in totale le devote sono cinque anche qui. Il lato frontale, invece, rappresenta una scena sacrificale avente il dedicante come protagonista, immediatamente sotto il testo epigrafico. Se potesse essere confermata l’interpretazione proposta per il rilievo che, in origine, decorava nella stessa posizione la faccia principale dell’altare angerese, i due manufatti troverebbero in ciò un’altra affinità14. Per quanto riguarda la cronologia del 11 Tocchetti Pollini 1983, 154; Landucci Gattinoni 1986, 32-33. 12 L’altare, oggi conservato a Torino, fu dedicato dal liberto Ti(berius) Iulius Acestes (CIL V, 7210). Cfr. Ihm 1887, 114, n. 32; Brusin 1944, 160-162; Sena Chiesa 1982, 117; Landucci Gattinoni 1986, 32, 89, n. 93; Schraudolph 1993, 232-233, n. L116; Mennella, Lastrico 2008, 124, n. 78MA; Miedico 2016a, 212; 2016b, 55. Per la datazione all’età di Tiberio, proposta molti anni fa soprattutto sulla base del nome del dedicante, cfr. Brusin 1944, 162 e nota 27. 13 Questo è l’unico monumento sicuramente databile, poiché fu dedicato alle Matrone dallo schiavo di Caligola Narcissus (CIL V, 6641), che sarebbe poi divenuto un influentissimo liberto alla corte di Claudio. Fra i committenti di questi tre altari cisalpini, fu indubbiamente il personaggio di maggior rilievo. Cfr. Ihm 1887, 114, n. 35; Brusin 1944, 160-164; Sena Chiesa 1982, 117; Landucci Gattinoni 1986, 31-32, 86-87, n. 75; Schraudolph 1993, 232, n. L115; Zaccaria 2001-2002, 154, n. 50; Mennella, Lastrico 2008, 124, n. 73MA; Miedico 2016a, 210, 212; 2016b, 54-55. 14 Sulle analogie tra i due altari ha insistito in particolare Brusin 1944, 163-164, per il quale l’ara di Angera sarebbe stata direttamente influenzata da quella di Pallanza. È più verosimile pensare piuttosto all’esistenza di un modello comune. Ritengo opportuno precisare che, nel corso del presente lavoro, mi servo dei termini “altare” e “ara” come sinonimi, senza perpetuare l’arbitraria distinzione che talvolta è stata fatta in passato, quando il primo era riservato a sicuri Opferaltäre, mentre il secondo era applicato a monumenti di destinazione meno certa: cfr. Hermann 1961, 10. Sebbene sul suo lato superiore residuo non siano oggi visibili tracce utili per confermarlo, la Schraudolph ha supposto che il manufatto di Angera fosse più propriamente 665 Simone Rambaldi monumento angerese, di non facile definizione, sarei più disposto a seguire la datazione al periodo neroniano-flavio proposta da Tocchetti Pollini, per via della preoccupazione spaziale avvertibile nella scena principale, benché rimasta più nelle intenzioni che nel risultato, e dello spiccato gusto plastico del gambo vegetale sul fianco15. Dal Piemonte, precisamente dal territorio cuneese, proviene però anche una terza e più problematica testimonianza figurata. Essendo sprovvista di una convalida epigrafica, non può essere ricollegata al culto delle Matrone con assoluta certezza, ma alcune analogie che essa rivela coi monumenti appena esaminati sono tutt’altro che trascurabili. È un’ara marmorea conservata a Sommariva del Bosco, con un’immagine di Minerva scolpita su un lato breve e una rappresentazione di quattro personaggi femminili in piedi, con le braccia fra loro intrecciate, su uno dei lati lunghi; la prima figura a sinistra, di minore statura, reca con la mano destra un cesto16. A parte la mancanza dell’iscrizione, questo monumento mostra affinità anche con quanto è noto di un altro rilievo perduto da Morozzo, sempre dai dintorni di Cuneo, di cui rimane una succinta descrizione settecentesca17. L’associazione delle Matrone con altre divinità è una base, secondo un’ipotesi da lei avanzata anche per l’ara di Pallanza, che ritiene potesse forse sorreggere un’immagine delle Matrone: Schraudolph 1993, 26 e loc. cit. alla nota seguente. Sulle difficoltà che le somiglianze tipologiche pongono spesso alla differenziazione fra altari e basi, cfr. la discussione ibid., 23-27, e, più in generale, Hermann 1961. 15 Una cronologia un poco più alta per l’altare, intorno alla metà del i sec. d.C., è stata proposta da Brusin 1944, 162, e Sena Chiesa 1982, 124; per la Schraudolph 1993, 58, nota 73, e 233, n. L117, si dovrebbe invece risalire fino all’età tiberiana. Sartori 2009, 368, sulla base del dato epigrafico, ha proposto il ii sec. d.C., pur con un margine di dubbio. 16 Cfr. Spagnolo Garzoli 1996, 102 e nota 56, la prima che ha parlato di questo pezzo di proprietà privata, qualificandolo “base” nel testo e “ara” nella didascalia della figura che lo riproduce (tav. XXXVI), forse a causa di un’incertezza nella definizione tipologica (cfr supra, nota 14). La studiosa riferisce che, degli altri due lati, soltanto il più lungo è decorato con una scrofa. Il luogo di provenienza, ricondotto dubitativamente all’antica Pollentia, rimane sconosciuto. Cfr. Miedico 2016a, 212. 17 Si trattava di un voto sciolto alle Matrone da un Varius [Te]nax (CIL V, 7703): cfr. Ihm 1887, 113, n. 24; Brusin 1944, 160; Sena Chiesa 1982, 117, nota 34; Landucci Gattinoni 1986, 29-30, 82, n. 7; Zaccaria 2001-2002, 155, n. 54; Mennella, Lastrico 2008, 120, n. 11MA. Benché più volte trascritta nella bibliografia or ora citata, gioverà ripetere qui la descrizione di Pietro Nallino: “Sotto [l’epigrafe] tre femmine, quella di mezzo più grande, quella di dritto quasi uguale, quella a sinistra più piccola; quella di mezzo e quella di sinistra porgono la mano alla figura a dritto; la figura alla sinistra sembra tenere nella mano sinistra una piccola cesta”. Si sarebbe tentati di avanzare l’ipotesi che possa trattarsi proprio del pezzo di Sommariva del Bosco segnalato dalla Spagnolo Garzoli, privato del testo epigrafico, magari perché asportato in un’epoca imprecisata. In effetti le tre figure di cui Nallino parla all’inizio potrebbero riferirsi alla terna dei personaggi più grandi, intendendo la “figura alla sinistra” come quella più piccola col cesto. Sarebbero necessarie ulteriori verifiche, che al momento non mi è possibile effettuare. 666 Alberi e culti. Un contributo all’analisi degli elementi paesistici nella scultura a rilievo documentata per altra via nel territorio piemontese, come testimonia in particolare una serie di frammenti di ceramica comune di epoca imperiale, rinvenuti in varie località lungo il corso del fiume Sesia. Essi appartengono a una classe decorata con figurazioni a rilievo, che comprendono triadi femminili, dall’iconografia molto simile a quella che si riscontra negli altari considerati, in diversi casi accompagnate da Mercurio, talora in prossimità di un albero dall’esile fusto. Questi reperti ceramici, che, anche per il ruolo giocato dall’immagine di Mercurio, trovano confronti figurativi prevalentemente in ambito narbonese, possono essere messi in rapporto con una declinazione più domestica del culto matronale18. Il rilievo con le fanciulle sull’altare di Angera, rispetto alle sue controparti piemontesi, si distingue soprattutto perché è l’unico nel quale sia inserita una precisa notazione ambientale, la sua caratteristica che più interessa in questa sede. Le ghirlande appese sulle danzatrici, qui come sull’ara di Pallanza, non contano in tal senso, in quanto costituiscono un ornamento frequente dei monumenti votivi, come anche di quelli funerari19. Ciò che fa la differenza, nel caso angerese, è l’albero raffigurato in primo piano, tra la prima e la seconda fanciulla. L’elemento paesistico qui introdotto permette di postulare, per lo svolgimento della cerimonia rituale, una sede all’aperto, la quale potrebbe essere un giardino, oppure un luogo extracittadino sacro alle Matrone, benché non si possa nemmeno escludere uno spazio annesso al loro santuario ad Angera, di cui non sappiamo nulla. D’altronde disponiamo di scarsissime informazioni, e ricavabili soltanto dal materiale epigrafico, sulle caratteristiche dei luoghi dove veniva celebrato il culto matronale in Cisalpina, il quale, in ambito transalpino, è invece documentato anche per via archeologica20. La tipologia delle foglie e le grosse ghiande che pendono dai rami, indizi di uno scrupolo di veridicità non sempre riscontrabile nei monumenti di questo genere, rivelano chiaramente che l’albero è una quercia, pianta di cui il territorio angerese era ricco21. Alla 18 Spagnolo 1982, 97-98, tav. XLVI, 1; Mercando 1990, 447, fig. 4; Bertacchi 1992, col. 14 e 16, fig. 3; Ratto 2004, 135-137, fig. 1-2; Miedico 2016a, 212-213. Da tenere presente specialmente Spagnolo Garzoli 1996, che ha studiato a fondo questa classe di manufatti. L’associazione delle Matrone con Mercurio (e anche con Giove Ottimo Massimo) è esplicitamente attestata da due dediche epigrafiche provenienti dallo stesso territorio (CIL V, 6594 e 6596). 19 Cfr. in generale Honroth 1971. 20 Landucci Gattinoni 1986, 33-36. Talora pure nei manufatti dedicati alle Matrone in territorio germanico compaiono alberi, come nei lati posteriori di due altari alle Aufaniae di Bonn, dove però hanno un valore prettamente simbolico, in combinazione con altri elementi a formare composizioni del tutto divergenti da quella di Angera e associate anche ad altre divinità: Bauchhenss 2005. 21 Sugli antichi querceti della zona cfr. Sena Chiesa 1982, 124, e Rottoli 1995, 503. Su questa base, la Miedico 2016a, 213-214, propone di riconoscere nelle figure scolpite sull’altare 667 Simone Rambaldi dimensione cultuale rimanda di certo l’anfora panciuta, ritta verticalmente sul puntale e appoggiata al tronco della quercia. Il vaso conferma la devozione e la generosità del dedicante: più che di acqua lustrale da utilizzare nei riti, per la quale non sarebbe stato il contenitore più adatto, è meglio immaginarlo colmo di vino, offerto alle dèe22. Condivido l’idea, espressa dalla maggior parte degli studiosi che se ne sono occupati, che questi rilievi cisalpini non raffigurino le Matrone stesse, diversamente dai monumenti d’oltralpe, dove la canonicità triadica delle rappresentazioni lascia credere che vi compaiano proprio le dee23. Il numero variabile dei personaggi femminili sugli altari nord-italici che conosciamo, invece, sembra deporre a favore di una loro interpretazione come sacerdotesse o semplici devote, impegnate in una danza sacra che, evidentemente, costituiva parte integrante delle pratiche cerimoniali connesse con la venerazione locale delle Matrone. Doveva, anzi, trattarsi di un’azione che rivestiva un significato di speciale importanza nell’ambito del culto, visto il suo ricorrere nei manufatti che si riferiscono a questa devozione. La peculiarità che forse più colpisce l’osservatore, nelle quattro fanciulle del rilievo di Angera, come anche nelle loro consorelle sugli altri altari citati, è proprio la caratteristica movenza di danza, suggerita dal loro incedere nella stessa direzione e dalla posizione delle braccia reciprocamente intrecciate. Ciascuna di esse, infatti, afferra per mano non la compagna che la precede e quella che la segue direttamente, ma le due che vengono, rispettivamente, subito prima e subito dopo queste ultime, intrecciando le braccia, come se vi fossero due diversi cortei intersecati fra loro a formare una sorta di catena. L’ultima della teoria chiude la sequenza stringendo con la destra la mano della compagna davanti a lei, mentre la capofila tiene nella sinistra rimasta libera un ramoscello con una foglia lanceolata, in corrispondenza dello spigolo del blocco lapideo (anche la seconda danzatrice resta con la sinistra libera, di cui si scorge il palmo aperto al di sopra di una delle anse dell’anfora appoggiata all’albero, come le Matronae Dervonnae, il cui epiteto deriva dal termine celtico designante la quercia. La stessa studiosa avanza l’ipotesi che il c.d. Antro di Mitra, situato alla base della rocca di Angera, possa identificarsi col loro luogo di culto: ibid., 215-220, ed Ead. 2016b, 61-62. 22 In Sena Chiesa 1982, 117, l’anfora viene accostata al tipo Dressel 2-4, vinario, pur senza una piena certezza. 23 L’identificazione con le Matrone delle quattro fanciulle di Angera era stata proposta da Giussani 1917-1918, 72, ed è stata ripresa con convinzione dalla Landucci Gattinoni 1986, 32, per la quale la loro somiglianza reciproca “fa pensare a una tipizzazione sacrale riferibile più facilmente alle divinità che non ai loro fedeli”. Ma la genericità dei volti non ha in sé nulla di stupefacente, data la tipologia del rilievo. Non mi sembra nemmeno dirimente il confronto coi reperti ceramici ricordati più sopra, in cui l’apparente equiparazione delle fanciulle alla figura di Mercurio sarebbe la prova del loro status divino, secondo la Spagnolo Garzoli 1996, 102-103. 668 Alberi e culti. Un contributo all’analisi degli elementi paesistici nella scultura a rilievo se protendesse la mano verso un’altra compagna assente). Il ramoscello, che parrebbe di alloro più che di quercia, doveva assumere nell’ambito del rito un significato per noi irrimediabilmente perduto24. L’iconografia utilizzata per inscenare questa danza è poco comune nel mondo romano, mentre trova precedenti in ambito greco e soprattutto magnogreco: oltre a testimonianze vascolari, l’esempio certo più impressionante e conosciuto è quello fornito da una tomba peucetica a semicamera di Ruvo di Puglia, collocabile nel iv secolo a.C.25 Sulle sue pareti affrescate, trasportate al Museo Archeologico Nazionale di Napoli pochi anni dopo la scoperta avvenuta nel 1833, sfilano due diversi gruppi di donne, ciascuno dei quali è condotto da un giovane corifeo, con l’accompagnamento della musica eseguita da un liricine. Le danzatrici, ammantate e velate in vesti dai vivacissimi colori, incedono tutte verso destra, tenendosi per mano nel medesimo atteggiamento, pervaso però da un più avvertibile dinamismo, delle devote cisalpine delle Matrone. La somiglianza tra le due raffigurazioni, già da tempo notata26, ripropone l’annoso problema delle modalità con cui iconografie diffuse in contesti ellenizzati della penisola possano essere confluite verso il Nord, in concomitanza con l’immigrazione romana e italica nelle terre transappenniniche. Un indizio ulteriore del fatto che, al fine di rappresentare la danza rituale celebrata in onore delle Matrone, fosse stata ripresa e adattata un’iconografia inizialmente elaborata in un ambito di cultura greca può essere dato, a mio avviso, dall’abbigliamento delle fanciulle su tutti e tre gli altari27. Le lunghe vesti che le figure uniformemente ripetute indossano, benché rese in modo piatto e schematico con le pieghe profilate al trapano (nel caso di Avigliana appaiono più corpose), ricordano da vicino dei pepli, come è evidente soprattutto nella presenza dell’apoptygma e delle caratteristiche pieghe a “V” sul petto (queste sono meno evidenti nei 24 Per un’analisi di tipo antropologico della danza delle Matrone cisalpine, cfr. i recentissimi studi di Miedico 2016a, soprattutto 214-216, e 2016b, 56-60. 25 Segnalo in particolare, anche per gli altri confronti iconografici della movenza, gli studi di Todisco 1994-1995, 1999 e 2004, il quale mette in relazione la danza di Ruvo col contesto mitico teseico e la dottrina orfico-pitagorica, e Gadaleta 2002, 135-156. Quest’ultima ricorda in modo molto conciso anche le danze nei rilievi matronali di Avigliana e Angera (però indicando erroneamente come proveniente da Avigliana pure il secondo: 150, nota 71, e didascalia della 152, fig. 74), attribuendovi una valenza escatologica, in analogia con l’interpretazione delle pitture ruvestine da lei condivisa. 26 Cfr. Brusin 1944, 160, nota 16; Landucci Gattinoni 1986, 30-31. 27 Più facilmente definibili come esempi di una produzione influenzata da tradizioni ellenistiche, pur con esiti originali, gli altri motivi iconografici di derivazione greca presenti sui manufatti scultorei di Angera, come la base dedicata a Iuppiter Optimus Maximus e i rocchi di colonne decorate, su cui cfr. Sena Chiesa 1982, 113-116, e Tocchetti Pollini 1983, 169-171, n. 6, e 174-178, n. 8. In generale sull’influsso artistico ellenistico nel territorio transpadano, soprattutto nella sua area centrale, Sena Chiesa 1986, 280-306. 669 Simone Rambaldi rilievi dell’ara di Pallanza, che è l’esemplare stilisticamente più povero dei tre). Inoltre propenderei anch’io, sulla scorta di Tocchetti Pollini, per mettere in collegamento la pettinatura delle fanciulle più con l’intonazione di classicismo periferico della rappresentazione che con la specifica acconciatura di una dama imperiale, come quella di Agrippina Maggiore, chiamata in causa in passato28. La disposizione così serrata delle fanciulle, unite strettamente per mezzo delle braccia, suggerisce che la loro danza proceda con andamento circolare, intorno al fulcro costituito dall’albero e dall’anfora ad esso associata, dato che questi elementi risultano collocati davanti a loro. Il movimento in tondo, chiuso o aperto, tenendosi per mano, spesso intorno a un centro (che può essere un altare o un altro oggetto investito di significato sacrale), ha un valore molto importante nell’orchestica antica, femminile in particolare, ed è frequentemente testimoniato fin da epoca remota29. La danza deve essere guidata da una figura eminente, dotata di qualità che la distinguano dal resto del gruppo30. La documentazione giunta sino a noi riguarda essenzialmente l’ambito greco, poiché sulla danza nel mondo romano siamo assai meno informati; tuttavia, se non altro nella sfera religiosa, il ruolo da essa rivestito risulta essere stato in generale meno preponderante31. Per quanto sia difficile rintracciare modelli precisi, sul monumento angerese potrebbe forse avere influito il ricordo di composizioni come le danze di ninfe intorno a un altare, molte volte all’interno di grotte, a noi note soprattutto da rilievi votivi greci, realizzati dal iv secolo in poi32. Di norma, in tali rappresentazioni, le ninfe sono in numero di tre e sono precedute da Hermes, il quale guida la danza, alla presenza di Pan intento a suonare e di Acheloo, quest’ultimo spesso limitato alla sola maschera; le ninfe si tengono per mano oppure si afferrano reciprocamente un polso33. Sembra, dunque, aver colto nel segno Gemma Sena Chiesa, quando accennava alla “tradizione mediterranea di ninfe” con la quale il culto pedemontano delle Matrone potrebbe 28 Così Brusin 1944, 162, e Sena Chiesa 1982, 117. Cfr. Tocchetti Pollini 1983, 174, che ravvisa comunque una maggiore affinità con la pettinatura di Antonia Minore. 29 Calame 1977, 77-84; Lawler 1984, 31-32 e passim; Yioutsos 2011. 30 Calame 1977, 84-143. 31 Shapiro et al. 2004, 337-343 (K. Giannotta, H.A. Shapiro). 32 Feubel 1935; Isler 1981, 22-24, n. 166-196; Wegener 1985, 139-150; Lonsdale 1993, 272-275; Yioutsos 2011. L’esemplare più antico della tipologia pare essere il rilievo di Arcandro al Museo Archeologico Nazionale di Atene, risalente all’ultimo quarto del v sec. a.C.: Wegener 1985, 140-141, 306, n. 141. 33 Per i vari tipi di danza che prevedevano donne unite fra loro, cfr. Delavaud-Roux 1994, 100-113; per il legame mediante i polsi, anche Yioutsos 2011, 237-238. 670 Alberi e culti. Un contributo all’analisi degli elementi paesistici nella scultura a rilievo essere stato collegato, soprattutto se confrontato con le forme assunte nei territori transalpini34. Nella raffigurazione della danza delle devote di Angera, l’albero e l’anfora posti in primo piano coprono una piccola porzione della scena, conferendole allo stesso tempo un senso di maggiore profondità spaziale. Nei rilievi romani di committenza privata, come quelli funerari e votivi, nel cui ambito rientra il nostro altare, gli elementi paesistici o di arredo sono generalmente introdotti con la funzione di indicatori ambientali, allo scopo di precisare la cornice dell’episodio scolpito, il quale rimane sempre la fondamentale ragion d’essere della rappresentazione35. Queste appendici, inserite in composizioni peraltro sempre improntate a un’estrema sintesi, sono di solito trattate con molta sobrietà, poiché l’aggiunta anche di un solo elemento era evidentemente ritenuta sufficiente per completare il contenuto del quadro. La notazione ambientale, nella sua essenzialità, contribuisce a caratterizzare i personaggi raffigurati e le azioni che essi svolgono, sottolineandone la “sfera di competenza”, che può essere, ad esempio, la bottega per un commerciante oppure lo scenario naturale per un pastore36. Ma quello che stupisce, nell’altare angerese, è la posizione di grande spicco conferita proprio alla rappresentazione dell’albero con l’anfora ai suoi piedi: si tratta di un’accentuazione di significato dell’elemento paesistico per la quale è difficile trovare confronti, nell’ambito delle opere scultoree di questo genere. Una prima spiegazione che si può proporre è che tali elementi non servano soltanto a connotare l’ambiente in cui si svolge la cerimonia raffigurata, visto che, come si è già detto poco più sopra, la scelta di anteporli visivamente alle fanciulle ha di certo anche lo scopo di suggerire che la danza si snoda intorno ad essi. Però è soprattutto alla quercia che sembra essere stata assicurata una notevole importanza all’interno della scena, dove in nessun modo può essere scambiata solo per un elemento di contorno. È da notare, in primo luogo, l’attenta 34 Sena Chiesa 1982, 117 e 124. L’argomento è stato ripreso da Spagnolo Garzoli 1996, 104-108, che ha richiamato l’attenzione sull’origine greca dei nomi dei dedicanti delle are di Avigliana e Pallanza, per spiegare la sensibilità verso quel tipo di repertorio iconografico, di cui anche le citate ceramiche che mostrano le Matrone accompagnate da Mercurio sono certo un riflesso. Per il collegamento con le raffigurazioni di ninfe guidate da Hermes, cfr. Bauchhenss 1997, 814, n. 57, e 816 (con particolare riferimento a un rilievo di Vindonissa); Miedico 2016a, 216. 35 È quanto avveniva già nei rilievi greci di analoga natura: Carroll-Spillecke 1985; Wegener 1985. 36 Un recente e fondamentale riesame dell’ambito artistico cui appartengono anche i rilievi di questo tipo è quello tracciato dai vari saggi che compongono de Angelis et al. 2012, dove la valutazione di quella che un tempo veniva etichettata “arte plebea”, con una formula che ha avuto lunga fortuna, è stata reimpostata su basi criticamente aggiornate. 671 Simone Rambaldi caratterizzazione e l’ampia superficie accordate al suo fogliame, oggi in buona parte perduto, ma in origine esteso a riempire gran parte dello spazio aereo sopra le devote. L’idea di esuberanza vitale suggerita da questa soluzione iconografica, e richiamata anche dal ricco gambo fiorito scolpito nel fianco dell’altare, è presumibilmente da mettere in rapporto con la fertilità che le Matrone dovevano propiziare: così si può spiegare anche la resa sovradimensionata delle ghiande che spuntano in mezzo alle foglie, da non attribuire semplicemente a imperizia dell’artefice, ma alla volontà di assicurare la massima visibilità ai frutti dell’albero. Occorre tornare sulla questione della sovrapposizione della quercia alle figure delle devote, poiché si tratta di una specificità iconografica su cui è necessario soffermarsi, al fine di giungere a una migliore comprensione dell’intera scena rappresentata. Prima di procedere, però, è opportuno considerare almeno concisamente le modalità con cui gli alberi si trovano raffigurati su altari e stele di età romana, circoscrivendo l’esame all’Italia settentrionale, nell’ambito della quale finora ci siamo mossi. In opere di questo tipo, dove l’economia delle composizioni impone un valore strettamente funzionale e non banalmente accessorio a tutti gli elementi che entrano in gioco, alle occorrenze di un albero si possono attribuire tre ruoli differenti: 1. l’albero compare isolato in posizione secondaria, ad esempio nei fianchi del monumento, come elemento in qualche modo pertinente alla valenza dell’opera che contribuisce a decorare (ruolo “simbolico”, lo potremmo definire); 2. l’albero riveste un’importante funzione semantica all’interno della scena rappresentata, la quale in sua assenza non potrebbe svolgersi, o risulterebbe comunque alterata in misura significativa (ruolo “narrativo”); 3. l’albero è introdotto con valore di sfondo, con lo scopo di suggerire che la scena si svolge all’aperto, in combinazione con altri elementi naturali o spesso isolato (ruolo “descrittivo”). Sebbene le consuetudini di utilizzo degli elementi paesistici nei manufatti privati romani rimangano sostanzialmente inalterate nel corso del tempo, per chiarire le tre tipologie indicate darò la preferenza a qualche esempio desunto da un ambito cronologico non troppo lontano da quello che si è proposto per l’altare angerese: 1. Il ruolo che abbiamo definito simbolico si esercita molte volte nelle zone collaterali di un manufatto scolpito. Sui fianchi dei monumenti, nei casi in cui questi siano decorati da elementi vegetali, appaiono peraltro più diffusi motivi 672 Alberi e culti. Un contributo all’analisi degli elementi paesistici nella scultura a rilievo fitomorfi di altro genere, quali lo stelo elaborato che si protende verso l’alto sul lato sinistro dello stesso altare delle Matrone, oppure il tralcio d’edera che fuoriesce da un kantharos sul lato destro della citata ara angerese dei Qurtii. Ma a volte si trovano raffigurati anche veri alberi, di dimensioni più o meno grandi, come può testimoniare l’altare funerario di Petilia Iusta di Aquileia37 (fig. 2). Talora sono introdotti per corredare la faccia principale, come le due piante di alloro nella stele ravennate dei Firmii, realizzate a rilievo molto appiattito ai lati della nicchia inferiore, la quale reca il busto-ritratto del verna Speratus38. Fig. 2. Aquileia, Museo Archeologico Nazionale: altare funerario di Petilia Iusta (da Santa Maria Scrinari 1972). 2. Un’importante attestazione nord-italica del ruolo narrativo che l’albero può rivestire è visibile nell’ara funeraria della liberta Petronia Grata, proveniente da Acqui Terme e oggi a Torino39. Su uno dei quattro lati, all’interno 37 Santa Maria Scrinari 1972, 135, n. 388; Dexheimer 1998, 102-103, n. 65; Lettich 2003, 267-268, n. 367; Cigaina 2015, 22, nota 11 (di recente datato al ii sec. d.C.; CIL V, 1331). Sull’altro lato dell’ara è rappresentata una Venere nuda, con un ramoscello nella mano sinistra. 38 Mansuelli 1967, 121-122, n. 8; Pflug 1989, 154-155, n. 10 (secondo quarto del i sec. d.C.; CIL XI, 178). 39 Mercando 1998, 333, 336; Ead., Paci 1998, 24; Giuliano 2000, 59, n. 15 (prima metà del ii sec. d.C.; CIL V, 7521). 673 Simone Rambaldi di un riquadro vegetale, è raffigurato un personaggio maschile, riconoscibile come Ercole per via della pelle di leone e della probabile clava che gli stanno accanto, intento a sradicare un albero (fig. 3). È ovvio che, in un caso come questo, peraltro un unicum iconografico, la pianta assolve una funzione essenziale, in quanto costituisce parte integrante dell’azione rappresentata, la quale non potrebbe farne a meno. Fig. 3. Torino, Museo di Antichità: altare funerario di Petronia Grata, fianco destro (da Mercando, Paci 1998). Fig. 4. Sarsina, Museo Archeologico Nazionale: stele di Antella Prisca e Lucius Tasurcius (da Marini Calvani, Curina, Lippolis 2000). 3. Il ruolo descrittivo è quello che ha richiesto più spesso l’inserimento di un albero: nella maggior parte delle occorrenze, esso appare sufficiente, anche senza il concorso di altri elementi, per suggerire lo svolgimento en plein air dell’episodio mostrato nel rilievo. Un buon esempio, notevole non da ultimo per la qualità formale che risente di evidenti esperienze ellenistiche, è fornito dall’ara del liberto Eupor ad Aquileia, che reca sui fianchi due riquadri con scene relative all’infanzia e al culto di Priapo: in entrambe la presenza di un 674 Alberi e culti. Un contributo all’analisi degli elementi paesistici nella scultura a rilievo albero, reso con particolare attenzione naturalistica, fornisce la necessaria connotazione ambientale, in combinazione col suolo roccioso, sul quale agiscono le figure rappresentate40. Anche nei monumenti di qualità più modesta, un albero può essere non di rado utilizzato con la funzione di indicatore d’ambiente, per fare da sfondo ad attività che si svolgono all’aperto, come, ad esempio, quelle legate alla pastorizia: si pensi a una stele frammentaria torinese, dove il terreno di pascolo è appunto suggerito dalla presenza di un albero che si scorge in secondo piano, dietro il gregge scaglionato su più livelli per dare un senso di profondità alla scena41, oppure a una più tarda stele ravennate, dove un albero, pur nella povertà formale dell’insieme, appare pieno di foglie accanto a una figura di “buon pastore” con le sue pecore42. La pianta sembra essere, poi, un elemento quasi indispensabile negli episodi di caccia oppure di lotta e inseguimento fra animali, per evocare sinteticamente il paesaggio naturale rimarcandone la selvatichezza, a maggior ragione ove gli uomini siano assenti: si tenga presente, ad esempio, il fregio sotto il timpano di una stele torinese, dove un albero separa un’antilope dal leone in corsa che la insegue, tenuto per la coda da un erote43. Lo stesso si può dire per scene di altro genere, ma sempre situate in mezzo alla natura, come attesta la stele di Antella Prisca e Lucius Tasurcius a Sarsina, raffigurante un accoppiamento tra due ovini, che si svolge accanto a un albero spoglio, unico elemento di paesaggio44 (fig. 4). Questa articolazione delle occorrenze non va naturalmente intesa in modo rigido. In certe circostanze, infatti, la pianta esercita una funzione che potremmo definire polisemantica, poiché riveste un ruolo che assomma allo stesso tempo aspetti differenti, ad esempio quando non si limita a definire l’ambiente, ma interviene a qualificare divinità prettamente legate a luoghi boscosi, come il dio Silvano, fra i cui attributi si annovera il pino45. Oppure quando 40 Di Filippo 1970; Santa Maria Scrinari 1972, 181, n. 554; Beschi 1980, 388-393; Lettich 2003, 19-20, n. 14 (databile probabilmente al tardo i sec. d.C.; CIL V, 833). 41 Di incerta provenienza, è oggi al Museo di Antichità: Mercando, Paci 1998, 109-110, n. 47; Verzár-Bass 2005, 253-254 (i sec. d.C.; CIL V, 7189). 42 Mansuelli 1967, 152, n. 60 (CIL XI, 320). 43 Proveniente da Torino e conservata al Museo di Antichità: Mercando, Paci 1998, 134136, n. 66 (fine del i-metà del ii sec. d.C.; CIL XI, 7046). 44 Oggi nel locale Museo Archeologico Nazionale: Marini Calvani, Curina, Lippolis 2000, 226, n. 42 (M.T. Pellicioni); Susini, Donati 2008, 269 (entro la prima metà del i sec. d.C.; CIL XI, 6548). Nell’albero privo di fronde si è proposto di vedere un simbolo della caducità della vita, in rapporto con la speranza in una rigenerazione dopo la morte, allusa dall’accoppiamento tra i due animali. 45 Così in un altare a Torino (Museo di Antichità), dove Silvano tiene un mano un ramoscello di pino, accanto al cane che abitualmente lo accompagna e a un albero: Mercando 1998, 327, 329; Ead., Paci 1998, 210 (CIL V, 7146). 675 Simone Rambaldi essa fa riferimento a un albero specifico del mito: una rappresentazione del Lupercale nel timpano di una stele piemontese mostra, in posizione arretrata, però centrale e ben visibile, un albero il quale non solo allude al paesaggio silvestre che fu teatro dell’allattamento dei due gemelli, ma si carica anche di una valenza più significativa, poiché si tratta non di una pianta qualunque, bensì della ficus ruminalis che fu testimone dell’episodio46. Casi più complessi si registrano in rapporto con l’attenzione per determinati schemi iconografici, come si vede nel basamento della stele dei Concordii, a Reggio Emilia. Qui, al centro di una rappresentazione delle Stagioni, è presente un erote che si appoggia a un albero (fig. 5): se quest’ultimo, da un lato, sottolinea lo spazio aperto nel quale le personificazioni disposte a coppie ai suoi lati vanno concepite, in concomitanza con l’arbusto che si nota all’estremità sinistra, accanto alla Primavera, dall’altro è un necessario complemento dell’immagine stessa dell’erote, che, col suo corpo addossato al tronco e il braccio piegato sopra la testa, rimanda chiaramente alla tradizione prassitelica delle figure appoggiate47. Fig. 5. Reggio Emilia, Parco del Popolo: stele dei Concordii, particolare (foto Rambaldi). 46 La scena è rappresentata nella stele della liberta Antistia Delphis (CIL V, 7044), conservata nel Castello di Reano. Gli elementi paesistici che connotano il luogo sono inseriti nei tre vertici del triangolo timpanale, due rocce in basso e la chioma della ficus, dalla curiosa forma prismatica, in alto, sopra la lupa. Cfr. Mercando 1998, 338; Ead., Paci 1998, 206, n. 132 (la stele è collocabile nella prima metà del ii sec. d.C.). Il tema trova raffronti anche in ambito provinciale, come rivelano le stele pannoniche studiate dalla Palágyi 2003, la quale è incline a vedere qualche riflesso del paesaggio locale negli elementi naturali raffigurati su taluni monumenti. 47 Il monumento fu recuperato presso Boretto, nel territorio di Brescello. Parte del recinto funerario è stata ricostruita nel Parco del Popolo di Reggio Emilia, dove la stele è tuttora visibile. Cfr. Aurigemma 1931; Scarpellini 1987, 137-139, n. 21; Pflug 1989, 178-179, n. 58 (terzo quarto del i sec. d.C.). 676 Alberi e culti. Un contributo all’analisi degli elementi paesistici nella scultura a rilievo Alla luce del panorama or ora delineato, l’albero delle Matrone risulta esercitare anch’esso un duplice ruolo, descrittivo (in quanto puntualizza il luogo all’aperto dove si compie la cerimonia) e narrativo (in quanto probabile fulcro dell’azione rituale). A questo punto possiamo concentrarci sulla particolare scelta iconografica già rimarcata in precedenza, cioè la parziale sovrapposizione dell’albero alle danzatrici, la quale ribadisce l’importante funzione da esso esercitata all’interno della composizione. È questo un accorgimento di applicazione molto infrequente, nell’ambito della produzione artistica romana cui appartengono il nostro altare e gli altri esempi passati in rassegna, poiché gli elementi paesistici, quando presenti, sono normalmente aggiunti dietro o accanto alle figure protagoniste delle scene scolpite, come d’altronde è naturale48. Un raro esempio di pianta anteposta alla scena principale è dato da un rilievo provinciale piatto e disegnativo, recuperato nel territorio della Pannonia Inferior, dove due animali, un cervo e un capriolo, sono raffigurati uno dietro l’altro al di là del tronco di un albero dal ricco fogliame49 (fig. 6). Probabilmente, con la particolare soluzione iconografica qui adottata, pur tenuto conto della povertà formale complessiva, si voleva conferire uno speciale risalto all’ambiente naturale in cui gli animali si trovano. Fig. 6. Szekszárd, Wosinsky Mór Megyei Múzeum: rilievo con animali (da Burger 1991). 48 Già nella scultura greca la prolessi dell’albero, in relazione con una figura che viene da esso parzialmente coperta, è un espediente di uso poco consueto. La si trova in una delle metope del lato sud dello Hephaisteion nell’Agorà di Atene, dove è raffigurato Teseo impegnato a legare Sini all’albero, col probabile intento, da parte dello scultore, di sottolineare lo strumento che il brigante utilizzava per compiere i suoi crimini e che ora torna utile per il suo castigo. Cfr. Koch 1955, 122, tav. 24; Brommer 1982, 8, tav. 6a; Carroll-Spillecke 1985, 9. 49 Burger 1991, 9-60, n. 93; Ubi erat lupa, n. 820 (ii-iii sec. d.C.). Il rilievo è conservato a Szekszárd in Ungheria. Per un altro esempio simile proveniente dalla Dalmatia, però meno appariscente, ibid., n. 23134. 677 Simone Rambaldi Ma la singolarità della quercia, tornando al rilievo angerese, non consiste soltanto nel suo trovarsi collocata in posizione avanzata e prominente, al fine di indicare che la danza si sta svolgendo intorno ad essa, come si è già suggerito. Un’altra sua peculiarità, finora trascurata nelle letture di questa scena, è che, agli occhi dell’osservatore, il tronco appare interporsi tra la prima e la seconda devota, quasi a suggerire una cesura nella sequenza delle danzatrici. È un caso, o potrebbe essere un espediente utile a isolare virtualmente la corifea, che pure è unita alle compagne, distinguendola così dalle altre? Talvolta un albero, nella scultura a rilievo romana, può in effetti operare come diaframma spaziale, al fine di separare due scene differenti o due diversi momenti di una narrazione che continua, oppure di isolare un episodio o un particolare cui si voglia attribuire una speciale importanza. Poiché questa, però, è un’opportunità sfruttata raramente dagli artigiani che producevano opere come l’altare delle Matrone di Angera, le sue potenzialità possono essere comprese appieno solo uscendo per un poco da tale ambito. Sarà quindi necessario allargare di nuovo il campo di indagine, per soffermarsi brevemente sulle modalità con cui gli alberi appaiono raffigurati nell’arte ufficiale dello Stato romano, la quale costituisce il bacino da cui sono derivate, più o meno direttamente, tante iconografie che si ritrovano, semplificate e adattate, in opere molto più semplici e di committenza privata. Il campionario più significativo, per il tema che qui interessa, è esibito dalla Colonna Traiana, alla quale occorrerà rivolgersi per terminare la presente analisi. Pur essendo una realizzazione posteriore e di tutt’altro genere, che non può essere in alcun modo paragonata a un manufatto piccolo e semplice come l’altare angerese, dedicato da un privato in un centro lontano da Roma, la lunga sequenza narrativa che si dispiega nel fregio del grande monumento traianeo offre una casistica particolarmente ricca, in relazione alle possibilità di sfruttamento degli elementi paesistici, e quindi anche degli alberi, all’interno di una rappresentazione figurata a rilievo. Le logiche compositive e le modalità distributive che vi si riconoscono potranno, dunque, essere d’aiuto per capire meglio anche il valore assunto dalla quercia delle Matrone. Oltre alle tante occorrenze in cui costituiscono lo sfondo di scene diverse, ad esempio di marcia o di battaglia tra l’esercito romano e quello dei Daci, contribuendo efficacemente a definire l’ambiente selvaggio nel quale si muovono le truppe di Traiano, gli alberi sono spesso sfruttati, nel fregio della Colonna, in una maniera che aggiunge un senso di maggiore dilatazione spaziale alle scene di volta in volta raffigurate. È il caso, ad esempio, dei molti episodi che vedono soldati romani intenti a tagliare alberi per approvvigionarsi di legname, frequenti soprattutto nel corso della narrazione della prima guerra dacica50. Alle 50 Si considerino le scene XV, 37-39; XXIII, 53-54; LII, 129-131; LV-LVI, 138-140; LXVIIILXIX, 175-176; XCII, 241-244; XCVII, 256-257; CXVII, 316-317 (mi servo della numerazione di 678 Alberi e culti. Un contributo all’analisi degli elementi paesistici nella scultura a rilievo immagini è conferita una certa profondità, ottenuta per mezzo dell’accorgimento di mostrare i soldati letteralmente immersi nel bosco dove lavorano, grazie agli alberi rappresentati tutt’intorno e anche in primo piano, a coprire in parte i taglialegna e in parte il paesaggio circostante. Un medesimo effetto di allargamento dello spazio, ottenuto collocando alberi in posizione prominente e sovrapponendoli almeno parzialmente alle figure, è sfruttato in altre scene, di diverso genere: l’attraversamento di un fiume51 (fig. 7); un episodio di fuga attraverso una foresta52; una marcia dei Daci53. Oppure, in combinazione con altra vegetazione nello sfondo, alberi in primo piano servono per garantire maggiore profondità a due raffigurazioni di contenuto completamente differente, come una distesa di nemici morti e la preparazione del trasporto del bottino di guerra54. Un albero in posizione avanzata compare poi accanto al re Decebalo nella celebre scena del suo suicidio, dove lo si vede accasciarsi ai piedi del tronco55. Fig. 7. Roma, Colonna Traiana: soldati romani attraversano un fiume (da Settis 1988). Cichorius [1896-1900], di uso canonico per indicare le scene della Colonna). In un’occasione, a fare provvista di legna sono i Daci, rappresentati però in modo analogo (LXVII, 171-172). 51 XXVI, 65-66. 52 LXIV, 158-160. 53 CXXXII-CXXXIII, 354-357. 54 Rispettivamente XL-XLI, 109-110, e CXXXVIII, 367-368. 55 CXLV, 386. Cfr. anche per la posa del re, che segue uno schema ben noto alla tradizione iconografica greca e romana, Settis 1988, 115-117, 224-229; 1989. 679 Simone Rambaldi Vi sono però dei casi, in verità piuttosto numerosi, in cui gli alberi posti in primo piano acquistano la funzione di separatori tra due scene diverse oppure, meno spesso, tra due momenti differenti di uno stesso episodio. Questa modalità di utilizzo è resa chiaramente evidente dal fatto che, in tali circostanze, l’albero si estende col suo fusto quasi sempre per tutta l’altezza della spira del fregio nella quale si trova ed è, inoltre, contraddistinto da una marcata verticalità56. È adoperato, ad esempio, per dividere nettamente una scena di deportazione di prigionieri da una che mostra un reparto di cavalieri daci che annegano nel Danubio57, oppure per separare un’altra scena di trasferimento di nemici da un discorso di Traiano alle sue truppe, che costituisce l’ultimo episodio della narrazione della prima guerra58. Nella raffigurazione di un assedio, un albero interposto separa due successivi assalti dell’esercito romano alle mura di una fortezza dove si sono rinserrati i nemici, suggerendo così una forte cesura anche temporale59. Un’interruzione particolarmente netta nel racconto può essere sottolineata mediante una coppia o anche un gruppo di alberi60. Un caso speciale di impiego di due alberi in primo piano è quello che mostra il re Decebalo, ormai vicino alla disfatta conclusiva, mentre assiste impotente all’inutile tentativo dei suoi soldati di conquistare una piazzaforte romana, accompagnato da due ufficiali61. La terna dei Daci, col re al centro, è delimitata dai due alberi che la attorniano ai lati, isolandola dal contesto, quasi a significare che Decebalo seguiva l’andamento della battaglia da un punto di osservazione in posizione sicura, ma contemporaneamente mettendolo in evidenza e conferendogli un particolare risalto62. Un’esigenza simile a quella che trapela da quest’ultimo segmento, enucleato dalla narrazione traianea, potrebbe avere guidato l’autore del rilievo raffigurante l’azione rituale in onore delle Matrone. L’albero, elemento basilare per connotare lo spazio sacro nel quale la scena si svolge e probabile perno della cerimonia, produce allo stesso tempo uno stacco, non effettivo ma logico, che 56 In generale, sulla funzione compositiva e distributiva che gli alberi di frequente assumono nel fregio della Colonna, cfr. Settis 1988, 132-137; sulle loro caratteristiche di aspetto e tipologia, Lehmann-Hartleben 1926, 135, e Stoiculescu 1985. 57 XXX-XXXI, 72-75. 58 LXXVI-LXXVII, 200-203. 59 LXX-LXXI, 178-181. Cfr. Settis 1988, 134. 60 Così un abbinamento di alberi divide la scena già ricordata nella quale i Daci si procurano la legna da un’altra dove i lavoratori sono i Romani, occupati a costruire un campo fortificato (LXVII-LXVIII, 171-174); un gruppo di alberi, invece, separa una scena di sottomissione di un capo dacico a Traiano da un’altra in cui i nemici sconfitti incendiano la loro città (CXVIIICXIX, 319-324). Cfr. Settis 1988, 133. 61 CXXXV, 361. 62 Cfr. Settis 1988, 132-133. 680 Alberi e culti. Un contributo all’analisi degli elementi paesistici nella scultura a rilievo pone in risalto la figura della capofila agli occhi dell’osservatore, evidenziandone l’importanza, in quanto conduttrice della danza. Si potrebbe ipotizzare, per questo personaggio, un ruolo rilevante nella vita cultuale dei santuari dedicati alle Matrone, presumibilmente di prima sacerdotessa e promotrice delle pratiche rituali, tale dunque da segnalarla in maniera speciale nella cerchia dei devoti, magari perché appartenente a una famiglia importante o perché più anziana delle altre63. Un simile ufficio di diaframma visivo assunto da un albero, qui però in secondo piano, lo si trova attestato in una serie di rilievi raffiguranti una danza di ninfe, dove sono combinati differenti tipi iconografici di origine tardoclassica, come testimonia un esemplare frammentario di epoca imperiale scoperto a Roma, oggi a Palazzo Massimo (fig. 8). Vi compaiono tre ninfe (l’ultima quasi interamente distrutta), le quali sfilano tenendosi strette l’una all’altra per un lembo del mantello; il corteo è guidato da un’altra ninfa, in diverso Fig. 8. Roma, Museo Nazionale Romano (Palazzo Massimo alle Terme): rilievo con ninfe (da Giuliano 1979). atteggiamento, che funge da capofila benché si mostri separata dalle compagne. L’albero che si innalza nel fondale, dietro un altare di roccia cinto da una benda sacra, occupa lo spazio interposto, accentuando l’effetto di distacco tra la prima 63 Non è escluso che si tratti solo di un’impressione, forse in parte stimolata dalle abrasioni che il volto ha subito, ma la corifea sembrerebbe di età un poco più matura di quella delle sue compagne. Mi pare in ogni caso improbabile che possa essere un uomo, come è stato proposto, seppure in via ipotetica, da Sartori 1995, 39; 2009, 368. 681 Simone Rambaldi ninfa e le altre64. La pianta viene ad assolvere qui una funzione logica determinante, in quanto interrompe visivamente la processione, conferendo, allo stesso tempo, speciale risalto alla figura della corifea, il cui ruolo è evidenziato anche per mezzo della sua posa più statica. Non potendo contare su altre informazioni in merito all’organizzazione del culto delle Matrone, la proposta appena avanzata non può superare i limiti di una congettura, con la quale si è cercato soprattutto di spiegare l’inconsueta soluzione compositiva adottata per la rappresentazione della scena, in particolare nel rapporto tra le figure e gli elementi di contorno in primo piano. L’unico spunto che si può richiamare, sarebbe eccessivo dire come conferma, ma almeno come minimo sostegno per l’ipotesi, è fornito dall’altare figurato di Avigliana, ricordato nella parte iniziale di questo lavoro. In esso non è introdotto un albero o un elemento di altro tipo che possa avocare a sé una funzione immediatamente paragonabile a quella della quercia sull’altare di Angera. Però la capofila appare staccata dalle compagne che la seguono, perché, pur essendo vestita come loro e atteggiata in maniera analoga, non è formalmente unita a loro nella danza: invece di porgere il braccio indietro verso una delle sue consorelle, come nel rilievo angerese, essa tiene entrambe le mani congiunte in grembo. Forse anche in questo si potrebbe vedere un tentativo di isolare la corifea dalle compagne, allo scopo di mettere in evidenza il diverso ruolo che essa ricopriva. A una tale esigenza si poteva rispondere in modi differenti, da un monumento all’altro, poiché non vi era un univoco codice iconografico di riferimento che ne guidasse la realizzazione. Bibliografia de Angelis F. et al. 2012, Kunst von unten? 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Being her iconographic and iconological analysis still valid, the main goal of this paper is to discuss how the meaning of Oceanus, while maintaining a strong propagandistic connotation for the imperial power, was calibrated and modified trough the time, according to specific circumstances and precise political choices. Introduzione In Italia Sara Santoro è stata un pioniere in molti approcci alla disciplina archeologica; tra questi l’impiego, oserei dire sistematico, dell’archeometria è forse il più noto: archeometria del sottosuolo, del costruito, della decorazione pittorica e musiva e ovviamente degli impasti ceramici1. Ma la poliedrica personalità dell’autrice e la sua innata curiosità l’hanno sempre portata alla sperimentazione, cimentandosi anche in campi di ricerca, metodi ed ambiti disciplinari talora anche molto lontani tra loro. In effetti una dimensione più 1 Tra le sue opere più conosciute e rappresentative a tal riguardo: Santoro Bianchi 1995; Ead. 1997a, 107-110; Ead. 2005, 327-339; Ead. 2007; Santoro Bianchi, Boschetti 2005, 579-587. 689 Marco Cavalieri storico-artistica, legata all’interpretazione dell’immagine antica, ha attraversato costantemente la sua produzione, rarefacendosi forse solo negli ultimi anni, laddove progetti nazionali ed internazionali, volti ad un approccio olistico all’archeologia, avevano ristretto gli ambiti della sua ricerca. In particolare la sua bibliografia mostra come lo studio della pittura, in senso di componente muraria così come d’immagine, sia stato un sottile ma costante fil rouge nel corso degli anni, analizzata sia sulla base dell’esegesi delle fonti antiche2, che da un punto di vista produttivo e simbolico al contempo3. Accanto a tale filone di ricerca, anche l’analisi iconologica ha avuto la sua parte, contestualizzata, tra gli altri, nella produzione soprattutto musiva del tema oceanico, soggetto che ho scelto di riprendere per qualche considerazione a margine di quanto compiutamente già da lei argomentato4. Infatti, durante gli anni di collaborazione con Sara Santoro più volte emerse, certo non come priorità, piuttosto come desiderio di completezza e come curiositas personale, un riesame del soggetto oceanico, da entrambi già affrontato5, al fine di perfezionare la pluralità semantica del tema, evidente su supporto musivo ma non solo. Infatti il significato simbolico legato al potere universale che il limes ecumenico, incarnato dal fiume Oceano, rappresenta fin da età ellenistica, si consolida a Roma, come si evince sia nelle fonti letterarie che nelle immagini legate all’ideologia del potere, ma non esaurisce nel tempo la densità e la varietà delle sue accezioni e sfumature — in particolare in determinati contesti storici e funzionali — così come brevemente si presenterà di seguito. Data la vastità del soggetto, per altro puntualmente indagato anche di recente6, si è ritenuto più interessante riproporne una breve lettura diacronica, funzionale a ripercorrerne alcuni significati ed adattamenti a partire dal mondo greco, fino a giungere al iii sec. d.C., periodo oggetto di analisi del primo lavoro sul tema da parte di Sara Santoro, per l’appunto focalizzato sull’età dei Severi7. Un’iconografia in divenire Qual è l’immagine oggetto di queste pagine? La più diffusa iconografia, sia nel mosaico che nella bronzistica è quella che riduce la rappresentazione di Oceano alla sola sua maschera. Si tratta di un’iconografia elaborata in età romana. Ma Oceano è divinità più antica, preolimpica e nota dalle fonti ico2 3 4 5 6 7 Santoro Bianchi 1997b, 765-812. Santoro 2007, 153-163; Ead. 2005, 97-123. Ead. 1987, 191-201; Santoro Bianchi 2001, 84-96. Cavalieri 2002, 49-72; Id. 2003, 379-382. Barry 2011, 7-37. Santoro Bianchi 1987, 191-201. 690 Spolia Oceani nografiche e letterarie ben prima di Roma. Senza voler ripercorre quanto già da tempo osservato circa la nascita dell’iconografia oceanica e la sua occorrenza letteraria, a partire da Omero ed Esiodo, passando per Aristotele, Strabone, Cicerone, Seneca il Vecchio8 e ben oltre, possiamo sottolineare come le rappresentazioni musive della divinità siano particolarmente numerose dalla metà del ii sec. d.C. alla metà del iii d.C.; mentre quelle scultoree e glittiche si datino tendenzialmente tra i a.C. e ii d.C. In ogni caso, benché il dio faccia parte del mito letterario più remoto, la sua immagine sembra codificarsi più tardi, sulla ceramica greca a figure nere di vi sec. a.C., a cominciare da un famoso dinos di Sophilos (580-570 a.C.), oggi al British Museum, dove Oceano, che procede all’interno di una teoria di dei, è rappresentato con un corpo semiferino, anguiforme e con corna sulla fronte, nella convenzionale iconografia propria delle divinità fluviali, tra queste, in primis, Acheloo9. Occorrerà del tempo perché l’immagine trovi una codificazione più chiara, anche se non univoca: ancora sull’altare di Pergamo, infatti, Oceano, che è accompagnato dal vecchio Nereo, è rappresentato da una possente figura umana nuda, con il capo pateticamente piegato verso la spalla destra, ma con arti inferiori ancora pisciformi. Una prima apparente norma si avrà nelle rappresentazioni scultoree, monetali e glittiche, con la figura del dio recumbente: un’immagine elaborata, a partire dal iii sec. a.C., sulla base, ancora una volta, del mito fluviale, in primo luogo nilotico10. Tale scelta iconografica avrà un grande successo sia per la sua adattabilità nella composizione narrativa della scena, sia perché, come sostiene Sara Santoro, associata, dall’età di Augusto, ad una selezione di immagini più o meno allegoriche, utili a costruire e diffondere l’idea del nuovo ruolo imperiale. È quindi l’immagine come maschera che ha il più grande successo, soprattutto nel mosaico e nella bronzistica (appliques, protomi di fontane etc.) (fig. 1), anche se non vanno dimenticati alcuni busti marmorei e l’eccezionale 8 Hom., Il. 14, 201-202, 246; Hes., theog. 125-138, 337-345, 695-696, 736-738, 787-792; Eur., Or. 1378; Aristot., meteor. 983b27 – 84a3; Strabo 1, 1, 3-11; Cicero, rep. 6, 20-21; Ovid., fast. 5, 80; Verg., Aen. 7, 101, georg. 4, 380-381; Hor., epist. 16, 41; Tac., Germ. 2, 1 e 45, 1; Sen., suas. 1, 1; Sen., Medea 375-379; Plin., Nat. hist. 2, 166; Apul., de mundo 6, 30 solo per citare alcune delle occorrenze più note in letteratura. Tra queste va anche ricordato il forse meno conosciuto poema Ad Oceanum, composizione datata tra iii e iv sec. d.C., rinvenuta nel manoscritto Paris Lat. 13026 del ix secolo. Si tratta di una preghiera che, pur se con altri toni ed intenti, echeggia Aug., conf. 6, 1, 1. Per una rassegna di letteraria, cfr. Santoro Bianchi 2001, 86-92 e da ultimo Barry 2011, 28 nota 13 cui si rimanda per la bibliografia precedente. 9 Di Giuseppe 2010, 69-70. 10 Santoro Bianchi 2001, 87. 691 Marco Cavalieri Fig. 1. Applique in bronzo con maschera di Oceano, da Bavay (n. inv. 1969 BR 108, d. 6,9 cm). Musée archéologique de Bavay. chiusino fognario / tombino in marmo frigio noto come Bocca della Verità11. La maschera, cui non è verosimilmente estraneo l’intrinseco valore apotropaico che essa veicola12, concentra nello spazio del πρόσωπον/persona un’immagine di uomo dalla folta barba e voluminosa capigliatura, dalla quale in genere emergono chele di granchio o antenne di gambero, mentre dalla barba guizzano coppie di delfini e rivoli d’acqua; alghe marine ornano la pelle del volto e pesci nuotano attorno alle tempie del dio, circondato da un evidente contesto acquatico13 (fig. 2). Non di rado, soprattutto nei mosaici, Oceano è accompagnato dalla paredra Thetys, personificazione del principio femminile della fertilità del mare14. 11 Per una ancor valida recensione iconografica, cfr. LIMC 1994, VII/1, s.v. Okeanos (H.A. Cahn), 31-33; VII/2, 22; LIMC 1997, VIII/1, s.v. Oceanus (H.A. Cahn), 907-915; VIII/2, 599697; Barry 2011, 7-37. 12 Frontisi-Ducroux 1991. 13 La maschera oceanica posta al centro di una fauna acquatica spesso minuziosamente descritta è una formula che sembra ricorrere, in maniera più evidente, nella decorazione di bacini-fontane in Italia, Gallia, tra la fine del i o inizi del ii sec. d.C., periodo in cui la si trova anche in contesti del Nord Africa; cfr. Derwael 2015 con bibliografia. 14 La coppia in età romano-imperiale è presente su vari supporti materici, da quello musivo, come nei lussuosi esemplari policromi, d’età romana, conservati presso i musei di Antakya e 692 Spolia Oceani Fig. 2. Mosaico con Oceano e le Nereidi (Villa Possidica, Dueñas, Palencia, Spagna) iii sec. d.C. Questa creazione iconografica, fortemente connotata da un gusto ellenistico-romano di tradizione alessandrina e quindi di ricercata, talora barocca, esuberanza espressiva — a seconda dei supporti, di chiaroscuri o colori — è stata ricondotta a due possibili tradizioni: quella del sincretismo religioso con la divinità fenicio-punica dell’acqua atmosferica (tempesta e fertilità), Ba῾al, in età ellenistica più propriamente assimilata a Zeus15; ed il tema della fantasia decorativa legata alla vegetalizzazione, le cui radici storiche, pur risalendo ad età classica, evidenziano nel gusto del tardo-ellenismo eclettico romano un momento di intensa produzione16. Sull’importante tema della vegetalizzazione torneremo più approfonditamente infra. Gaziantep (oggi entrambi in Turchia) e provenienti dalle città di Antiochia e Zeugma; fusa nel bronzo, come nelle appliques (n. inv. 1969 BR 108 e 1969 BR 110-116) conservate al Museo archeologico di Bavay (Francia); o scolpita in materiali lapidei di pregio come mostrano gli umbilici di due monumentali labra in alabastro fiorito dal Louvre (n. inv. MA 82 e MA 90). Su questo ultimo esempio, cfr. Cavalieri 2003, 379-382. 15 Borio 2016. 16 Santoro Bianchi 2001, 89-90. 693 Marco Cavalieri Il tema cosmografico che diviene simbolo di potere Nell’interessante volume di F. Borca17, si ribadisce come gli antichi concepissero l’οἰκουμένη-orbis terrarum come una grande isola sia sulla scorta dei risultati ottenuti dai viaggi di esplorazione che sulla base di congetture. Questa visione parte dall’esperienza delle isole reali che il mondo greco-romano aveva sperimentato, laddove una terraferma bagnata dal mare diviene modello concettuale utile per pensare qualsiasi terra e così anche il mondo abitato cinto dall’Oceano. In quanto elemento liquido, l’Oceano è diffusamente concepito come dominio della violenza, del chaos, del movimento e del mutamento continuo e disordinato, rispetto ad una terra solida, immobile, per certi versi inerte. Le due entità, non sono però in opposizione l’una all’altra, ma si affrontano dialetticamente, giacché l’Oceano, per certi versi, non solo delimita, ma definisce e fonda l’identità, l’alterità dell’οἰκουμένη. I significati, i valori attribuiti all’immagine di Oceano non possono prescindere da un’ampia letteratura, già antica, che con fini diversi, tratta il tema, in primis, come paradigma della cosmografia. Nell’antichità, già Apuleio18 ricorda come l’orbis terrarum sia in realtà un’isola. A ritroso nel tempo, Strabone19, sostiene che l’οἰκουμένη sia un’isola e ciò è suggerito dall’evidenza sensibile e dall’esperienza diretta dell’uomo. Tale posizione sembra emanare, ancor prima di ciò che si vede (αἴσθησις) e ciò che si sperimenta (πείρα), da una necessità culturale: definire lo spazio. Alle due prime facoltà soccorre, nell’analisi straboniana, la ragione (λόγος) che, a fronte di un’inaccessibilità tecnica alla circumnavigazione del mondo abitato, data una vastità d’acqua senza soluzione di continuità, non può che concludere che l’Oceano sia una distesa unica ed ininterrotta d’acqua20. Ma la convinzione che l’orbis sia circondata dall’Oceano è un modello cosmografico attestato fin da Omero, fondatore della scienza geografica21, diffuso in ambiente ionico, previsto dalla dottrina d’Eratostene, e di seguito da quella di Posidonio; bisognerà attendere le ricerche di Claudio Tolomeo (ii sec. d.C.) perché la rappresentazione del mondo abitato cambi, in funzione anche delle conquiste della cartografia contemporanea22. In ogni modo, una Terra che “galleggia” — per tradurre il termine pliniano innatans — sull’Oceano23 offre un’immagine del mondo abitato quale microcosmo definito, per opposizione, da un mare sconfinato e pauroso. Questo spa17 18 19 20 21 22 23 694 Borca 2000, 20-21. Apul., mund. 4. Strabo 1, 1, 8. Medesima la conclusione in Plin., Nat. hist. 2, 166. Strabo 1, 1, 11. Sestini 1981, 13-23. Plin., Nat. hist. 2, 242. Spolia Oceani zio immenso ed estremo, chiude il mondo, ne definisce l’identità e ne garantisce naturalmente e simbolicamente la separazione dal chaos, dall’ignoto, dove il reale lascia il posto alla fantasia e la storia diviene mito. Il confine oceanico, quindi, e le rappresentazioni di esso, racchiudevano profonde connessioni cosmogoniche dallo straordinario valore simbolico24. È proprio su questo valore simbolico ed ideologico, oltre che geografico, che Sara Santoro avrebbe voluto approfondire la materia, partendo proprio dal significato polisemico che Oceano assume nel mondo greco-romano in rapporto alla propaganda imperiale. In tale senso una fonte tarda, l’Inno Orfico 83 (iii sec. d.C.), illustra compiutamente la sintesi cosmogonica del mito, radice ideologica e simbolica del potere universale, di Alessandro prima, di Roma poi, che nel τέρμα/limes ecumenico trova la sua definizione spaziale e propagandistica25. Ὠκεανοῦ, θυμίαμα ἀρώματα / Ὠκεανὸν καλέω, πατέρ’ἄφθιτον, αἰὲν ἐόντα, / ἀθανάτων τε θεῶν γένεσιν θνητῶν τ’ἀνθρώπων, / ὃς περικυμαίνει γαίης περιτέρμονα κύκλον· / ἐξ οὗπερ πάντες ποταμοὶ καὶ πᾶσα θάλασσα / καὶ χθόνιοι γαίης πηγόρρυτοι ἰκμάδες ἁγναί. / Κλῦθι, μάκαρ, πολύολβε, θεῶν ἅγνισμα μέγιστον, / τέρμα φίλον γαίης, ἀρχὴ πόλου, ὑγροκέλευθε, / ἔλθοις εὐμενέων μύσταις κεχαρημένος αἰεί. Dalle parole dell’Inno è chiara la consequenzialità dei fatti: chi controlla l’Oceano, controlla l’orbis terrarum e chi vi abita. Di qui tutta la propaganda, coscientemente falsa che, dalla fine della Repubblica e poi strutturalmente da Augusto in poi, si metterà in campo per rassicurare i cives Romani circa un controllo del mare externum (ἡ θάλασσα ἑτέρα)26 e di un suo asservimento, in qualità di fonte di tutte le acque, alle necessità dell’uomo27. 24 Si pensi alla mappa del mondo conosciuto, voluta da Agrippa, che si suppone basata su misurazioni stradali fatte eseguire su tutto l’impero da Augusto e completata nell’anno 20 d.C. per essere esposta al Campo Marzio; o all’opera di Pomponio Mela, vissuto all’età dell’imperatore Claudio, de Chorographia. 25 “Inno ad Oceano, fragranze di erbe aromatiche / Invoco Oceano, padre immortale, che sempre è, / origine degli dei immortali e degli uomini mortali, / che circonda con le sue onde il cerchio che delimita la terra; / lui cui nascono tutti i fiumi e tutto il mare / e i puri umori ctonii della terra che scorrono dalle sorgenti. / Ascolta, beato, molto felice, grandissimo mezzo di purificazione degli dei, / caro termine della terra, principio del cielo, dalle umide vie, / vieni benevolo agli iniziati sempre lieto”. 26 Res ges. 26. 27 Pacatus, Panegyric. Theodosii 27, 5. 695 Marco Cavalieri Un’immagine polisemica Prima di assumere, in età ellenistica e soprattutto romana, una valenza fortemente connessa con il potere dalla connotazione universale, nel mondo antico la divinità oceanica ricopre molti significati: tra questi v’è il valore funerario, quale allusione al viaggio ultraterreno dell’anima del defunto oltre il mare dei vivi. Diversi sono i passi letterari che, avendo per oggetto Oceano, si inseriscono in questo contesto: uno tra i più famosi è il brano dell’Odissea dove la maga Circe, preannunciando ad Ulisse un viaggio nell’Ade per consultare l’ombra dell’indovino Tiresia (Odissea x, 508-512), dice28: ἀλλ᾽ ὁπότ᾽ ἂν δὴ νηὶ δι᾽ Ὠκεανοῖο περήσῃς, / ἔνθ᾽ ἀκτή τε λάχεια καὶ ἄλσεα Περσεφονείης, / μακραί τ᾽ αἴγειροι καὶ ἰτέαι ὠλεσίκαρποι, / νῆα μὲν αὐτοῦ κέλσαι ἐπ᾽ Ὠκεανῷ βαθυδίνῃ, / αὐτὸς δ᾽ εἰς Ἀίδεω ἰέναι δόμον εὐρώεντα. Il medesimo tema del passaggio nell’aldilà è rappresentato nella famosa pittura della cosiddetta Tomba del Tuffatore a Posidonia/Paestum (480-470 a.C.) in cui, secondo un’interpretazione escatologica, un giovane defunto è colto nell’atto di spiccare un salto da un alto “trampolino” (forse le colonne d’Eracle) in un mare turchino sottostante: il transito dalla vita alla morte indicato dal corso di Oceano, oltre il quale si estende il regno dei morti. Infatti, nonostante l’esegesi della tomba continui ad avere diverse letture, ponendo, sulla base dei testi epici e di Esiodo, l’Ade in un luogo occidentale posto all’estremità della terra, la struttura disegnata al margine destro della scena, potrebbe essere interpretata come le πύλαι, le colonne d’Ercole per l’appunto, ubicate miticamente nei pressi dello stresso di Gibilterra, confine ultimo dell’οἰκουμένη, circondato da Oceano, origine e limite di tutto, potenza vitale dalle cui acque il sole sorge ogni mattino. Portando a termine l’interpretazione della scena, lo specchio d’acqua in cui il tuffatore si lancia, starebbe a rappresentare questa forza vitale: una scena di carattere funerario — in effetti si tratta di una tomba — la cui metafora allude al passaggio dalla vita alla morte, evocatrice “dell’attimo che precede l’immersione nel mare della conoscenza interdetta ai vivi, se non in parte attraverso la pratica del simposio”29, illustrata sulle quattro lastre alle pareti della fossa. A questa prima esegesi dell’iconografia oceanica, se ne può associare una seconda legata al fenomeno, molto precoce (dal v sec. a.C.), della vegetaliz28 “E quando con la nave l’Oceano avrai traversato, / dov’è una bassa spiaggia e boschi sacri a Persefone, / alti pioppi e salici dai frutti che non maturano, / tira in secco la nave in riva all’Oceano gorghi profondi, / e scendi nelle case putrescenti dell’Ade”, (trad. R. Calzecchi Onesti). 29 Pontrandolfo 2016, 158. 696 Spolia Oceani zazione della figura umana che, applicato al volto/maschera del dio Oceano, sembra, a partire dalla metà del i sec. d.C., caricarsi, in taluni casi, di significati legati alla fecondità e all’abbondanza, portati della ciclicità della vita indotta dal dio. In tal senso il motivo iconografico sembra in perfetto pandant con la nuova concezione romana della divinità, così come è espressa anche nella contemporanea letteratura latina30. Semplificando al massimo, in età giulioclaudia si assisterebbe alla ripresa dell’immagine della maschera oceanica vegetalizzata e dalla duplice valenza: decorativa, da un lato, e significativa, ovvero semanticamente rilevante, dall’altro. A tal proposito, P. Voûte, nel lontano 197231, sottolineava che, se un overlap iconografico tra i due ambiti esiste, certo i significati delle due immagini non devono essere confusi. Più di recente S. Derwael, invece, attenua la dicotomia tra la dimensione significativa e quella decorativa delle cosiddette Blattmasken oceaniche, cercando di comprendere l’origine del loro impiego ed il significato del loro valore semantico a seconda dei vari contesti d’uso. Partendo dall’origine, come già sosteneva Sara Santoro32, nell’Italia tardo-repubblicana la maschera del dio è il portato della tradizione ellenistica, anche se sviluppata secondo formule autonome e originali. La presenza delle Blattmasken, anche oceaniche, si fa poi ricorrente nelle pareti di case, templi e spazi pubblici delle città italiane di i sec. d.C., in primis Pompei, quale elemento caratterizzante il cosiddetto IV stile33. La sua diffusione è tale, anche socialmente parlando, da comportare una certa standardizzazione: le composizioni fantastiche e le grottesche abitate da esseri mostruosi, quindi, assumono una connotazione, sì, decorativa, ma anche di alternativa al normale, “naturale” ordine delle cose34, quasi una reazione al kosmos pittorico (e politico) ispirato esclusivamente dal reale. È in questo momento che la variante oceanica delle Blattmasken si diffonde e, dall’Italia, per vie varie ed autonome, arriva tra ii e iv sec. d.C., a seconda delle diverse regioni, in Nord Africa, in Spagna, Britannia (Verulamium) e nell’area orientale del Mediterraneo, come ci mostrano, tra gli altri esempi, i mosaici del palazzo imperiale di Costantinopoli35. In particolare è interessante seguire lo svilupparsi dell’iconografia oceanica in Africa, laddove la si trova applicata sia in edifici privati — essenzialmente domus —, che in complessi termali pubblici36. In una regione dove la ricchezza 30 Per una recentissima sintesi bibliografica sul tema oceanico anche in rapporto alla letteratura, cfr. Derwael 2017a, 207, nota 24. 31 Voûte 1972, 652 ss. 32 Santoro Bianchi 2001, 89-90. 33 Derwael 2017b, 119-124. 34 Ead. 2017a, 208. 35 Ead. 2017a, 218, nota 97 con bibliografia. 36 Per l’esemplificazione cfr. Derwael 2017a, 2012-2013. 697 Marco Cavalieri si fonda sulla prosperità agricola, l’acqua e la vegetazione sono condizioni necessarie, così come il commercio dei prodotti della terra, attività supportata da un’economia portuale dinamica. In questo contesto, la maschera di Oceano, spesso in associazione a scene marine o dionisiache ove la natura emerge come contesto fondamentale, sembra assumere il ruolo di simbolo della fecondità e al contempo del mare benigno, non caotico e sostanzialmente sconosciuto. Oceano, quindi, nel contesto africano — così come, durante l’età imperiale, in quello iberico37 e, più tardi, vicino-orientale — sembra incarnare l’idea di forza della natura (δύναμις / vis vitalis)38, elemento liquido origine della vita: un ruolo che si concretizza nell’abbondanza e nella ricchezza di cui godevano le città africane grazie alla fertilità apportata dalle acque dolci (fiumi) e al commercio garantito dal mare (acque salate). Quindi, oltre ad alludere al dominio romano sull’οἰκουμένη, il dio, che rappresenta la garanzia della prosperità indotta dalla pacificazione operata da Roma sul mondo, assume anche il ruolo di fonte alimentare e spazio economico39. La valenza positiva di apportatore di fecondità, accanto a quella più specificamente cosmologica di limes dello spazio umano, posero l’immagine di Oceano al centro di alcune forme di devozione misterica provenienti dall’Oriente e diffusesi a Roma, il Mitraismo e il culto di Cibele ed Attis. In entrambi i casi la presenza di questa divinità conferisce una connotazione di universalità spaziale al culto, ad indicare come tutto l’orbe terracqueo sia la scena del dramma misterico. Sotto il profilo iconografico, in tal senso è esemplificativa la lanx di Parabiago40, grande piatto argenteo che, con una decorazione a rilievo, rappresenta il trionfo della coppia cosmica Cibele ed Attis, a cui assistono le divinità del cielo, della terra, delle acque e le personificazioni di Aeternitas ed Aiôn (il tempo eterno)41. Accanto alla simbologia dell’universalità del culto si 37 Duràn 1993, 230-235. 38 Cavalieri 2002, 63. 39 A tal riguardo, forse non è un caso che un’immagine di Oceano compaia anche nel macellum di Pompei (VII, 9, 7), mercato del pesce; Derwael 2016, 53. 40 Il piatto, datato alla seconda metà del iv sec. d.C., è conservato a Milano, Civiche raccolte archeologiche e numismatiche; n. inv. AO. 9. 14264; Musso 1983; Caporusso 2000, 501-502. 41 La compresenza di Oceano, Aeternitas ed Aiôn nel mondo romano trova, secondo M. Torelli, la sua più alta manifestazione nei giochi del circo, espressione della simbologia cosmica: infatti le quattro fazioni circensi — la Russata, la Veneta, la Prasina e l’Albata, ognuna caratterizzata da un colore differente — rappresenterebbero le stagioni; la biga in corsa indicherebbe la luna, mentre la quadriga il sole; i 24 missus (numero dei cocchi in corsa) sarebbero le ore; l’euripus (fossa che girava attorno al circo) l’Oceano. Infine, l’ellisse circense starebbe ad indicare quella zodiacale, zodiaco che, a sua volta, richiamerebbe l’anno solare. Da tutto ciò si deduce la simbologia universale, cosmica del circo, il quale rappresenterebbe la terra — definita dal suo terminus fluviale — nel suo ciclico divenire, Aeternitas; Torelli 1992, 203-217. 698 Spolia Oceani pone anche il valore escatologico legato al dio di tutte le masse liquide: l’acqua di Oceano è mortifera e rigeneratrice allo stesso tempo, perciò nelle pratiche misteriche mitraiche e orfico-pitagoriche il rito dell’immersione in acqua pare significasse il passaggio attraverso una morte temporanea con la conseguente rinascita a nuova vita42. All’interno dei culti mitraici Oceano è spesso presente anche nell’iconografia: solitamente è raffigurato al di sotto di Cautopates — figurazione della stella della sera — suggerendo un inquadramento cosmico al ciclo stagionale delle acque portatrici di benessere, quelle piovane come quelle marine43. Ma l’ambiguità o l’ambivalenza dell’iconografia oceanica, pacificata o irosamente patetica, non fa l’unanimità nei giudizio degli studiosi, a partire proprio da Sara Santoro, per la quale l’espressione della maschera del dio raramente è rasserenante, salvo quando essa è rappresentata sui sarcofagi (iii-iv sec. d.C.)44 in chiave escatologica45. A tal riguardo, anche sulla scorta degli studi di P. Zanker, riteniamo valga la pena riprendere in considerazione la posizione della studiosa alla luce di una ricontestualizzazione del tema oceanico su supporto marmoreo, in ambito funerario46. Infatti, la maschera oceanica, presente nell’iconografia marina, caratterizzata da thiasoi di Tritoni, Centauri marini, Nereidi e pistrici vari, e collocata quale elemento simmetrico — del coperchio o della cassa —della composizione delle scena, fonde certamente una dimensione escatologico-funeraria del mito con una pur più evidente associazione dell’ambiente marino con l’idea del piacere dei sensi. Infatti, nella maggior parte dei casi non è d’immediata comprensione che i rilievi dei sarcofagi a soggetto marino si riferiscano alla concreta situazione funebre. Quindi va sottolineato come le caratteristiche formali patetiche della maschera oceanica non debbano essere univocamente interpretate, nei diversi contesti e supporti, come simbolo della rottura dell’ordine cosmico rappresentato dal dio, ovvero come prova di potere o della sofferenza del distacco del defunto obbligato nella dimensione della morte. È in tal senso che possiamo affermare che il tema oceanico è polisemico, e non solo in senso diacronico, e che ogni sua categorizzazione troppo sistematica ne limita le sfumature del significato e ne comprime la natura. 42 A tal proposito, cfr. anche il battesimo cristiano; Giebel 1993. 43 Oceano è chiaramente identificabile nel mitreo sotto la chiesa di Santa Prisca all’Aventino a Roma: qui il dio è posto accanto alla figura di Mithra. Il nume delle masse liquide, il cui corpo è formato da anfore poi rivestite di stucco, è in posizione recumbente e un tempo poggiava il braccio sinistro su un vaso da cui fuoriusciva acqua: si tratta della tipica iconografia delle divinità fluviali come il Tevere o il Nilo, il che toglie ogni dubbio circa l’identificazione divina (secondo alcuni, infatti, si tratterebbe di Saturno); Foucher 1975, 48-52; Pavia 19992, 126-129. 44 Rumpf 1969, 11-19, n. 32-54. 45 Santoro Bianchi 2001, 90. 46 Zanker, Ewald 2008, 117-134; 327-329, n. 17. 699 Marco Cavalieri La compagine dei significati politici: un contrappunto tra iconografia e letteratura Come già ricordato supra, soprattutto dall’età augustea l’immagine oceanica è inserita all’interno della propaganda politica del princeps quale simbolo inequivocabile della vastità dell’impero di Roma e dell’ineluttabilità del suo dominio. Nell’arte ufficiale augustea, infatti, l’imperatore è presentato come colui che domina terra marique fino all’Oceano; tale ideologia, ad esempio, è bene espressa nella Gemma Augustea, conservata a Vienna e databile attorno al 10 a.C., dove, alle spalle del trono di Augusto-Giove, compaiono le personificazioni del mondo pacificato e reso prospero dal princeps: Italia con in mano la cornucopia, simbolo della feracità dei suoi campi, Oceano ed Ecumene con corona turrita, personificazione delle floride città dell’impero47. I medesimi concetti sono espressi sia nelle Res Gestae48 che in autori vicini ad Augusto e portatori, più o meno direttamente, della sua ideologia: il più esplicito è sicuramente Strabone, eco del pensiero politico imperiale49: Χώρα γὰρ τῶν πράξεων ἐστὶ γῆ καὶ θάλαττα, ἣν οἰκοῦμεν· τῶν μὲν μικρῶν μικρὰ τῶν δὲ μεγάλων μεγάλη· μεγίστη δ› ἡ σύμπασα, ἥνπερ ἰδίως καλοῦμεν οἰκουμένην, ὥστε τῶν μεγίστων πράξεων αὕτη ἂν εἴη χώρα. Μέγιστοι δὲ τῶν στρατηλατῶν, ὅσοι δύνανται γῆς καὶ θαλάττης ἄρχειν, ἔθνη καὶ πόλεις συνάγοντες εἰς μίαν ἐξουσίαν καὶ διοίκησιν πολιτικήν. Proprio all’inizio delle Res Gestae Augusto afferma di aver sottomesso al volere di Roma tutto il mondo abitato50, sottolineando in tal modo come l’impero romano fosse arrivato ai confini della Terra, laddove scorre Oceano. In verità, il mito della conquista delle rive oceaniche, viste come conclusione o completamento dell’impero universale, è un retaggio ideologico che risale già ad Alessandro Magno — e ancor prima all’impero achemenide — per poi passare per Cesare, il quale, durante il trionfo per le campagne galliche, aveva condotto una statua d’oro di Oceano in atteggiamenti da prigioniero (ex auro cap47 Zanker 1989, 246-247. 48 Res ges. 26, 2, 4. 49 Strabo 1, 1, 16: “Dove si esercita, in effetti, l’azione umana, se non su questa terra e su questo mare che noi abitiamo: essi offrono sia piccoli scenari a piccole azioni, che grandi scenari a grandi azioni: il più grande tra tutti gli scenari è quello che si confonde con i limiti stessi della Terra che noi chiamiamo propriamente terra abitata (οἰκουμένη). I più grandi capi sono coloro che possono esercitare il loro potere su terra e mare, riunendo nazioni e città sotto un solo impero, in un solo corpo politico”. 50 … orbem terrarum imperio populi Romani subiecit…, dall’introduzione delle Res Gestae divi Augusti. 700 Spolia Oceani tivus Oceanus)51. Tuttavia il vanto della generale pacificazione sotto l’egida di Roma rimarrà sempre più un tema della propaganda politica imperiale che non una realtà: infatti era ben noto che i confini dell’impero non coincidessero con quelli dell’ecumene e che tanti popoli vivessero liberi dal controllo romano. Il riferimento, però, ad un impero universale era strumentale ad un’esaltazione propagandistica di una nuova età dell’oro in cui Roma sarebbe stata la prima beneficiaria; in questo senso si comprende il valore dell’immagine di Oceano sul verso di alcuni conii monetali di età adrianea: il dio è colui che apporta a Roma la ricchezza dell’ecumene pacificata52. È durante la fase tardo-repubblicana e poi augustea, in effetti, che si fonda l’idea geografico-politica secondo cui l’imperium orbis terrarum di Roma arriva a corrispondere all’ecumene, a sua volta circoscritta dall’Oceano53. Questa percezione del potere universale è ancora viva, pur se retoricamente, nell’immaginario di un poeta di iv sec. d.C. come Claudiano che, riferendosi alle azioni in Britannia del padre di Teodosio I, ricorda54: ... subdidit Oceanum sceptris et margine caeli / clausit opes... Oceano, quindi, ancora nella retorica tardoantica è un limite i cui confini non posso essere violati, se non con atto di superbia, ma possono essere lambiti quale merito di gloria eterna; così infatti Virgilio, in una profezia svelata da Giove, s’esprime a riguardo delle conquiste di Cesare55: Nascetur pulchra Troianus origine Caesar, / imperium oceano, famam qui terminet astris... In altre parole, raggiungere l’Oceano è come toccare il confine estremo della Terra; così come oltrepassarlo significa andare al di là di ciò che è fisicamente e moralmente consentito. Ed in effetti, ancora nella primissima età imperiale, notiamo come Seneca il Vecchio, si faccia promotore del rispetto del limite oceanico, simbolo del confine umano, anche per esseri straordinari come Alessandro56: Satis sit hactenus Alexandro vicisse, qua mundo lucere satis est, intra has terras caelum Hercules meruit. Stat immotum mare et quasi deficientis in suo fine naturae pigra moles; [...]. Tua est, Alexander, rerum natura: post omnia Oceanus, post Oceanum nihil. Possedere, controllare, o soltanto percorrere l’Oceano sarebbe come gettarsi in un’impresa eroica, ma dagli esiti 51 Florus 2, 13. 52 Foucher 1975, 50. 53 Richard 1991, 92-93. 54 Claud., Paneg. 4, 42-43: “... sottomise l’Oceano alla legge e fece dei confini del cielo quelli dell’impero”. 55 Verg., Aen. 1, 286-287: “Nascerà Cesare, Troiano dalla bella origine, il quale amplierà il suo potere fino all’Oceano, e la sua fama fino al cielo...” 56 Sen., Suas. 1, 1: “Che Alessandro si contenti d’aver vinto la parte dell’universo che il sole può illuminare! Senza uscire dalle terre che tu possiedi, Ercole ha meritato il cielo! Esiste là un mare immobile, confine insormontabile della natura... Oltre le cose, Alessandro, c’è l’Oceano; oltre l’Oceano, nulla esiste”. 701 Marco Cavalieri imprevedibili, come ancora secoli più tardi ci ricorda il canto XXVI dell’Inferno dantesco, nel racconto di un eroico Ulisse che dei remi fece ali al folle volo57. Riprendendo le parole di F. Richard, notiamo come la letteratura latina, a partire dalle conquiste di Pompeo e Cesare, abbia rinnovato nei suoi versi l’immaginario sull’Oceano come il confine dell’orbis terrarum, celebrando la conquista di ogni imperatore nel raggiungerlo o attraversarlo58. La cattiva coscienza dei Romani circa il valore e l’estensione di tali conquiste è, però, già palese nella trasfigurazione ideologica che la traversata della Manica (oceanus Britannicus), attuata per ben due volte da parte di Cesare nel 55 e nel 54 a.C., riveste, quasi che tutto l’Oceano fosse stato percorcoso, quindi “violato”. A tal proposito, Diodoro Siculo59 ricorda come questa impresa non fosse stata eguagliata neppure da Dioniso o Ercole, veri e propri pionieri del potere universale. La leggendaria impresa di Cesare è definitivamente codificata nelle descrizione che le fonti offrono del suo trionfo de Gallia nel 46 a.C., allorquando egli fece simbolicamente sfilare le statue del Rodano, del Reno e una d’oro di Oceano in catene60; evento, per altro, ricordato anche da Lucano61: ut vincula Rheno Oceanoque daret. Abbiamo già ricordato la nota politica augustea di pacificazione delle province, dal limitar dell’Oceano, a Cadice, alla foce dell’Elba/Albis. Anche in questo caso, nonostante una martellante propaganda anche letteraria62, fatti e ideologia del potere si muovono su orizzonti non sempre convergenti: l’Elba e l’Oceano, infatti, rimasero un progetto incompiuto, soprattutto a seguito, nel 9 d.C., della disfatta di Teutoburgo, cui posero rimedio, in termini di onore non di conquista, le successive campagne di Germanico63. La retorica della conquista dell’Oceano, diviene motivo di stupore anche per i contemporanei, in occasione del trionfo di Caligola, nel 40 d.C., proprio sul mare externum. Dal testo che ricorda l’evento64, nonostante l’ottica filo-senatoria e quindi discreditante della fonte, si evince che le azioni del princeps sono tutt’altro che folli, ma ispirate ad un’evidente imitatio Alexandri di fronte all’Oceano, alla foce dell’Indo65. Dopo una simbolica battaglia contro il limes del mondo, Caligola ordina alle sue legioni di raccogliere, lungo la spiaggia, le conchiglie che ivi si 57 58 59 60 61 62 63 64 65 702 Inf. XXVI, 125. Richard 1991, 93-95. Diod. 5, 21. Florus 2, 11-13. Luc., Phars. 3, 73. Res ges. 26, 2; Verg., Aen. 1, 286-287. Cavalieri 2011. Suet., Cal. 46-47. Arr., Ind. 6, 19. Spolia Oceani trovavano: queste saranno spolia Oceani, Capitolio Palatioque debita, quindi il bottino da portare in trionfo a Roma. Il gesto solo apparentemente è alienato, quanto, invece, risulta denso di rituale sacralità: a tale azione, infatti, Caligola associa, da un lato, l’erezione di una torre altissima, su cui ogni notte dovevano ardere dei fuochi come a Faro, dall’altro, il rimpatrio a Roma, per via di terra, delle navi impiegate per la guerra oceanica. Se nel primo gesto, è stata scorta la volontà di realizzare un trofeo alla vittoria nel segno di una neppure troppo velata allusione al mondo alessandrino, nella defunzionalizzazione delle navi vi è il riconoscimento della loro sacralità, giacché strumenti della vittoria/ profanazione del limite del mondo66. La stessa pervicace volontà di controllare l’Oceano è espressa in tutta la propaganda politica e letteraria dell’età di Claudio67 che, nel 44 d.C., celebra un grandioso trionfo a seguito della conquista della Britannia, azione che addirittura motiva l’ampliamento del pomerium di Roma. È qui che si celebra la definitiva e duratura conquista del mondo: l’Oceano è definitivamente nella disposizione dei Romani, tanto è vero che il suo limite non corrisponde più a quello dell’impero di Roma, ma si pone al centro di questo. Tali concetti sono espressi in un testo letterario, attribuito ipoteticamente a Seneca, che l’Anthologia Palatina riporta come Carmen de laudibus Claudii Caesaris68: I. Oceanusque tuas ultra se respicit aras. / Qui finis mundo est, non erat imperio. II. Euphrates ortus, Rhenus secluserat Arctos: / Oceanus medium venit in imperium. III. At nunc Oceanus geminos interluit orbes; / Pars est imperii, terminus ante fuit. IV. Ultima cesserunt adaperto claustra profundo / Et iam Romano cingimur Oceano. 66 Richard 1991, 95-96 con bibliografia. 67 CIL XIII, 1668 = ILS 212: … gloriae pro/lati imperi ultra Oceanum; Suet., Claud. 17, 5: Atque inter hostilia spolia navalem coronam fastigio Palatinae domus iuxta civicam fixit, traiecti et quasi domiti Oceani insigne. 68 I componimenti qui riportati riprendono la numerazione seguente dell’Anth. Pal.: I. “E l’Oceano si volta per vedere più lontano di se stesso i tuoi altari / lui che è la fine del mondo, non lo era dell’impero”, 419, 3-4. II. “L’Eufrate si pone a confine dell’Oriente, e il Reno del Nord / l’Oceano è al centro del nostro impero”, 421. III. “Ma ora l’Oceano bagna due mondi gemelli, / esso è parte dell’impero, lui che in tempi passati ne costituiva il limite”, 423, 5-6. IV. “Le ultime difese sono venute meno alla profondità del mare / e già siamo circondati da un Oceano romano”, 424, 5-6. 703 Marco Cavalieri L’ideologia della vittoria sull’Oceano continuerà ben oltre la dinastia giulio-claudia, essendo ripresa, spesso in rapporto con le campagne oltre Manica, da parte della poesia69 e della storiografia d’età flavia70, fino ad alcune emissioni monetali d’età antonina71 e poi severiana72, periodi in cui la Britannia divenne un importante teatro di guerre così come lo era stata all’epoca dell’impresa di Agricola, alla fine del i sec. d.C. Secondo F. Barry, nella propaganda politica anche di Traiano73 e Adriano il mito dell’Oceano, congiunto al culto dell’Hercules Gaditanus, in qualche modo trasferito a Roma presso l’Ara Maxima del Foro Boario74, costituisce uno dei nodi più significativi nell’ideologia del potere imperiale dell’epoca, fino a concretizzare nell’architettura del cosiddetto Teatro Marittimo75 di Villa Hadriana un’allusione cosmografica, in cui l’euripus che delimita l’isola interna simbolicamente rappresenterebbe il mare externum. Il mito di Oceano, nell’accezione, in questo caso, di forza della natura domata, è ravvisabile nella dedica, da parte dei legionari della VI Victrix (122 d.C.), di due altari, l’uno a Nettuno, l’altro ad Oceano76, posti nei pressi del pons Aelius, alla foce del fiume Tyne, punto d’inizio del vallum Hadriani. Al di là del richiamo al gesto compiuto da Alessandro presso la foce dell’Indo77, laddove un altare ad Oceano fu posto per la prima volta nella storia, va ricordato come in Britannia, terra di confine, diverse siano le dediche legionarie ad Oceano78 e non manchino immagini del dio79, come si evince in una statua al Museo di Chester, in cui il Tyne è rappresentato nella 69 Val. Fl., Arg. 1, 7-11: … tuque o pelagi cui maior aperti / fama, Caledonius postquam tua carbasa vexit / Oceanus Phrygios prius indignatus Iulos. 70 Tac., Agr. 25, 1: hinc terra et hostis, hinc victus Oceanus militari iactantia compararentur. 71 RIC 3, Antoninus n. 742-745; 874; 892. 72 RIC 4, Septimius Severus n. 229. 73 A Traiano, come ricordano le fonti, Dio 68, 29-30, sarebbe stato concesso in sorte di poter portare i confini dell’Impero dall’Atlantico al Golfo Persico, così come già Livio favoleggiava nelle parole del console M’ Acilio Glabrione durante la guerra contro Antioco III di Siria, Liv. 36, 17, agli inizi del ii sec. a.C. 74 Barry 2011, 21-24 propone un’interessante ricontestualizzazione della cosiddetta Bocca della Verità oggi conservata nel pronao della chiesa di Santa Maria in Cosmedin a Roma, quale elemento facente parte del complesso dell’Ara Maxima Herculis, altare all’Ercole gaditano che i due imperatori spagnoli avrebbero in qualche modo introdotto a Roma innestandolo nel culto erculeo presente fin da età arcaica sul Foro Boario. 75 Calandra 1996, 217-227; Torelli 2012, 113-116. 76 Barry 2011, 23-25, fig. 40. 77 Arr., An., 8, 18, 11; Diod. 17, 104, 1. 78 Richard 1991, 100, nota 27. 79 Tra queste il grande piatto argenteo dal tesoro di Mildenhall (seconda età del iv sec. d.C., Suffolk, Inghilterra) dove, in una decorazione a rilievo, circondato da due fasce concentrici di figure, una con un thiasos marino e la più esterna con un corteggio dionisiaco, Oceano occupa l’umbo centrale del piatto; Cavalieri 2002, 70-71, nota 79. 704 Spolia Oceani tradizionale posizione recumbente, appoggiato con il braccio sinistro su una maschera oceanica, a significare l’asservimento al controllo di Roma anche di questo fiume dell’estremo Nord che sfocia nell’Oceano ormai domato80. Anche la monetazione81, infine, mostra l’importanza dell’immagine oceanica in età adrianea, quale simbolo di un confine reso sicuro da parte di un impero sotto controllo. Fig. 3. Clipeo di labrum con maschera di Oceano in alabastro fiorito del Museo Archeologico Nazionale di Parma (n. inv. 1949, S 113, d. 541 cm) per gentile concessione del Complesso Museale della Pilotta. Riagganciandoci qui alla ricerca di Sara Santoro, non possiamo notare come il tema figurativo oceanico, in particolare quello legato alla sua maschera, elaborato nel i sec. d.C. e pienamente codificato attorno alla metà del ii sec. d.C., veda un progressivo aumento d’occorrenze nella tarda età antonina e soprattutto severiana. Proprio in questo periodo l’immagine del volto del dio pare assumere un’espressione spesso patetica, portato di un certo gusto stilistico ma anche di un preciso intendimento ideologico legato all’idea di una rinnovata conquista: è lo slancio espansionistico che gli imperatori del ii e iii sec. d.C., e soprattutto i Severi, riaffermano di continuo come topos dell’ideologia imperiale. In questo senso il volto patetico di Oceano, confine invalicabile del mondo, si spiega nella sua violazione da parte dell’uomo: una profanazione dell’elemento marino che si era consumata nelle numerose spedizioni belli80 Barry 2011, 23-25, fig. 41, nota 150. 81 RIC 2, Hadrianus n. 75. 705 Marco Cavalieri che ed esplorative82 che erano divenute “fondamento non solo del benessere dell’impero ma anche della comunità degli uomini uniti da molteplici vincoli economici e sociali sotto un unico comando, in una grande mobilità quale mai più si è ripetuta, comunità a cui proprio nell’età dei Severi verrà dato anche giuridico riconoscimento con la Constitutio Antoniniana”83. La violazione del fiume cosmico, che assurgerà anche a simbolo della crisi che Roma attraverserà nel iii sec. d.C. per l’eccessiva dilatazione del suo impero, è anche strumentale alla comprensione del legame che intercorre tra l’immagine di Oceano e numerosi settori della casa o della città romana connessi con le acque (ninfei, atria, terme) (fig. 3). Il dio, infatti, che rappresenta tutte le acque che solcano la terra, viene piegato ed irreggimentato al solo scopo di portare refrigerio agli abitanti di Roma (intesa Urbs et orbis), la quale anche in questo modo esalta il suo impero universale ed eterno capace di riunire sotto le sue uniche insegne l’intera ecumene. Fig. 4. Statua in marmo di Oceano, opera del Giambologna (n. inv. 479 S, Museo del Bargello, Firenze), 1572-1576. Essa coronava l’omonima Fontana dell’Oceano nel Giardino di Boboli, oggi sostituita da una copia. Foto dell’autore, aprile 2017. 82 83 706 Tac., Ann. 1, 33, 3; Tac., Germ. 34. Santoro Bianchi 1987, 197. Spolia Oceani Conclusioni In verità non ci sono conclusioni di merito: sarebbe difficile poterne avanzare di compiute, anche solo per il fatto che questa analisi è deficitaria cronologicamente e spazialmente, essendo essa limitata al mondo occidentale ed escludendo essa a priori tutto il periodo della tarda Antichità ed oltre (fig. 4). In un contributo come questo, non sarebbe stato possibile andare oltre. Quanto al metodo, invece, vorrei richiamare, in cauda, il magistero di Sara Santoro in merito alle molte sicurezze che pensiamo di avere sull’esegesi e sull’interpretazione iconologica dell’immagine nel mondo antico. Un richiamo che, senza cadere in un relativismo ermeneutico, fa appello al buon senso rispetto alla coscienza che il ricercatore deve avere circa la maîtrise del soggetto studiato. In Sara Santoro questa coscienza era altamente sviluppata. All art is at once surface and symbol. Those who go beneath the surface do so at their peril. Those who read the symbol do so at their peril. It is the spectator, and not life, that art really mirrors. The picture of Dorian Gray, Oscar Wilde Abbreviazioni CIL LIMC ILS RIC: Corpus Inscriptionum Latinarum. Lexicon iconographicum mythologiae classicae. Inscriptiones Latinae Selectae. Roman Imperial Coinage. Bibliografia Barry F. 2011, The Mouth of the Truth and the Forum Boarium: Oceanus, Hercules, and Hadrian, The Art Bulletin, XCII, 1, 7-37. Borca F. 2000, Terra mari cincta. Insularità e cultura romana, Roma. Borio A.A. 2016, b’l - Baal the God of Renewal, Morrisville. Calandra E. 1996, Oltre la Grecia. Alle origini del filoellenismo di Adriano, Napoli. Caporusso D. 2000, Lanx di Parabiago, in Ensoli S., La Rocca E. (a cura di), Aurea Roma. Dalla città pagana alla città cristiana, Catalogo della mostra di Roma, Roma, 501-502. 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Their activity is contextualized in the first half of the 11th century, a period which is poorly documented throughout Campania, but particularly interesting as regards Salerno. The city, under the domination of Prince Guaimario V (1027-1052) became the capital of a large multi-ethnic state that found in the development of a particular language based on oriental and Roman models the expression of its legitimacy; this quote of ancient Mediterranean models preceded by some decades the Roman-oriented programs promoted by the reformist clerics during the so called Gregorian Reform. Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del secolo seguente molte opere d’arte campane furono prelevate dai depositi delle chiese, ove erano state relegate a causa di trasformazioni liturgiche degli ambienti o dei lavori di restauro causati dai numerosi terremoti succedutisi nei secoli, oppure dalla volontà di barocchizzazione degli edifici, che caratterizzò gran parte degli interventi tra xvii e 711 Giuseppa Z. Zanichelli xviii secolo. Frammenti lapidei non più riutilizzati vennero relegati nei ripostigli o dispersi sul mercato antiquariale; alcuni di essi, dopo aver compiuto un iter difficilmente ricostruibile nella sua integrità, sono ricomparsi presso importanti collezioni, ove ancora oggi si trovano custoditi, come dimostrano, fra i molti possibili esempi, la lastra con grifi (ix-x sec.) e quella dei leoni al Metropolitan Museum di New York1, la coeva lastra di Yale2 proveniente da Nola, le due colonne (ix-x sec.), forse capuane, attualmente conservate nelle sale della Liebieghaus Skulpturensammlung di Frankfurt am Mein3, le formelle di Sorrento (xi sec.), ora suddivise tra il Museo Correale di Sorrento, il Museo Barracco di Roma, il Bode-Museum di Berlino e la Dumbarton Oaks Collection di Washington4 e pezzi collegati a Los Angeles5, i frammenti dell’archivolto della cattedrale di Alife (1135), approdati al Nasher Museum of Art della Duke University a Durham6, il lettorino di Cava (ante 1170), ora a Kansans City, al William Rockhill Nelson Gallery and Mary Atkins Museum of Art7. Per quanto concerne Salerno l’attenzione finora è stata quasi completamente assorbita8 dal grande ciclo degli avori, di cui sono custodite nel Museo Diocesano “San Matteo” 59 tavolette e 28 frammenti; ma la pur imponente serie non è completa e alcune tavolette erratiche da tempo sono state identificate a Berlino, Budaperst, Hamburg, Parigi e New York9; recentemente inoltre nuovo interesse è stato rivolto al problema dell’arredo interno della cattedrale e alla restituzione dell’originario aspetto dell’area presbiteriale, sulla base delle strutture marmoree reimpiegate in situ e di quelle conservate presso i depositi del Museo Diocesano “San Matteo”10. Nel corso di questi frequenti restauri, che culminarono nelle due campagne condotte rispettivamente nel 1559 per 1 Rorimer 1930, 98-100 racconta che la lastra con i grifi, acquistata nel 1930, si trovava in un negozio di colori e veniva usata come tavola per polverizzare i materiali; Wixom 2005, 8; Castelnuovo Tedesco, Soultanian 2010, 4-7 n. 1 e 14-17 n. 4, con la ricostruzione delle relative vicende collezionistiche. 2 New Haven, Yale University Art Gallery: Exposition 1931, 158 n. 568; Tozzi 1931, 279; Castelnuovo Tedesco, Soultanian 2010, 15. 3 Zinke 1981, 9-12. 4 Gandolfo 1999, 10. 5 Vandersall 1980, 51-52 n. 1 6 Cahn 1975, 72-73; Glass 1991, 74-96 ipotizza che i frammenti provengano da due distinti archivolti. 7 Stokstad 1977, 56-57 n. 10. Acquistato da Sestieri (Roma). 8 Nessun seguito ha avuto infatti l’attribuzione a Salerno, proposta da Volbach 1930, 58-59, di due sculture del Bode Museum: la lastra con anatra, ora assegnata a Sorrento, e il pilastro con soggetti nilotici, inv. 65-90. 9 De Angelis, 1937, 219-224; Milone 2011. 10 Longo, Scirocco 2016. 712 Rilievi salernitani dell’ultima età longobarda fra Oriente e Occidente Fig. 1. Frammento di lastra con fagiano. New York, Metropolitan Museum (Common domain). Fig. 2. Frammento di lastra con pavone. New York, Metropolitan Museum, prestito da Dumbarton Oaks Collection, Washington D.C. (Common domain). volontà dell’arcivescovo Poerio e negli anni venti-trenta del Novecento11, molti pezzi andarono irrimediabilmente dispersi; una fortunata eccezione è costituita da due lastre frammentarie che negli anni venti del secolo scorso entrarono a far parte della collezione dell’antiquario e storico dell’arte Kurt Hans Cassirer12 (1885-1974), che ne attestò il ritrovamento a Salerno, in possesso di un muratore che le avrebbe rinvenute tra le macerie di una chiesa in restauro13. Le due lastre di marmo grigio-bianco risultano ora rimodellate e hanno assunto un contorno mistilineo, con due lobi sui lati orizzontali14; il recto mantiene l’originaria decorazione scolpita, costituita da un tralcio elegante su cui si stagliano sull’una un fagiano15 (fig. 1) e sull’altra un pavone affrontato ad un vaso (fig. 2), 11 De Angelis 1936. 12 Bauschinger 2015, 29-49. 13 Vikan 1995, 88. Nel terzo decennio del novecento Kurt Hans Cassirer aveva a lungo soggiornato a Roma: Bertelé 2010, 349. 14 Glass 1970, 46. 15 Il volatile è stato interpretato genericamente come “cock”, ma in realtà le penne auricolari, le caruncole attorno agli occhi e la coda formata da due lunghe penne remiganti lo identificano chiaramente come un fagiano. Cfr. Ortalli 1995, 35-38. 713 Giuseppa Z. Zanichelli ma il verso rivela che i pezzi furono sagomati per ottenere la forma di due capitelli ionici, con uno scasso centrale per alloggiare un intarsio lapideo. Questa rilavorazione denuncia un successivo riutilizzo, forse come lastra tombale o per un pavimento a intarsio marmoreo; sia la sagoma acquisita che la rilavorazione sono coerenti con i lavori documentati nella cattedrale di Salerno, cioè la rimozione delle lastre dall’arredo liturgico originario al tempo degli interventi cinquecenteschi del Poerio, il successivo utilizzo nel xvi o xvii secolo come lastra tombale o decorazione pavimentale e la risistemazione delle cappelle nobiliari, e dei loro monumenti funebri, nel corso dei restauri novecenteschi16, con la conseguente alienazione dei pezzi. Dopo essere entrati in possesso di Cassirer, i due pezzi sono stati protagonisti di due vicende collezionistiche differenti: la lastra con il fagiano entrò a far parte della collezione di Mr. And Mrs. Louis Jones a Wetherby, Yorkshire, ma nel 1958, per interessamento dello stesso Cassirer, fu concessa in prestito al Warburg Institute di Londra, che celebrava, con una piccola esposizione, il trasferimento dalla sede provvisoria di South Kensington a quella definitiva di Woburn Square17; qui rimase fino al 1977, quando venne restituita al proprietario18. La lastra con pavone invece fu portata a Parigi, presso la galleria antiquaria di Maurice e Raphael Stora, nel 1936, quando fu acquistata da Robert e Mildred Woods Bliss, che poi la cedettero, insieme a tutte le altre opere da loro raccolte nella villa Dumbarton Oaks a Washington, all’Harvard University. Nel 2013 la prima lastra fu acquistata dal Metropolitan Museum di New York e, subito dopo, è stata riunita alla seconda, concessa dalla Dumbardon Oaks Collection in prestito a tempo indeterminato; quindi attualmente i due pezzi sono esposti nel prestigioso museo sulla 5th Avenue, nella sala dedicata all’arte romanica19. Nonostante la straordinaria qualità di queste due sculture, il dibattito critico relativo è alquanto limitato e fortemente condizionato dal mancato riconoscimento della loro provenienza e dallo stato d’incertezza che governa a tutt’oggi il dibattito sulla scultura campana anteriore alla conquista normanna. I primi cataloghi della Dumbarton Oaks20 assegnano la lastra con pavone genericamente all’Italia meridionale, fra xi e xii secolo, cronologia accettata da Dorothy Glass21 che, menzionando anche la lastra con fagiano, pensa principalmente a confronti con le sculture pugliesi, sebbene accenni a un possibile rapporto con 16 De Angelis 1936, 75-81. 17 The Warburg 1957-1958, 2. 18 Ringrazio Charles T. Little per avermi consentito di consultare la documentazione in suo possesso. 19 Little 2014, 16. 20 The Dumbarton Oaks 1946, n° 48; Handbook 1955, n° 54; Handbook 1967, n° 41. 21 Glass 1970, 46-47. 714 Rilievi salernitani dell’ultima età longobarda fra Oriente e Occidente i simboli evangelici della base del fonte battesimale della cattedrale di Capua. Sarà solo Gary Vikan22 a riconoscere la provenienza salernitana dei due pezzi, avanzando l’ipotesi di una loro appartenenza ad una medesima lastra di recinzione presbiteriale e di una loro realizzazione tra viii e ix secolo, datazione che Charles Little ha recentemente corretto, proponendo una cronologia tra x e xi secolo per la lastra con fagiano. Queste oscillazioni cronologiche sono comuni a tutte le indagini relative alla scultura altomedievale dell’area campana e sono dovute principalmente a due fattori: da una parte il fatto che i pezzi sono per la grande maggioranza erratici, quindi decontestualizzati, dall’altra la complessa stratificazione di modelli locali e allogeni che emergono chiaramente nella cultura di questa area. Infatti la straordinaria persistenza dei modelli greci e romani, dovuti anche alla grande quantità di resti monumentali perennemente reimpiegati negli edifici sacri e profani per tutto il medioevo23, si combinano incessantemente con modelli orientali, in particolare sasanidi, mediati molto spesso da Bisanzio, ma anche provenienti dal contesto islamico e, più in generale, mediterraneo. Di fronte a queste eterogeneità del materiale sopravvissuto Maria Teresa Tozzi e Wolfgang Fritz Volbach24 hanno cercato di seriare le testimonianze superstiti dal punto di vista stilistico ponendo all’inizio della sequenza della scultura altomedievale campana le lastre a modellato lineare e alla fine quelle a rilievo plastico, distribuendo i manufatti lungo un arco temporale che va dal ix al xii secolo. Nonostante il tentativo di Hans Belting25 di superare questa classificazione evoluzionistica, analizzando ogni ambito territoriale fenomenologicamente e sottolineando le differenti caratteristiche culturali dell’attività delle singole botteghe, gli studi più recenti sono ritornati in vario modo a cercare di individuare un percorso, anche se coscienti della impossibilità di procedere linearmente26. Per quanto concerne Salerno inoltre, l’analisi delle testimonianze medievali ha quasi costantemente oscillato tra due “powerful patrons”27: Arechi II (774-787), che trasformò la città in capitale, dotandola del castello, della cinta muraria e della residenza palatina con la cappella dedicata ai santi Pietro e Paolo, e Roberto il Guiscardo (1077-1085), che promosse, in un rapporto complesso con il grande rinnovamento desideriano a Montecas22 Vikan 1995, xi; Glass 1999, 116-117; Little 2014. 23 Greenhalgh 1989, 103, 111, 114, 164, 224. 24 Tozzi 1931-1932; Volbach 1936; 1942; 1969. 25 Belting 1968, 250-255. 26 Gandolfo 1999, 9-11, nella sua introduzione all’arte romanica in Campania, ha affermato l’impossibilità di procedure a una datazione precisa per queste sculture altomedievali; cfr. Coroneo 2005, 99-117. 27 Kitzinger 1972. 715 Giuseppa Z. Zanichelli sino28, la costruzione della cattedrale normanna e di Castel Terracena. Questi cantieri hanno dunque motivato i due estremi cronologici della datazione delle lastre ora al Metropolitan, cioè l’inizio dell’età normanna proposta dai primi studiosi29 e quello dell’età longobarda sostenuto da Vikan30; ma la situazione è più articolata, dato che Salerno è una città perennemente in trasformazione per tutto il periodo longobardo e l’arrivo dei normanni non costituisce una cesura, ma un potenziamento del campo di forze31. La datazione fine x – inizi xi proposta invece da Charles Little32 si basa su un differente ordine di considerazioni, cioè sull’unico confronto stilistico-iconografico individuato, quello con le già menzionate formelle del Museo Correale di Terranova di Sorrento e le altre collegate, una serie di dieci elementi quadrati, con animali entro clipeo e dicotomie di foglie negli spazi di risulta angolari33; esse appartengono al complesso gruppo di sculture campane per le quali è stata universalmente accettata la derivazione da modelli sasanidi tramitate dalle preziose stoffe, direttamente importate o copiate nei centri tessili bizantini34. Il confronto infatti tra la lastra col fagiano del Metropolitan e quella con i due fagiani affrontati del Museo Correale (fig. 3) rivela chiaramente che alla base delle due forme c’è uno stesso modello: identica infatti è non solo la posizione dei volatili, ma la struttura stessa del corpo, con l’attacco dell’ala sulla spalla, la distribuzione delle piume copritrici superiori a squame nell’ala, strutturata nella parte inferiore dalle lunghe e sottili remiganti; uguali sono anche le tre piccole penne copritrici caudali inferiori, alla base delle due lunghe penne timoniere con piume rappresentate come riccioli. È evidente che per le due rappresentazioni si deve ipotizzare l’uso di una identica sagoma, la qual cosa implica una stretta relazione, anche se non necessariamente sincronica, fra le due maestranze responsabili per queste due sculture. Infatti la bottega sorrentina impiegava certamente cartoni, come dimostra l’uso dello stesso schema rappresentativo, due pegasi affrontati nell’atto di abbeverarsi al fons vitae, sia nella piccola formella che nel grande pluteo rettangolare proveniente dalla stessa cattedrale; ancora una volta coincidono la struttura dei corpi dei mitici animali, la loro posizione, 28 Bertaux 1904, 155-212. 29 Cfr. note 19 e 20. 30 Vikan 1995. 31 Su problema storico in generale resta ancora fondamentale lo studio di Delogu 1977 sulla società longobarda a Salerno; per il problema specifico della committenza invece cfr. Zanichelli 2017. 32 Little 2014. 33 Sull’insieme cfr. Quintavalle 1931; Volbach 1942. 34 Monneret de Villard 1923; Volbach 1942. 716 Rilievi salernitani dell’ultima età longobarda fra Oriente e Occidente la tipologia della fontana35. Un altro elemento interessante è costituito dal piccolo vaso scolpito sotto le zampe del volatile, replica precisa di quelli che compaiono nei due plutei in Sant’Aspreno a Napoli36 (fig. 4 e 5). Fig. 3. Sorrento, Museo Correale di Terranova, Formella con fagiani affrontati (Foto dell’autrice). Se il confronto ad unguem non si può estendere alla lastra gemella con il pavone, dato che non sono sopravvissute formelle sorrentine con questo soggetto, tuttavia l’analisi delle caratteristiche formali e iconografiche rivela interessati elementi per meglio definire la cultura del maestro che lo ha eseguito, un maestro di cltura affine, ma non identificabile con l’autore della lastra del fagiano. Il pavone infatti risulta dedotto una fonte più direttamente legata a schemi sasanidi, come indicano il nastro-collare che si intravede a sinistra del 35 Negli studi in particolare per l’uso di sagome nella realizzazione dei pegasi cfr. Pistuddi 2004, che ha confrontato le lastre con Pegaso passante e Pegasi affrontati di Sorrento con frammenti sardi, individuando straordinarie coincidenze e ipotizzando una derivazione dalle stoffe sasanidi, come la celebre stoffa dei Pegasi, di età carolingia, conservata ai Musei Vaticani. 36 I legami tra le sculture di Sant’Aspreno e quelle di Sorrento sono stati riconosciuti unanimemente dagli studiosi; cfr. Coroneo 2000, 263 con relativa bibliografia. 717 Giuseppa Z. Zanichelli volatile o il tralcio serrato nel becco, ma tali elementi sono rielaborati in modo particolarmente raffinato, come mostra, ad esempio, il tratto di separazione nell’ala tra le penne ricoprenti e quelle remiganti; infatti nelle formelle sorrentine è semplicemente costituito da due linee parallele, mentre in alcune lastre spezzate dello stesso Museo Correale, fra le due linee, si inserisce la consueta decorazione a perline, altro motivo proprio della tradizione sasanide. Nel pavone invece è presente un pattern decorativo formato da triangoli correnti, mentre le piume remiganti sono decorate a perline, la qual cosa permette di ipotizzare un modello differente, ancorché ugualmente ricavato da un tessuto, dato i dettagli grafici. Un altro elemento che differenzia lo scultore salernitano è una maggior aderenza alla tradizione classica, come rivela il fatto che gli occhi degli animali sono lavorati a trapano, evidentemente per creare l’alloggiamento per una pupilla in piombo o pasta vitrea37. Fig. 4. Napoli, Sant’Aspreno, Pluteo con pavoni affrontati a un vaso (Foto dell’autrice). Altri elementi simili si ritrovano nei tralci vegetali che compaiono nei due insieme, con una differenza sostanziale: nelle formelle sorrentine ogni pezzo presenta una sola tipologia vegetale o al massimo due, mentre nei due rilievi del Metropolitan il tralcio si snoda su tutta la superficie, arricchendosi di fronde e vegetali differenziati, tra i quali di intravedono vasi e uccelli. Non si tratta certamente dello schema del tralcio abitato, che compare nei pilastrini di recin37 Nella scultura in pietra campana l’uso di evidenziare la pupilla con metallo o pasta vitrea si afferma solo in età normanna, come rivelano i capitelli di Sant’Agata dei Goti; l’uso della pasta vitrea costituisce una caratteristica anche del celebre gruppo di avori salernitani: cfr. Bergman 1980. 718 Rilievi salernitani dell’ultima età longobarda fra Oriente e Occidente zione presbiteriale attualmente conservati nei musei di Cimitile e Sorrento38, nei quali ogni girale di acanto stilizzato racchiude un piccolo volatile, ma di un modello differente, anche rispetto alla vegetazione passante delle formelle del Museo Correale, di cui è stata dimostrata una più stretta derivazione dai modelli sasanidi39: qui infatti gli elementi vegetali o costituiscono l’asse centrale della composizione o si snodano negli spazi di risulta, inducendo gli studiosi da una parte a ipotizzare uno sviluppo locale medio-bizantino del tema orientale dell’albero della vita40, dall’altra a postulare una ripresa del modello presente in lastre bizantine, come quelle del Bode Museum, secondo una tradizione ben presente in area adriatica, soprattutto nella produzione veneziana41. Non è un caso che nella vendita parigina del 1936 la lastra con pavone venisse dichiarata provenire da Torcello, con la conseguente datazione al xii secolo42. Invece nelle due lastre del Metropolitan il tralcio rigoglioso si snoda con grande libertà, occupando completamente il fondo, mentre tra le linee sinuose sono scolpite foglie nervate pentalobate e trilobate, foglie cuoriformi, boccioli di fior Fig. 5. Napoli, Sant’Aspreno, Pluteo con anatre affrontate ad un vaso (Foto dell’autrice). 38 A questi va aggiunto quello murato in un edificio di piazza Tasso a Sorrento, che Gandolfo 1999, 21-22 e fig. 38, ha avvicinato al tralcio abitato del portale della cattedrale di Salerno, affermando l’impossibilità di definirne una precisa relazione cronologica tra i due pezzi. 39 Blomberg 1983, 254-255. Va però sottolineata la diffusione dell’ornamentazione vegetale passante in tutto il bacino del Mediterraneo a partire dal iiv secolo: Roascio 2011, 92-93. 40 Coroneo 2000, 140-145. 41 Mietke 2006 sottolinea la diffusione di questo modello soprattutto a Venezia tra xi e xii secolo. In particolare per la ricezione veneziana cfr. Roascio 2011, 97-101. 42 Vikan 1995, 90. 719 Giuseppa Z. Zanichelli di loto e grappoli con tre acini. Questa esuberanza vegetale in lastre che dovevano costituire la recinzione intorno all’area presbiteriale e, per conseguenza, intorno all’altare maggiore o, forse, intorno a quello coincidente con il sepolcro del santo patrono, non può non riflettere un modello antico. Infatti, come ha dimostrato David Castriota, il fregio “polycarpophoric”, cioè costituito da un tralcio d’acanto dal quale si sviluppano diverse specie vegetali riconoscibili è stato il sistema ornamentale per eccellenza delle are monumentali, da quella di Pergamo all’Ara Pacis Augustea di Roma, ripreso negli altari da questi derivati e molto spesso reimpiegati in edifici cristiani, come attesta l’altare di Santa Galla43. Infatti nelle lastre salernitane è evidente uno sviluppo “naturalistico” del tralcio che, nonostante la stilizzazione degli elementi vegetali, si distingue nettamente dagli altri rilievi ad essi avvicinati, richiamando invece modelli classici, anche attraverso la loro ripresa in età paleocristiana, ad esempio nei sarcofagi. A questi modelli si ispira anche la presenza degli uccelli tra i rami, che richiamano la tradizione delle pitture romane dei giardini44, ma anche le decorazioni dei peristili e porticati45, come pure le tombe aristocratiche di età imperiale46. Straordinarie sono anche le scelte iconografiche, a cominciare dalla tipologia dei volatili: le formelle di Sorrento infatti presentano una varietà di animali differenti, tra i quali, accanto alle anatre, di tradizione nilotica, si alternano pegasi alati, aquile araldiche e grifi di ascendenza greca e romana e infine fagiani di provenienza orientale. I due pezzi salernitani invece, a causa della loro frammentarietà, recano solo due pennuti esotici, di origine orientale: il pavone e il fagiano, due volatili non di tradizione biblica, uno dei quali fortemente risemantizzato in senso cristiano fin dagli esordi di questa religione47, l’altro invece completamente estraneo e menzionato solo nei trattati di agronomia48. Ambedue gli esemplari sono maschi, caratterizzati dal piumaggio più appariscente. Un altro elemento però, pur nella sua frammentarietà, permette altre considerazioni: l’attenzione per i vasi. Infatti tra le fronde, oltre agli uccelli, compa43 Infatti se l’Ara Pacis Augustea non era più visibile, soprattutto per quanto concerne la parte inferiore, nel medioevo, come attesta Foresta 2002, gli altari superstiti che ne riprendono gli ornati vegetali denunciano un sistematico reimpiego: cfr. Bisconti 1991. Ringrazio il collega Fausto Longo per i puntuali suggerimenti sul problema della visibilità dei monumenti romani nel medioevo. 44 Ghedini 2015, 269-270. 45 Basterà pensare alle lastre ‘Campana’ o ai pilastri adrianei del Metropolitan (Rogers Fund, 1919). 46 Castriota 1995, 94-95 47 Stander 1991. 48 Voisinet 1994, 70; Dittrich 1996. 720 Rilievi salernitani dell’ultima età longobarda fra Oriente e Occidente iono piccoli vasi, dalle forme nettamente definite. Nel frammento con il fagiano, sotto le zampe dell’uccello, compare una piccola anfora, mentre in quello con il pavone, nella stessa posizione, una piccola oinochoe con orlo trilobato, collo distinto e corpo globulare baccellato: ambedue questi contenitori sono rappresentati con precisione, contrariamente a quanto avviene nei già menzionati pilastrini di Sorrento e nelle lastre con i grifi di Cimitile e del Metropolitan49, ove assumono forme generiche di anfore o coppe. La caratterizzazione dei vasi, che suggerisce una precisa conoscenza della ceramica classica da parte dello scultore, raggiunge la massima definizione nella lastra con pavone: qui, di fronte al volatile, è rappresentata una grande anfora, del tipo detto nolano; si tratta di un caso unico e di estremo interesse, dato che non sopravvivono altri vasi figurati di questo tipo nella scultura campana. Purtroppo il vaso presenta due importanti fratture nel piede e nella parte superiore destra e questo ne limita l’analisi; si legge però chiaramente il decoro fogliaceo ricoprente il raccordo tra il piede e il corpo del vaso, che è ornato nella pancia da un motivo costolato, una variante nella resa dei baccelletti. Le spalle invece, separate dal resto del corpo da un motivo a treccia a due capi, racchiuso tra due linee parallele, presentano due grifi affrontati ad un sostegno con base trapezoidale vegetale che sorregge un fusto mistilineo e che termina in un bacino o coppa; i mitici animali alati hanno la zampa interna simmetricamente sollevata. Una fascia decorata a tratteggio obliquo separa le spalle dal collo del vaso, ornato da una elegante motivo vegetale, formato da una piccola candelabra vegetale da cui si dipartono quattro sinuosi rami simmetrici, desinenti in altrettante rosette. L’orlo dell’anfora infine è definito da due fasce, rispettivamente ornate con piccole palmette contrapposte e da cerchielli; sul lato sinistro l’ansa a “S” è formata da un tralcio, da cui si dipartono due foglie, in tutto simile ai tralci che si sviluppano sul fondo. Al di sopra dell’orlo del vaso si intravede la parte terminale di un oggetto, identificabile come l’orlo di un ulteriore vaso decorato a perline e fiancheggiato dall’attacco di un’ansa; questo secondo vaso sembra rappresentato nell’atto di versare presumibilmente un liquido nel vaso maggiore. Stante il posto privilegiato che i vasi figurati occupano nel sistema degli oggetti nella civiltà greca, essi sono stati rappresentati frequentemente sia in pittura che in scultura; un fenomeno particolarmente interessante è la rappresentazione di vasi a figure negli stessi vasi attici e italioti, una mise en abyme che ha prodotto oggetti di altissima qualità. Basta pensare al cratere apulo a figure rosse, già della collezione Palagi, con la rappresentazione del gioco del kottabos, 49 Castenuovo Tedesco, Soultanian 2010, 4-7. 721 Giuseppa Z. Zanichelli attribuito alla bottega del pitore di Tarporley50 che reca al centro della scena un cratere a calice con due figure danzanti o l’hydria Caputi del Leningrad Painter (fig. 6), ora in collezione privata milanese, con la rappresentazione della bottega del vasaio ove i pittori sono intenti a decorare i vasi 51. Ma nessuno degli esempi che si possono citare presenta una struttura del vaso simile a quello della scultura in esame, se si eccettuano alcuni dettagli ambigui dei vasi rappresentati, quale la partizione del corpo dell’oinochoe che è collocata entro un cratere-calice; non è un caso che sia stato proposta una interpretazione alternativa della scena, sulla base della quale risulterebbe essere rappresentata una bottega di artigiani in atto di decorare vasi di metallo52. Una precisa corrispondenza si trova non nei vasi antichi dipinti o nella loro resa bidimensionale, ma in quella tridimensionale, soprattutto nella scultura in pietra; infatti i vasi scolpiti spesso presentano la decorazione a baccelli nella parte inferiore del corpo; basta pensare alle svariate forme vascolari che compaiono nelle pinakes locresi53, ma soprattutto al vaso neoattico di Sosibios del Louvre54. Fig. 6. Milano, Collezione privata, Hydria Caputi (da Green 1961). 50 Il vaso è conservato al Museo Civico Archeologico di Bologna. Ringrazio il dr. Antonio Caruso per questa segnalazione. Cfr. Paribeni 1966, 619. 51 Jatta 1876; Venit 1988. 52 Cfr. per questa ipotesi il saggio di Green 1961, che però non accenna alla decorazione dell’oinochoe, ma solo alla resa del collo e delle anse; cfr. le obiezioni mosse da Ziomecki 1973. 53 In particolare alludo alla lastra fittile del Museo Archeologico Nazionale di Reggio Calabria con la presentazioni di doni alla dea. Cfr. Vlad Borelli 1995. 54 Moreno 1966. 722 Rilievi salernitani dell’ultima età longobarda fra Oriente e Occidente Quest’ultimo esempio ci porta alla Roma augustea, un ambito che risulta familiare allo scultore della lastra con pavone, che abbina ai motivi orientali, mediati da Bisanzio e propri delle botteghe sorrentine, motivi specificamente romani, tra i quali alcuni emergono in modo inequivocabile: il più evidente è il candelabro vegetale fra i due grifi, al posto del più consueto albero della vita di tradizione orientale. Infatti la base è formata da un cespo che si sviluppa in una dicotomia di acanto da cui emerge un sostegno ornato da un ulteriore bouquet di foglie a imitazione i candelabri di età augustea e, come questi, termina in un piccolo bacino decorato a baccelli (fig. 7). Questi arredi classici, per la loro sontuosità, vennero reimpiegati nelle maggiori basiliche paleocristiane romane e costituirono più tardi un modello formale per i ceri o candelabri pasquali, che significativamente risultano particolarmente diffusi, oltre che a Roma, proprio nell’area campana55. Ancora tratto dal repertorio romano antico appare il motivo nel collo del vaso, cioè i tralci simmetrici desinenti in rosette a cinque petali, pure derivato dai sontuosi tralci simmetrici delle are monumentali, ma spesso riprodotte in forme similari nelle basi dei candelabri stessi (fig. 8). L’unico elemento di derivazione orientale in questo vaso sembra essere costituito dai due piccoli grifi affrontati, ma il motivo appare ben diffuso anche a Roma, come dimostra il fregio del tempio di Antonino e Faustina al Foro Romano, edificio che, per quanto trasformato nella chiesa di San Lorenzo in Miranda probabilmente già dal x secolo56, mantenne la sua struttura esteriore inalterata: qui grifi affrontati si alternano a dicotomie di tralci con rosette, testimoniando un diverso abbinamento degli stessi motivi. La distribuzione di questi elementi nel vaso riflette una tradizione ben attestata nella ceramica italiota, soprattutto per quanto concerne lo sviluppo del tralcio vegetale nel collo dei vasi, caratteristica che richiama l’impianto dei crateri del Ganymede Painter o del Patera Painter, pittori cui viene assegnato un ruolo significativo nella diffusione del tralcio all’antica57. Sulla base di queste considerazioni è possibile ipotizzare che i frammenti derivino da due differenti lastre, probabilmente decorate con un vaso centrale e due coppie di volatili affrontati ai lati: due pavoni e due fagiani. Lo schema qui proposto costituirebbe una ripresa e un elegante svilippo di quello presente nei plutei di Sant’Aspreno, ove, nelle losanghe centrali della griglia che ricopre l’intera superficie, sono campiti da due anatre affrontate ad un vaso nella lastra di sinistra (fig. 5) e due pavoni ugualmente disposti in quella di destra58 55 Per il rapporto tra i candelabri romani e i ceri pasquali cfr. Floriani 1959, 306; Cain 1994; cfr. anche Bassan 1993, 126. 56 Santangeli Valenzani 2011, 277-278. 57 Castriota 1995, 44. 58 Farioli Campanati 1982, 217. 723 Giuseppa Z. Zanichelli (fig. 4). La scelta della rigogliosa vegetazione e dei due tipi di volatili esotici doveva visualizzare le meraviglie del giardino orientale, il paradisus voluptatis o hortus conclusus della tradizione biblica59, il refrigerium dei martiri e beati, cui alludono i vasi disposti tra le fronde; in particolare proprio come libagione potrebbe acquistare significato l’atto di versare un liquido o una essenza da un contenitore all’altro, come si può pensare avvenga nella lastra con il pavone60. Già Isidoro di Siviglia aveva sintetizzato questo rapporto fra hortus, oriens e orior affermando: Hortus nominatur quod semper ibi aliquid oriatur61. Fig. 7. Candelabro da Villa Adriana. New York, Metropolitan Museum (Common domain). I legami dello scultore del pluteo con fagiano con le sculture di Sant’Aspreno a Napoli e Sorrento costituisce un importante elemento al fine di stabilire la cronologia dei pezzi; infatti l’iscrizione, che è incisa sul bordo dei due plutei napoletani e che identifica Campulo e Costanza come i costruttori della chiesa, 59 Gen. 2, 8 e CC. 4, 12. 60 Purtroppo lo stato frammentario del piccolo vaso superiore impedisce di meglio chiarire l’azione. 61 Ethym. 17, 10, 1: cfr. Cardini 1995, 611. 724 Rilievi salernitani dell’ultima età longobarda fra Oriente e Occidente è stata datata al x secolo62, mentre i marmi sorrentini sono unanimemente collocati entro la fine dello stesso secolo o all’inizio del seguente, poiché entro questi limiti cronologici si sarebbe svolta la grande campagna di ricostruzione della cattedrale di Sorrento63. Una cronologia non lontana da questa può essere proprosta per l’esecuzione dei due pezzi esposti al Metropolitan Museum, una cronologia che trova riscontro nella produzione romana, ove è stata evidenziata la presenza di “un rilievo grafico, dove i racemi danno l’impressione di essere come incollati sullo strato inferiore”64, ma anche a San Vincenzo al Volturno nei frammenti risalenti alle operazioni di restauro condotte nella prima metà dell’xi secolo65. Fig. 8. Base del candelabro da Villa Adriana. New York, Metropolitan Museum (Common domain). Questa datazione dei due rilievi salernitani pone il problema della loro contestualizzazione. Alcuni elementi però possono essere chiaramente puntualizzati: innanzi tutto l’assoluta estraneità dei due pezzi alla cultura figurativa dell’età normanna, che rivela, pur mantenendo un complesso rapporto con la produzione longobarda, uno “spirito realistico” e una “sostanziosa corposità”66 62 Farioli Campanati 1982, 256 n. 79. È però probabile che esistesse un precedente edificio e che l’intervento della coppia di sposi sia consistito in un rifacimento a fundamentis. 63 Gandolfo 1999, 9. 64 Claussen 2017, 63. 65 Mitchell 2014, 176-177. 66 Ibid., 25. 725 Giuseppa Z. Zanichelli estanei alle lastre in esame. D’altra parte, rispetto alle esperienze sorrentine, i due maestri rivelano, pur nelle loro specifiche varianti, una più raffinata capacità di adattamento dei modelli orientali ad un complesso sistema narrativo, utilizzando gli elementi classici non come semplice reimpiego, ma trasformandoli in un linguaggio nuovo, ove citazioni provenienti da varie fonti sono fuse in una nuova, efficace strategia comunicativa. Benché sopravviva in realtà molto poco della produzione salernitana di età longobarda dopo la più volte celebrata età di Arechi, le fonti attestano un panorama cittadino vivacissimo, ove non solo la famiglia regnante, ma anche altri nuclei familiari aristocratici risultano promotori di costruzioni civili e religiose, dando vita ad un fiorente mercato di sontuosi oggetti in metallo, di oreficeria, di tessuti di lusso di produzione locale e di importazione, di manoscritti miniati e di altri preziosi oggetti suntuari67. I documenti in particolare attestano la munificenza nella costruzione di chiese e cappelle private, fornite dai donatori di arredi mobili, di codici e di tessuti liturgici in grande abbondanza. Uno dei periodi di massimo splendore coincide con il lungo governo di Guaimario IV (1027-1052), il principe di Salerno che, grazie al sostegno dell’imperatore Corrado II (1027-1039), alla sua alleanza con Bonifacio di Canossa e all’uso spregiudicato dell’alleanza normanna riuscì a dominare per breve tempo su gran parte dell’Italia meridionale, conquistando Capua, Amalfi, Sorrento, Gaeta, Napoli, Aversa, oltre che parte della Puglia e della Calabria68. “Li bon prince Guyamarie”, come lo definisce Amato di Montecassino69, negli anni trenta dell’xi secolo unificò i principati fino ad allora divisi dalla alleanza con il potere bizantino, creando il presupposto per una più libera circolazione di uomini, di merci e di artefici. È proprio in questo contesto che i modelli della bottega sorrentina attiva nei decenni precedenti per la nuova cattedrale della città, possono facilmente essere arrivati a Salerno. Naturalmente l’ipotesi più probabile è quella di una nuova campagna di lavori nella antica cattedrale di Santa Maria, che ancora svolgeva la funzione di chiesa matrice e verso la quale Guaimario dimostrò sollecita attenzione, come dimostra la conferma di tutti i privilegi concessi dai suoi predecessori70; si può ipotizzare una nuova recinzione per l’altare di san Matteo, le cui reliquie erano arrivate a Salerno nel 95471 e deposte in Santa Maria. Ma poteva trattarsi anche di una nuova recinzione per la cappella funeraria dei principi salernitani, che accoglieva tutti i discendenti di Arechi II, dato che la simbologia paradisiaca ben poteva adattarsi ad ambedue le situazioni. Ma qualunque sia stata la sua 67 68 69 70 71 726 Delogu 1977; Zanichelli 2017. Schipa 1887, 117-146; Bedina 2003. Aimé de Mont Cassin 1835, 56. Giordano 2014, 31-32, doc. 15 del 1032. Galdi 1996. Rilievi salernitani dell’ultima età longobarda fra Oriente e Occidente destinazione, il nuovo insieme dovette godere subito di particolare attenzione, dato che venne reimpiegato nella nuova cattedrale normanna, presumibilmente in una funzione simile a quella originaria, cioè di definizione di un sacro recinto; più devastanti i successivi reimpieghi, ma quello che resta è sufficiente per aggiungere un’altra importantissima tessera per ricostruire questa splendida stagione della cultura salernitana e i complessi rapporti che intercorrono tra i vari cantieri delle cattedrali campane nell’ultima età longobarda, prima che lo spirito della riforma, con i suoi modelli romanocentrici, investa le nuove grandi imprese dell’età normanna, da Montecassino, a Salerno ed oltre. Bibliografia Aimé de Mont Cassin 1835, L’Ystoire de li Normant, par M. Champollion-Figeac, Paris. Bassan E. 1993, s.v. Candelabro, in Encicopedia dell’arte medievale, IV, Roma, 121-129. Bauschinger S. 2015, Die Cassirers. 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In fact, on the one hand, much of the material and textual evidence we have does not come 1 I wish to thank Marco Cavalieri and Cristina Boschetti, for inviting me in taking part in this volume, honouring the memory of a colleague, who left us too soon. With her I shared several years of work in the University of Parma, several creative years, enlightened by lively discussions, but also by shared convivial moments, and, most of all, by her vivid blue eyes and contagious laugh. 2 Much of the image of power in pre-classical Mesopotamia is related to individual towns and city-states, thus in order to understand the agency — as it is usually called nowadays — of individual works of art — monumental or portable — their exact provenance should be ascertained first. 731 Frances Pinnock from regular excavations, but from illicit digging. On the other hand, most of the documents we have belong to the dominating classes: they are direct representations of the elites, or tools elites used in order to convey messages about their idea of power. Additionally, these messages might be active on multiple levels: they could serve the elites themselves, stressing their cohesion and/or their loyalty to the rulers; they could be used by the elites in order to speak to their subjects, within the urban context; they might be used by the elites of one town in order to manifest their idea of power to foreigners. These three fields of action may not have necessitated three completely different messages, but rather one message with multiple readings may have been preferred.3 It is well known that the primary reference for the Mesopotamian citizen was his own town; it is clear that it is difficult for us to perceive correctly the “permeability” and the real functions of the individual rooms of the public buildings where the images of power were exhibited. The consequence is that it is very difficult for us to know exactly when and by whom these images were seen, and under which conditions,4 and, therefore, any evaluation of Mesopotamian art might run the risk of misunderstandings for an excess of generalisation or for the impossibility to contextualise any single evidence. In Mesopotamia, female images appear at the same time as male ones, since the Late Uruk period (ca. 3400-3000 BC); later on, they follow a different path, of gradual decrease, nearly reaching a complete disappearance of attestations.5 In this aspect, the Mesopotamian cultures look quite different from the contemporary Syrian ones, where, on the contrary, female figures are constantly present, with clearly defined official roles, since the mature Early Syrian period, between 2400 and 2300 BC, and further on since the Neo-Syrian period, particularly between 9th and 8th centuries BC, before the final dissolution of the political entities of the region, after the Assyrian conquest, followed by the Babylonian and Persian conquests.6 3 Matthiae 1994, 108-119. 4 Recent trends in the study of the human past are focusing on the archaeology of the senses, leading to a more in-depth analysis of ancient architecture, with the aim of also understanding the amount of light inside the rooms, or the presence of elements of distraction, like perfume, or sound, which had an impact also on the “agency” of monuments of art; see, e.g., McMahon 2013. 5 Pinnock 2006, 30-31. 6 See in this regard, M. Liverani’s considerations: Liverani 2011, 807. The patrimony of imagery created by the Syrian kingdoms and principalities, starting with the great culture of Ebla of the Early and Old Syrian periods was not lost with the drastic political and economic changes of the region around 500 BC, as they were transmitted to later periods and to different regions, through paths not yet clear to us, but whose outcomes are undeniable: Pinnock 2002; 2007; 2015a. 732 A city of gold for the queen: some thoughts about the mural crown of Assyrian queens Particularly since the age of the 1st Dynasty of Babylon (ca. 1900-1700 BC), it is very difficult, or rather impossible, to find official female figures in Mesopotamia, particularly in the monumental art, which had to embody public power, and its relation, on the one hand, with deities, and, on the other hand, with people at every level.7 Almost suddenly, on the contrary, in the age of the greatest flourishing of the Assyrian empire, the female figure appears again in the public representation of power, with different modes. So, starting with the building of the NorthWest Palace of Nimrud, the first palace of full Assyrian concept in the first capital of the empire, at the time of Ashurnasirpal II (883-859 BC), the possibility of burying ladies of the palace under the floors of the palace itself was planned, in analogy with what happened at Ashur — the ancient historical capital of the kingdom — with the sovereigns.8 The first lady, who occupied one of these tombs, carrying a furniture of astounding wealth, was Mullissumukannishat-Ninua, related with Ashurnasirpal, and with his successor Shalmaneser III (858-824 BC), possibly MÍ.É.GAL of one of them.9 These tombs were marked on the surface, pointing at some form of post-mortem cult performed over their tombs, or at least to the fact that the presence of the tomb was well known, and left “visible”, by means of those markers. Sammu-ramat — perhaps the MÍ.É.GAL of Shamshi-Adad V (823-811 BC), and mother of Adad-nirari III (810-783 BC) —10 and Libbali-sharrat — probable MÍ.É.GAL of Ashurbanipal (668-631 BC) — both owned a stele in the so-called Stelenreihen 7 This is possibly a consequence of the deep social and religious changes, largely due to Hammurabi’s action, and possibly represented in the well-known Codex, which is certainly not a normative document, but which throws light on the society of the time: Liverani 2011, 349-352, 354-356. 8 About this phenomenon, and the relation to male burials, see Pinnock 2007/2008; 2014a, 509. 9 MÍ.É.GAL = akk. sēgallu (= “woman of the palace”) was one of the highest titles for Assyrian ladies, whereas the more appropriate term šarratu (= “queen”) was used as a title for a woman who actually reigned, for example women at the head of foreign tribes, or even deities. The title MÍ.É.GAL, as it does not refer to specific functions in the government, may be used by different women at the same time: Teppo 2007, 389. We know the names of 11 Assyrian “queens”: Mullissu-mukannishat-Ninua; Sammu-ramat; Iaba; Banitu; Atalia; Naqi’a; Tasmetu-sharrat; SU-xxx-Gal(?)-a; Esharra-hammat; Ana-Rashmetum-taklak; and Libbali-sharrat. Iaba and Banitu are possibly the same person, using an Aramaean name and its Assyrian counterpart. Among them, only Sammu-ramat and Naqi’a seem to have played a strongly active role in empire management: Teppo 2007, 90. 10 Sammu-ramat is certainly a very important figure in the history of the Assyrian empire; she also held power for nearly four years, when her son was still underage: Liverani 2011, 679; Pinnock 2006, 239. She is probably at the origin of the legend of Semiramis: Pinnock 2006, 233-238. 733 Frances Pinnock of Ashur,11 and the second one is even represented on the stele: only her upper part is preserved, but the queen was sitting on a chair with a high backrest, very much like the one she uses in the relief of the famous Garden Scene, from the North Palace of Nineveh (fig. 1), Ashurbanipal’s residence.12 Not only is Libbali-sharrat the only queen represented in this context, but she is the only personage whose figure appears in the Stelenreihen. Naqi’a/Zaqutu,13 a lady of Sennacherib’s (704-681 BC) court, but probably not a MÍ.É.GAL, mother of Esarhaddon (680-669 BC), and, therefore, grandmother of Ashurbanipal, is depicted on a bronze plaque (fig. 2), commemorating the destruction of Babylon; she follows a king (Sennacherib or Esarhaddon), on a nearly equal base and she makes the same cult gesture as the king of bringing a flower to her nose.14 In all these images, unlike what happened in the past,15 as concerns the peculiarities of clothing, these women are characterised in their function by the fact of wearing a specific and distinctive element, the so-called mural crown.16 This element is also represented, in the same period, in some seals, where it also features a cone-shaped element at the top, which makes the female head-dress more like the typical male tiara.17 11 Pinnock 2014a, 509-510. The Stelenreihen is a high place, located close to the walls of Ashur, in an eminent position, where more than 100 stele originally stood, carved with the names and titles of the kings of Assyria, among whom are the two queens, and of the highest officials of the state: Andrae 1913. 12 Reliefs B-C, Room S’, London, British Museum WA.124920: Matthiae 1996a, pl. 9.16. 13 Like Iaba/Banitu, Naqi’a also uses two names, one of Western origin and the other its Assyrian translation. It is not clear whether there was a pattern in the use of the two traditions, but one fact stands out: in the text of the so-called Zakutu Treaty, where, apparently, the queen temporarily takes King Esarhaddon’s place, in order to promote her nephew Ashurbanipal’s ascent to the throne, she uses her Assyrian name — Zakutu (Melville 1999, 87-89) —, whereas in most of the administrative documents her Aramaic name is used. 14 About this relief, and about the meaning of the gesture, see Reade 1987, 143-144. 15 When they started to appear, male and female representations were never characterised by specific elements of clothing, with the exception of the male war helmet, whereas kings started to feature distinctive head-dresses by the end of the Akkadian period, with Naram-Sin. Kings usually wore brimmed caps, whose details changed according to fashion: al Gailani Werr 2013. In the Early Dynastic period, women only featured different styles of very elaborate hairdresses, sometimes, perhaps, also turbans. 16 Svärd 2015, 79-80; Radner 2012, 690. 17 On a chalcedony stamp seal of the British Museum, dating from the reign of Sargon II (721-705 BC): BM 2002-5-15, in Niederreiter 2008, n. 61, fig. 10. The Neo-Assyrian male tiara is a high truncated cone, with a point at the top, a high band going from the forehead to the nape of the neck, where it features two long flaps falling down on the back: Matthiae 1996a, tav. 2.2-3, 2.7, 2.18-20, 3.2-6 (in 3.5 the presence of a rosette on the forehead, and of two probably-embroidered edges at the top and the bottom is very clear); Tiglatpileser III’s (744-727 BC) crown is quite similar, but it features a larger amount of embroidery on the body of the crown, and on the two flaps falling down on the back: Matthiae 1996a, tav. 4.9-10. 734 A city of gold for the queen: some thoughts about the mural crown of Assyrian queens Fig. 1. Detail of the Garden Scene, Nineveh, North Palace, Room S’, 7th century BC (after Matthiae 1996b, 81). The mural crown of Assyrian queens is a band, well-fitting on the head, so that the upper part of the head protrudes from the upper edge of the crown; it is decorated, at regular intervals, by towers, probably square, standing on a triple base line, and with crenellated tops, slightly higher than the body of the towers, and protruding from the upper edge of the crown. Traditionally, this type of ornament is considered alien to the Mesopotamian world, and it is attributed a generic “western” origin,18 with special reference to the head-dresses worn by some goddesses in the theory of deities in the main hall of the rock sanctuary at Yazilikaya (13th-12th centuries BC); yet, already T. Ornan maintained some Sargon II’s crown is even richer: Matthiae 1996a, tav. 5.1. In the Garden Scene, Assurbanipal, who is depicted in a peculiar posture, lying on a kind of bed, and is inside the private quarter of his palace, wears a simpler diadem, a high band, probably decorated with rosettes: Matthiae 1996a, tav. 9.16. This diadem is very much like the crown wore by the royal figure — the king himself or the Crown Prince — piercing a lion with his sword , in one of the famous hunt scenes of the same sovereign: Matthiae 1996a, tav. 10.16. 18 Svärd 2015, 80. With regard to this, the statement according to which “Traditionally in Ancient Near Eastern art either women or goddesses wear the mural crown” (McGregor 2012, 90), looks too vague. See also Radner 2012, 690, who apparently is more firm in attributing the use of the mural crown to a function (queen or queen’s mother). 735 Frances Pinnock caution was necessary, because it is difficult to interpret correctly the high poloi that these divine figures wear.19 Fig. 2. Fragment of bronze plaque, depicting Queen Naqi’a, with King Esarhaddon, or King Sennacherib, probably from Babylon, first half of the 7th century BC (after Matthiae 1998, 80). Lastly, it seems right to observe that, among the extremely rich pieces of furniture found in the female tombs below the floors of the bitānu region in the North-West Palace of Nimrud, there was no mural crown, whereas other elegant diadems were included (fig. 3).20 19 Ornan 2002, 475, in fact, maintains that they wear precisely a polos, with long vertical decorations, and not a band with towers. 20 The most intriguing one is certainly the complex cap-shaped head-dress, with an openwork decoration of vine leaves, rosettes, pomegranates, grapes and figures of four-winged geniuses (Damerji 1999, Abb. 42-45); there also was and elegant band of gold braided wires, with a rectangular medallion on the forehead, falling fringes ending in small pomegranates, and inlays of ornamental stones (Damerji 1999, Abb. 25); lastly, it is interesting the presence of a gold diadem in the shape of a band, decorated with applied rosettes, very much alike the one wore by Ashurbanipal in the already mentioned reliefs (Damerji 1999, Abb. 26). 736 A city of gold for the queen: some thoughts about the mural crown of Assyrian queens Fig. 3. Diadem of gold and ornamental stones, Nimrud, North-West Palace, from a sarcophagus in Mullissu-mukannishat-Ninua’s tomb, 9th-8th century BC (after Matthiae 1996b, 96). Ornan, while contrasting the possible derivation of the Assyrian mural crown from the above-mentioned Anatolian models, recalled the presence of a possible similar ornament in the representation of a queen in an ivory plaque from Megiddo, dating from the Late Bronze age (ca 13th century BC) (fig. 4):21 here, a banquet scene is depicted,22 where the king is to the left, sitting on a throne decorated by a winged sphinx; he brings a cup to his lips with his right hand, while holding with his left hand the stem of a lotus flower; in front of him, standing, there is a woman — most likely his queen — wearing an elegant multi-layered dress, who stretches her arms, touching, perhaps, an edge of the kings’ cloak with her right hand, and, with her left hand, the same stem of the lotus flower. The woman wears a high cylindrical head-dress with vertical lines, very much like the mural crown, albeit generally higher, and slightly lower on the forehead, whereas the presumed towers apparently do not feature the expanded crenellated tops protruding from the edge of the head-dress. Thus, in analogy with what can be maintained about the head-dresses of Hittite deities, it seems more reasonable to suppose that these are vertical lines, rather than real towers. A Middle Syrian cuneiform text from Ugarit seems more interesting, which lists some personal objects, the property of Queen Ahat-Milku, among which 21 22 Matthiae 1997, 136. Ornan 2002, 467, fig. 11. 737 Frances Pinnock an ālu hurāsu (URU.GUŠKIN) appears. Literally, the term means “town of gold”, and is usually interpreted as a mural crown, and, therefore, as a presumable antecedent of the Neo-Assyrian royal ornament.23 On the other hand, the reference to the Akkadian word kilīlu seems more generic, as it only means “circlet, band for the head”. It can also mean “crenellation”, and this led to it being identified with the mural crown, tough the identification may be questioned, as, in one instance it was offered to a king.24 Fig. 4. Fragment of ivory plaque, Megiddo, 13th-12th century BC (after Matthiae 1997, 136). Among the numerous representations of architecture in the Assyrian reliefs from the palaces of Nimrud, Khorsabad, and Nineveh, and in the moulded bronze decorations from the gates of a temple and a palace from Balawat, the majority of city walls are depicted with very thin towers, quite close to each other, definitely protruding over the upper edge of the walls,25 and/or with a very enlarged “mushroom-shaped” ending.26 On the other hand, we can find 23 Ornan 2002, 476; McGregor 2012, 90. Possibly of the same kind is an ornament described in the inventories from Ninegal’s temple at Qatna, dating from the 15th century BC, namely the ornament zi-ir-ri-tu4, considered as a possible golden “band for the forehead”: Bottéro 1949, 13. 24 CAD K, s.v. kilīlu, 358. But see also von Soden 1965, 476, s.v. kilīlu(m) “Kranz”, “Zinnenkranz”. Svärd 2015, 80 doubts that it should be identified with the mural crown. On the other hand, the offering of a kilīlu to a king cannot be used as a proof of the fact that it is not a mural crown, in the light of the evidence I will present later (infra n 26). 25 Precisely of the same type are the towers depicted on the mural crown worn by a personage on a glazed tile from Nineveh, for which see Nunn 1988, fig. 126. There are many doubts about the identification of this character, who, according a probable reconstruction of the fragment, with the integration of a second detail, representing a beard, might be a male, albeit wearing the mural crown. Matthiae (Matthiae 1998, 54), publishing only the first fragment of the tile, identifies him for certain as Ashurnasirpal II, and of the same opinion is Nunn 1988, fig. 126, though not identifying personally the king. On the contrary McCaffrey (McCaffrey 2002, 383, 389-90), proposing a comparison with what might happen in Egypt, when a woman seized power, becoming a true Pharaoh in all respects, thinks the personage might be a woman. 26 Micale 2011, 37-44. 738 A city of gold for the queen: some thoughts about the mural crown of Assyrian queens representations of towers closer to those of the crowns in a fragment of relief from Nineveh, with a military camp scene, from the description of the campaign against Elam.27 The representations of city walls brought as a gift by tributaries on the slabs from Dur Sharrukin,28 or the same type of object depicted in the booty on a slab from Nineveh are certainly of the same kind.29 On the contrary, the object brought as a gift in a slab from Nimrud looks very different.30 A representation similar to those of the mural crowns depicts an outer detail of the walls of Nineveh, namely the reinforcement of the embankment of a water course, running close to the town, in a fragment of slab from the SouthWest Palace, Room XXII.31 In a fragment from Nineveh dating from Sennacherib’s time, similar walls — low, with squared towers, whose crenellation only protrudes above the top line of the walls — are depicted in the narration of a campaign against the Levant,32 in the representation of a double wall, outside the main fortification. Also, the representation of the wall protecting a military camp in a slab of Tiglat-pileser III from Nimrud, is similar.33 Summing up, if the mural crown of Assyrian queens is meant to represent a real town wall, it apparently does not have as a model an Assyrian town, whose walls are usually represented on different levels, like a mountain ascending towards the sky. The town walls of the defeated foreign towns are usually represented in this way, too, albeit on a less monumental scale.34 The closest parallels to the mural crowns are to be found in the outer fortifications of towns, both in Assyria and the Levant, and in the fortifications of military camps. As concerns the possible Western origin of the mural crown, I think another element of evidence from Syria, dating from the Early Syrian period, might be added to the evidence previously mentioned — the uncertain one from Megiddo, and the more probable one from Ugarit — both dating from the Late Bronze age. At Ebla, in the mature Early Syrian period (Early Bronze IVA, ca. 2300 BC), some female figures are represented, certainly depicting queens, characterised by hair-dresses of long loose hair, or by elegant shorter collected locks, blocked 27 Ibid., 249, tav. Cat. 126. 28 Ibid., tav. 46, 1-2. 29 Ibid., tav. 47, 2. 30 Ibid., tav. 47, 1. In this instance, instead of a town wall with towers, apparently a monumental city gate is represented, with the door flanked by towers. 31 Ibid., 240, tav. Cat. 110. 32 Ibid., 226-227, tav. Cat. 77-78. 33 Ibid., 196, tav. Cat. 19. 34 This visual representation of town walls reflects the descriptions in the Annals of the Assyrian kings, where the similarity of town walls with impassable mountains is often stressed: Pinnock 2013, 159. 739 Frances Pinnock on the fore-head by a circlet, possibly a diadem. This ornament is depicted in a cylinder seal,35 and is reconstructed, with great probability, in two miniature figures on two different objects identified as standards, belonging one to the king and one to the queen.36 Fig. 5. Drawing of the cylinder seal impression of Queen Uqnitum, Tell Mozan/Urkesh, ca. 2200 BC (after Akkermans, Schwartz 2003, fig. 8.28, 285). A possibly-similar ornament appears in the impression of a cylinder seal from Tell Mozan/Urkesh, of the Akkadian period, where Queen Uqnitum is represented seated, facing the king.37 The queen wears her hair in a long plait (fig. 5), and, on her forehead there is a thin horizontal strip, which might be a diadem. This element is not represented in another seal belonging to Zamena, a wet nurse of Uqnitum’s house,38 in a scene where only female figures are represented: the queen is seated, and features the same long plait, but without the presumed diadem, she has her child sitting on her lap, as in the other seal, and the wet nurse stands in front of her, stretching her arms to touch the child. In these images from Syria, when the presumed diadem is represented in glyptics, it is depicted as a very thin band, or as a tubular element, which collects the hair 35 Pinnock 2015b, 17. 36 For the king’s standard, see Pinnock 2015b, in particular on 7-8, fig. 6-7, for the female hair-dress with circlet; for the queen’s standard, see Matthiae 2013a, in particular pl. 47b, for the details of the hair-dress. 37 Buccellati, Kelly-Buccellati 1997, 81, centre, second from the top. 38 Ibid., 81, right, second from the top. 740 A city of gold for the queen: some thoughts about the mural crown of Assyrian queens at the base, or which crosses the forehead as a horizontal line. Concerning the two Eblaic figures in the round, the image identified as Tabur-Damu (fig. 6), last queen of Ebla, certainly wore a kind of relatively large band, nowadays lost, placed beyond the thick fringe falling on her forehead, and blocking the back part of the hair-dress of thickly-packed locks. The image reconstructed in the King’s Standard, as belonging to a queen (fig. 7), wore a thin diadem made of shell (fig. 8), with thin vertical incisions, which was placed on the head in a way very much alike the representation of the queen on the above-mentioned cylinder seal impression from Palace G.39 Fig. 6. Reconstructive drawing of the Queen’s Standard, with Queen Tabur-Damu to the right, Ebla, Royal Palace G, L.9583, ca. 2300 BC (© Missione Archeologica Italiana in Siria). In the Old and Middle Syrian periods, no female figure wearing a diadem is preserved, even though the female presence is constant in monumental art and in glyptics, with images characterised by long fluent hair, or by large cloaks 39 The two standards are quite refined works of art, including three elements each — TaburDamu, the statue of the deceased Queen Dusigu, and an incense burner in the Queen’s Standard, the king, the queen and a bull-man in the King’s Standard — made even more precious by the lavish use of different materials — gold, steatite, limestone, jasper. 741 Frances Pinnock covering their heads.40 On the other hand, during the Neo-Syrian period, the Aramaean principalities certainly recovered, and revitalised the patrimony of images referring to the ideology of kingship, as had for the first time been elaborated in the Early Syrian period. For instance, at Tell Halaf/Guzana, it is possible to observe a female figure, in one of the small orthostats, wearing long loose hair, tied on her forehead by a thin horizontal strip, and carrying a very distinctive ritual dagger.41 In the same site, a female royal statue, placed in a small sanctuary in the lower town, wears a kind of low cylindrical cap, decorated with vertical incisions in its upper part.42 Fig. 7. Steatite hairdress, Ebla, Royal Palace G, L.2982, ca. 2300 BC (© Missione Archeologica Italiana in Siria). From the combination of the early and neo-Syrian visual evidence, and the middle Syrian written evidence from Ugarit, it is perhaps possible to state that in Syria queens used to wear a kind of diadem, particularly when they appeared in public with their husbands, and that at least in one instance, at Ugarit, their simple diadem took the shape of a kind of mural crown, or at least the representation of a town, an ālu hurāsu. Turning to the adoption of the mural crown by the Assyrian queens, it seems opportune to recall one last element: not all the queens had the opportunity of being portrayed on public monuments, or rather, only two images are preserved — Naqi’a and Libbali-sharrat. Of these two, only the second one was a MÍ.É.GAL. Based on the evidence we have, therefore, it is possible to maintain that not every MÍ.É.GAL had the right to be portrayed on a public 40 41 42 742 Pinnock 2008. Pinnock 2015a, 129, fig. 21. Orthmann 2013, 537, fig. 310. A city of gold for the queen: some thoughts about the mural crown of Assyrian queens monument and that the possession of a mural crown was not related to the role of MÍ.É.GAL. Summing up, it is possible to maintain that the use of a specific ornament for the head, possibly made of gold, to characterise the public attire of queens was known in Syria, yet, I am convinced that to give this ornament the shape of a town wall was a specifically Assyrian habit,43 and from here it was probably transmitted to other periods and other regions, also to characterise deities, and in some instances also to characterise kings.44 Fig. 8. Fragment of shell diadem, Ebla, Royal Palace G, L.2982, ca. 2300 BC (© Missione Archeologica Italiana in Siria). One last important question concerns the reasons behind this choice. Among the scholars who dealt more or less in depth with the subject of the mural crown, two lines of thought prevail: on the one hand, they acknowledge the strong political value of the ornament;45 on the other hand, it is considered a tool to further stress the image of male power.46 It is difficult to object to the first interpretation, whereas I cannot agree with the second one; on the contrary, I believe that the mural crown is an important symbol of female power. For some time, on several occasions,47 I maintained that what appears of the roles of some ladies of the palace in the Assyrian court is not due to chance, because the visual aspects agree with what can be inferred from the written evidence. It 43 Ornan 2002, 474 shares the same opinion about the “Assyrianity” of the mural crown. 44 For instance, in the Parthian period and in the Iranian region, Queen Musa, spouse of Praates IV (38-2 BC) wears a stepped mural crown. In this case there is some doubt that there might be a superimposition with the image of the goddess Fortuna/Tyche, who usually wears a mural crown: Vanden Berghe 1978, 140. In the Sasanian period, the crenellated mural crown was worn by kings, and even by Ahura-Mazda: Vanden Berghe 1978, 141. 45 Ornan 2002, 476. 46 Ibid., 477. 47 Pinnock 2007-2008; 2014a; in press. 743 Frances Pinnock is certain that a definite increase in the public roles and visibility of women can be observed since Sennacherib’s age,48 and some scholars even provocatively elaborated on a possible “feminism” of this sovereign.49 It is my opinion that since Ashurnasirpal II’s age, with the creation of the hypogea reserved for the palace ladies below the floors of the bitānu of the North-West Palace, the image of Assyrian kingship in some measure included the female figure.50 I certainly agree with what was maintained, in particular, by F.M. Fales,51 that there is no question of an “ethnic” problem in the Assyrian empire, because each of its members was an Assyrian in reality, beyond his/her original provenance, especially at the highest levels of the administrative organisation. Yet, I think that the strong presence of persons coming from the Aramaean principalities of Syria, and, in particular, of women included in the royal harems, a well-known and largely studied presence,52 played an important role in the elaboration of the overall image of the Assyrian imperial power, a power which, beyond propaganda, aimed at being inclusive, rather than exclusive.53 In fact, in Syria since the Early Syrian period, the image of power included a strong female presence, and it is now possible also to understand that public roles played by women might have a strong ceremonial, ritual, and political value.54 As we have already seen, it is also possible that the peculiarity of the queens of the Syrian region of wearing some kind of diadem might have influenced the Assyrian courts, where many Syrian princesses were present, and some of them even reached positions of great importance, like the aforementioned Naqi’a,55 who is represented wearing the mural crown behind her king, making the same cult action.56 It seems opportune to mention here that in a boundary stele of Adadnirari III and Sammu-ramat, the quite relevant fact is mentioned that the 48 Radner 2012, 692. 49 Reade 1987. 50 Pinnock 2007/2008, 319-320. 51 Fales 2015a, 724; 2015b, 183, 204. 52 We must consider not only the presence of individuals, especially women, but also the possible interconnections in the elaboration of a figurative patrimony, with several elements in common between Assyria and Syria, which were the object of interesting analysis: Aro 2009, 11-12, 15, 16; Matthiae 2013b; 2015. About the presence of women of Aramaean descent, in particular in royal harems: Novotny 2001, 178-179, 180, 183; Pinnock 2001/2003. 53 Liverani 2011, 830-840. 54 Pinnock 2014b; 2016. 55 In general, about the figure of this important Assyrian queen, of probable Aramaean descent, see Melville 1999. 56 In the hand without the flower, bringing it to her nose, the queen holds a mirror, an object usually considered as a gender marker; moreover, it has been proposed that it had a Syrian origin too, though this was not considered meaningful as to Naqi’a’s origins: Ornan 2002, 472. 744 A city of gold for the queen: some thoughts about the mural crown of Assyrian queens queen had taken part in the military campaign with her son.57 In the end, the king, as was customary, took all the credit for the military victory, and yet, the queen shares with him the merit of widening the extension of the empire, also by means of the placement of a boundary stele with both names.58 This act also had a very strong importance from the ideological point of view, because the Assyrian king, by means of the boundary stele engraved with his name and figure, became the warrant of the protection of the now somehow-“fluid” borders of the Assyrian empire.59 Moreover, if we take into account the fact that in the Garden Scene, Libbali-sharrat, besides wearing the mural crown, also wears a dress whose embroidered hems depict the typical crenellations, which usually decorated the top of town walls, it seems evident to me that there is a clear intention related to female royal figures and town walls. If we recall what I have maintained before, namely that the low walls with square towers, only slightly protruding above the upper line of the walls, seem to refer more to outer elements of the fortifications, rather than to town walls proper, or to palaces, it seems to me that the ideological reference is with Adad-nirari III’s and Sammu-ramat’s boundary stone, rather than with the mere wish to potentiate the male royal image. From this perspective, I think that the image represented on the glazed tile from Nineveh60 should be considered a male one, not so much because of the detail of the presence of the beard — which is not completely certain — but rather because of the typology of the mural crown: this crown, in fact, is much higher than that of the queens, and the towers are thinner and more protruding at the top, according the way usually employed to represent true town walls. I do not think that it is possible to identify a contrast between this crown — which I believe is a male one — and the female one, in terms of a direct confrontation/opposition inside vs outside, but certainly, in my interpretation, the king, who in this unique preserved occurrence wears a mural crown, might be identified with his own town,61, whereas the connection 57 A similar accomplishment is attributed to another great female character of the ancient Mesopotamian world, namely Adad-guppi, mother of the last king of Babylon, Nabonedus, who, according to the narration of her life made by her son, died in a military camp: Pinnock 2006, 215. Adad-guppi was of Syrian origin too, more precisely, she probably came from the town of Harran. 58 Melville 2014, 228-229. 59 We can maintain that, for the Mesopotamians, the ideal borders were those dividing the town, seat of law and order, from the wild world outside: these borders were embodied by the town walls, which were thus the separation between order and chaos. When supra-national empires were built, this mental map was disrupted, and, more than ever, the king embodied in his own person the protection against chaos: Pinnock 2013. 60 Supra n. 25. 61 Here, it is also interesting to point at the support of the image, namely a glazed tile, not the usual reliefs on limestone slabs, decorating the bottom part of the palace walls. In our eyes, this 745 Frances Pinnock between royal female images and fortification walls, possibly external rather than internal, might rather point, on the one hand, at the projection of the royal couple towards the exterior, and, on the other hand, perhaps, at the acceptance, within the Assyrian figurative patrimony, of a strong and visible royal female figure. This image could be exhibited, in some measure, not only to the part of the population of the core of the empire who could understand and appreciate that image, but also to the part of population at the periphery of the empire, where a kind of dual representation of power had always been the rule. One last consideration, at the end of these short notes, may be proposed. In the queens’ tombs at Nimrud, no mural crown was retrieved, whereas in Tomb II, of Iaba/Banitu and Atalia, there was a wonderful gold diadem, a band decorated with rosettes in relief very much like the diadem worn by Ashurbanipal in the Garden Scene of Nineveh, and by the royal character killing a lion in a direct duel in the hunt reliefs, always from Nineveh. I think two hypotheses might be proposed with regard to this. 1) The mural crown did not belong in the queens’ personal furniture, and it was thus kept in the “crown treasure”, but it could not be placed in one tomb. 2) The mural crown belonged to the queen who had had the right to wear it — and we only know two of them, Naqi’a and Libbali-sharrat — and it was buried with its owner. As far as we know, these two ladies were not buried with the other queens at Nimrud, but possibly in Nineveh, where the last kings of Assyria resided. Personally, I think the first hypothesis might also be taken into account.62 The building up of the image of the Assyrian empire was certainly quite a long process, in which very refined minds engaged themselves, under the careful guidance of the kings themselves, who followed directly and at every step each moment of the construction and decoration of their palaces, and of might look as a lesser decorative motif, for the great historical and art-historical importance the reliefs had and still have in the history of Mesopotamian art. Yet we cannot forget, on the contrary, how the Assyrians believed glazed decorations were much more important, because they were a proof of the human capacity to mould and transform materials, dominating it, especially using fire: Matthiae 2014, 99, 102-103. For the fragility of the material, these decorations are largely lost, and we cannot rule out the possibility that paintings and glazed tiles might be used for more abstract ideological messages, than the reliefs. 62 An interesting hypothesis concerns some objects depicted in reliefs of Sargon II’s and Sennacherib’s age. Usually, these objects are considered as offerings of towns models (Micale 2011, tav. 46-47), but in the Assyrian Annals there is no mention of objects of this kind and already J. Börker-Klähn proposed that in some instances they were mural crowns, though she did not explain which was the difference between the objects she interpreted as mural crowns, and those she still considered towns models: Börker-Klähn 1997, 230. 746 A city of gold for the queen: some thoughts about the mural crown of Assyrian queens the creation of their images.63 This is an excellent example of a wide and far reaching political vision, something we are too often sadly lacking in our time. 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The link with the divinized Caesar allows to adopt Hellenistic patterns, aiming at establishing a steady power and kingship. In this framework, the model of the divi filius is related to the Hellenistic idea of the “deus praesens” as well as to the acquisition of isotheoi timai. The military victory is the new pillar of Hellenistic power: victory has to be turned into political power and in this perspective the idea of the divi filius becomes a key point. La vittoria del partito cesariano che si conclude con la divinizzazione di Cesare nel 42 a.C. fornisce a Ottaviano una carta decisiva negli anni cruciali della lotta politica a Roma. Le credenziali del giovane Ottaviano per inserirsi negli eventi successivi alla morte di Cesare non erano così forti e decisive nonostante l’investitura ricevuta in qualità di erede del grande condottiero1. La scelta di presentarsi come divi filius appare alquanto innovativa seppur considerata nel quadro del superamento dei valori tradizionali da tempo messo in atto dagli imperatores che agivano sulla scena di Roma tardo-repubblicana. Prima di affrontare il tema, ritengo indispensabile delineare una cornice entro cui inquadrare quanto stava avvenendo a Roma, cornice formata princi- 1 Per una recente ricostruzione dell’azione politica di Augusto cfr. Marcone 2015. In generale sul ruolo politico dell’adozione Marastoni, Mastrocinque, Poletti 2011. 753 Mauro Menichetti palmente da modelli e valori politici, culturali e religiosi elaborati nel mondo ellenistico. In estrema sintesi:  Roma al pari delle altre capitali del mondo ellenistico vede ora agire i nuovi “benefattori” che risultano tali in quanto euerghetes, soter, ktistes2;  l’accumulo di onori ricevuti per le imprese portate a termine, spesso ritenute sovrumane, culmina nella concessione di isotheoi timai, onori pari a quelli degli dèi3;  in realtà i nuovi “benefattori” devono possedere una comune e indispensabile caratteristica: la vittoria militare4. Il mondo ellenistico introduce stabilmente una legittimazione del potere che si origina dalla dorichtetos chora, la conquista attraverso le armi attraverso cui si elabora un modello di regalità assoluta5 i cui confini coincidono con l’Oikoumene6. Una serie importante di studi ha giustamente insistito su una “teologia della Vittoria”7;  la necessità di trasformare la vittoria militare — evento effimero e limitato nel tempo — in potere stabile, duraturo, addirittura “eterno” si colloca al centro del dibattito sull’origine e sui fondamenti della regalità ellenistica8 e, in questo senso, i punti sopra elencati descrivono un percorso per cui il “portatore di Vittoria” si deve trasformare in benefattore (euerghetes, soter, ktistes) le cui azioni giustificano onori pari a quelli degli dèi. La dottrina di Evemero di Messene ci fa intravedere un esito di questo percorso, da un’altra prospettiva un celebre inno descrive Demetrio Poliorcete come un “dio presente”9, l’unico in grado di ascoltare e intervenire difronte alla lontananza e all’indifferenza delle altre divinità10. Questo quadro è a mio parere indispensabile per intendere le mosse e le vicende dei protagonisti che si muovono sulla scena di Roma negli ultimi secoli della Repubblica. Peraltro non abbiamo a che fare con modelli stabili e canonizzati una volta per tutte e Roma contribuirà a fornire soluzioni assai innovative in merito alla legittimazione del potere sulla scia di quanto fatto, ad esempio, dagli Attalidi o dai Tolemei che si erano appropriati del corpo di 2 Kantiréa 2007, partic. 21-39; Muccioli 2013. 3 Chaniotis 2003; Wikander 2005; Günther, Plischke 2011; Iossif, Chankowski, Lorber 2011; Muccioli 2011; Versnel 2011; Mitchell 2013; Abbondanza, Coarelli, Lo Sardo 2014. 4 Chaniotis 2005, partic. 57-77. 5 Virgilio 2003. 6 Nicolet 1988; Cresci Marrone 1993. 7 Fears 1981. 8 Hölscher 2006. 9 Palumbo Stracca 2000; O’Sullivan 2008; Chaniotis 2011. 10 Bechtolt 2011. 754 Divi filius. Alle origini del potere di Augusto Alessandro. Le imprese di Cesare e di Ottaviano-Augusto a Roma trovano un costante riferimento in due principali modelli: Alessandro e Romolo, è questa una specificità del nuovo potere che si sta delineando nell’orizzonte di Roma. * * * Il funus di Cesare aveva avuto una conclusione ben diversa da quanto le norme religiose prescrivevano11: durante la laudatio nel Foro presso i Rostra il corpo di Cesare venne mostrato all’interno di una replica del tempio di Venus Genetrix ma, soprattutto, le ferite mortali mostrate attraverso una sorta di manichino provocarono rabbia e tumulti tanto che, dopo aver provato a cremare il corpo presso il tempio di Giove Capitolino e la Curia di Pompeo, il popolo e i cesariani tornarono nel Foro e qui avvenne la cremazione, sempre accompagnata da tumulti, in un’area tra la Regia e il tempio dei Castori12, vale a dire nel luogo ove poi venne costruito il tempio del Divo Giulio. Seguendo le osservazioni di G. S. Sumi13, benché la cremazione di Cesare sia avvenuta in mezzo a tumulti e a un apparente disordine e casualità dettati dai movimenti imprevedibili della folla che partecipava al funus, il luogo della cremazione non sembra del tutto casuale in quanto situato in un’area del Foro con caratteristiche politiche vicine alla plebs e in contrapposizione all’altro lato del Foro, quello ovest, che invece sembra presentarsi come una roccaforte dei valori aristocratici e senatori. Il luogo della cremazione del corpo di Cesare continua a svolgere un ruolo centrale nella lotta politica di Roma almeno fino alla dedica ufficiale della aedes divi Iulii nel 29 a.C. Gli avvenimenti successivi al funus di Cesare ci sono noti in primo luogo dalle fonti letterarie e possono essere così sintetizzati14:  nelle settimane successive alla cremazione l’area vede sorgere una columna e un’ara-bomos che ben presto vengono rimosse dal console Dolabella;  subito dopo viene innalzata una nuova colonna in marmo numidico e recante l’iscrizione Parenti Patriae. La colonna è probabilmente accompagnata da un altare e da una statua di Cesare;  nel corso del mese di ottobre del 44 a.C. Antonio fa erigere una statua di Cesare sul lato opposto del Foro, presso i Rostra, con analoga iscrizione Parenti optimo merito; 11 Fraschetti 1990, 46-59; Koortobojian 2013, 24-27. 12 Due figure misteriose identificabili con i Dioscuri sarebbero intervenute per indirizzare il popolo verso il luogo della cremazione nel Foro (Suet., Iul. 84, 3). 13 Sumi 2011. 14 Ibid., 212-217. 755 Mauro Menichetti nel mese successivo Ottaviano, sostenuto da due legioni e dalla plebs urbana, tiene un discorso presso il tempio dei Castori giurando di garantire a Cesare tutti gli onori e sottolineando la solennità del giuramento con la mano tesa ad statuam, probabilmente la statua dello stesso Cesare visibile sul luogo della cremazione;  se osserviamo la situazione al momento del discorso di Ottaviano, due statue di Cesare accompagnate da analoga iscrizione sembrano segnare i lati ovest e est del Foro; il luogo della cremazione continua ad essere segnato da elementi — colonna, altare — funzionali ad un culto; nel frattempo nel cielo di Roma era apparsa una cometa ben presto identificata con il sidus Iulium simbolo dell’apoteosi di Cesare15;  nel 42 a.C. per iniziativa dei Triumviri viene reso ufficiale il culto di Cesare16 al quale spetta la dedica di un tempio;  subito dopo le coniazioni monetali iniziano a indicare Ottaviano come divi filius;  due coniazioni monetali del 36 a.C. mostrano il progetto della aedes divi Iulii;  la costruzione del tempio inizia probabilmente prima della battaglia di Azio e si conclude con la dedica ufficiale nel 29 a.C. La sequenza degli avvenimenti risulta chiara e affidabile nelle sue grandi linee e pertanto da qui si deve partire per sottolineare alcuni punti essenziali. La decisione di rendere ufficiale il culto di Cesare nel 42 a.C. si presenta come una sicura vittoria dei cesariani anche in relazione al luogo dove sarà eretto il nuovo tempio, luogo corrispondente alle prime forme “spontanee” e non autorizzate del culto di Cesare. L’apoteosi di Cesare ufficialmente decretata giunge anche alla fine di un percorso segnato da una somma straordinaria di onori acquisiti da Cesare già in vita e di cui sono testimonianza anche le statue di cui abbiamo notizia che, evidentemente a causa di attributi e caratteristiche fuori dalla norma, suscitarono reazioni vivaci da parte del pubblico17. Le monete del 36 a.C. (fig. 1) offrono un altro punto di osservazione di grande interesse. Innanzi tutto queste serie monetali possono essere messe in relazione con la vittoria di Ottaviano a Naulochos che nelle sue intenzioni poteva chiudere la stagione delle guerre civili e aprire una nuova età di pace. Abbiamo a che fare con due coniazioni monetali simili: al centro è collocato il tempio del Divo Giulio su alto podio e con dedica visibile sull’architrave; Cesare — togato o con hüftmantel — è rappresentato stante al centro dell’edifi 15 Koortobojian 2013, 27 s. 16 Weinstock 1971. 17 Cadario 2006; Zanker 2008. In generale per l’immagine del dittatore Koortobojian 2013, 94-128. 756 Divi filius. Alle origini del potere di Augusto cio e munito dell’attributo del lituus; in alto, al centro del frontone sormontato da acroteri, spicca il sidus Iulium che aveva annunciato l’apoteosi di Cesare ben prima della dedica del tempio. Anche l’altare acceso visibile a sinistra richiama le forme primitive del culto che abbiamo visto sorgere subito dopo il funus la cui importanza è evidenziata dalla nicchia destinata a ospitare l’altare presso la parte anteriore del tempio nella disposizione finale corrispondente alla dedica del 29 a.C. Subito dopo la divinizzazione ufficiale di Cesare nel 42 a.C. appare forte l’interesse di Ottaviano a spingere su questo tema: le monete del 36 a.C. prefigurano il tempio del culto cesariano ancora in costruzione e rafforzano contemporaneamente la posizione di Ottaviano quale divi filius, rendono evi- Fig. 1. Denario del 36 a.C. con Cesare togato e munito di lituus (da Koortobojian 2013, 10, fig. I.1). dente un programma già in atto che intende costruire un percorso parallelo tra l’apoteosi di Cesare e l’apoteosi cui è destinato lo stesso Ottaviano18. Le monete del 36 a.C. presentano Cesare con l’attributo del lituus, un particolare non immediatamente comprensibile nella prospettiva dell’apoteosi, ma che invece appare denso di significato in relazione a Romolo-Quirino come ben rilevato da J. Pollini19 e da M. Koortobojian20. Il lituus individua Romolo quale primo augure e la sua trasformazione in Quirino mantiene saldo il rapporto con il lituus secondo la efficace descrizione di Ovidio21. Entro tale prospettiva la figura di Cesare assume le caratteristiche spiccate di nuovo ktistes, probabilmente richiamando anche modelli suggeriti dal mondo ellenistico22, e delinea un preciso percorso anche per lo stesso Ottaviano23. Peraltro il rapporto tra Cesare e Romolo-Quirino era stato sperimentato almeno a partire dai tre onori eccezionali concessi dopo Munda e che formano un vero e proprio “programma romuleo”24: in particolare la statua di Cesare collocata nel tempio di Quirino lo qualifica come “contubernalis Quirini” e fa 18 19 20 21 22 23 24 Zanker 1989, 37-40. Pollini 2012, 133-161. Koortobojian 2013, partic. 50-93. Ov., Fast. 6, 375. Ad esempio Buraselis 2010; Ogden 2013; Muccioli 2014. Cfr. anche Guarisco 2016. Cadario 2006, 37-48. 757 Mauro Menichetti Fig. 2. Ricostruzione della pianta della aedes divi Iulii (da Carandini A., La Roma di Augusto in 100 monumenti, Torino, 2014). dire a Cicerone che preferirebbe Cesare come synnaos del dio alludendo all’uccisione di Romolo e al suo corpo fatto a pezzi25. Il 18 agosto del 29 a.C. avviene la dedica della aedes divi Iulii26 (fig. 2) che costituisce il punto di arrivo rispetto a quanto sopra evidenziato e nello stesso tempo diviene un punto fermo per la strategia augustea dopo gli eventi successivi ad Azio. Infatti la dedica nello scenario del Foro di un tempio a Cesare assimilato a Romolo-Quirino da parte di Ottaviano divi filius rendeva evidente in modo definitivo la chiusura delle guerre civili e il carattere di rifondazione che andava ad assumere il nuovo potere. * * * I rostra delle navi di Azio visibili nel tempio del nuovo divus e il quadro di Apelle con Afrodite che sorge dalla schiuma del mare, pure visibile dentro la aedes divi Iulii27, riassumono bene il rapporto con le origini troiane e il ruolo della vittoria militare di Azio come possibilità di ritorno e ricostruzione del tempo delle origini da cui derivano pace e prosperità. Il riferimento alle origini troiane diviene ancora più chiaro in relazione alla celebrazione del lusus Troiae, 25 Cic., Att. 12, 45, 2 e 13, 28, 3. 26 RGDA 19; Cass. Dio 51, 22, 2. 27 Gros 1996. 758 Divi filius. Alle origini del potere di Augusto compreso tra le cerimonie predisposte per l’inaugurazione del tempio dedicato al Divo Giulio28 e già messo in scena in occasione della dedica del tempio di Venus Genetrix da parte dello stesso Cesare29. Il culto di Cesare divinizzato rafforza anche il programma politico di Ottaviano il quale, nelle vesti di divi filius, può ora programmare di ripercorrere le stesse tappe che hanno posto le basi per la divinizzazione di Cesare a partire dall’identificazione con Romolo-Quirino. Questo aspetto viene sancito e completato dalla scelta del nuovo nome assunto da Ottaviano nel 27 a.C. Come ben noto nella seduta del 16 gennaio del 27 a.C. il Senato assegna a Ottaviano il nome di Augustus su proposta di Munazio Planco. Le fonti fanno intravedere un dibattito tra ipotesi alternative — compresa la possibilità di ricorrere al nome stesso di Romolo — a conferma dell’importanza di questo atto30. La scelta del nome Augustus richiamava in primo luogo una sfera sacrale ma, soprattutto, richiamava la memoria di un augustum augurium31, vale a dire l’auspicazione favorevole della fondazione di Roma da parte di Romolo mediante l’avvistamento di 12 avvoltoi32. In tale prospettiva l’assunzione del nome Augustus include il riferimento a Romolo e pone in primo piano le valenze sacrali e religiose connesse all’auspicazione in occasione della prima fondazione di Roma. Il celebre capitolo 34, 1 delle Res Gestae associa significativamente l’assunzione del nome Augustus alla restitutio rei publicae e alla definizione di un potere assoluto che trova espressione nella nuova integrazione del testo che definisce Ottaviano-Augusto potens rerum omnium33. Peraltro la scelta del nome Augustus sembra avere radici lontane alla luce della tradizione relativa all’omen favorevole che Ottaviano ottiene in occasione del suo primo consolato nel 43 a.C.: compaiono infatti nel cielo dodici uccelli che alludono allo stesso numero di avvoltoi della fondazione romulea34. L’importanza di questo tema, vale a dire un programma di rifondazione di Roma da parte del futuro Augusto, viene collocato dalla tradizione proprio all’origine della carriera politica di Ottaviano e, come ben rilevato da Fr. Hurlet35, al gesto dell’auspicazione fa seguito l’occupazione del Palatino 28 Arena 2010, 40 s. 29 Cass. Dio 51, 22, 4; 43, 23, 6; Suet., Iul. 39, 2. 30 Todisco 2007; Arena 2014, 109 s. 31 Koortobojian 2013, 63-73. 32 Il riferimento all’augustum augurium del poeta Ennio è citato in Suet., Aug. 7, 2. Per i possibili riferimenti a Augustus/Quirinus e a un possibile parallelo tra Augusto-Quirino e Agrippa-Remo cfr. Todisco 2007, 443. 33 Botteri 2003; Drew-Bear, Scheid 2005, 232. Costabile 2012 ritiene più probabile una integrazione con “potiens”. 34 Suet., Aug. 95, 2; App., B.C. 3, 95; Cass. Dio 46, 46, 2. 35 Hurlet 2001, 156 s. 759 Mauro Menichetti presso l’Auguratorium ove era conservato quello che si riteneva essere il lituus appartenuto a Romolo. In questo modo Ottaviano divi filius, vale a dire figlio di Cesare identificato con Romolo-Quirino, si trasforma in Augustus che richiama direttamente l’atto originario della fondazione romulea. La mediazione di Cesare garantisce l’avvicinamento a Romolo, un avvicinamento che la casa di Ottaviano sul Palatino aveva tradotto anche in una vicinanza topografica alla capanna di Romolo36. Fig. 3. Pianta del Foro Romano (da Carandini A., La Roma di Augusto in 100 monumenti, Torino, 2014). A partire dal 29 a.C. la aedes divi Iulii diviene il punto focale dello scenario monumentale augusteo che definisce il lato est del Foro. Osservando il Foro in questo momento appare evidente una duplicazione che investe i due lati della piazza (fig. 3): ai Rostra simbolo delle antiche vittorie visibili sul lato ovest (Rostra vetera o Rostra Augusti peraltro ricostruiti da Cesare) si giustappongono ora i nuovi Rostra aedis divi Iulii sul lato est simbolo della vittoria 36 Ricostruzioni diverse della cronologia e della topografia della casa di Augusto in Carandini, Bruno 2008; Carafa, Bruno 2013, Coarelli 2012, 347-399; Wiseman 2014. 760 Divi filius. Alle origini del potere di Augusto di Azio che dischiude il tempo delle origini, un nuovo inizio37; non lontano dai Rostra del lato ovest si trova il Volcanal-Lapis niger, vale a dire il luogo dell’ascesa al cielo di Romolo38, poi trasformato in Quirino, mentre presso i Rostra del lato est ora è ben visibile la aedes divi Iulii che apre la nuova stagione di Roma attraverso l’ascesa al cielo di Cesare identificato con Romolo-Quirino. Peraltro Cesare quale nuovo Romolo-Quirino garantisce anche i legami dinastici che da Augusto, attraverso Cesare, risalgono fino a Romolo e alle origini troiane. Il lituus che Cesare teneva in mano sulle monete del 36 a.C. riassume perfettamente tutto lo scenario fin qui delineato in quanto richiama Romolo non solo quale primo augure ma anche come primo trionfatore. Risulta utile un’ulteriore osservazione di M. Koortobojian39 a proposito delle monete del 36 a.C.: qui scorgiamo i primi segni per cui l’autorità augurale non proviene più da membri sacerdotali che garantivano l’intermediazione con Giove ma proviene ora da una combinazione di poteri politici e militari che modellano un nuovo significato per l’imperium. Il percorso qui indicato trova una chiara definizione nella più tarda Gemma Augustea di Vienna (fig. 4) in cui Augusto, simile a Giove, siede al centro del registro superiore tenendo in mano il lituus, circondato da simboli e personificazioni astrali, e regolando contemporaneamente l’accesso al trionfo e la successione dinastica come si vede chiaramente nel diverso rango assegnato rispettivamente a Germanico e a Tiberio40. Il lituus rivela qui la sua piena autorità attraverso una combinazione di poteri religiosi, politici e militari così da ricondurre a un imperium del tutto simile a quello immaginato per Romolo. Ottaviano — poi Augusto — divi filius rappresenta probabilmente l’asse centrale di tutta la prima fase della costruzione del potere successiva alla vittoria di Azio e questa concezione appare così forte e determinante in modo tale da essere tradotta in termini monumentali mediante una scenografia del potere che segna profondamente lo spazio urbano di Roma. Il nuovo capitolo che si apre nel Campo Marzio settentrionale con la realizzazione proprio in questi anni del Mausoleo e del Pantheon non credo sia estraneo al quadro fin qui delineato. Il Mausoleo è funzionante almeno dal 23 a.C. mentre l’inaugurazione del Pantheon può essere fissata al 25 a.C. e pertanto la costruzione di questi due importantissimi monumenti dell’ideologia augustea deve essere iniziata subito dopo la vittoria di Azio e quasi in parallelo con gli avvenimenti che ruotano attorno alla aedes divi Iulii dedicata nel 29 a.C. 37 Coarelli 1985, 308-324. 38 Brelich 1960; Coarelli 1999; Fraschetti 2002, 93-121; Carandini 2006, 299-350; Carafa 2014. 39 Koortobojian 2013, 146-154. 40 Neudecker 2014. 761 Mauro Menichetti Fig. 4. Gemma Augustea a Vienna, Kunsthistorisches Museum (Common domain). Nuovi studi e ricerche hanno rinnovato profondamente la conoscenza di questi monumenti di cui è oggi possibile riconoscere una serie di caratteristiche in grado di gettare luce ulteriore in merito a quella scenografia del potere di cui si diceva. L’allineamento dell’ingresso rivolto a Sud del Mausoleo41 con l’ingresso rivolto a Nord del Pantheon di Agrippa garantisce la pertinenza di questi monumenti ad unico progetto il cui significato unitario traspare anche dalla coincidenza cronologica sopra richiamata. Quel lontano percorso e quella lontana premessa di apoteosi adombrata nell’uso di divi filius da parte di Ottaviano trova ora nel Mausoleo e nel Pantheon una piena traduzione monumentale. Se poniamo mente al fatto che il Pantheon insiste su un’area contigua alla palus Caprae ove le fonti collocano un’altra ascesa al cielo di Romolo42 — oltre a quella localizzata nel Foro —, appare chiara la volontà di Augusto di predisporre un meccanismo monumentale in grado di porre le basi per la sua apoteosi che così veniva mostrata e presentata pubblicamente come parte del nuovo progetto politico. Mausoleo e Pantheon traducono in senso monumentale il binomio funus et triumphus 41 42 762 Sintesi dei dati in Agnoli, Carnabuci, Caruso, Loreti 2014. Coarelli 1983. Divi filius. Alle origini del potere di Augusto apoteosi. Come ben sappiamo il progetto iniziale dovette essere leggermente ridimensionato e la statua di Augusto, unitamente a quella di Agrippa, sostava nel pronao del tempio — probabilmente un Dodekatheon — visualizzando il ruolo del divi filius ribadito dalla statua di Cesare divinizzato presente all’interno dell’edificio43. Ma, allo stesso tempo, tutta la scenografia dichiarava che l’apoteosi di Augusto era solo questione di tempo e la collocazione della statua nel pronao era solo una sosta in attesa di proseguire il percorso e completare l’accesso allo statuto di divus. La divinizzazione di Cesare e la sua identificazione con Romolo-Quirino permette al divi filius di presentarsi per ora come Augustus, richiamando il ruolo di Romolo, in attesa della trasformazione in Quirino44. * * * La costruzione del potere da parte di Cesare e di Augusto trova costante riferimento in due principali modelli: la vittoria militare — che il mondo ellenistico aveva elevato a “teologia della vittoria” — e il ritorno al tempo delle origini, la necessità di una nuova fondazione che ha come modello le imprese di Romolo. Queste sono le premesse per l’avvento della aurea aetas. Potremmo dire che la costruzione simbolica del potere augusteo procede a blocchi riplasmando e aggiornando con coerenza nel corso del tempo motivi già in precedenza attivati. L’avvento della aurea aetas è annunciato dai Ludi Saeculares del 17 a.C. che chiudono un altro aspetto della “teologia della Vittoria”, vale a dire l’uso da parte di Augusto dei Parthica signa recepta quale simbolo della conquista dell’Oikoumene che comporta necessariamente il nuovo saeculum e la nuova età dell’oro. La vittoria militare è alla base della Pax Romana che apporta pace e prosperità45. Questi motivi corrispondono al nucleo centrale di un’ulteriore fase di elaborazione del potere augusteo che si apre nel 12 a.C. e che qui solo sommariamente può essere richiamata:  Augusto assume la carica di Pontifex Maximus nel 12 a.C.;  rifondazione “romulea” di Roma mediante la divisione in XIV regiones a partire dalla Meta Sudans presso le Curiae veteres46;  riforma del calendario a seguito di una errata applicazione della riforma cesariana; 47  riattivazione della festa dei Compitalia con il culto dei Lares Augusti ; 43 Coarelli 2014; La Rocca 2015. 44 La Rocca 2010. 45 Pollini 2012, 204-241. 46 Panella 2013. 47 Sulle precoci manifestazioni cultuali in favore di Augusto, sintesi dei dati in Caliò, Sassu 2016; Cadario 2016; Galli, Tozzi 2016. Per la Grecia in generale cfr. Kantiréa 2007. 763 Mauro Menichetti completamento della scenografia del potere nel Campo Marzio con la realizzazione tra il 12 e il 9 a.C. dell’Ara Pacis e dell’Horologium. La carica di Pontifex Maximus permette a Augusto di agire come “signore del Tempo”48, aspetto complementare a quello della conquista dell’Oikoumene. In altre parole il potere di Augusto si estende sullo spazio e sul tempo secondo una concezione ben nota al mondo ellenistico e che possiamo visivamente riassumere nella celebre pompè messa in scena ad Alessandria da parte dei Tolemei per suggellare il loro potere dinastico che si origina dallo stesso Alessandro il cui corpo è custodito nella capitale tolemaica49. Un denarius di L. Cornelius Lentulus viene probabilmente battuto nel 12 a.C. e qui ritorna il motivo del divi filius (fig. 5): a destra è visibile Augusto togato e con corona di alloro mentre con la mano sinistra mostra il clipeus virtutis; il braccio destro di Augusto è sollevato per incoronare il divus Iulius mentre in alto compare il sidus Iulium. Cesare è rappresentato simile a Giove con hüftmantel e mostra nella mano destra una victoriola su globo50. Il motivo del “portatore di Vittoria” era stato adottato da Ottaviano subito dopo Azio51 ma venne presto abbandonato poiché la scoperta assimilazione a una figura divina dovette consigliare una diversa strategia al modo di quanto avvenne per il Pantheon. La dedica a Roma nel 28 a.C. della statua di Vittoria portata da Taranto conferma l’insistenza su un tema che evidentemente ben si adattava ai tempi successivi alla vittoria di Azio.  Fig. 5. Denario di L. Cornelius Lentulus con Cesare e Augusto (da Koortobojian 2013, 47, fig. II.13). Il motivo del divi filius era evidentemente assai caro a Augusto e appare piuttosto interessante che riemerga proprio negli anni attorno al 12 a.C. così densi di avvenimenti in relazione ad un ulteriore e profondo aggiornamento del potere augusteo. Un’osservazione di M. Koortobojian ci aiuta a definire il nuovo orizzonte: “this coin reformulated the old Republican imagery as it reaffirmed the gods’role in military affairs — but now it is the Julian gens’ own god, Divus Iulius, who brings victory, and who guarantees the rule of Augu48 49 50 51 764 Paris, Bruni, Roghi 2014. Rice 1983. Koortobojian 2013, 138-146. Koortobojian 2006. Divi filius. Alle origini del potere di Augusto stus and his eventual heirs”52. La Vittoria come si vede appartiene alla domus Augusta a partire dalla sfera divina. Nel 19 a.C. terminano le liste dei Fasti triumphales poiché — in relazione agli eventi che ruotano attorno ai Parthica signa recepta — il trionfo diviene una prerogativa del princeps il quale chiude ora la lista dei trionfatori, quella lista aperta da Romolo che trionfa su Acron nel tempo delle origini53. La moneta di Lentulus rende per così dire espliciti i motivi di quella prerogativa assegnando al divus Iulius il ruolo di “portatore di Vittoria”. La rappresentazione iconografica della Gemma Augustea (fig. 4) significativamente insiste su analoghi motivi rendendo visibile il ruolo di Augusto come unico interprete della volontà divina, un ruolo che implica anche la gestione dell’imperium e del connesso trionfo. La Gemma Augustea rappresenta probabilmente la versione più chiara di come si pensava a Roma la “teologia della Vittoria” all’inizio della fase imperiale. Nel Campo Marzio l’Horologium e l’Ara Pacis, probabilmente allineati (fig. 6), rendono letteralmente visibile il nuovo tempo della aurea aetas che in realtà è quello delle origini troiane e romulee54. Ma sull’obelisco dell’Horologium la grande iscrizione celebra la conquista dell’Egitto55: solo la vittoria di Azio, vale a dire la vittoria di Augusto e della domus Augusta, è in grado di riaprire la strada verso il tempo delle origini, la aurea aetas. Il presente è interpretato alla luce del passato e viceversa. La scenografia del nuovo Foro augusteo riprenderà coerentemente anche il motivo dei Parthica signa recepta, un’altra versione della “teologia della Vittoria” ora stabilmente collegata alla domus Augusta. * * * Nell’11 a.C. muore la sorella di Augusto, Ottavia, e in questa occasione è documentata per la prima volta la doppia laudatio funebre. Seguendo l’antica tradizione del funus aristocratico di epoca repubblicana, la laudatio nel Foro rappresenta il punto culminante della celebrazione delle virtù e delle imprese del defunto e della sua famiglia, virtù e imprese che letteralmente vengono certificate e donate come exempla alla memoria pubblica della città. Alla morte di Ottavia, Druso svolge una laudatio presso i Rostra antichi, sul lato ovest del 52 Koortobojian 2006, 193. 53 Bastien 2007, 66-74; Östenberg 2009. 54 Per i dati archeologici e le diverse interpretazioni dell’Horologium, anche in relazione agli altri monumenti augustei del Campo Marzio, rimando ai contributi raccolti in Haselberg 2014 e, in particolare, rimando ai singoli contributi di L. Haselberg (A Debate on the Horologium of Augustus: Controversy and Clarifications, 15-38) e di E. La Rocca (Augustus’ Solar Meridian and the Augustan Urban Program in the Northern Campus Martius: Attempt at a Holistic View, 121-165). Cfr, anche Rehak 2006. 55 CIL VI 702. 765 Mauro Menichetti Foro, in veste di magistrato dello Stato romano; sul lato est del Foro, presso i Rostra aedis divi Iulii, Augusto pronuncia una seconda laudatio in quanto appartenente alla stessa famiglia della defunta. In modo analogo, alla morte di Augusto, si ha la laudatio di Druso Minore dai Rostra vetera, in veste di magistrato, e la laudatio di Tiberio — adottato da Augusto — presso i Rostra del Fig. 6. Pianta del Campo Marzio (da Rossini O., Ara Pacis, Milano, 2006). tempio di Cesare divinizzato in quanto rappresentante della famiglia Giulia56. La doppia laudatio di Ottavia rende evidente anche sul piano topografico l’aspetto bipolare che ora ha assunto il Foro romano (fig. 3): doppia laudatio, reduplicazione dei Rostra, culto dell’eroe e del re fondatore che, sul lato ovest, corrisponde a Romolo-Quirino e sul lato est viene duplicato e aggiornato con la nuova identificazione con Cesare-Romolo-Quirino. La novità dei tempi viene ovviamente occultata attraverso il riferimento al tempo delle origini. La dop56 766 Coarelli 1985, 308-324. Divi filius. Alle origini del potere di Augusto pia laudatio di Ottavia ha luogo in questo scenario che vedeva anche l’avvio, da parte di Augusto pontefice massimo, degli eventi e procedure sopra richiamate a proposito di una nuova rifondazione dello spazio e del tempo di Roma. La doppia laudatio — per Ottavia e successivamente per Augusto almeno per quanto noto dalle fonti — rende esplicito il fatto che la laudatio presso i Rostra vetera non è più sufficiente e a questa deve essere aggiunta la laudatio presso i Rostra aedis divi Iulii: l’appartenenza alla famiglia Giulia diviene requisito fondamentale per la gestione del potere politico. Osservando i due lati del Foro appare compiuta la rifondazione di Roma: Romolo da un lato e Cesare-RomoloQuirino sull’altro lato, con i rispettivi segni monumentali della loro ascesa al cielo, condividono il ruolo di ktistes cui spetta l’attributo del lituus da cui si origina anche l’imperium e il trionfo. Una tale novità, rappresentata nello spazio centrale della memoria politica di Roma, non può che essere giustificata ricorrendo al tempo delle origini, che ora comprende anche Cesare, e legittima gli atti di chi detiene il titolo di divi filius. Bibliografia Abbondanza L., Coarelli F., Lo Sardo E. (a cura di) 2014, Apoteosi. Da uomini a dei. Il Mausoleo di Adriano, Roma. Agnoli N., Carnabuci E., Caruso G., Loreti E. M. 2014, Il Mausoleo di Augusto. Recenti scavi e nuove ipotesi ricostruttive, in Abbondanza L., Coarelli F., Lo Sardo E. (a cura di) 2014, 215-229. Arena P. 2010, Feste e rituali a Roma. Il Principe incontra il popolo nel Circo Massimo, Bari. Arena P. (a cura di) 2014, Res Gestae. I miei atti, Bari. Baglioni I. (a cura di) 2016, Saeculum Aureum. Tradizione e innovazione nella religione romana di epoca augustea. I, Roma. Bastien J.-L. 2007, Le triomphe romain et son utilisation politique. À Rome aux trois derniers siècles de la République, Rome. 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The first papers already published on this specific topic, in fact, have demonstrated that the Ovidian perspective on the official deities is very far from the Augustan propaganda, as the choice of the themes described in the poems (especially Metamorphoses) clearly demonstrates. In this perspective, this paper analyses Diana, considering both the episodes directly related to the gooddess and those whose main characters are her followers, i.e. hunter-nymphs like Callisto, Syrinx etc. The analysis compares the Ovidian descriptions, the contemporary figurative repertoire and the religious context, aiming to increase the knowledge on the Ovidian political position in the Augustan era. Finché la dea m’ispira, prendete insegnamento, ragazze, dai miei versi, se così vi permettono il pudore, le leggi e la vostra condizione1: nel ricco e variegato corpus di Ovidio, il poeta che per eccellenza si caratterizza come cantore delle donne e della loro bellezza al punto da descriverne a più riprese le strategie di 1 Ov., Ars 3, 57-58; trad. E. Pianezzola. Le traduzioni dalle Metamorfosi qui citate sono tratte dall’edizione Fondazione Lorenzo Valla – Scrittori greci e latini, 6 vol., 2005-2015. 773 Isabella Colpo seduzione — belletti, abiti, acconciature, e sinanche gesti e posizioni2 —, fa specie riscontrare come nel gran poema che descrive le metamorfosi ad accendere i desideri dei numi sovente non siano le fanciulle di città, cui sono indirizzati appunto i suoi precetti, bensì quelle ninfe seguaci di Diana che rifiutano le velleità di Venere per seguire invece la dea della caccia, incalzando le loro prede tra boschi e valli selvagge. Alla luce dei lavori condotti negli ultimi anni dal gruppo di lavoro padovano sulle modalità con cui Ovidio tratta le vicende che coinvolgono gli dèi, e soprattutto quelli più cari al pantheon augusteo3, sarà qui interessante riesaminare la figura di Diana e del suo corteggio di donne cacciatrici, nella duplice prospettiva letteraria e figurativa, così da cercare di definire il ruolo della dea nelle dinamiche del poema in una prospettiva squisitamente ovidiana. Chi sono dunque queste donne a caccia? quali i loro nomi e le loro storie? Diana Le vicende che vedono come vera protagonista Diana non sono moltissime nelle Metamorfosi, e quando vi compare, la dea sembra essere personaggio torvo e vendicativo. Due sono le vittime principali: Callisto, sulla quale a breve torneremo in quanto ninfa del suo corteggio, involontaria e incolpevole vittima delle attenzioni ingannevoli di Giove, allontanata da Diana dopo che ne viene scoperta la gravidanza e quindi la perdita della verginità (Met. 2, 401-530); e Atteone, il cacciatore che accidentalmente scorge Diana nuda al bagno in una fonte e per questo viene trasformanto in cervo e condannato a divenire preda dei suoi stessi cani (Met. 3, 138-252)4. Vendicativa è Diana anche nei confronti della superba Chione, la quale per esser troppo piaciuta ad Apollo e a Ermes osa proclamarsi più bella della dea, che si vendica colpendola con la sua freccia mortale (Met. 11, 291-345). Vi sono poi casi nei quali Ovidio non si dilunga a narrare le azioni della dea, il cui ruolo nelle vicende è tuttavia primario: così, nel descrivere l’uccisione dei Niobidi per punirne la tracotante madre, Ovidio tralascia di soffermarsi sull’operato dei figli di Latona, concentrando piuttosto l’attenzione sulle conseguenze delle 2 Così nel terzo libro dell’Arte di amare e nei Medicamina. Cfr. la recente pubblicazione di Cantileno 2017. 3 Ghedini 2012a; Colpo 2017; ma in relazione in particolare alle vicende di carattere amoroso, cfr. anche Ghedini, Colpo 2017. Alle ricerche condotte sul gran poema delle passioni e delle meraviglie dal gruppo padovano coordinato da Francesca Ghedini, Sara Santoro ha prestato sin dall’inizio attenzione ed entusiastica partecipazione, presente agli incontri da noi organizzati, sempre disponibile al dialogo e al confronto. Dialogo e confronto, severi ma sempre affettuosi, la cui assenza è quotidiana. 4 Bretzigheimer 1994, 526-531; Schmitzer 2001, 303-309. 774 Diana e le altre: le donne a caccia nelle Metamorfosi ovidiane frecce da essi scagliate (Met. 6, 146-310). D’altro canto, l’ira di Diana per i mancati riti è anche la causa dell’invio del cinghiale calidonio (Met. 8, 270282), e solo la completa rovina della famiglia di Portaone — ucciso Meleagro dal tizzone gettato nel fuoco dalla madre Altea, a sua volta suicida — potrà saziare la rabbia divina (Met. 8, 542-546). E ancora sull’ira della dea insiste Ovidio al principio e alla fine della narrazione dell’episodio di Ifigenia, sostituita da una vittima più adeguata a placare Diana, episodio nel quale è taciuto l’esito estremo, con la giovane portata in Tauride ove diventa sacerdotessa, che pure potrebbe gettare una luce nuova e meno fosca sulla figura della dea (Met. 12, 27-38). Le seguaci di Diana Seguaci della integerrima e irreprensibile dea della caccia sono alcune tra le Ninfe, le cui vicende sono segnate da passioni dai contorni e dagli esiti differenti. Vittime involontarie delle bramosie divine sono Dafne, Siringa e Aretusa, ma per tutte loro la metamorfosi sopraggiunge provvidenziale a scongiurare la violazione della castità, segno distintivo delle devote a Diana. La bellezza di Dafne, figlia di Peneo, accende il desiderio di Apollo, che dapprima tenta di sedurla a parole, quindi si lancia all’inseguimento della giovane in fuga, sino a che ella, stremata dalla lunga corsa e quasi raggiunta dal dio, si muta in alloro; anche così, Febo l’ama e posando la mano sul tronco le sente il cuore che palpita, sotto la nuova corteccia (Met. 1, 553-554)5. Inviato da Giove a liberare la fanciulla-giovenca Io dalla custodia di Argo dai cento occhi, Ermes narra la storia della ninfa Syrinx (Met. 1, 689-712): il racconto ovidiano, assolutamente innovativo, si configura come una non del tutto felice riproposizione della vicenda di Dafne, con il tentativo di Pan di sedurre la ninfa, la fuga e l’inseguimento, sino alla prodigiosa trasformazione in quelle canne palustri che vengono poi legate assieme a comporre lo strumento musicale che da lei prende il nome e che caratterizza il dio dai piedi caprini6. Di Aretusa di invaghisce Alfeo vedendo la bella ninfa nuda che fa il bagno in un fiume: a salvare la giovane in fuga sopraggiunge questa volta Diana in persona, da lei invocata, che avvolge la sua seguace con una nube, sottraendola in tal modo alle attenzioni del dio; e così celata dal prodigio divino, Aretusa si scioglie in fiume, e inghiottita dalla terra rinasce a Ortigia, fonte cara a Diana (Met. 5, 577-641). 5 Sul mito di Apollo e Dafne, prima vicenda d’amore dell’intero poema, cfr. Ghedini 2008a e Ghedini 2009. 6 Sulla vicenda in Ovidio, cfr. Ghedini 2011. Sulle tangenze tra le vicende di Syrinx e di Dafne, cfr. Barchiesi 2005, commento ad loc. 775 Isabella Colpo Nessuna provvidenziale trasformazione vale invece a salvare Callisto dal desiderio del padre dei numi, che a lei si avvicina sotto le mentite spoglie della stessa Diana, conquistandone così l’incauta fiducia. È questa violenza l’atto che scatena una serie di conseguenze sulla poveretta: rimasta incinta del divino, Callisto riesce a celare la gravidanza sino a quando la nudità forzata dalle altre Ninfe in occasione di un bagno con la dea non svela il misfatto. La caccia dunque Diana dal suo corteggio; e non appena Callisto partorisce Arcade, Giunone vendica su di lei tutta la sua gelosia e la trasformata in orsa. Trascorreranno tre lustri prima che Giove, sino ad allora del tutto indifferente alle sorti dell’amante e del figlio, per scongiurare l’estremo delitto — Arcade divenuto cacciatore affronta l’orsa e, ignorando che sia la madre, sta per ucciderla — trasforma entrambi in costellazioni; costellazioni che non possono tuttavia tramontare sotto l’orizzonte, l’ultima vendetta di Giunone7. Salmacide: la Ninfa che non conobbe mai Diana A una categoria differente appartiene invece Salmacide, la Ninfa predatrice la cui vicenda è connotata da un rovesciamento dei tradizionali ruoli maschio-femmina nella dinamica erotico-amorosa: vive, la Ninfa, nell’omonima fonte e, nonostante i ripetuti inviti delle compagne, rifiuta di unirsi al corteggio di Diana. Intenta alla toilette nei pressi della fonte, ella vi scorge un giorno il bel figlio nato a Mercurio dalla dea di Citera... che porta nei tratti del volto sua madre e suo padre: da loro prese anche il nome (Met. 4, 288-291). Come da tradizione, Salmacide tenta dapprima di sedurre il giovane a parole, quindi lo assale con desiderio quando più lui è inerme, mentre sta facendo il bagno, e gli si avvinghia e lo stringe, chiedendo alfine a dèi non meglio precisati di potersi unire a lui per sempre, e dai due corpi ne nasce uno solo. Tardivo è l’intervento dei genitori di Ermafrodito, che concedono al figlio ormai trasformato che la fonte renda uomo a metà chiunque vi si immerga (4, 276-388). Diana e le altre: la versione ovidiana Fermata a una fibbia la veste, a un nastro bianco i capelli in disordine, e stretto in mano ora un dardo leggero, ora un arco, faceva il soldato di Febe (Met. 2, 413-415): se pure dissimili sono per esse le vicende, nel modo con cui Ovidio racconta le donne a caccia alcuni elementi — l’abbigliamento, innanzitutto, e con esso l’acconciatura dei capelli e le attitudini, le attività — tornano in modo 7 Met. 2, 399-513; il mito torna anche in Fast. 2, 155-192. Sulla trattazione ovidiana, cfr. Bretzigheimer 1994, 524-526; Schmitzer 2001, 310-313; Ghedini, Colpo 2010, 293-295; Colpo 2011. 776 Diana e le altre: le donne a caccia nelle Metamorfosi ovidiane quasi formulare a connotarne in maniera icastica la natura di Ninfe dedite a Diana, differenziandole così da ogni altra donna raccontata dal poeta8. Indossano vesti corte, sopra alle ginocchia, fermate con una fibbia9; i capelli, in disordine, sono approssimativamente legati da un nastro bianco. Le Ninfe recano con sé le armi di Diana, l’arco, la faretra e le frecce; laddove, tuttavia, il loro arco è fatto di corno, quello della dea è invece d’oro (Met. 1, 697). Lei non pensava a cardare la lana per renderla morbida, né a sistemarsi in fogge sempre diverse le trecce (Met. 1, 411-412): anche le attività cui esse si dedicano non sono quelle femminili più comuni. Non colgono fiori, come fa Proserpina subito prima di essere rapita da Plutone (gioca e coglie ora viole ora candidi gigli, e con zelo infantile ricolma il grembo e la cesta, Met. 5, 391-394), o come fa Europa assieme alle compagne sulla spiaggia di Sidone, intenta a intrecciare corone con cui orna il collo del toro che cela il signore degli dèi (Met. 2, 843-868); non si intrattengono alla toilette raccontando storie, come fa Galatea mentre Scilla le pettina i capelli (Met. 13, 738); e non stanno al telaio come le figlie di Minia, chi fila, chi torce la lana col pollice, chi tesse ostinata10 raccontandosi a turno storie di amori (Met. 4, 1-415). A tutte queste giovani del mito intente nelle attività di Venere o di Minerva, pienamente riconducibili a un contesto tradizionalmente femminile, fanno da contrappunto quelle ninfe che con l’abito legato sopra le ginocchia per essere più libere nella corsa, con i capelli appena raccolti da una benda che lascia sfuggire riccioli, al pettine e al belletto, alle ceste ricolme di fiori, alla spola e al fuso preferisono di gran lunga percorrere i boschi, tendere le reti, e con lancia e turcasso variopinto alternare il riposo alle fatiche della caccia11. Esattamente come la dea alla quale sono devote, esse rifuggono i pretendenti e il matrimonio, non vogliono sapere che siano Imene, l’amore, le nozze (Met. 1, 482): ripetutamente invitata dal padre a prendere uno sposo e a generargli dei nipoti, Dafne che aborrisce le fiaccole nuziali come un delitto ottiene 8 Bretzigheimer 1994, 508-524. 9 Abbigliata alla moda di Diana, in vesti succinte e con i capelli sciolti sulle spalle, è anche la Ninfa che, durante il banchetto nella casa di Acheloo, ne reca a tavola il corno ricolmo di frutta (Met. 9, 89-92). 10 Sulle donne al telaio nel poema (tra le quali, la più celebre è Aracne, la cui vicenda è descritta nel libro 6 del poema), cfr. Ghedini 2012b. 11 Non sono le sole, le Ninfe, a vestire come Diana: alle attività della dea e delle sue Ninfe si unisce anche Procri, ingannata dal marito Cefalo che voleva testarne la fedeltà (Met. 7, 672-865); il medesimo aspetto caratterizza Atalanta quando appare a Meleagro, per la caccia calidonia, con la veste fermata da una fibbia e l’arco eburneo appeso alla spalla (Met. 8, 318-323). E Venere stessa, un giorno, si reca a caccia: per amore di Adone, vestita alla moda di Diana con la veste tirata sopra le ginocchia, si aggira per i boschi aizzando i cani contro bestie inoffensive — lepri, cervi, caprioli — e tiene l’amato lontano dalle belve feroci (Met. 10, 533-541). 777 Isabella Colpo alfine dal padre stesso si poter conservare la propria verginità, non diversamente dalla Diana bambina dell’Inno ad Artemide callimacheo (1, 486-487)12. Rifiutano la bellezza, queste donne: non la cercano, anzi se ne vergognano e arrossiscono di una grazia non voluta, come fa la rustica Aretusa: io di queste dote fisiche arrossivo, inurbana com’ero, e piacere mi pareva un delitto (Met. 5, 583-584). Eppure, anche così, non curate, riescono a risvegliare la passione degli dèi con la loro (non voluta e non cercata) bellezza sensuale: quando Apollo vede per la prima volta Dafne, le ammira i capelli pur trascurati (Che capelli, a curarli!), gli occhi simili a stelle, la bocca, le dita e le mani, i polsi e le braccia, nude oltre il gomito; i punti nascosti li immagina ancora più belli (Met. 1, 497502); e la fuga rende ancora più bella la giovane, più sensuale e desiderabile: le spogliavano il corpo le folate, palpitava la veste opponendosi al soffio dei venti e l’aria leggera buttava all’indietro e rialzava i capelli (1, 527-529)13. Ma è soprattutto al momento del bagno che la femminilità di queste donne viene celebrata: l’attività per eccellenza di Diana, va da sé, è quella venatoria; tuttavia nei due passi di Callisto e Atteone ad essere soprattutto enfatizzato è il momento del bagno della dea. Spossata dalle fatiche della caccia, Diana giunge ad uno specchio d’acqua che le piace, un ruscello le cui acque gorgogliano in un bosco freschissimo (Met. 2, 455-456), una fonte circondata da prati in una grotta di pomice viva e di tufo leggero14: la dea ne saggia le acque con un piede (summas pede contigit undas, 2, 457), quindi vi entra e si spoglia delle armi, giavellotto, faretra e arco, si toglie la tunica e lascia che le Ninfe che l’accompagnano le slaccino i sandali, le raccolgano i capelli sul capo (Met. 3, 165-170); infine, Diana si lascia bagnare con le fresche acque dalle sue compagne (3, 171174). Ovidio indugia nella descrizione del bagno di Diana, costruendo, soprattutto nell’episodio di Atteone, un passo dalla forte tensione erotica, che prelude alla prossima visione del corpo nudo della dea da parte del cacciatore. Tensione che pure si ritrova nell’omologo passo del bagno di Aretusa: anche lei giunge a un fiume dalle acque placide e cristalline, anche lei ne saggia la piacevolezza con il piede, quindi vi immerge i polpacci, e toglie la veste per immergersi nuda e nuotare (batto e agito l’acqua nuotando qua e là, levando e affondando le 12 Su questo passo e sulla citazione callimachea, cfr. Barchiesi 2005, commento ad loc. 1, 486-487. 13 Segal 2005, xl-xlii: “Il primo incontro sessuale del poema [...] è il modello per l’erotizzazione del corpo femminile, mostrato sia vestito che svestito, che desta il desiderio maschile”. 14 Met. 3, 155-162. Su questa grotta senza traccia di mano d’artista: fingendo una mano d’artista, il genio della natura vi aveva lanciato una volta spontanea, di pomice viva e di tufo leggero, nella versione letteraria e nelle immagini riferibili al mito, cfr. Leach 1981, 324-326; Colpo 2010, 99-101. Per la riflessione su arte e natura in questo passo, cfr. anche Barchiesi 2007, commento ad loc. 778 Diana e le altre: le donne a caccia nelle Metamorfosi ovidiane braccia, Met. 5, 595-596), e nuda Aretusa fugge dagli assalti di Alfeo, e la sua nudità la fa sembrare ancora più pronta. Il passo di Aretusa trova poi precisa corrispondenza nella sequenza del bagno di Ermafrodito15: anche il bellissimo giovane, infatti, girella attorno all’acqua della fonte, ne saggia la temperatura con la punta del piede, poi il tallone, infine il polpaccio; infine si toglie dal tenero corpo le morbide vesti, si batte le palme sul petto ed entra nell’acqua, muovendo ora un braccio ora l’altro (Met. 4, 341-355), scatenando così il desiderio di Salmacide. Elemento che connota tutte le vicende che hanno per protagoniste le Ninfe (e i giovani) è quello dell’inseguimento da parte della divinità: chi prima cacciava diventa a sua volta preda e Ovidio ne descrive la disperata fuga. Ad accentuare la drammaticità di questo rovesciamento di ruoli è il ricorrere, in queste vicende, di similitudini desunte dalle cacce tra animali16: fugge Dafne, come un’agnella da un lupo, una cerva da un leone, colombe da un’aquila (Met. 1, 505-507) ed è un levriero celtico Apollo, lanciato all’inseguimento dell’amata (1, 532-538); è falco Alfeo quando incalza Aretusa (come colombe con trepida ala fuggono il falco, come il falco insegue le trepide colombe, Met. 5, 605-606), e la ninfa nascosta dalla nube mandata da Diana sta rintanata come un’agnella minacciata dai lupi tutt’intorno all’ovile o una lepre immobile per non richiamare i cani che la cercano (5, 626-629); Salmacide si lega al corpo di Ermafrodito come un serpente ghermito dall’aquila reale che lo porta in cielo, lui le avviluppa le zampe e la testa, le avvinghia le ali spiegate dentro la coda (Met. 4, 360-364), lei gli si allaccia come il polipo in fondo al mare, che avvolge la sua preda con i tentacoli (4, 366-367). Per contro, Callisto, una volta trasformata in orsa, è una cacciatrice che non osa più cacciare e non solo fugge i cani, ma persino gli altri orsi o i lupi — lei, che è discendente di Licaone e teme di trovarvi in mezzo proprio il padre —, preferendo vivere rintanata (Met. 2, 491-495). Quando poi protagonista della vicenda è Diana stessa, nel caso cioè di Atteone, non di una banale similitudine si tratta, come negli esempi di inseguimenti, bensì di una vera e propria battuta di caccia: protagonista è la muta dei cani di Atteone, per ognuno dei quali Ovidio ricorda nome e indole; essi non riconoscono il padrone di un tempo, ma si scagliano sul nuovo cervo e ne fanno brandelli, incitati dai compagni di caccia del giovane che ne lamentano l’assenza, lo chiamano a gran voce, e lui certo, vorrebbe non esserci ma c’è: vorrebbe guardare ma senza soffrire, di più, la furia selvaggia dei cani (Met. 3, 247-248). 15 16 Rosati 2007, commento ad loc. 4, 441-465. Bretzigheimer 1994, 517. 779 Isabella Colpo Cacciatrici impavide, refrattarie alle velleità femminili, dunque, che diventano prede sensuali delle fantasie divine: anomala in questo quadro è la sola Salmacide, l’unica Naiade sconosciuta a Diana. È vezzosa la Ninfa descritta da Ovidio mentre si liscia i capelli con un pettine in bosso del Citoro, si specchia e s’acconcia, e si agghinda con veli traslucidi; e così, abbigliata e curata, si sdraia sui prati erbosi e coglie fiori. Disdegna la caccia, alla quale pure le altre Ninfe sue compagne spesso la invitano. Ma di contro a queste attività prettamente femminili, invaghita di Ermafrodito si fa predatrice17, ha in fiamme anche gli occhi... fatica ormai ad aspettare, fatica a posporre il piacere; smania ormai per l’amplesso, delira e non sa più tenersi, fino ad assalire fisicamente il giovane, toccandolo e avvighiandosi a lui (Met. 4, 346-351; 356-360), accomunata all’appetito sessuale che tradizionalmente connota gli dèi maschi. Come e ancor più di Eco — la ninfa-voce che condivide con Salmacide la caratteristica di essere lei stessa a tentare di sedurre l’oggetto del proprio desiderio — che pure insegue Narciso e tenta di baciarlo, Salmacide risponde a quel tipo di ninfe predatrici ovvero, per dirla con Ch. Segal, di “femmina sessualmente aggressiva [...] non solo pericolosa, ma potenzialmente mostruosa, o capace di produrre effetti mostruosi”18. Diana e le altre nell’età di Augusto: testi e immagini Se a questo punto proviamo a contestualizzare le narrazioni ovidiane nel repertorio letterario e figurativo del tempo, si nota come, tranne poche eccezioni, sostanzialmente si tratta di soggetti che non godono di grande fortuna, né all’epoca di Ovidio né, più in generale, nella tradizione classica19. Di fatto, all’epoca in cui Ovidio racconta queste vicende, l’unico episodio che sembra circolare nel repertorio figurato è quello che vede per protagonisti Diana e Atteone: della vicenda conosciuta e attestata già nel mondo greco20, la 17 È interessante notare come un attimo prima dell’assalto, ella si fermi a verificare il proprio aspetto (si dette un colpo di pettine, buttò sui suoi veli un’occhiata, spianò la faccia in un sorriso, accertandosi d’essere bella, 4, 318-319), non diversamente da come fa Ermes prima di avvicinarsi a Erse della quale si è perdutamente invaghito (2, 733-736). Le parole con le quali Salmacide apostrofa Ermafrodito, in un tentativo di seduzione verbale che tuttavia inevitabilmente fallisce (4, 320-328), evocano quelle che Odisseo rivolge a Nausicaa (Od. 6, 149 ss.). 18 Segal 2005, xxxviii. Altri esempi di donne predatrici sono Medea e Scilla. 19 Ci si limita in questa sede agli episodi più densi della narrazione ovidiana che hanno per protagoniste Diana e le sue seguaci. 20 La tradizione letteraria del mito conosce due versioni: la prima, più antica, è basata sulla hybris cinegetica di Atteone, che per essersi vantato di essere cacciatore migliore di Diana viene dalla stessa dea punito con la pazzia; la seconda invece, di creazione callimachea, introduce l’error del giovane che inavvertitamente assiste al bagno divino. Entrambe le versioni trovano 780 Diana e le altre: le donne a caccia nelle Metamorfosi ovidiane Roma della seconda metà del i secolo a.C. recepisce la sola tradizione di origine ellenistica del bagno della dea, presente già in un calcedonio di età tardorepubblicana21 e sviluppata soprattutto nell’affresco, con una serie di quadri a narrazione per nuclei entro ampia veduta paesaggistica; questi rappresentano i due momenti del bagno con Atteone che osserva Diana e dello sbranamento da parte dei cani. È questa peraltro la versione che viene recepita anche dalle più tarde pitture di tipo monoscenico che focalizzano il solo momento della scoperta al bagno22. Elementi caratteristici di questa tradizione, che trovano non casuali tangenze con la descrizione ovidiana del mito, sono lo schema utilizzato per Diana (si volse di fianco e girò sulla spalla la faccia, Met. 3, 187), che replica l’immagine dell’Afrodite accovacciata di Dedalsa, il gesto enfatizzato della dea talora attestato dalle immagini, nel quale è possibile riconoscere quello da lei compiuto quando getta irata l’acqua della fonte sul volto del cacciatore provocandone la trasformazione in cervo (3, 189-190) (fig. 1); e ancora, la presenza Fig. 1. Pompei, VI 2, 4 Casa di Sallustio; viridarium (32), parete sud. Diana e Atteone. Tempera di F. Morelli, 1808 (PPM Disegnatori, 94, fig. 31). ampia attestazione nel repertorio figurativo già dalla produzione vascolare. Cfr. Colpo 2010, 94-98 con bibliografia precedente. 21 AGD II, n. 371. 22 Cfr. Colpo 2010, 96-101 con bibliografia precedente. 781 Isabella Colpo Fig. 2. Pompei, Casa IX 7, 12; triclinio (5), parete ovest. Diana e Atteone (PPM IX, 781, fig. 2). della grotta di pomice viva e di tufo leggero, che fa la comparsa proprio in un quadro di area vesuviana riferibile ad età augustea23 (fig. 2). Nei casi delle altre vicende, a una qualche precoce fortuna nel mondo greco, peraltro mai dirompente, corrisponde l’assenza dei soggeti da quello augusteo e, semmai, una ripresa più tarda, a partire dal repertorio neronianovespasianeo. Presente già nel patrimonio figurato greco, parallelamente alla sua accreditata fortuna letteraria e soprattutto teatrale, Callisto è descritta seduta su una pelle d’orso nella nekya di Polignoto per la Lesche degli Cnidi (Paus. 10, 31, 10), e compare caratterizzata da mani e orecchie ferine in alcune attestazioni vascolari di produzione tarantina24. Di contro tuttavia a queste precoci attestazioni, non si ha pressoché traccia del soggetto nella produzione romana della prima età imperiale, se si eccettuano alcuni (dubbi) quadri di IV stile con Diana e il suo corteggio: l’interpretazione corrente come Diana e Callisto a colloquio, presumibilmente nel momento dello svelamento della gravidanza, sembra in qualche modo inficiata dalla presenza dell’erote appoggiato alle gambe della 23 Pompei, Casa IX 7, 12, triclinio (5); il quadro è attestato solo da un disegno del DAI (PPM IX, 781, fig. 2). Cfr. Leach 1981, 324-326; Colpo 2010, 100-101. 24 Cfr. Colpo 2011, 479-480. Sulle differenti strategie adottate nel mondo classico per rappresentare la metamorfosi, cfr. Colpo 2012a. 782 Diana e le altre: le donne a caccia nelle Metamorfosi ovidiane Fig. 3. Pompei, IX 2, 16. Casa di T. Dentatius Panthera; cubicolo (b), parete nord, tratto ovest. Callisto (?) e Atteone (PPM IX, 6, fig. 8). dea seduta25. A questi, si può aggiungere un ultimo esempio con Atteone assalito dai cani, nel quale la Ninfa è forse riconoscibile nella figura (comunemente interpretata come Diana) che prende arco e faretra da un albero, con una forte tangenza con i versi ovidiani26 (fig. 3). Precedentemente attestata, seppur in termini differenti, è anche Aretusa. Nonostante la Ninfa sia ben nota nell’ambito della produzione numismatica di ambito siciliano27, la Ninfa è riconoscibile con sicurezza solo in alcuni mosaici di ii/iii secolo d.C., grazie alla presenza del nome iscritto28. 25 Casa IX 5, 6.17, tablino (i) (PPM IX, 445, fig. 77); IX 8, 3.5 Casa del Poeta tragico, triclinio (15) (PPM IV, 581, fig. 102); VII 12, 26 Casa di L. Cornelius Diadumenos, triclinio (h) (PPM VII, 580, fig. 26); VII 12, 28 Casa del Balcone pensile, ambiente (k) (PPM VII, 611, fig. 34). Sull’iconografia di Callisto nel mondo romano, cfr. Colpo 2011, 480-481, dove è suggerita anche una possibile interpretazione (anch’essa più una suggestione) come il momento della seduzione da parte di Giove. 26 Pompei, IX 2, 16 Casa di T. Dentatius Panthera, cubicolo (b); il quadro è noto solo da un disegno (PPM IX, 6, fig. 8). Colpo 2011, 481-482. Nettamente più stringente è la riproposizione del mito in un mosaico più tardo da Italica, nel quale la donna in fattezze di orsa è rappresentata affrontata al giovane Arcade che si appresta a colpirla con le frecce; Blanco Freijeiro 1978, 25-26. 27 Simbolo della monetazione coloniale la ninfa compare nelle monete siracusane già dal vi secolo a.C.; cfr. Cahn 1984, n. 1-3. 28 Cfr. Cahn 1984, n. 5-7. 783 Isabella Colpo Fig. 4. Corniola ovale con Apollo ed Eros, da Panticapeo. Berlino, Antikensammlung, Staatliche Museen, inv. V.I.4284 (Colpo 2012b, 89, fig. 44). Più complesso ricostruire la fortuna del mito di Dafne29: non è certa la presenza della vicenda che vede Apollo perdere la testa per la bella ninfa nel repertorio ellenistico, identificabile in una tavoletta in steatite da Sirkap al Museo di Karachi, o forse attestata dal tipo della giovane con le gambe avvolte dai rami replicato da una statuetta di età augustea, purtroppo perduta30; attribuibile ad età augustea è una sola corniola da Panticapeo, sul Mar Nero, che tuttavia della vicenda rappresenta l’antefatto, pure narrato dal solo Ovidio, con la discussione tra Apollo ed Eros31 (fig. 4), mentre è il repertorio pittorico di IV stile a mettere in scena l’intero episodio, nei suoi momenti del corteggiamento32 (fig. 5), dell’inseguimento33 e della cattura34. Per quest’ultimo, in parti29 Cfr. in particolare la bella trattazione del mito nel testo ovidiano di Ghedini 2008a, con un dettagliato riesame della tradizione letteraria e figurativa del soggetto e ampia bibliografia. 30 Harari 2007; Ghedini 2008a, 364. 31 Ghedini 2008a, 364-365. 32 Ghedini 2008a, 365-367, Apollo si dichiara a Dafne: VII 12, 23 Casa del Camillo (PPM VII, 556), VI 9, 2.13 Casa di Meleagro (PPM VI, 720), I 7, 11 Casa dell’Efebo (PPM I, 662), II 3, 3 Casa della Venere in Conchiglia (PPM III, 147) e VIII, 3, 24 Casa di Apollo e Coronide (PPM VIII, 421-422). 33 Ghedini 2008a, 367-368, Dafne fugge: Casa IX 2, 10 (PPM VIII, 1097) e VI 15, 1 Casa dei Vettii (PPM V, 543). 34 Ghedini 2008a, 368-372, Dafne è presa: VIII 4, 4.49 Casa di Holconius Rufus o dei Postumii (PPM VIII, 476), IX 3, 5.24 Casa di Marco Lucrezio (PPM IX, 301), VI 9, 6.7 Casa dei Dioscuri (PPM IV, 939), VII 4, 31.51 Casa dei Capitelli colorati (PPM VI, 1005), nonché in 784 Diana e le altre: le donne a caccia nelle Metamorfosi ovidiane Fig. 5. Pompei, VII 12, 23 Casa del Camillo, ambiente (f), parete sud. Apollo si dichiara a Dafne (PPM VII, 556). colare, un nucleo immagini adotta la soluzione con Dafne inginocchiata a terra, e sovrastata dal dio, composizione nella quale F. Ghedini ha convincentemente ipotizzato l’invocazione della Ninfa non al padre Peneo, bensì alla madre Tellus, secondo una versione del mito che potrebbe essere attestata da un passo discusso del testo ovidiano35 (fig. 6). Parimenti, più tarde rispetto alla stesura del testo ovidiano sembrano essere le rare immagini nelle quali, forse, si può identificare la rappresentazione del mito di Syrinx. Se tradizionalmente è ben difficile identificare con sicurezza le amate di Pan nel repertorio figurativo, suggestivo è il suggerimento di riconoscere Syrinx in una serie ben ristretta di quadri ad affresco dall’area vesuviana: in essi, a connotare in tal senso la scena di aggressione rappresentata (una figura maschile con barba e orecchie ferine che assale alle spalle una donna nel contesto di un paesaggio selvaggio) è la presenza di una vistosa zampogna in primo piano, elemento altrimenti non comune in questo tipo di immagini, esito ultimo della metamorfosi della Ninfa36 (fig. 7); metamorfosi che d’aldue attestazioni da Stabia, Villa di San Marco e Villa di Arianna (Ghedini 2008a, 369, nota 55). Ampia fortuna avrà poi il mito anche nel più tardo repertorio musivo, cfr. Ghedini, Colpo, Salvo 2011. 35 Ghedini 2008a, passim. 36 Ghedini 2011, 469-471. Si tratta di due quadretti che decoravano il cubicolo (10) dalla pompeiana Casa di Adone ferito (VI 7, 18; PPM Disegnatori 502, fig. 15 e 505, fig. 19), e un 785 Isabella Colpo Fig. 6. Pompei, IX 3, 5.24 Casa di Marco Lucrezio, triclinio (21), parete sud. Dafne è presa (PPM IX, 301). tronde pare potersi riconoscere in una moneta da Thelpousa nella quale Pan stringe quella che può riconoscersi come una canna37. Del tutto ignota al repertorio figurativo (e tale resterà in tutto il mondo classico) è invece Salmacide: nonostante il suo ruolo nella vicenda di Ermafrodito sia determinante in tutta la tradizione letteraria, sia nella più antica versione caria del mito, nella quale la ninfa figura come nutrice del giovane, sia in quella tramandata da Ovidio, che mette in scena una Salmacide predatrice, il repertorio figurativo focalizza invece l’attenzione sul solo Ermafrodito, sull’esito della metamorfosi, senza documentare in alcun modo la presenza della Ninfa, ad eccezione del seno sul corpo del giovane, che resta a perenne ricordo dell’amore non voluto38. terzo esempio da VII 2, 26 Casa di L. Cornelio Diadumeno (PPM Disegnatori 719, fig. 183), tutti perduti e noti solo da disegni. 37 Ghedini 2011, 471, che sottolinea la stringente coerenza geografica, dal momento che Thelpousa sorge sulle rive del Ladone, dove non a caso lo stesso Ovidio ambienta l’episodio. 38 Per una trattazione dettagliata del mito dal punto di vista letterario e figurativo, cfr. Cadario 2009; 2012, entrambi con ampia bibliografia precedente. Da ultimo, cfr. anche Ghedini, Colpo 2017. 786 Diana e le altre: le donne a caccia nelle Metamorfosi ovidiane Fig. 7. Pompei, VI 7, 18 Casa di Adone ferito. Quadro con Pan e Syrinx (?), da riproduzione di A. Ala, 1836 (PPM Disegnatori, 502, fig. 15). Se quindi mettiamo in sistema il testo ovidiano con le attestazioni figurative, secondo quel metodo ormai da anni applicato dalla scuola padovana39, è chiaro come tra di essi vi siano alcune puntuali tangenze che documentano reciproche influenze tra testo e immagini: dettagli figurativi che trovano precisa e unica corrispondenza nelle Metamorfosi (indicatori ovidiani) sono la grotta nella quale Diana si bagna (fig. 2), la siringa che in alcuni quadri permette la lettura della vicenda raffigurata come Pan e Syrinx (fig. 7), nonché l’arco appeso all’albero che suggerisce di riconoscere Callisto nella donna che lo afferra, in un quadro dalla singolare rappresentazione (fig. 3); composizioni perfettamente coerenti con il testo (iconografie ovidiane) sono invece l’immagine di Dafne che si inginocchia a supplicare la Madre Tellus (fig. 6), nonchè Diana che getta l’acqua sul volto di Atteone (fig. 1). Caratteristici del solo repertorio coevo o leggermente seriore a Ovidio, assenti dalle precendenti (laddove esistono) come dalle seriori attestazioni delle vicende, questi particolari sono tanto più significativi in quanto denotano la vivacità del clima culturale nel quale nasce il 39 Sul metodo e i suoi sviluppi, cfr. in particolare Ghedini 2008b e gli atti degli incontri di studio Tra testo e immagine 2011 e Il gran poema 2012. 787 Isabella Colpo poema40. E se nel caso della grotta, che compare nel repertorio ben prima della stesura del testo ovidiano, è del tutto plausibile dedurre che siano le immagini correnti ad aver influenzato la fantasia del poeta al momento della descrizione del mito, più complesso è interpretare il mutuo rapporto quando indicatori e iconografie compaiono solo in epoca successiva: dobbiamo pensare che il testo possa aver influenzato la fantasia di committenti e artigiani determinando la creazione di nuove immagini? ovvero entrambi, tanto il poeta quanto committenti/artigiani, sono stati influenzati da una tradizione corrente, fosse essa figurativa o orale41? Diana e le altre: le donne a caccia nell’età di Augusto Tiriamo a questo punto le fila di quanto visto sino a ora, cercando di focalizzare come Ovidio affronta Diana e il suo corteggio nel gran poema delle passioni e delle meraviglie. Diana innanzitutto: coerentemente con la più generale visione che Ovidio ha degli dèi, e tanto più di quelli che sono protagonisti per elezione del pantheon augusteo42, anche la dea della caccia non attira le simpatie del poeta e dei suoi lettori. Le Metamorfosi restituiscono di Diana un’immagine algida, distante, lei che avanza seguita dal suo corteggio, orgogliosa delle prede abbattute (caede superba ferarum, Met. 2, 442), irosa anche, le cui parole, secche e aspre al pari di frecce scagliate, colpiscono senza pietà le malcapitate vittime: i procul hinc... nec sacros pollue fontes quando caccia Callisto (2, 464), e factis... placebimus esclama colpendo Chione con il proprio dardo (Met. 11, 323); gesti e parole repentine che colpiscono anche Atteone, quando gli getta acqua sul volto e lo minaccia nunc tibi me posito visam velamine narres, si poteris narraris, licet (Met. 3, 187-193). Ad eccezione di sporadici casi, sui quali torneremo, nulla, nel racconto, vale a mitigare quest’immagine della dea, neppure il bagno che si concede negli episodi di Atteone e Callisto: anche in questo caso, la figura che se ne ricava è quella della domina accompagnata dalle ancelle sue sottomesse, le quali non a caso, dietro suggestione callimachea, hanno nomi che ne evocano il servizio durante la toilette della dea – Crocale colei che le raccoglie i capelli, 40 Su questo, più ampia trattazione in Ghedini, Colpo 2017. 41 Nel caso di Atteone, ad esempio, le fonti ricordano pantomimi nei quali si faceva anche ricorso all’uso di una maschera kerasphoros (così Polluce IV 141 e Varrone, Men. fr. 513). Sulla messinscena pantomimica come veicolo di vicende e iconografie, cfr. da ultimo Colpo, Salvo c.s. 42 Per una panoramica sul culto di Diana nella Roma augustea, cfr. Bretzigheimer 1994, 537-542. 788 Diana e le altre: le donne a caccia nelle Metamorfosi ovidiane Nephele (nebbia), Hyale (cristallo), Rhanis (stilla), Psecas (goccia di pioggia), Phiale (vaso)43. Come visto, il contesto venatorio del quale Diana è signora indiscussa è anche quello nel quale hanno luogo diverse vicende amorose a danno delle sue stesse adepte44, vicende tutte segnate dal sopruso e dalla violenza (o tentata violenza), tanto più grave in quanto l’elemento chiave per far parte del corteggio della dea è il loro essere votate alla castità. E la verginità dei protagonisti è evidente nel rossore con cui essi talora reagiscono: Ermafrodito arrossisce quando viene apostrofato la prima volta da Salmacide (Met. 4, 330), Dafne quando il padre cerca di convincerla a trovar marito (Met. 1, 484). Una verginità, in realtà, di cui sornione sorride Ovidio nell’episodio di Callisto: se pure casta è Diana, a non essere vergine, Diana avrebbe notato il suo sbaglio da mille indizi (Met. 2, 451-452), di contro il poeta afferma con malcelata ironia che le Ninfe appaiono decisamente più smaliziate, le ninfe, si narra, lo notarono subito (2, 452). La violenza perpetrata ai danni delle Ninfe seguaci di Diana si connota poi come atto ancor più empio in quanto condotta o tentata dagli dèi stessi (Giove, Apollo, Pan, Alfeo) non solo sulle compagne di un’altra dea, ma sulle sue emule: così simile Syrinx che falleret et posset credi Latonia (Met. 1, 696), ma addirittura innuptae aemula Phoebes (1, 476) è quella Dafne che accende i desideri di Apollo in persona, di modo che questa tentata violenza si connota quasi come un incesto45. L’ambiguità di questo rapporto è d’altronde allusa da Ovidio anche negli Amores (2, 5, 27), quando descrivendo i baci passionali il poeta dice che sono qualia credibile est non Phoebo ferre Dianam; e ancora nelle stesse Metamorfosi, seppur indirettamente, nell’episodio di Biblide, follemente innamorata di Cauno, Apollineis... fratris (Met. 9, 455), lei stessa Phoebia (9, 663)46. Nei confronti delle sue adepte Diana non si dimostra mai comprensiva, anzi il sopruso da esse subito diventa agli occhi della dea motivo di punizione: lo documenta bene la vicenda di Callisto, la quale, pur incolpevole, viene allontanata in malo modo dal suo corteggio. Unica eccezione è Aretusa: quando ormai la Ninfa è sul punto di essere sopraffatta, la dea la nasconde con una 43 Cfr. Barchiesi 2007, commento ad loc. 3, 171-172; cfr. anche Callimaco, Lav. Pall. 1517, quando Diana bambina chiede al padre venti ninfe che si occupino dei calzari e dei cani. Peraltro, l’enfasi sugli idionimi delle Ninfe trova puntuale riscontro nell’elencazione, a distanza di poche decine di versi, dei nomi “parlanti” dei trentasei cani di Atteone, nel momento stesso in cui essi stanno assalendo il proprio padrone ormai trasformato in cervo (Met. 3, 206-225, 232-233). 44 Sulle dinamiche che governano le vicende amorose nelle Metamorfosi, cfr. Ghedini, Colpo 2017. 45 Su questo, cfr. Hardie 2004, 2-5; Barchiesi 2007, commento ad loc. 1, 476. 46 Bretzigheimer 1994, 539-540. 789 Isabella Colpo nuvola e poi, una volta che si è trasformata in acqua, apre la terra e le permette di raggiungere per una via sotterranea Ortigia, dove diverrà la fonte a lei sacra47. A ben rileggere il testo, tuttavia, questo salvataggio più che un atto pietoso nei confronti della Ninfa sua devota, sembra funzionale a ristabilire le sfere di potere tra Diana stessa e Venere, sottraendo le Ninfe sue seguaci al ruolo di prede erotiche48: a introdurre la narrazione dell’episodio, che fa seguito a quello del rapimento di Proserpina da parte di Ade, è infatti quanto Venere dice al figlio Cupido, lamentando di non essere tenuta in alcun conto da Diana saettatrice (Met. 5, 375-376). La violenza di Alfeo su Aretusa si configura quindi come una vendetta di Venere nei confronti di Diana — come pure l’innamoramento di Ade, che pure la snobba, per Proserpina. D’altronde, che le situazioni di ambiguità tra le sfere delle due dee creino situazioni infauste delle quali sono vittime i mortali è dimostrato dagli episodi di Salmacide, che rifugge la caccia per dedicarsi alle velleità della cura del corpo salvo trasformarsi in una ninfa predatrice alla vista di Ermafrodito, e di Adone, quando Venere stessa si veste come Diana e accompagna l’amato a caccia nelle selve (Met. 10, 533-541), ma anche questo non varrà a salvargli la vita49. Il sostanziale disinteresse di Diana per le sorti delle vittime diventa vera crudeltà quando la dea intende vendicarsi dei torti compiuti: e se pure Chione e Niobe vengono giustamente punite dalla dea per un palese atto di hybris, reiterato nel caso di Niobe50, gli episodi di Callisto e soprattutto quello di Atteone offrono a Ovidio la materia per riflettere sulla differenza tra error e scelus (at bene si quaeras, Fortunae crimen in illo, non scelus invenes; quod enim scelus error habebat?, Met. 3, 140-141), quindi tra colpa volontaria ed errore accidentale che comporta un’ingiusta vendetta sulla vittima incolpevole, inscius. Le due vicende peraltro sono particolarmente drammatiche, in quanto a fronte della metamorfosi del corpo, il cacciatore e la Ninfa sono tra i rari personaggi che mantengono integra la coscienza umana, condannata la prima a vagare temendo le stesse fiere che prima cacciava, il secondo ad assistere impotente alla propria morte51. E su questo stesso tema Ovidio ritornerà nelle opere dell’esilio52, richiamando proprio la vicenda dello sfortunato cacciatore quale paral47 Pietosa è Diana anche nei confronti delle sorelle di Meleagro affrante dal dolore per la duplice perdita, la morte del fratello per mano della madre e il suicidio della stessa: a loro concede, la dea la cui ira pure è all’origine di tutto l’episodio, di trasformarsi in uccelli (Met. 8, 542-546). Su questo aspetto della Diana ovidiana, cfr. Bretzigheimer 1994, 532-534. 48 Così Barchiesi 2005, commento ad loc. 1, 577-641. 49 Cfr. Hardie 2004, 11-12. 50 Bretzigheimer 1994, 506-508. 51 Assieme ai due, Io — laddove, tuttavia, al termine delle peripezie che la colpiscono, ella subisce una retro-metarmorfosi e poi la trasformazione in dea. Cfr. Colpo, Ghedini 2017. 52 Ov.,Trist. 2, 105-109. 790 Diana e le altre: le donne a caccia nelle Metamorfosi ovidiane lelo delle sue stesse sorti stesse, condannato all’esilio per duo crimina... carmen et error53. Vendicativa, iraconda, distante: Diana riflette una visione degli dèi che sembra percorrere in filigrana molta parte delle Metamorfosi, nelle quali i numi si fanno protagonisti di violazioni e soprusi ai danni di mortali impotenti54. Ancora uno spunto di riflessione. In primo luogo, come si è visto, vi è una completa distanza tra il repertorio iconografico del tempo e il testo ovidiano. Le Ninfe di Diana, vittime involontarie degli dèi, godono di nulla fortuna nel repertorio dell’epoca augustea, e non potrebbe essere altrimenti: in virtù del loro rifiuto della vita matrimoniale e della dedizione alla castità che già caratterizza la dea, esse mal si adattano alla politica della famiglia propagandata dal princeps attraverso la lex Iulia de maritandi ordinibus (18 a.C.), che di contro, nel contesto di un più generale programma demografico e di rinnovamento morale, spinge al matrimonio e alla figliolanza55. Per contro, non a caso i soggetti si affermano ampiamente nella produzione del IV stile, in una fase di grande cambiamento del repertorio dei soggetti che predilige i miti di tematica idillico-erotica per meglio rispondere alle richieste di una committenza profondamente mutata dal punto di vista sociale56. D’altro canto, Ovidio nel suo testo sposta la prospettiva, connotando le Ninfe con un attributo ben preciso, la vitta, ornamento desunto dall’abbigliamento delle matrone romane, che ne simboleggia la castità e la virtù, distinguendole dalle meretrici: sia nell’Ars (1, 31-32: Este procul, vittae tenues, insigne pudoris, quaeque tegis medios, instita longa, pedes) che nei Remedia (385-386: Thais in arte mea est: lascivia libera nostra est; nil mihi cum vitta; Thais in arte mea est) Ovidio usa la vitta come simbolo del pudore, al pari della veste lunga fino ai piedi, e in contrapposizione a tutto ciò che di lascivo vi può essere; ma è soprattutto Servio a spiegare esplicitamente che le crinales vittas si addicono alle sole matrone e mai alle donne di malaffare, crinales vittas quae solae matronarum erant, nam meretricibus non dabantur (ad Aen. 7, 403)57. Nella prospettiva delle Metamorfosi a essere accentuato, quindi, sembra essere piuttosto l’aspetto della violazione della castità che, con una poco velata accusa al potere58, avviene proprio a opera di quegli dèi che dell’ordine dovrebbero essere garanti, Giove e 53 Ov., Trist. 2, 207. Cfr. Bretzigheimer 1994, 530, 543-544; Schmitzer 2001, 319-321; Barchiesi 2007, commento ad loc. 3, 141-142. 54 Ghedini, Colpo 2017; Colpo 2017. 55 Cfr. Bretzigheimer 1994, 545-546; Colpo, Grassigli, Minotti 2007, 95; Ghedini 2008a, 376. 56 Bragantini 1995. 57 Barchiesi 2005, commento ad loc. 2, 411-414. 58 Si pensi a quel ad vitiandas virgines promptior, quae sibi undique etiam ab uxore conquirerentur, nella narrazione svetoniana della vita di Augusto (2, 71). 791 Isabella Colpo Apollo in primo luogo — violazione che sembra configurarsi come atto tanto più grave proprio per quest’ultimo, perchè condotto ai danni di una Ninfa aemula, alter ego, della sua stessa sorella — a fronte di un atteggiamento del tutto disinteressato, quando non irritato e vendicativo, di Diana. Bibliografia Barchiesi A. 2005, Ovidio Metamorfosi. Volume I. Libri I-II, Commento, Milano. Barchiesi A. 2007, Ovidio Metamorfosi. Volume II. Libri III-IV, Commento. Libro III, Milano. Blanco Freijeiro A. 1978, Mosaicos Romanos de Italica, I, Madrid. Bragantini I. 1995, Problemi di pittura romana, Annali. Sezione di archeologia e storia antica. 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International Journal of Classical Art History, 8. 794 En Gaule romaine, des enseignants partaient déjà au loin pour exercer leur profession : l’exemple du Biturige Cube Blaesianus, grammaticus à Augustoritum, Limoges Robert Bedon Université de Limoges Abstract A funerary stele found in a necropolis of Augustoritum (nowadays Limoges), a town of the Gallic province of Aquitaine, carries an inscription telling us that the deceased, a grammaticus named Blaesianus, exercised his career there, but that he was citizen of the civitas of Bituriges Cubi. The proposed study tries to reconstruct where this grammaticus attended the studies necessary for his profession (with no doubts Avaricum, today Bourges) and which were the reasons leading him to leave this city and settling at Augustoritum without desire or hope of return. Finally, we will investigate the context of this professional expatriation, a non-isolated phenomenon we know thanks to several literary and epigraphic sources. Une stèle funéraire conservée au Musée des Beaux-Arts à Limoges, qui se nommait dans l’Antiquité Augustoritum et était la capitale de la cité des Lemovices, appartenant à la province d’Aquitaine, montre l’intérêt d’offrir un exemple de grammaticus gallo-romain, et de surcroît plusieurs indications sur lui, tant iconographiques que textuelles. Le défunt qui s’y expose possédait la particularité d’avoir exercé au moins la dernière partie de sa profession, puis d’être décédé dans cette ville, alors que, contrairement à ce qu’on aurait pu attendre, il n’était pas un citoyen lémovice, mais un Biturix Cubus venu s’installer et enseigner à Augustoritum. Les pages suivantes se proposent, après avoir présenté ce défunt, d’exposer des hypothèses sur sa formation intellectuelle ainsi que sur 795 Robert Bedon les motifs de son expatriation et de le situer parmi les expatriés de son temps en général et les enseignants en particulier, ainsi que dans le groupe des étrangers à la cité des Lémovices venus s’y installer et y ayant reçu une sépulture. Les informations exposées par la stèle de Blaesianus La stèle gâce à laquelle nous connaissons ce grammaticus a été retrouvée dans une nécropole d’Augustoritum1. Réalisée dans du granite tendre, entre le milieu du iie siècle et le début du iiie2, elle nous est parvenue incomplète, notamment privée de sa base et de son couronnement, probablement pyramidal3. Ce qui en subsiste constitue un bloc haut de 1,06 m, large de 0,72 m, épais de 0,68 m. Sa partie supérieure montre un portrait à mi-corps du défunt, sculpté de face dans une niche cintrée4 (cfr figure). Une épaisse chevelure bouclée et une barbe en collier lui encadrent le visage. Ses bras s’appuient sur la limite inférieure de la niche, et se replient devant la poitrine, avec les mains tenant et montrant des objets : dans la droite une petite sphère, et dans la gauche un livre, représenté sous la forme d’un volumen. Ces objets ont une valeur symbolique assurée, pour laquelle plusieurs interprétations ont été proposées. Pour ma part, j’y verrais volontiers l’affirmation que l’instruction et la culture permettent de dominer intellectuellement et philosophiquement le monde. La partie inférieure de la face avant porte une inscription écrite dans un cartouche haut de 0,40 m et large de 0,59 m, répartie sur sept lignes, mais consistant en trois vers, des hexamètres dactyliques, qui se reconstituent ainsi : Artis grammatices doctor morumque magister Blaesianus Biturix Musarum semper amator Hic iacet aeterno devinctus membra sopore « Professeur d’art grammatical et maître en morale Blaesianus, Biturige, éternel amoureux des Muses, ici repose, lié quant à ses membres par un éternel sommeil » Ce texte indique le nom du défunt, donc Blaesianus, ou du moins, comme nous le verrons plus loin, une composante de ses très probables tria nomina. Il expose également ses compétences professionnelles, ainsi que sa culture lit1 Bost, Perrier 1989, 55-58. 2 Loustaud 2000, 333. 3 Bost, Perrier 1989, 56, fig. 2. 4 Espérandieu 1908, 386, n. 1584. CIL XIII, 1393. Description très précise dans BostPerrier 1989, 58. 796 L’exemple du Biturige Cube Blaesianus, grammaticus à Augustoritum, Limoges Stèle funéraire du grammaticus Blaesianus (© Musée des Beaux-Arts de Limoges, Inventaire ARC.L.23. Cl. F. Magnoux). téraire et peut-être ses choix philosophiques, s’y décrivant comme doctor en grammaire et magister en morale5. De plus, le choix d’une désinence grecque et non latine pour la première de ces deux spécialités, grammatices au lieu de grammaticae, donne à penser qu’il était un grammaticus non seulement Lati5 Morale : probable référence à l’éthique, une des trois branches de la philosophie antique, avec la logique et la physique. Un autre grammaticus, à Trèves, se dit simultanément doctor en éloquence romaine : AE 1978, 503. 797 Robert Bedon nus, mais aussi Graecus. Par le moyen de la formule Musarum amator, il affirme non seulement une attirance pour ces déesses, mais aussi, en arrière-plan, son goût pour la littérature ainsi que sa pratique et donc sa connaissance de celle-ci dans tous les aspects patronnés par ces neuf divinités. Cette familiarité paraît se confirmer grâce à de possibles réminiscences littéraires qu’on a relevées dans l’inscription : une de l’Ars amatoria d’Ovide à la fin du deuxième vers6, une autre du De rerum natura de Lucrèce7, et peut-être une de l’Énéide de Virgile8 dans le troisième. Le fait que ces auteurs aient été des adeptes de la doctrine épicurienne suggère de surcroît qu’il partageait ce choix philosophique. Pour ce qui concerne un autre domaine que les compétences professionnelles et les goûts littéraires, on observe à la lecture de l’épitaphe, mais cette fois par défaut, une autre réalité : l’absence de toute mention familiale : parents, épouse, enfants, affranchi(s) : Blaesianus vivait sans doute seul avec un ou deux esclaves, et c’est un collège funéraire qui a dû se charger de ses obsèques. Enfin, dans la partie supérieure de la stèle, consacrée comme nous l’avons vu plus haut à son portrait, en arrière et au-dessus de son épaule droite, a été sculptée et gravée une tablette portant cinq lettres réparties sur deux lignes : M C (ou G) B / B C et sur laquelle je vais bientôt revenir. L’origine ethnique de Blaesianus Alors qu’on aurait pu s’attendre à ce qu’il soit un citoyen lémovice, du fait de la localisation de sa sépulture dans une nécropole d’Augustoritum, son épitaphe signale de manière explicite, grâce à l’adjectif Biturix, qu’il s’agit d’un Biturige installé en tant qu’incola dans cette ville9. Or ce terme de Biturix fait référence à deux cités, entre lesquelles il apparaît théoriquement impossible de trancher, faute d’une précision qui aurait nécessité un terme supplémentaire, absent pour la même raison peut-être qui lui avait fait limiter son identité à une composante unique. En effet Biturix, désignant à l’origine les habitants de la cité qui avait pour capitale Avaricum, de nos jours Bourges10, a dans un deuxième temps été appliqué à ceux de Burdigala, Bordeaux, et de son territoire. 6 Ov., A. A. 3, 397 : scribendi semper amator. 7 Lucr., 4, 453 : Denique cum suavi devinxit membra sopore. 8 Virg., En. 8, 406 : per membra soporem. À remarquer : un autre exemple, mais plus tardif, au début de l’épitaphe, également en vers, de Nymphius, un chrétien cette fois, et presque identique. CIL XIII, 128 : Nymfius aeterno devinctus membra sopore Hic situs est … 9 Aug., Psalm. 55, 9 : incolae dicuntur qui habitant in patria non sua. CompatanlegoSoussignan 2007. 10 Bost, Perrier 1989, 64-66. 798 L’exemple du Biturige Cube Blaesianus, grammaticus à Augustoritum, Limoges Le motif en est qu’une fraction des premiers serait partie s’y installer, quelque temps après la conquête césarienne11. Pour se distinguer les uns des autres, les seconds avaient complété leur désignation ethnique par l’adjectif Vivisci (les Transplantés, les Greffés), tandis que les premiers adoptaient celui de Cubi (les Solides). A laquelle de ces deux cités pouvait correspondre l’origine et l’appartenance civique de Blaesianus ? La tablette placée au-dessus de son épaule droite semble pouvoir résoudre cette ambiguïté. En effet, les deux lettres de sa seconde ligne, à savoir B et C, paraissent bien être les initiales de Biturix Cubus12, probabilité accrue par le fait que la cité administrée par Avaricum et celle qui l’était par Augustoritum possédaient une frontière commune, au sud de la première et au nord de la seconde, contiguïté favorisant les contacts entre leurs habitants respectifs. Au contraire, une distance relativement importante, et au moins un territoire, celui des Petrucorii, séparaient les Bituriges Vivisci et les Lemovices, rendant les communications moins aisées entre eux. Son port vraisemblable des tria nomina Et cette tablette pourrait permettre d’aller plus loin dans la connaissance de Blaesianus, à partir cette fois des trois lettres portées par sa première ligne. En effet, des rapprochements effectués par Jean-Pierre Bost avec des inscriptions contenues dans l’Instrumentum du CIL XIII, 2 révèlent « que la pratique de réduire la nomenclature personnelle aux trois lettres initiales du prénom, du gentilice et du surnom était chose assez commune ». Elle rend à peu près certain qu’il faille voir dans le groupe M, C ou G, et B les initiales de tria nomina, avec comme prénom Marcus, et Blaesianus comme cognomen, témoignant en outre pour le grammaticus d’un statut de civis Romanus13. En convergence avec cette proposition, le même chercheur a observé que dans les inscriptions métriques contenues dans les Carmina Latina Epigraphica, « il est d’usage de ne désigner la personne honorée que par son nom usuel14 ». 11 Hiernard 1981. 12 Bost 2011, 152-153. 13 Les cinq initiales auraient eu une fonction juridique : rappel, attestation, même si elles restaient incompréhensibles aux passants ordinaires, non spécialistes du statut social et de l’origine citoyenne. Mais cela contribue à donner l’impression que ce Blaesianus se parle surtout à lui-même, ou à ses relations proches, et manifeste la volonté d’insérer sur sa stèle un maximum d’informations, explicites, abrégées ou allusives, sur lui et divers aspects de sa culture, de ses compétences, de ses choix philosophiques, de sa situation et de son statut. Son statut de civis Romanus expliquerait aussi l’absence d’une mention de filiation. 14 Bost 2011, 152-153. 799 Robert Bedon Traces épigraphiques éventuelles de sa famille d’origine Quant au gentilice porté par Blaesianus, commençant quant à lui par C ou G, il pourrait, toujours pour Jean-Pierre Bost, consister en Gavius : cette hypothèse se trouve alimentée par l’attestation de ce nom sur une inscription cette fois d’Avaricum, mentionnant une femme nommée Gavia Quieta. Outre une similitude d’initiale, un élément supplémentaire renforce cette proposition : la suite de l’inscription fait mention d’un homme, probablement le père de cette femme, dont subsiste le cognomen, Blaesius15, anthroponyme qui apparaît encore sur une autre inscription funéraire de la même ville, sans indication d’ordre familial cette fois16. Le cognomen de Blaesianus semble en dériver, par le moyen du suffixe –anus, souvent rencontré dans l’anthroponymie latine. Nous pourrions donc avoir affaire, avec ces deux Blaesius et avec le grammaticus parti pour Augustoritum, à plusieurs branches d’une famille biturige cube. Les études effectuées par Blaesianus Les études effectuées par Blaesianus sont partiellement reconstituables à partir de sa profession : il les a au moins menées chez un grammaticus Latinus et probablement aussi Graecus. Nous n’avons pas d’attestation explicite de la présence d’écoles de grammatici à Avaricum, mais dans une capitale de cité, il s’agit d’une situation normale et même banale. Il en existe aussi une possibilité d’existence dans de gros vici, mais il s’agit seulement dans ce cas d’écoles tenues par des grammatici Latini. Or l’emploi du génitif grec grammatices dans l’épitaphe de Blaesianus, qui fait allusion à une compétence en langue et en littérature grecques, suggère une formation reçue chez un grammaticus Graecus, beaucoup plus rare que les grammatici Latini, et apparemment limité aux capitales de cités, et même à seulement quelques-unes d’entre elles, ce qui nous ramène pour Blaesianus à une enfance et une instruction situées à Avaricum, cette dernière étant irréalisable avec une composante grecque dans une autre agglomération biturige que la capitale. L’épigraphie et la sculpture funéraires retrouvées à Bourges et dans les nécropoles d’Avaricum fournissent plusieurs exemples de personnes y ayant disposé d’une instruction de haut niveau, notamment un couple élégant et distingué dont l’homme s’est fait représenter tenant en main des pugillares, tablettes de 15 CIL XIII, 1197 : Gavia Quieta, fille d’un vraisemblable Gavius Blaesius. L’inscription, qui pourrait avoir figuré sur le podium de l’amphithéâtre, la situe dans une famille dont un membre était duumvir au moment de sa gravure, donc qui appartenait à la haute société biturige. 16 CIL XIII, 11093. L’aspect modeste de cette épitaphe révèle que son dédicataire appartenait à un milieu social très inférieur à celui de la famille mentionnée dans l’inscription précédente. 800 L’exemple du Biturige Cube Blaesianus, grammaticus à Augustoritum, Limoges petites dimensions utilisées comme aide-mémoire, pour des prises de notes ou pour la rédaction de courts billets17, et la femme un uolumen au format réduit, donc de facture raffinée18, et souvent destiné à de la poésie, d’après le témoignage il est vrai tardif d’Isidore de Séville19. S’ajoute à eux un personnage qui passe habituellement pour avoir été un libraire, mais qui pourrait aussi avoir exercé une activité d’écrivain, ce que ne permet plus de déterminer sa stèle, très endommagée et privée de l’épitaphe qu’elle devait initialement porter20. Des études chez un grammaticus, mais cette fois en cours, paraissent en outre évoquées sur la stèle d’un élève décédé au cours de son adolescence et tenant un volumen21, à la différence de celle d’un enfant représenté avec une tablette, ce qui renvoie cette fois au niveau primaire du magister ludi22. Pourquoi cette expatriation ? L’épitaphe de Blaesianus ne nous donne aucune information sur le ou les motifs de son installation professionnelle à Augustoritum plutôt qu’à Avaricum, et ne nous dit pas non plus s’il y a effectué la totalité de sa carrière ou seulement la dernière partie de celle-ci. Ils peuvent être de quatre natures, le cas échéant associées : un nombre déjà suffisant de grammatici à Avaricum (et éventuellement dans les gros vici de la ciuitas, tels qu’Argentomagus, de nos jours Argenton-Saint-Marcel) ; une carence dans cette profession à Augustoritum, laquelle aurait pu être signalée par un appel effectué dans les civitates environnantes ; une différence déterminante de rétribution ; voire encore une raison personnelle ou familiale sans rapport avec la profession. Mais nous ne pouvons pas aller plus loin que cette énumération d’éventualités. Tout juste pouvons-nous rappeler une situation générale qu’illustrera un siècle plus tard le bordelais Ausone avec son propre départ pour Trèves. De plus, celui-ci, dans sa Commemoratio Professorum Burdigalensium, évoque un certain nombre de grammatici et de rhetores partis de Burdigala, Bordeaux, les uns par ambition ou appelés ailleurs comme lui à cause de leur renommée, d’autres attirés par une rétribution plus forte, d’autres enfin ayant quitté voire fui Bordeaux pour des raisons personnelles (dont une accusation d’adultère) ou familiales (dont un conflit maternel). Ausone fait également mention, en sens inverse, de deux enseignants venus l’un de la cité des Baiocasses, l’autre d’Armorique, pour 17 18 19 20 21 22 Cfr par exemple l’usage qu’en faisait Plin., Ep. 1, 6, 1, qui en emportait même à la chasse. Espérandieu 1908, II, 1456. Isid., Etymologiae 6, 12. Espérandieu 1966, XV, 8952. Espérandieu 1908, II, 1444. Picard 1966, 243 et 245, n. 8. Sur ces stèles, cfr Bedon 2017. 801 Robert Bedon exercer à Bordeaux, sans en indiquer le motif. Donc, à en juger par les informations que nous fournit cet auteur, cette mobilité était assez banale, ce que confirme une déclaration d’ordre général effectuée par Suétone, dans son De Grammaticis et rhetoribus, sous la forme suivante : nonnulli de notissimis doctoribus peregre docuerunt, maxime in Gallia Togata « quelques-uns des maîtres les plus célèbres ont enseigné à l’étranger, surtout dans la Gaule en Toge23 »… et j’ajouterais volontiers, à partir des informations que nous devons à Ausone : « et certains aussi en Gaule Chevelue ». Blaesianus n’est pas, d’autre part, le seul Biturix Cubus à avoir fait le choix de s’expatrier. Outre ceux pour lesquels nos sources ne précisent pas s’ils étaient Cubi ou Vivisci24, le plus souvent des militaires, et ceux qui partaient pour des durées limitées, par exemple pour exercer des prêtrises ou des fonctions administratives au sanctuaire fédéral ad confluentes25, nous en connaissons deux qui se sont installés hors de leur cité d’origine jusqu’à leur décès, y ont fait réaliser leur tombe, et ont indiqué, tout comme Blaesianus, leur citoyenneté de Bituriges Cubi sur leur épitaphe : Marcus Verecundius Diogenes à Eburacum, de nos jours York, en Britannia26, et Didius Martinus à Lugdunum, Lyon27. En sens inverse, l’épigraphie témoigne à deux reprises, en plus du cas de Blaesianus, d’étrangers à la cité des Lémovices pour lesquels un tombeau a été retrouvé sur le territoire de celle-ci : d’une part un membre de la cité des Aulerci Eburovices (capitale Mediolanum Eburovicorum, aujourd’hui Évreux), Marcus Paetus Paetinius, pourtant décurion chez lui, qui l’a fait installer luimême à Augustoritum, ce qui semble révéler un séjour d’une certaine durée, et non un décès brutal et imprévu survenu au cours d’un voyage28 ; d’autre part 23 Suét., Gram. et rhet. 3, 6. 24 TLL, article Biturix. Bost, Perrier 1989, 63-65 : les simples mentions de Biturix désignent très vraisemblablement les habitants de la cité qui avait Avaricum pour capitale, mais il peut demeurer une petite marge d’incertitude, ceux de Bordeaux se rappelant que leurs ancêtres étaient venus de Bourges (comme certains de ceux de Milan, plus anciennement, à en croire Tite-Live, 5, 34). 25 Allmer, Dissard, II, 97, n. 125 : « A […]ius Silv[..], Biturige Cube, ayant exercé tous les honneurs chez les siens, juge de la caisse des Gaules, les Trois provinces de la Gaule (ont offert cette statue) ». 26 CIL VII, 248 ; ILS 7062 : « Marcus Verecundius Diogenes, sévir de la colonie d’Eburacum, citoyen Biturige Cube, a fait (installer ce monument) pour lui de son vivant ». 27 Revue Épigraphique du Midi de la France, II, 1884-1889, 231, n. 637 ; Allmer-Dissard, III, 225, 97-99 : « Aux dieux Mânes et à la mémoire éternelle de Quintia Quintula (…). A(ulus ?) Did(i)us Martinus, citoyen Biturige Cube, son époux, a fait réaliser le tombeau pour lui aussi de son vivant (…) ». 28 CIL XIII, 1390 : « Aux dieux Mânes et à la mémoire de Marcus Paetus Paetinius, décurion de la cité des Aulerques Eburovices. Il a installé lui-même, pour lui (ce monument) de son vivant ». 802 L’exemple du Biturige Cube Blaesianus, grammaticus à Augustoritum, Limoges un citoyen de Lyon, qui en a fait établir un pour lui et son épouse dans une nécropole probablement localisée à Acitodunum, Ahun, sur la voie de sa ville d’origine à l’Océan29 Pour faire retour à Blaesianus, il a, tout comme les autres personnes citées, conservé sa citoyenneté gauloise d’origine tout en s’expatriant, et rappelé celle-ci sur son épitaphe30, soit par fierté d’être Biturix Cubus, soit par obligation légale. Auparavant, il avait fait le choix, volontaire ou subi, de demeurer à Augustoritum jusqu’à la fin de ses jours, ce que montre la réalisation, dirigée par lui-même, et antérieurement à son décès, d’une stèle montrant un portrait aux caractéristiques et aux accessoires choisis par lui, plus une épitaphe de rédaction personnelle. Il aura probablement exercé sa profession de grammaticus jusqu’au terme de sa vie, ou de sa santé, ce qui ne constituait pas un cas exceptionnel, à en juger par Suétone qui, dans son De grammaticis et rhetoribus, déjà cité plus haut, nous a transmis le souvenir d’un professeur nommé Oppius Charès, dont il indique qu’il enseigna ad ultimam aetatem et cum iam non ingressu modo deficeretur sed et visu. : « jusqu’à son âge ultime et alors que désormais il n’avait pas seulement du mal à se déplacer, mais aussi à voir31 ». Jetons un dernier regard sur la stèle de Blaesianus. Elle nous transmet une ultime information, par ses grandes dimensions d’origine, et sur elle la sculpture d’un portrait et la gravure d’une inscription relativement longue, donc par son coût de réalisation, qui n’a pas dû se montrer négligeable : le grammaticus possédait des moyens qui pour demeurer limités, ne le cantonnaient pas dans une pauvreté si souvent évoquée pour les enseignants antiques. Son enseignement latin et grec devait présenter une qualité qui lui aura permis d’accéder au moins à une petite aisance, confirmée de plus par les vêtements particulièrement confortables qu’il a tenu à faire porter à sa figuration32. Conclusion Le monument funéraire de Blaesianus nous fournit un exemple particulièrement documenté d’expatriation professionnelle et de décès dans une autre cité que la sienne, pour des motifs qui demeurent inconnus, mais avec une 29 CIL XIII, 1428 : « Aux dieux Mânes et à la mémoire de Vénéria et de Luttus Marcianus, citoyen de Lyon. Ils ont eux-mêmes mis en place (ce monument) pour eux de leur vivant ». 30 Bost, Perrier 1989, 63-66. 31 Suét., Gram. et rhet. 3, 6. 32 Bost, Perrier 1989. Une question se pose toutefois : et si c’était sa famille qui s’était installée à Augustoritum durant son enfance, de sorte qu’il aurait effectué ses études dans cette ville ? Mais dans ce cas, il aurait plus probablement disposé d’un tombeau familial, réalisé par son père ou par lui-même, et portant une mention de ce père voire d’autres membres de la famille. 803 Robert Bedon certaine réussite professionnelle et sociale. Il expose des goûts personnels et un niveau intellectuel qui impliquent une solide instruction. Cette dernière, chez les Bituriges Cubi, n’a guère pu être reçue que dans leur capitale, Avaricum, et témoigne qu’il était issu d’une famille qui avait les moyens de la financer, mais pas assez de lui permettre d’en vivre sans exercer une activité. Nos sources, tant littéraires qu’épigraphiques, nous révèlent que de telles expatriations hors de la cité d’origine ne constituaient pas des cas exceptionnels en Gaule romaine. Il en était déjà de même que de nos jours pour de nombreux enseignants, grammatici du Secondaire ou rhetores du Supérieur, exerçant leur profession loin de leur petite patrie, ce qui était le cas de Sara Santoro dans la dernière partie de sa carrière, et m’a inspiré le choix de ce sujet pour honorer sa mémoire. Sources Augustin, Enarrationes in psalmos, éd. Migne J.-P. 1841, Patrologie Latine, 36, Paris. Ausone, Commemoratio professorum Burdigalensium, éd. H.G.E. White 1919, Loeb Classical Library, vol. I., Londres-Cambridge (Mass.). Isidore de Séville, Etymologiarum sive Originum libri XX, éd. W.M. Lindsay, I, Oxonii, 1954. Lucrèce, De rerum natura, éd. Ernout A. 2010, vol. II, Les Belles Lettres, Paris. Ovide, Ars amatoria, éd. Bornecque A. 1995, Les Belles Lettres, Paris. Pline le Jeune, Épistulae, éd. 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Only in the Proceedings (published in 2015) of a conference held in November 2013, a paper can be found, which is a little more substantial with reference to what can be rightfully considered as the oldest amber manufacturing site to the south of the Alps and a significant and fundamental marker of the routes followed by the fossil resins trade. Following this contribution, it is worth going back to the topic, with some more new data on it, checking once again the written sources (and especially Plinius), which appear to be once again reliable about the amber around the mouth of the river Po and the widespread diffusion of the manufactured products from the sites of the Venetia. * A Sara, nella memoria di un incontro di simpatia. 807 Guido Rosada Plura quidem mandare tibi, si quaeris, habebam… Ov., Trist. 1, 1, 123 Trentadue anni fa Alberto Grilli pubblicava in “Acme1” una nota su quella parte della Naturalis historia che Plinio dedica all’ambra, affermando che quei capitoli “ci presentano un’ampiezza insolita, ma anche un’altrettanto insolita organicità” e che essi rappresentano in ogni caso “la più importante trattazione dell’ambra nel mondo antico”. A molta distanza di tempo vale dunque ritornare a Plinio e al suo passo, passo che precede immediatamente “la descrizione delle varietà delle gemme riconosciute” (gemmarum confessa genera). E in effetti le ambre mostrano avere per l’autore latino lo stesso prestigio delle gemme (eandemque…quam gemmarum auctoritatem) e sono quegli oggetti del lusso che ben evidenziano la propensione delle donne (in deliciis feminarum)2. Un lusso di cui non è compreso il valore da quegli Aestii che, come dice Tacito3, raccolgono tra le onde e i lidi l’ambra (…inter vada atque in ipso litore legunt), a lungo trascurata e lasciata tra gli altri rifiuti del mare, fintantoché non fu rivalutata dalle nostre mollezze (…diu quin etiam cetera eiectamenta maris iacebat, donec luxuria nostra dedit nomen). Una luxuria estrema ben compresa invece nella prima metà del iii sec. d.C. da Elagabalo che, secondo Aelius Lampridius4, “cosparse di polvere d’oro e d’argento un portico, dispiacendosi di non poter fare la stessa cosa anche con l’ambra, egli che spesso copriva con queste polveri preziose anche il tratto che percorreva a piedi fino al proprio cavallo o al proprio carro” (Scobe auri porticum stravit et argenti dolens quod non posset et electri idque frequenter quacumque fecit iter pedibus usque ad equum vel carpentum...). D’altra parte “la valutazione dell’ambra tra i beni del lusso è tale che una statuetta per quanto piccola di un uomo supera il prezzo di uomini vivi e vegeti” (taxatio in deliciis tanta, ut hominis quamvis parva effigies vivorum hominum vigentiumque pretia exsuperet…). E di seguito si ribadisce con forza lo “status symbol” di questa resina: “insomma in tutti gli altri oggetti di debolezza umana piace o la possibilità di ostentazione o l’utilità, in quelli d’ambra invece vince la consapevolezza di possedere del lusso” (…in omnibus 1 Grilli 1983. 2 D’altra parte l’ambra si presta anche a imitare le pietre preziose: infatti “le ambre trovano grande impiego anche nell’imitazione delle gemme che sono traslucide, in particolare delle ametiste, potendole tingere, come si è detto, con ogni colore” (Sucina et gemmis quae sunt tralucidae adulterandis magnum habent locum, maxime amethystis, cum tamen omni, ut diximus, colore tinguantur: Plin., Nat. hist. 37, 51). 3 Tac., Germ. 45. 4 Ael. Lampr., De Anton. Elagab., SHA 31, 8. 808 Le fonti nella fonte. L’ambra e le sue vie rileggendo Plinio (Nat. hist. 37, 30-53) denique aliis vitiis aut ostentatio aut usus placet, in sucinis sola deliciarum conscientia)5. All’incipit del testo pliniano sulle deliciae feminarum in relazione all’ambra segue una doppia apertura polemica, anzitutto per dire, in termini moralistici, che se si può comprendere il successo delle pietre preziose o dei vasi potori in cristallo o in murra, non si capisce per niente tutto il favore per il sucinum, di cui non si riesce a escogitare una ragione di utilità. La seconda nota esplicitamente polemica è diretta ai Greci dei quali è giunta l’ora di smascherare l’impostura e spiegare che non tutto quello da essi tramandato si deve ammirare. Da qui prende avvio una prima argomentazione del naturalista, sistematica nel rivisitare tutte le fonti da lui conosciute e ritenute per lo più fantasiose sull’origine e sulla natura dell’ambra. Giustamente ancora Grilli annota che il testo appare suddiviso secondo la qualità, diremmo, delle fonti, cioè inizialmente, come si è detto, quelle che derivano da suggestioni di poeti e da affermazioni di eruditi in genere; poi seguono le considerazioni che appaiono più verificate sull’ambra, sulle sue varietà che sono molte (genera plura sunt) e infine sulle sue diverse utilizzazioni. Qui ci fermiamo per fare qualche considerazione sulla prima parte della trattazione pliniana. Abbiamo citato appena sopra che in apertura Plinio associa all’universo femminile l’ambra e le gemme, non sapendo tuttavia darsi una ragione del favore che la prima incontrava. Più avanti l’autore ritorna con un riferimento alle donne quando ricorda che “tra le tante cose strane della sua vita Domizio Nerone aveva associato i capelli della moglie Poppea al nome dell’ambra, definendoli anche in una sua poesia ‘ambrati’, perché a nessuna debolezza dell’uomo vengono meno nomi ricercati; da quel momento questa sorta di terzo colore cominciò a essere desiderato dalle signore” (Domitius Nero in ceteris vitae suae portentis capillos quoque Poppeae coniugis suae in hoc nomen adoptaverat quodam etiam carmine sucinos appellando, quoniam nullis vitiis desunt pretiosa nomina; ex eo tertius quidam hic colos coepit expeti matronis: Plin., Nat. hist. 37, 50). C’è da aggiungere in proposito che molto tempo prima quel colore era stato invece da Senofonte semplicemente confrontato con quello dei datteri nelle terre della Mesopotamia: (“…i datteri riservati per la tavola dei padroni sono scelti grossi e tanto belli da far piacere a vederli per il colore, che si avvicina a quello dell’ambra-ê de opsis êlektrou ouden diephere-”)6. Ma è ancora in Plinio che ritornano i riferimenti all’uso femminile dell’ambra sotto diversi aspetti, da quelli utilitaristici, come in Siria, dove le donne, secondo Nicia, ne 5 6 Plin., Nat. hist. 37, 49. Xenoph., Anab. 2, 3, 14-15. 809 Guido Rosada farebbero fusarole e la chiamerebbero harpaga, perché attira foglie e pagliuzze e frange di vestiti (37, 37), a quelli tra l’ornamentale e il medicamentoso, dal momento che “oggi ancora le donne di campagna dei Transpadani sono solite portare ambre come monili, certo soprattutto per ornarsene, ma anche come rimedi medicinali: si crede infatti che l’ambra sia un valido ostacolo a tonsilliti e a malattie della gola” (…hodieque Transpadanorum agrestibus feminis monilium vice sucina gestantibus, maxime decoris gratia, sed et medicinae: creditur quippe tonsillis resistere et faucium vitiis…: 37, 44). Si legge poi che comunque “un qualche uso dell’ambra si trova in medicina, ma non per questo piace alle donne; serve a legarla addosso ai bambini come amuleto” (Usus tamen aliquis sucinorum invenitur in medicina, sed non ob hoc feminis placent, infantibus adalligari amuleti ratione prodest: 37, 50). Credo tuttavia che la correlazione più forte con il mondo femminile sia già nel mito di Fetonte che lo stesso Plinio ricorda tra le storie poco credibili tramandate dai Greci (37, 31-32) e che già Ovidio aveva inserito tra le sue Metamorfosi7. Nel mito sono infatti, come è noto, la madre Clymene e le figlie Eliadi, sorelle di Fetonte, le protagoniste dell’origine dell’ambra, quando proprio dalle Eliadi, trasformatesi in alberi, fluunt lacrimae stillataque sole rigescunt/de ramis electra novis (“…colano lacrime e l’ambra stillata dai giovani rami si indurisce al sole…”). Sono protagonisti potenti che riflettono la natura degli elementi primordiali, sole, terra e acqua, ma sono questi, come sottolinea Grilli, anche i mythoi apistoumenoi (incredibili e inverosimili), così definiti da Diodoro Siculo (5, 23, 1), e che in Plinio diventano le vanitates Graecorum. Lo stesso Diodoro (i sec. a.C.) e le sue argomentazioni sembrano poi essere una fonte importante proprio per quelle partizioni nel testo della Naturalis historia che sopra abbiamo ricordato, corrispondenti sostanzialmente a una sezione storico-letteraria e a una di più esplicito riferimento che diremmo scientifico8. Ora, se guardiamo alla prima parte della trattazione pliniana, quella appunto che si apre con la citata polemica nei confronti dei Greci, ripresa infine con le considerazioni su Sofocle, le citazioni delle fonti letterarie utilizzate sono veramente numerose, ben venticinque, distribuite su un arco temporale che va dal v sec. a.C. fino al i sec. d.C., a ridosso quindi dei tempi in cui vive l’autore latino. Non è qui la sede per ripercorrere tutte le ipotesi e le storie sull’ambra tramandate da queste fonti su cui si abbatte il giudizio critico e irridente di Plinio, coinvolgendo anche quegli autori, come Pitea e Timeo (iv-iii sec. a.C.), da cui sembra in qualche parte e modo dipendere il contenuto della trattazione del 7 8 Ov., Met. 2, 31 ss., in part. 333-366. Grilli 1983, 6-9. 810 Le fonti nella fonte. L’ambra e le sue vie rileggendo Plinio (Nat. hist. 37, 30-53) naturalista. Basti ricordare solo9 che nel lungo elenco delle vanitates dei Greci che bisognava detegere si trovano alberi che nell’entroterra adriatico trasudano ambra al levar del Cane (37, 33), ambre derivate dall’orina delle linci (34) o stillate da rocce in Britannia (35) o prodotte come sucum dai raggi solari che lasciano sulla terra al tramonto un umore denso (pinguem sudorem: 36) o derivate, in un lago presso l’Atlantico, dal fango trasformato dal calore del sole (37) o ancora prodotte da alberi di pioppo (38) o di cedro (39) e altre ulteriori fantasiose stravaganze puntigliosamente descritte. Questa ampia premessa si chiude, come si è detto, con una critica molto esplicita, e quasi speculare a quella di apertura con Eschilo, a un altro tragediografo ovvero Sofocle. Ebbene Plinio dedica uno spazio spropositato (40-41) a questo autore, perché è “più incredibile di tutti” (super omnes) e ciò desta meraviglia considerando “la grandezza e la serietà della sua tragedia” (tanta gravitas ei cothurni), nonché “la fama della sua vita, essendo nato ad Atene da una nobile famiglia ed essendo noto per le sue imprese e per il comando militare” (praeterea vitae fama alias principi loco genito Athenis et rebus gestis et exercitu ducto). Cosa dice di così tremendo Sofocle? Dice che “l’ambra si forma al di là dell’India, originata dalle lacrime degli uccelli meleagridi che piangevano Meleagro” (hic ultra Indiam fieri dixit e lacrimis meleagridum avium Meleagrum deflentium). È noto il mito legato a Meleagro, l’eroe che uccide il cinghiale calidonio, ma, secondo Omero (Il. 9, 529-599), poi muore in battaglia contro i Cureti per la questione della pelle dell’animale; in una seconda versione invece, che si trova in Bacchilide (Epin. 5), Meleagro muore perché la madre, irata per l’uccisione dei fratelli, avrebbe gettato nel fuoco il tizzone che le avevano dato le Parche avvertendola che una volta consunto il figlio sarebbe morto. Di qui il pianto di cui parla Sofocle. A commento di queste affermazioni contenute in una tragedia che non ci è pervenuta, Plinio si lancia in una aperta invettiva che diventa una sorta di pietra tombale per la vanitas greca. Si domanda infatti meravigliato come Sofocle “avesse potuto credere a ciò o anche creduto di persuadere altri di ciò” (quod credidisse eum aut sperasse aliis persuadere) o come “avesse pensato di trovare tanta inesperta infantilità da credere a pianti annuali di uccelli e a lacrime così grandi e a uccelli che dalla Grecia, dove Meleagro morì, se ne andassero a piangere dagli Indi. E allora? Non producono i poeti molte storie altrettanto fantasiose?” (quamve pueritiam tam imperitam posse reperiri, quae avium ploratus annuos credat lacrimasve tam grandes avesve quae a Graecia, ubi Meleager periit, ploratum adierint Indos? Quid ergo? Non multa aeque fabulosa produnt 9 Senza riprendere qui il problema dell’Eridano e della sua collocazione geografica, questione che ha molto occupato antichi e moderni (tra altri, cfr. Grilli 1975; Negroni Catacchio 1976, 33 ss.; Grilli 1983; Kolendo 1993, 26 ss. e bibl. ivi). 811 Guido Rosada poetae?). La risposta segue immediatamente: “Certo, ma che questo sia stato detto seriamente a proposito di una sostanza, che è ogni giorno importata ed è abbondante e rende quindi evidente la menzogna, rappresenta un grandissimo disprezzo degli uomini e insieme un’intollerabile impunità delle menzogne” (sed hoc in ea re, quae cotidie invehatur atque abundet ac mendacium coarguat, serio quemquam dixisse summa hominum contemptio est et intoleranda mendaciorum impunita). Questa è la fine dell’excursus che potremmo dire storico sugli “studi precedenti” e subito dopo (42) si passa agli aspetti ritenuti più seri scientificamente: “certo è che l’ambra si produce nelle isole dell’oceano settentrionale e che dai Germani è chiamata glaesum” (Certum est gigni in insulis septentrionalis oceani et ab Germanis appellari glaesum)10. Ma la dura presa di posizione che sembra, a una prima lettura, coinvolgere anche il fatto che l’ambra possa venire pure da terre ultra Indiam appare del tutto giustificata o c’è qualche aspetto che non la esclude del tutto? In realtà tra le tante storie raccontate circa l’origine e la provenienza della resina fossile quella che riguarda l’India trova proprio nelle fonti citate dallo stesso Plinio un certo riscontro e favore, dal momento che, oltre a Sofocle, sono citati altri tre autori che le testimoniano (pur inseriti i primi due tra quanti dicono vanitates). A cominciare da Nicia (v sec. a.C.) che dice che l’ambra nascerebbe in Egitto e “pure in India, e anzi agli Indi è più gradita dell’incenso e usata in sua vece” (item in India gratiusque et pro ture esse Indis: 36). Ctesia (tardo v sec. a.C.) afferma invece che “in India si trova un fiume dal nome Hypobarum…che scorre da settentrione all’oceano orientale presso un monte boscoso di alberi che producono ambra…” (Ctesias in Indis flumen esse Hypobarum…fluere a septentrione in exortivum oceanum iuxta montem silvestrem arboribus electrum ferentibus…: 39). Infine è Archelao, che regnò in Cappadocia (i a.C.-i d.C.), a dire che “dall’India viene importata nel suo paese grezza con ancora attaccata la corteccia di pino…” (Archelaus, qui regnavit in Cappadocia, illinc pineo cortice inhaerente tradit advehi rude…: 46). E appena prima, introducendo la notizia tradita di Archelao, e subito dopo aver ricordato la famosa spedizione dell’eques R. da Carnuntum in Pannonia fino al litus Germaniae dove commercia ea et litora peragravit, Plinio afferma che nasci et in India certum est, ovvero che “è fatto sicuro che l’ambra nasce anche in India”. Affermazione dunque che ci rassicura sul fatto che in precedenza la sua presa di 10 Da questo passo prende quasi certamente spunto Tacito per il suo passo nella Germania (citato supra). Le affermazioni di Plinio che seguono quel certum est dovettero essere desunte, come lui stesso dice, da quanto aveva potuto vedere e verificare Germanicus Caesar presso le isole dell’oceano settentrionale quando lì operò con la flotta (Germanico Caesare res ibi gerente classibus). Cfr. anche Grilli 1983, 16. 812 Le fonti nella fonte. L’ambra e le sue vie rileggendo Plinio (Nat. hist. 37, 30-53) posizione contro Sofocle deve essere più precisamente intesa solo in relazione alla questione degli uccelli meleagridi e non tanto alla provenienza indiana della resina. E in effetti si può ben giustificare una provenienza orientale, non tanto dall’India quanto ultra Indiam, ovvero più a oriente di questa, cioè da quella terra che ora conosciamo come Birmania (oggi Myanmar) dal momento che lì sappiamo essere presente un’ambra che viene chiamata “birmite”. Niente di più facile quindi che in antico si avesse consapevolezza che un certo tipo di ambra proveniva da quei territori lontani che non venivano e probabilmente non potevano essere distinti dall’India. È possibile anche che questa provenienza fosse ben conosciuta soprattutto all’epoca di Plinio, dal momento che egli stesso ci informa del lungo viaggio che ogni anno si intraprendeva verso l’India, lungo rotte marittime e piste desertiche, per un traffico di merci che veniva a costare non meno di 50.000.000 di sesterzi, ma che rendeva, una volta in Italia, cento volte di più (Nat. hist. 6, 96-106). Tra le tante mercanzie che si importavano attraverso queste spedizioni che duravano un anno intero si può ben pensare che ci fosse anche l’ambra che con ogni probabilità poteva passare come un prodotto indiano. In un successivo passo pliniano infatti vi è un’altra citazione dell’India e di quelle aree orientali a proposito dei commerci di profumi, essenze e perle destinati all’uso femminile: “e secondo la valutazione più bassa ogni anno gli Indiani, i Seri e gli abitanti della penisola arabica tolgono al nostro impero cento milioni di sesterzi: tanto ci costano il lusso e le donne” (Minimaque computatione miliens centena milia sestertium annis omnibus India et Seres et paeninsula illa imperio nostro adimunt: tanti nobis deliciae et feminae constant: 12, 84). Affermazione quest’ultima da una parte forse protezionistica11 e certamente ancora una volta misogena, ma che sottolinea comunque che da quelle regioni provenivano merci destinate alle deliciae e che forse potevano annoverare anche ambre birmane. In questo quadro sembra essere suggestivo anche un episodio narrato a Odisseo dal porcaro Eumeo (Od. 15, in part. v. 415-463). Si tratta di un gruppo di malfidati Fenici che arrivano nell’isola di Syrie, che è detta “stare al di sopra di Ortigia”, per commerciare un gran numero di prodotti che portavano con se “nella nera nave”; si trattengono per un anno intero per acquistare mercanzie e riempire la nave di ogni ben di dio offerto dalla ferace isola. Infine nel palazzo reale arriva “un uomo astuto” (aner polyidris) offrendo in vendita una collana d’oro con grani di elettro, cioè di ambra, intrecciati (chryseon ormon echôn, meta d’êlektroisin eerto)12. Ora, è probabile che la resina di questi grani fosse 11 Una riflessione di stampo protezionistico, inteso tuttavia alle regioni dell’Europa interna, si ritrova anche in Tacito (Ann. 2, 62). 12 Cfr. in proposito Mele 1979, in part. 87 ss. 813 Guido Rosada prodotta nella terra fenicia che, come è noto, corrisponde all’attuale Libano, dove è attestata la sua presenza (come anche nella vicina Giordania), ma non si può escludere che la provenienza fosse da aree ben più a oriente, forse pure da quella regione ultra Indiam di cui si diceva. Dalla regione affacciata sul Mediterraneo orientale poteva essere non difficile sia per l’ambra birmana, sia per quella libanese-birmana penetrare nella penisola anatolica fino nella Cappadocia del re Archelao e anche oltre attraverso le direttrici meridionali della penisola e le fatidiche Porte Cilicie. Mi sono fermato sul tema delle fonti perché io credo che, in un tempo in cui le lingue degli antichi sono sempre più sconosciute ai nuovi archeologi, rileggere quanto scrivono quegli antichi e quindi cercare di vedere, sebbene inevitabilmente solo nei limiti delle nostre possibilità, con i loro occhi sia fondamentale e ineludibile negli studi di archeologia, pena altrimenti di correre il rischio di diventare gli analfabeti della storia. Si deve così avere chiaro che le fonti, qualora non si dimostri che sbagliano (e ciò comunque passa sempre per la loro conoscenza), devono essere considerate come parte fondante della ricerca, il punto di partenza per ogni successiva verifica di carattere storico-archeologico. E mi pare sia altrettanto evidente, per quanto finora si è detto, che stando alle parole degli scrittori antichi l’ambra viene anche rappresentata come un prodotto dalle mille origini, dalle mille storie, ma soprattutto dai tanti percorsi che si legano talora al mito per accrescerne l’importanza e la sua stessa immagine. Ora, in un quadro di analisi combinata tra scritti degli antichi e loro testimonianze materiali, assume un’importanza decisiva la scoperta di un sito con grandi quantità di schegge e di manufatti in ambra, avvenuta a Campestrin di Grignano negli anni tra 2007 e 2011 a un decina di chilometri di distanza dalla ben più nota località di Frattesina Polesine e poco a Sud-Ovest di Rovigo. Una scoperta che tuttavia non ebbe nell’immediato e nella letteratura scientifica quel riscontro e quella risonanza che meritava. Le notizie si ritrovano infatti in quegli anni e in quelli successivi per lo più in articoli di giornale e in poche e assai stringate note in alcune sedi specialistiche. Soltanto negli Atti di un convegno del novembre 2013 (editi 2015)13 è stato pubblicato un contributo più 13 Bellintani et al. 2015. L’11 dicembre 2015 presso il Museo dei Grandi Fiumi di Rovigo si è tenuta la giornata di studi CPSSAE: cinquant’anni di novità del nostro passato, all’interno della quale si deve a U. Thun, M. Bertolini e a P. Bellintani una comunicazione titolata La lavorazione dell’ambra il caso di Campestrin di Grignano Polesine, ancora non pubblicata. Gli altri riferimenti sono: Salzani 2009; Salzani 2011; Thun Hohenstein et al. c.s. Ringrazio la dr.ssa Elena Masiero (Museo dei Grandi Fiumi di Rovigo), mia cara e brava allieva di qualche tempo fa, per avermi dato delle indicazioni preliminari su quanto edito in proposito negli organi di stampa e nei media. 814 Le fonti nella fonte. L’ambra e le sue vie rileggendo Plinio (Nat. hist. 37, 30-53) consistente su quello che giustamente è considerato il più antico sito di lavorazione dell’ambra a Sud delle Alpi e insieme un significativo e fondamentale marcatore delle direttrici seguite dal commercio della resina fossile. A seguito di tale contributo vale ritornare sull’argomento provvisti di qualche notizia in più in proposito. Come la necropoli di Narde a Frattesina, il sito del ritrovamento si colloca sulla sinistra idrografica di quell’antichissimo alveo del Po (Po di Adria) che nell’età del Bronzo doveva essere il corso principale del fiume e che quindi doveva anche interessare e informare di sé tutto quel comprensorio. “Nell’area indagata sono state parzialmente messe in luce tre piattaforme a pianta rettangolare, realizzate mediante riporto di limi selezionati. Sono perimetrate da buche di palo e al loro interno si trovano focolari. Il piano pavimentale presenta almeno tre fasi di rifacimento”. Allo stato a cui sono giunte le analisi dei materiali (sono ancora “preliminari”) la vita dell’abitato sembra da porsi “tra una fase avanzata dell’età del Bronzo recente…e un fase iniziale dell’età del Bronzo finale…ossia tra xiii e xii sec. a.C.”. In questo contesto di abitato “la lavorazione dell’ambra è documentata da un’enorme quantità di schegge sub-centimetriche (circa 6 kg raccolte da setacciatura) e da un più ridotto numero di parti o frammenti di blocchetti di materia prima, semilavorati e prodotti finiti, presenti in tutta la sequenza stratigrafica…La dispersione è disomogenea, ossia l’ambra è presente all’interno degli edifici, ma soprattutto nelle aree esterne, dove i depositi con ambre sembrano interpretabili come scarichi”. La prima analisi sui manufatti, come si evince dall’articolo pubblicato, è stata condotta per conoscere la provenienza dell’ambra, se cioè potesse o meno aver origine nel Mare del Nord. Così “sono stati selezionati 2 vaghi lavorati, ma non finiti, 2 blocchi di ambra con evidenze di lavorazione e 16 schegge di lavorazione di dimensioni variabili”. Alla fine “tutti i reperti analizzati hanno mostrato uno spettro molto simile e ben comparabile a quello della succinite…”, pertanto questi “indipendentemente dal colore e dall’opacità, sono costituiti da succinite” ovvero di ambra di provenienza baltica. Successivamente si è proceduto a una verifica della tecnica di lavorazione, confrontando le tracce di lavorazione sperimentale con quelle “riconosciute sui reperti archeologici” e in particolare sui vaghi riconducibili al tipo Tirinto (che, come è noto, sono “generalmente caratterizzati da una forma sub-cilindrica con costolatura centrale”). Ebbene in tal modo si sono potute seguire le varie fasi del lavoro produttivo a cominciare dalla sbozzatura iniziale mediante abrasione “per ottenere un supporto approssimativamente prismatico a facce piane (semilavorato). Segue la messa in forma per ottenere la caratteristica costolatura centrale…L’eliminazione delle tracce di lavorazione avviene progressivamente 815 Guido Rosada e probabilmente con diverse modalità nelle fasi di levigatura e lucidatura…”. Infine “la perforazione del vago è l’ultima fase del processo lavorativo”. Mi pare siano importanti le conclusioni a cui giungono gli autori dell’ancora purtroppo stringato contributo appena pubblicato. Essi affermano infatti che “Campestrin dimostra che l’ambra nordica giungeva (anche) grezza nel Nord Italia ed era certamente lavorata in loco almeno dall’Età del bronzo recente…il tipo Tirinto ha origine in ambito nord italiano nel corso del BR e probabilmente deriva dalla forma bitroncoconica allungata, frequente nel BR locale…la contemporaneità tra le produzioni di Campestrin e le presenze in ambito egeo e sulla costa siro-palestinese fa supporre che i vaghi tipo Tirinto siano uno degli elementi di tipo italiano che tra xiii e xi secolo a.C. entrano in circuito di scambi che collegava il nord Adriatico con l’Egeo e il Mediterraneo orientale; la presenza del tipo nel Tirreno centrale…fino all’inizio dell’Età del ferro potrebbe dipendere inizialmente dagli scambi con il polo medio-polesano (Campestrin-Frattesina) e in seguito dall’attivazione di produzioni locali”. Queste considerazioni su quanto è emerso a Campestrin, che abbiamo riportato annotando le notizie fin qui pervenute sulla scoperta, pur nei limiti della loro citata stringatezza, portano chi si occupa di topografia dell’antichità e di fonti a produrre a sua volta delle riflessioni in aggiunta a quanto abbiamo già detto in incontri sull’ambra degli anni passati, riflessioni su un quadro nuovo che indubbiamente i dati polesani hanno delineato nell’ambito delle nostre conoscenze e delle nostre “verità costruite”. La prima, e quella più ovvia, è che la credenza su cui tutti ci siamo formati che il manufatto d’ambra definito “vago di tipo Tirinto” fosse un prodotto di una tecnologia più avanzata e sviluppatasi in contesto egeo, nonché che l’area padana fosse solo un esportatore di materia grezza e, caso mai, un importatore di materiali finiti14 ha ricevuto un colpo mortale, quasi una sorta di katastrophè storica, che ha portato a ridisegnare proprio quella storia su basi più concrete e certe. È quindi l’area padana a esportare nel bacino del Mediterraneo, da quello centrale a quello orientale, una produzione di materiali, diremmo noi, già pronti all’uso e che incontrarono anche un assai largo favore; al punto da essere “distribuiti su di un’area vastissima: dal Mediterraneo centrale all’Ucraina” e diventare un marcatore culturale di riferimento. Il che fa riconsiderare anche quegli itinerari preferenziali che un tempo pensavamo culturalmente unidirezionali in un senso e che invece oggi scopriamo avere anche una direzionalità inversa. Successivamente va ribadito una volta di più che fintanto non si dimostri, come abbiamo già ribadito poco sopra, il loro torto, alle fonti bisogna sempre dare un giusto credito e una adeguata fiducia. C’è infatti una affermazione di 14 816 Cfr. ad esempio Negroni Catacchio 1976, 47. Le fonti nella fonte. L’ambra e le sue vie rileggendo Plinio (Nat. hist. 37, 30-53) Plinio che va ancora ricordata; circa l’ambra dice infatti il naturalista latino che adfertur a Germanis in Pannoniam maxime provinciam, et inde Veneti primum, quos Enetos Graeci vocaverunt, famam rei fecere proximique Pannoniae et agentes circa mare Hadriaticum…(“i Germani la portano soprattutto nella provincia di Pannonia e da lì per primi i Veneti, che i Greci chiamarono Eneti, diffusero e resero famosa l’ambra, quei Veneti che sono vicini alla Pannonia e vivono lungo le rive del mare Adriatico…”: Plin., Nat. hist. 37, 43). A molti secoli di distanza dai manufatti di Campestrin, vi è dunque ancora la memoria di una tradizione che vedeva l’area veneta come polo meridionale di riferimento per l’importazione della resina fossile: sono i Veneti infatti che dalla Pannonia, dove viene portata dai Germani (che rappresentano dunque il tramite o volano commerciale verso Sud), “per primi la diffusero e la resero famosa”. L’affermazione della fonte riveste una forte valenza perché sembra proprio certificare quanto emerso nel sito polesano, dal momento che non solo si dice con chiarezza che l’ambra viene acquisita dai Veneti, ma addirittura che questa viene diffusa e particolarmente valorizzata (primum…famam rei fecere) evidentemente al di fuori del comprensorio veneto (e quell’accenno al mare Adriatico è altrettanto significativo per le possibilità di collegamenti che esso offriva e insieme sottointendeva). Che poi Plinio indichi la Pannonia come penultima tappa del viaggio dell’ambra verso l’Italia, quindi un ingresso nelle terre venete dal settore nord-orientale, questo pare giustificato dal fatto che evidentemente l’autore latino ha in mente quanto dirà poche righe dopo (37, 45), che cioè la via percorsa dall’eques R. in direzione delle “coste della Germania da dove viene importata l’ambra” prende avvio “da Carnuntum in Pannonia” (a Carnunto Pannoniae…litus id Germaniae, ex quo invehitur…). D’altra parte, come abbiamo già descritto in altra sede15, il viaggio di ritorno del cavaliere carico di ambra dovette ricalcare da Aquileia tutto il litorale della Venetia e oltre ancora, prima fino ad Altino e poi più a Sud fino ad Adria, Ravenna e Rimini (percorrendo le vie Annia e Popillia) per immettersi infine nella Flaminia e giungere infine a Roma. Ma Campestrin come centro di importazione, ma segnatamente anche di manifattura per l’esportazione, ha un ulteriore riscontro nel testo pliniano. Non è un caso, a nostro avviso, che appena ricordato il ruolo dei Veneti nell’acquisto di questa resina, Plinio aggiunga una annotazione che spesso viene considerata solo da un punto di vista folclorico o al più etnografico (fors’anche da Plinio stesso). Dice infatti di seguito, dopo aver definito i Veneti agentes circa mare Hadriaticum, che Pado vero adnexa fabula est evidente causa, hodieque Transpadanorum agrestibus feminis monilium vice sucina gestantibus, maxime decoris gratia (ovvero “la storia viene certo collegata con il Po per una evidente 15 Rosada 2016. 817 Guido Rosada ragione: oggi ancora infatti le donne contadine della Transpadania portano oggetti d’ambra come monili, soprattutto al fine di impreziosire il proprio ornamento”), aggiungendo sed et medicinae; creditur quippe tonsillis resistere et faucium vitiis, varie genere aquarum iuxta Alpis infestante guttura hominum (“ma anche per un’utilità medicinale; si crede infatti che l’ambra contrasti le tonsilliti e i malanni della gola, dal momento che la qualità delle acque che si trovano nei pressi delle Alpi genera infezioni di varia natura nella gola degli uomini”: 37, 44). Ebbene, queste notizie oggi le possiamo vedere sotto una luce diversa rispetto a prima, sostanziando le tradizioni che riguardano l’ambra padana a partire dal mito di Fetonte e dal pianto delle sorelle Eliadi per la sua morte, trasformate presso le correnti dell’Eridano in alberi inde fluunt lacrimae stillataque sole rigescunt/de ramis electra novis (“da cui fluiscono lacrime e queste stille che vengono dai rami nuovi si induriscono al sole diventando ambra”), un mito rivisitato splendidamente, come si è già detto, dai versi di Ovidio. Il quale, e questo assume nuova importanza, ribadisce appena dopo che “le lacrime diventate ambra vengono raccolte dalle limpide acque del fiume e mandate alle giovani donne latine perché di esse si adornino” (…quae lucidus amnis/excipit et nuribus mittit gestanda Latinis) (Met. 2, 364-366). Viene dunque ribadita anche in un ambito poetico la funzionalità di vettore di collegamento e di veicolazione commerciale della preziosa resina fossile del corso fluviale padano. Ma per ritornare a Plinio, ancora una volta lo scrittore latino ci avverte che la adnexa fabula non solo ha una evidente causa, ma viene archeologicamente confermata: non è infatti un caso che Campestrin (ma insieme naturalmente il sito di Frattesina) si ponga al margine di un antico alveo padano che doveva essere attivo e costituire pure il corso principale del fiume già nell’età del Bronzo. E non è ancora un caso che gli abitanti Transpadani utilizzino in vario modo la resina, che doveva arrivare a quel capolinea in abbondanza, certo anche come medicinale e rimedio ai mali di quelle regioni, ma insieme, anzi maxime, decoris gratia, ovvero soprattutto come ornamento, come monili (vengono alla mente le parole di Giovenale in un altro contesto: toto posuere monilia collo/ “ornarono tutto il collo di monili”: Sat. 2, 85) che le contadine portavano ancora al tempo del naturalista latino. Pertanto da queste parole della fonte ricaviamo la conferma che in area padana c’era ambra grezza, ma c’erano anche e soprattutto monili di ambra che oggi sappiamo poter essere stati lavorati e prodotti in loco e non importati. In aggiunta a questo, attraverso il mito di Fetonte e il pianto delle sorelle Eliadi, per parte sua Ovidio ci dice che il Po era veicolo di esportazione e attraverso le sue acque l’ambra poteva raggiungere le giovani donne latine che così potevano anch’esse adornarsi pro818 Le fonti nella fonte. L’ambra e le sue vie rileggendo Plinio (Nat. hist. 37, 30-53) prio di quei monilia lavorati sulle sponde del fiume. Ecco dunque che la scelta topografica dei siti di Frattesina e di Campestrin assume un valore evidente di individuazione della direttrice preferenziale per il commercio dell’ambra a partire dal comprensorio padano. È uno dei casi in cui fonte archeologica e fonte scritta si confermano a vicenda. E naturalmente queste considerazioni mettono anche, a mio parere, un punto fermo sulla identificazione del corso del Po e comunque del comprensorio padano come fiume e terre dell’ambra. È vero che, come ha ben argomentato Grilli16, nella tradizione delle fonti vi sono vari e complicati intrecci di documentazione che possono rendere ancora incerta una univoca equazione Eridano-Po, come d’altra parte è certo che un polo importante sia quel caput Adriae dove aveva un altro capo la via dell’ambra da Carnuntum, ma con altrettanta buona ragione credo si debba convenire che l’area padana segnatamente offriva in termini di opportunità topografica senza alcun dubbio un migliore riferimento territoriale. Lì infatti potevano convergere, in un punto solo poco all’interno dell’antica linea di costa, sia l’ambra che arrivava attraverso la direttrice nord-orientale, che all’altezza di Aquileia diventava rivierasco-adriatica, sia quella che seguiva più propriamente la vallata dell’Adige o la direttrice ancor più nord-occidentale, come quella del Passo di S. Bernardino, Val Mesolcina e valle del Ticino. Per queste ultime in particolare, come ho già ribadito altre volte, il corso del Po dovette essere da sempre un grande collettore e un grande asse di aggregazione di interessi e di economie. E questo suo ruolo lo conservò ancora ben vivo in epoca romana, se tra i e iv sec. d.C. due importanti figure della letteratura latina, Plinio il Vecchio e Ambrogio, affermano rispettivamente che marina cuncta fructuoso alveo inportat (“ogni cosa dal mare veniva trasportata con il suo ‘fruttuoso’ alveo”: Nat. hist. 3, 123) e che Padus maritimorum commeatuum italicis subsidiis fidus invector (“il Po è una sicura via di collegamento per le vettovaglie che venivano dal mare destinate alle truppe sussidiarie italiche”: Exaem. 2, 3, 12). Il fiume è visto pertanto come il collegamento bidirezionale per eccellenza fructuosus e fidus invector tra l’entroterra cisalpino o comunque padano e l’Adriatico con le sue rotte. Era quindi il giusto trampolino per essere anche ai tempi dell’ambra tra Bronzo recente e finale il luogo dove si poteva svolgere un redditizio import-export attraverso le molte opportunità che offriva il mare. 16 Cfr. i già citati Grilli 1975; Grilli 1983 e anche Negroni Catacchio 1976, 33 ss. 819 Guido Rosada Bibliografia Bellintani P. et al. 2015, L’ambra dell’insediamento della tarda Età del bronzo di Campestrin di Grignano Polesine (Rovigo), in Leonardi G., Tiné V. (a cura di), Preistoria e Protostoria del Veneto. Atti della XLVIII Riunione scientifica dell’IIPP (Padova, 5-9 novembre 2013), Studi di Preistoria e Protostoria 2, Firenze, 419-426. Grilli A. 1975, Eridano, Elettridi e via dell’ambra, in Studi e ricerche sulla problematica dell’ambra. Atti della cooperazione interdisciplinare italo-polacca, I, Roma, 279-291. Grilli A. 1983, La documentazione sulla provenienza dell’ambra in Plinio, Acme, XXXVI/1, 5-17. 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Emilio Scauro tra la mostra e l’evento Elena Calandra Direzione generale Archeologia belli Arti e Paesaggio Abstract The temporary theater built by M. Aemilius Scaurus in 58 BC in Rome, probably in the Campus Martius, is one of the most remarkable achievements of antiquity: according to the ancient sources, the scene consisted of three levels, the first covered with marble slabs, the second of mosaic panels of glass, the third of golden wood panels; 360 columns of Lucullean marble decorated the scene, while the figurative apparatus consisted of 3,000 bronze statues, Sicyonian paintings, and “Attalicae vestes”. The display was completed with 150 wild animals, a hippopotamus, five crocodiles, and fossils. The complex was certainly an example of “luxuria” by a patrician imitating the Hellenistic dynasty model, but at the same time it appears as an exhibition and an event for the theater viewers (less than the 80,000 recorded by Pliny). Various elements contribute to directing the theater to the Ptolemaic model in the palaces of Alexandria: the use of glass mosaics imitating precious stones, the works of art, the exotic animals. In più di un’occasione Plinio il Vecchio si sofferma a esaminare la spettacolare realizzazione teatrale che M. Emilio Scauro eresse a Roma quando era edile curule nel 58 a.C. L’eccezionalità dell’opera si coglie non solo nella ricchezza 821 Elena Calandra della descrizione, ma anche nell’insistenza del naturalista, in più passi del suo scritto, sull’apparato e sul personaggio che lo promosse1. Vale la pena di affrontare di nuovo il complesso, peraltro non nuovo alla bibliografia archeologica anche in questi ultimi anni, per spostare il focus dell’attenzione sulla funzione museale complessiva, mettendo a sistema conoscenze diverse che lo stesso Plinio offre. La Naturalis Historia si sofferma infatti sulla descrizione dell’allestimento di lusso fuor dell’ordinario prevalentemente nei libri dedicati alla storia dell’arte proprio per la componente materiale (libri 34-36), ma già in precedenza l’edile e il suo operato sono citati a proposito degli animali, terrestri e acquatici (libri 8 e 9). Alla diversa collocazione nella trattazione pliniana corrispondono tradizioni di studi diverse, solo raramente confluenti, una maggioritaria e prettamente archeologica, concentrata sull’apparato come manifestazione estrema di luxuria2, l’altra, di matrice filosofica, interessata alla presenza di animali esotici nella Roma di età tardorepubblicana come medium di spettacolo e di meraviglia3. In realtà, la narrazione di Plinio, pur frammentata nell’organizzazione enciclopedica4, riguarda chiaramente un evento unitario, che come tale deve essere affrontato con una visione unica. L’opera si deve all’edilità di M. Emilio Scauro, figlio del console omonimo, promulgatore di un’importante legge suntuaria nel 115 a.C.5, e di Cecilia Metella (e perciò figliastro di Silla, che questa, rimasta vedova, avrebbe sposato in seconde nozze), nato probabilmente negli anni Novanta. Questore sotto 1 Per l’apparato delle fonti vedasi l’Appendice, alla quale rinviano le citazioni con *. In lingua italiana cfr. da ultimo Gualandi 2001, 507-509, n. 365 e 528-529, n. 398. 2 Il filone degli studi in materia è ingente: la svolta sul teatro di Scauro è impressa da Lavagne 1983, 259-264 e nuovamente da Lavagne 1988, 369-380. La bibliografia è aggiornata e discussa da ultimo in Dubois-Pelerin 2016, 3-6, preceduta dalla disamina di Medri 1997, 100-107; sul teatro nel sistema del testo pliniano Naas 2002, 383-387; Chevallier 1991, 238; da ultimo Sauron 2013, 179-180, propone una lettura cosmogonica dei vari livelli della scena. Fondamentale sul lusso la sintetica trattazione di Drerup 1957, 16-17 per il teatro di Scauro, aggiornata e ampliata dopo decenni da Das Wrack 1994. Nel quadro dell’interpretazione della luxuria come modo di autorappresentazione dell’aristocrazia secondo i canoni dinastici, sono da citare almeno Neudecker 1988, 29-30; La Rocca 1990, 287-495 (per il teatro di Scauro 406-407 e 463); Hölscher 1990, 73-84; 1994, 875-888. Al tema della luxuria è dedicato il volume 128/1 (2016) dei Mélanges de l’École française de Rome. Antiquité dal titolo Le luxe et les lois somptuaires dans la Rome antique; ibi in particolare sulle leggi suntuarie Bottiglieri 2016 e Zecchini 2016. Restano sempre basilari, nel rapporto fra arte greca e arte romana, Jucker 1950 e Becatti 1951. 3 A capo di tali studi si pone Vegetti 1983, 91-111, con l’importante capitolo “Lo spettacolo della natura. Circo, teatro e potere in Plinio”, aprendo una scia di studi su cui osservazioni in Naas 2002, 469-471. 4 Discussione sulle modalità di raccolta e di elaborazione dei materiali in Plinio in Naas 2002, 107-136, con analisi del complesso delle fonti a 137-170. 5 Zecchini 2016, 7. 822 Una Wunderkammer all’aperto: il teatro di M. Emilio Scauro tra la mostra e l’evento Pompeo nel 65 a.C. durante la terza guerra mitridatica, edile nel 58 a.C., pretore nel 56 a.C., governatore della Sardegna nel 55 a.C., candidato a console nel 53 a.C. senza successo, Emilio Scauro è uno dei membri più elevati tra gli optimates della tarda repubblica e imparentato con tutte le famiglie importanti, tra i più capaci economicamente, eppure inglorioso: sotto Pompeo si fa corrompere in Giudea e patteggia la pace con i Nabatei per 300 talenti, nel 54 a.C. è accusato de repetundis probabilmente per la gestione in Sardegna e assolto, e infine è incriminato de ambitu in occasione della candidatura a console e di conseguenza va in esilio; da allora non se ne hanno notizie6. Diverso il profilo sotto cui è maggiormente ricordato, come esperto in materia d’arte, essendo il primo a Roma a possedere una cospicua dattilioteca7, e, appunto, per il teatro che allestisce come edile, in vista di futuri obiettivi politici, di fatto non conseguiti. Il testo di Plinio: una rilettura Secondo la testimonianza di Plinio, Scauro fa costruire un teatro provvisorio (temporarium), della durata di un solo mese (vix mense uno), per ottantamila spettatori: la scena consta di tre livelli, il primo rivestito di lastre di marmo (l’enciclopedista s’interroga in proposito se si trattasse di marmo tagliato a lastre o a blocchi), il secondo di pannelli musivi di tessere di vetro, il terzo di pannelli di legno dorato8; trecentosessanta colonne di marmo luculleo ornano la scena (quelle del livello inferiore sono alte 38 piedi romani, ossia 11,25 metri, calcolando il piede romano pari a cm 29,6), mentre l’apparato figurativo consta di tremila statue di bronzo, di quadri della scuola di Sicione, e di vesti, dette attaliche9. La magnificenza dell’allestimento si completa nel racconto con l’ambientazione esotica affiancata al teatro per l’occasione: Scauro importa a Roma centocinquanta fiere, un ippopotamo e cinque coccodrilli, che erano esibiti in un Euripo appositamente fatto scavare e riempire d’acqua dall’intraprendente 6 R.E. I, n. 141, p. 589-590 (E. Klebs); Badian 1981, 65-66; bibliografia sulla biografia del personaggio da ultimo in Medri 1997, 86-91. 7 Plin., Nat. hist. 37, 11, 5; Micheli 2016, 82-83. 8 Si accetta in toto l’interpretazione di Lavagne 1983, 259-264 e di Lavagne 1988, 369380; secondo Medri 1997, 100, erano le colonne a essere in materiali diversi, quelle del livello inferiore in marmo, quelle intermedie rivestite in pasta vitrea, quelle del livello superiore in legno dorato, ma ciò confligge con l’affermazione di Plinio in merito al materiale delle 360 colonne, il marmo luculleo. 9 Plin., Nat. hist. 36, 24, 113-116*. 823 Elena Calandra edile10. L’esposizione è arricchita da fossili, tra cui sono citate le ossa attribuiti al mostro marino da cui Andromeda fu liberata11. Cessata, dopo un mese, la sua funzione, l’edificio con il relativo apparato è smantellato, e i lussuosi materiali impiegati per l’arredo finiscono nelle dimore private dello stesso Scauro, addotte a loro volta come esempi di luxuria: quattro colonne sono riutilizzate nell’atrio della domus urbana che egli si fa costruire sul Palatino, che subisce passaggi di proprietà, danni e rimaneggiamenti fino alla distruzione nell’incendio neroniano12; il resto è trasportato nella villa di Tuscolo, valutata, proprio per le opere d’arte ivi contenute, trenta milioni di sesterzi, somma calcolata quando essa è distrutta13. Successivamente, le quattro colonne dell’atrio della casa saranno poste nella valva regia della scena del teatro di Marcello, dedicato nel 13 o nell’11 a.C.14 Questo è il quadro generale delineato da Plinio, tra ripetizioni e commenti, con un’apparente disarticolazione espositiva che non deve sorprendere. Molto si è lavorato infatti sui modi di costruzione dell’enciclopedia pliniana15, organizzata per temi, e proprio i tematismi diversi hanno comportato nette distinzioni tra le varie componenti; con una certa asistematicità agli occhi dei moderni, ma lungo il filo delle associazioni secondo la modalità antica, Plinio torna più volte sull’argomento, ripetendo o aggiungendo particolari, il che consente una visione più completa dell’episodio. In base alle informazioni sopra esposte è possibile risalire alle dimensioni dell’apparato: se si applicano le prescrizioni di Vitruvio e si usa l’altezza della misura delle colonne come modulo16, considerando che quelle dell’ordine inferiore misurano 38 piedi cioè m 11,25, risulta che l’orchestra doveva avere un diametro di m 45, mentre la scena sarebbe stata lunga m 90: seguendo Vitruvio, la scena era lunga il doppio del diametro dell’orchestra, pari a quattro volte l’altezza della colonna dell’ordine inferiore; le colonne del secondo ordine (3/4 di quelle del primo) dovevano essere alte m 8,44, e quelle del terzo (di 1/4 più basse di quelle dell’ordine mediano) m 6,33; all’altezza delle colonne vanno aggiunte quella del podio, dei fregi e dei plutei, per un’altezza complessiva che oscilla, a seconda di come si considerano le membrature architettoniche, tra 10 Plin., Nat. hist. 8, 24, 62-64* e Plin., Nat. hist. 8, 39-40, 95-96*; Medri 1997, 85. 11 Plin., Nat. hist. 9, 4, 11*. 12 Coarelli 1989, 178-187; Domus: M. Aemilius Scaurus, s.v., L.T.U.R. II, 1994, 26 (E. Papi); Medri 1997, 91-97, ai quali si rimanda anche per le fonti. 13 Plin., Nat. hist. 36, 24, 113-116*. 14 Si rimanda, anche per le fonti, a Medri 1997, 94-97; Theatrum Marcelli, s.v., L.T.U.R. V, 1999, 31-35 (P. Ciancio Rossetto), in particolare 32. 15 Naas 2002, 171-234. 16 Vitr., De Arch. 5.6.6. 824 Una Wunderkammer all’aperto: il teatro di M. Emilio Scauro tra la mostra e l’evento i m 36, 95 e i m 37,6217. Il numero delle colonne (360) e delle statue (3.000), certamente molto elevato, può trovare una spiegazione nel rapporto 1:12 tra le colonne e le statue, le cui dimensioni non sono specificate, ma che potevano essere ridotte e di spessore sottile, proprio in vista di una funzione espositiva di tempo limitato18; si può immaginare una distribuzione pure sui tre livelli, in ragione di 1.000 su ciascuno, “inter columnas” (l’ingombro delle quali va tenuto in conto); le statue potevano essere disposte l’una sopra l’altra, si può ipotizzare, tramite apposite mensole. La scena era dunque di straordinaria imponenza, e doveva la sua forza strutturale ai materiali, non diversi, per la scena almeno, da quelli dei teatri stabili: il prezioso marmo luculleo, tra i più apprezzati dell’antichità19, per le colonne, quello, di natura non specificata, del primo ordine della scena, i mosaici vitrei su pannelli mobili del secondo20 e i pannelli lignei, più leggeri, del terzo: un tripudio di luxuria, potenziato certamente da una policromia violenta, considerato che il marmo luculleo, di colore nero venato, spiccava sui colori di fondo, ai quali anche le statue bronzee di certo conferivano un effetto di forte policromia generale21. L’effetto complessivo era quello di un’altissima, strabiliante facciata monumentale, movimentata dalle colonne, per la quale è stato invocato suggestivamente il ben più tardo Septizodium22. All’apprestamento già architettonicamente eccezionale si aggiunge l’esposizione delle opere d’arte: circostanziata è la presenza dei quadri di proprietà della città di Sicione, che Scauro, da vero connaisseur, compra in un’asta pubblica dalla città carica di debiti, trasportandoli poi a Roma23, con una scelta che denota una notevole capacità economica, dal momento che si trattava dei quadri di maggior valore nell’antichità. Non tramandati sono i meccanismi di acquisizione delle altre opere, commissionate probabilmente tramite un procuratore24. In particolare le stoffe attaliche erano così definite per la provenienza dal tesoro del re Attalo III, ed erano tessute con fili d’oro o ricamate con questi, 17 I conteggi coincidono per la lunghezza della scena e dell’orchestra con quelli di Medri 1997, 104, che calcola per l’altezza della scena m 37,62 o, meno probabilmente, m 33,38, considerando in questo secondo computo le colonne insieme agli architravi; il ricalcolo che si propone è divergente in modo non sostanziale. 18 L’esistenza di una produzione collaterale di statue da parata è stata supposta da Giuliano 2003, 1-8. 19 Sui costi delle colonne Medri 1997, 93-96. 20 Lavagne 1983, 259-264 e Lavagne 1988, 369-380. 21 Bianchi 2002, 401; Maugan-Chemin 2006, 107-108. 22 Drerup 1957, 17. 23 Plin., Nat. hist. 35, 40, 127* (cfr. Gualandi 2001, 528-529, n. 398); Rouveret 20142, 217; Calandra 2009, 54-55; 2011, 131-132. 24 Coarelli 1983, 45-53; Chevallier 1991, 103-124; Galsterer 1994, 857-866. 825 Elena Calandra come varie fonti, tra cui Plinio, concorrono a chiarire25; anche le modalità di approvvigionamento degli animali esotici e dei fossili sono oscure26. Circa il numero degli spettatori, Plinio informa che erano ottantamila contro i quarantamila del teatro di Pompeo, il primo in muratura a Roma, costruito appena tre anni dopo, nel 55 a.C.27 Alla luce dei conteggi prima esposti, il raffronto con le misure del teatro di Pompeo, di recente restituite, offre un sostegno: per la scena di questo si è infatti calcolata una lunghezza di m 100, mentre per l’ampiezza della cavea si sono computati m 165 per un’altezza di m 44; in merito al numero degli spettatori lo stesso teatro è determinante, in quanto se ne sono conteggiati 21.008 ipotizzando sedute di cm 40 e 17.001 per sedute di cm 5028: tale cifra è palesemente la metà dei 40.000 spettatori menzionati da Plinio a fronte degli 80.000 del teatro di Scauro. La discrepanza non è facilmente spiegabile, ma i numeri forniti da Plinio, nettamente più elevati, potrebbero riferirsi a una frequentazione lato sensu per entrambi i teatri, estesa ai visitatori dell’esposizione degli animali e dei fossili per quello di Scauro e della porticus post scaenam per quello di Pompeo. Le ingenti dimensioni del complesso promosso da Scauro rendono peraltro naturale chiedersi se potesse essere totalmente ligneo un edificio di spettacolo di tal fatta, o se piuttosto esso non sfruttasse strutture preesistenti o comunque stabili; al tempo stesso, non facile risulta la localizzazione della costruzione, che si è supposto si trovasse nel Campo Marzio29. Usi e riusi della luxuria Alla luce di quanto si è sin qui esposto, la natura effimera del teatro ligneo ha una motivazione contingente: in una città che si oppone per ragioni moralistiche alla costruzione di teatri stabili, uno provvisorio non deve stupire se non per la brevità della durata commisurata agli sforzi per metterlo in opera con un allestimento tanto sontuoso. Un periodo, peraltro, più che sufficiente a imprimersi nella memoria collettiva, e ad assolvere al ruolo politico-pubblicitario di luogo della formazione del consenso, esercitato sulle folle di spettatori che via vi confluivano30: non si trascuri infatti che Plinio tramanda gli ornamenta del teatro, ma non si sofferma sugli spettacoli che vi si tenevano, funzione primaria 25 Chioffi 2004, 89-91, con corpus delle fonti. 26 Sull’allestimento degli animali Berlan-Bajard 2006, 61-62, 82, 94-96, 299, 312, 326, 420421 (T 30 e 31). 27 Frézouls 1983, 193-214. 28 Monterroso Checa 2010, 295-297, 320 e 392. 29 Theatrum Scauri, s.v., L.T.U.R. V, 1999, 38 (N. Pollard). 30 Gros 1987, 321. 826 Una Wunderkammer all’aperto: il teatro di M. Emilio Scauro tra la mostra e l’evento del monumento, del quale marmi, sculture e quadri avrebbero invece dovuto rappresentare solo la magnifica decorazione. Si può piuttosto immaginare che la componente spettacolare si spostasse sull’esibizione delle ossa fossili inter reliqua miracula e sugli animali esotici, vera primizia per il pubblico romano, il quale ha la possibilità di ammirarli in un euripo appositamente realizzato, che ricrea dunque l’ambientazione acquatica originaria31. Di certo, il teatro deve essere uno degli apprestamenti più clamorosi, se a un secolo di distanza Plinio ne parla a più riprese, anche piuttosto diffusamente, ravvisando nella ricchezza e nella breve durata d’uso dell’edificio un esempio negativo di corruzione dei pubblici costumi: il giudizio del naturalista si vena di moralismo soprattutto davanti alla temporaneità della realizzazione, che egli avverte sproporzionata in rapporto al tempo della fruizione, della durata appunto di un solo mese. L’apprestamento effimero, in ragione della breve durata a fronte della costosità del materiale, è appunto oggetto di censura per Plinio a paragone con il livello dei successivi programmi imperiali: nel giudizio dell’enciclopedista, la follia edilizia di Scauro supera le bizzarrie che avrebbero contraddistinto le opere di Caligola e di Nerone. Come Plinio fa notare, non risultano peraltro sanzioni da parte pubblica né riguardo all’opera né circa la successiva privatizzazione dei materiali: il che induce a concludere che la procedura si ponesse lecitamente all’interno di una tradizione accreditata, rispetto a cui l’allestimento si distinse solo per eccellenza e per vistosità. Né d’altra parte deve stupire il ritorno delle ricchezze nei domini privati dell’allestitore, dal momento che egli non fa altro che applicare a sé stesso una prassi consueta e accettata, rientrante nelle costumanze avviate dai dinasti: basti ricordare il caso dei tesori regali che prima erano esposti pubblicamente e successivamente erano reincamerati dai sovrani32. Solo l’impiego ultimo delle colonne, forse, poté valere a versare una sorta di tributo morale a tanto sciupio, con il riuso, come prima ricordato, nella valva regia della scena del teatro di Marcello. La preziosità, d’altra parte, accompagna di frequente i complessi dediti allo spettacolo, anche se con minor enfasi, in occasione di altri allestimenti precedenti quello di Scauro, e di portata più limitata: scene o tribune decorate d’oro, d’argento, d’avorio, sono menzionate per precedenti apprestamenti in relazione all’oratore Crasso, a L. Catulo, a C. Antonio, a L. Murena, a M. Petreio, a P. Lentulo Spintere33. Anche se le fonti non sono prodighe di informazioni in proposito, non si può escludere, per analogia con il più noto caso di Scauro, che 31 Berlan-Bajard 2006, 420-421 (T 30 e 31). Sulla fauna nilotica, e segnatamente su quella dell’Etiopia, Trinquier 2007, 23-60. 32 Sul problema del riuso degli arredi degli allestimenti effimeri, cfr. Calandra 2010, 27-28. 33 Drerup 1957, 16, per il corpus delle fonti. Fuchs 1987, 2-5. 827 Elena Calandra le ricchezze esibite facessero parte delle proprietà private degli espositori e che in esse rientrassero al termine della manifestazione. Nella sua magnificenza ostentata e quasi provocatoria, Scauro con il teatro offre l’evidenza per un modus operandi che nel mondo antico era piuttosto ricorrente: la mobilità dei materiali, delle opere d’arte e delle suppellettili preziose, ovvero la possibilità di proporle in contesti diversi e con differenti funzioni, in un continuo gioco di impieghi e di reimpieghi: a questo ben si prestano i pannelli musivi vitrei che rivestivano le pareti del secondo livello della scena, che potevano essere predisposti per la trasportabilità e per il riuso, come avrebbe fatto di lì a poco anche Cesare34. Tra l’evento e la Wunderkammer Così come descritto da Plinio, il teatro di Scauro si connota per componenti diverse: la preziosità dei materiali, il valore delle opere d’arte, segnatamente i quadri sicionii e le statue di bronzo, ma anche le stoffe attaliche, che probabilmente dovevano recare storie ricamate, gli animali esotici, e i fossili. L’allestimento dei quadri di Sicione e delle stoffe rimanda obbligatoriamente all’apprestamento della tenda di Tolomeo II, eretta nei palazzi di Alessandria nel 279 a.C. in occasione dei primi Ptolemaia: diversa ne era la funzione, trattandosi di una tenda per banchetti memoriali della prima coppia di sovrani di Alessandria, genitori di Tolomeo II, ma non può sfuggire che essa fosse adorma proprio di quadri di Sicione e di stoffe recanti rappresentazioni mitologiche e ritratti dei sovrani, di armi, di statue di marmo, tutti destinati a comporre un sistema di messaggi comprensibili all’élite ristretta dei simposiasti35. Le stoffe istoriate in oro, potevano esporre un programma figurativo, rimasto sconosciuto, mentre solo per inciso si può ricordare che l’oro nelle vesti connotava il trionfatore, condizione che all’edile, tutt’altro che bellicoso, manca, ma che poteva essere un richiamo voluto, a maggior ragione visto il probabile scenario dell’allestimento, il Campo Marzio, sede eletta per i trionfi36. I richiami alla corte alessandrina si rafforzano peraltro anche alla luce di altre valutazioni, riguardo ai mosaici in tessere di vetro e agli animali. Secondo Lavagne37 il materiale vitreo delle tessere (e vitro dice Plinio) costituisce l’imitazione a Roma delle pietre preziose e semipreziose usate nei palazzi regali lagidi, per esempio quelli della grotta della nave di Tolomeo IV. Il raffronto acqui34 Suet., Divus Julius 46. 35 Calandra 2009, 58-64; 2011, 137-144. 36 Per il significato dell’oro nelle vesti da ultimo Chioffi 2004, 91; Pape 1975, 51-52 considera il teatro Scauro fra i luoghi del trionfo. 37 Cfr. nota 2. 828 Una Wunderkammer all’aperto: il teatro di M. Emilio Scauro tra la mostra e l’evento sta una verosimiglinza ancor maggiore, peraltro, se si rammenta, come detto prima, che Scauro era anche collezionista di gemme, il che lo poneva in una posizione privilegiata di conoscitore e di committente, anche di riproduzioni. La dipendenza dell’edile dal modello tolemaico si consolida peraltro anche alla luce di un altro elemento. Come si è ricordato in precedenza, Scauro cura la messinscena di una sorta di parco delle meraviglie, con animali esotici e fossili. Da notare che l’ippopotamo e i coccodrilli non sono usati come animali da combattimento: essi sono solo esibiti, e fanno parte della cornice espositiva più ampia. Un simile spirito richiama quello dei parchi della reggia alessandrina, e testimonia la continuazione colta e consapevole di un paesaggio che era esso stesso una tipica estrinsecazione di potere; il confronto è stringente se si pensa allo zoo, che ad Alessandria era il corrispettivo del Museo nell’intento catalogico di marca aristotelica, ma si rafforza se si considera che, in concomitanza con la costruzione della tenda, Tolomeo II promuove la processione dei dodici dèi, solo in parte nota dal testo di Ateneo; in uno dei segmenti noti, che riprende il ritorno trionfale di Dioniso dall’India, sfilano in gran numero animali esotici e selvaggi nonché cani di varie razze, insieme a doni in materiali di pregio come l’avorio, l’ebano e le spezie, i metalli preziosi38. La ricchezza dei rimandi, peraltro, è rinvigorita dalla presenza dei reperti, come le ossa del mostro marino e altre reliquie, che stavano a metà fra l’antiquariato, anche per il mondo antico, e la memoria mitologica. La mentalità antica nutriva un forte senso di rispetto e di soggezione davanti alle antichità, che facevano mostra di sé normalmente nei santuari, con la cui storia si integravano, caratterizzandosi sempre per una componente curiosa o peregrina39. La comparsa di tali oggetti nell’allestimento di Scauro non fa che potenziarne la qualità museale: essi facevano parte dell’esposizione alla stessa stregua delle opere d’arte, dei tessuti e degli animali, in un’aura complessiva di esibizione delle meraviglie en plein air. Il complesso è stato caricato in letteratura dell’enfasi sulla preziosità dei marmi con la conseguente svalutazione moralistica, nonché dell’intento scientifico di proporne la ricostruzione, ma questi ordini di valutazioni non devono allontanare l’attenzione dal significato del contesto espositivo generale, da intendersi come evento complessivo nella sua valenza museale: a questa indirizzano segnatamente le pitture di Sicione, le statue di bronzo, e anche le stoffe, 38 Per lo zoo Adriani 1966, 222, s.v. “giardino (zoologico)”; per la parata degli animali Ath. 5, 200F-201C; Rice 1983, 82-99; Coarelli 1990, 235-251; Trinquier 2002, 861-919; Belozerskaya 2006, 38-39, 42-45; Campanella 2006, 1219-1235; Trinquier 2009, 333-366; Miziur 2012-2013, 451-465; Buccino 2013, 123-134, e in particolare 126. 39 Magistrale sempre Pfister 1909-1912; spunti in Levi 1969, 387-393; recentemente Tassignon 2005, 289-303. 829 Elena Calandra di frequente uso ed esposizione in ambito greco, molto meno in quello romano. Se il codice della luxuria era il più comprensibile per gli antichi, anche in termini di negatività, a connotare l’azione di Scauro è la temperie che questi rivela nelle modalità dell’allestimento, in cui si rivela il collezionista più che l’uomo d’armi, benché il significato del complesso sia elettorale: le alterne vicende della carriera del personaggio sconfessano la portata dell’operazione, per di più bollata come luxuria inutile a fronte degli insuccessi politica40, ma è innegabile il modello dinastico ellenistico che sta alla base della condotta dell’edile, simile a quella degli altri optimates41. Vi è tuttavia una distinzione rispetto agli altri apparati della tarda età repubblicana, di cui alcuni sono stati prima citati: essi sono infatti caratterizzati dalla preziosità dell’addobbo, mentre l’esibizione delle opere d’arte e degli animali è nuova e costituisce un valore aggiunto. Se il luogo di spettacolo può essere effimero, non si può negare che esso acquisti concretezza e tangibilità attraverso i materiali che lo compongono: è proprio la presenza di tali componenti a trasformare in evento l’allestimento teatrale, aprendo possibilità inedite e difficilmente percorribili negli stessi termini, apportando un cambiamento immediato, all’insegna della spettacolarità, e introducendo una citazione, profonda e colta, al referente costituito dai Tolemei. Solo la pura meraviglia meccanica potrà superare tutto ciò: sei anni dopo, C. Scribonio Curione, non potendo superare Scauro in cultura retrospettiva, dedicherà giochi funebri alla memoria del padre, console nel 76 a.C. e morto nel 53 a.C., promuovendo un’ambientazione inedita e sbalorditiva, consistente in una coppia di teatri semoventi, che potevano essere tenuti separati e opposti o essere ruotati a costituire un anfiteatro42. Appare allora evidente come la lezione del teatro di Scauro scandisca in modo indelebile il passaggio dalla luxuria all’arte della meraviglia, con la consapevolezza del ruolo paradigmatico dell’Egitto, che di lì a breve avrà il suo glorioso e tragico epilogo. Bibliografia Adriani A. 1966, Repertorio d’Arte dell’Egitto Greco-Romano, Serie C, I-II, Palermo. Badian E. 1981, s.v. Scauro, Marco Emilio, in Lemprière Hammond N. G., Hayes Scullard H., Dizionario di antichità classiche di Oxford, edizione italiana a cura di M. Carpitella, I, Roma, 65-66. Becatti G. 1951, Arte e gusto negli scrittori latini, Firenze. 40 41 42 830 Medri 1997, 84 e 88-91, 94, 98. Cfr. nota 2. Plin., Nat. hist. 36, 116-120; Bomgardner 2000, 36-37. Una Wunderkammer all’aperto: il teatro di M. Emilio Scauro tra la mostra e l’evento Belozerskaya M. 2006, The Medici Giraffe and other Tales of Exotic Animals and Power, New York. 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Marc., R.G., 22, 15, 24 Has monstruosas antehac raritates in beluis, in aedilitate Scauri vidit Romanus populus primitus, patris illius Scauri, quem defendens Tullius imperat Sardis, ut de familia nobili ipsi quoque cum orbis terrarum auctoritate sentirent, et per aetates exinde plures saepe huc ducti, nunc inveniri nusquam possunt, ut coniectantes regionum incolae dicunt, insectantis multitudinis taedio ad Blemmyas migrasse compulsi. Plin., Nat hist. 8, 24, 62-64 (62) Panthera et tigris macularum varietate prope solae bestiarum spectantur, ceteris unus ac suus cuique generi color est, leonum tantum in syria niger. pantheris in candido breves macularum oculi. ferunt odore earum mire sollicitari quadripedes cunctas, sed capitis torvitate terreri; quam ob rem occultato eo reliqua dulcedine invitatas corripiunt. sunt qui tradant in armo iis similem lunae 834 Una Wunderkammer all’aperto: il teatro di M. Emilio Scauro tra la mostra e l’evento esse maculam crescentem in orbem seque cavantem pari modo. (63) nunc varias et pardos, qua mares sunt, appellant in eo omni genere, creberrimo in africa syriaque. quidam ab his pantheras candore solo discernunt, nec adhuc aliam differentiam inveni. (64) Senatus consultum fuit vetus, ne liceret africanas in italiam advehere. contra hoc tulit ad populum cn. aufidius tribunus plebis permisitque circensium gratia inportare. primus autem Scaurus aedilitate sua varias CL universas misit, dein Pompeius Magnus CCCCX, Divus Augustus CCCCXX (...) Plin., Nat. hist. 8, 39, 95 95. Maior altitudine in eodem nilo belua hippopotamius editur, ungulis binis quales bubus, dorso equi et iuba et hinnitu, rostro resimo, cauda et dentibus aprorum aduncis, sed minus noxiis, tergoris ad scuta galeasque inpenetrabilis, praeterquam si umore madeant. depascitur segetes destinatione ante, ut ferunt, determinatas in diem et ex agro ferentibus vestigiis, ne quae revertenti insidiae comparentur. Plin., Nat. hist. 8, 40, 96. Primus eum et quinque crocodilos romae aedilitatis suae ludis M. Scaurus temporario euripo ostendit. (...) Plin., Nat. hist. 9, 4, 11 Turranius prodidit expulsam belvam in Gaditana litora, cuius inter duas pinnas ultimae caudae cubita sedecim fuissent, dentes eiusdem CXX, maximi dodrantium mensura, minimi semipedum. belvae, cui dicebatur exposita fuisse Andromeda, ossa Romae apportata ex oppido Iudaeae Iope ostendit inter reliqua miracula in aedilitate sua M. Scaurus longitudine pedum XL, altitudine costarum Indicos elephantos excedente, spinae crassitudine sesquipedali. Plin., Nat. hist. 34, 16, 36 [...] omnia enim quis possit M. Scauri aedilitate signorum mmm in scaena tantum fuere temporario theatro [...] Plin., Nat. hist. 35, 40, 127 [...] Sicyone et hic vitam egit, diuque illa fuit patria picturae. tabulas inde e publico omnes propter aes alienum civitatis addictas Scauri aedilitas romam transtulit Plin., Nat. hist. 36, 2-3, 5-7 [...] 5. ccclx columnas M. Scauri aedilitate ad scaenam theatri temporari et vix mense uno futuri in usu viderunt portari silentio legum. sed publicis nimirum indulgentes voluptatibus. id ipsum cur aut qua magis via inrepunt vitia quam publica quo enim alio modo in privatos usus venere ebora, aurum, gemmae aut quid omnino diis reliquimus (6). verum esto, indulserint publicis voluptatibus. etiamne tacuerunt, maximas earum atque adeo duodequadragenum pedum 835 Elena Calandra lucullei marmoris in atrio Scauri conlocari nec clam id occulteque factum est. satisdare sibi damni infecti coegit redemptor cloacarum, cum in palatium eae traherentur. non ergo in tam malo exemplo moribus caveri utilius fuerat tacuere tantas moles in privatam domum trahi praeter fictilia deorum fastigia! (7) nec potest videri Scaurus rudi et huius mali inprovidae civitati obrepsisse quodam vitii rudimento. Plin. Nat. hist. 36, 8, 50 nascitur autem in Melo insula, solumque paene hoc marmor ab amatore nomen accepit. inter hos primum, ut arbitror, marmoreos parietes habuit scaena M. Scauri, non facile dixerim secto an solidis glaebis polito, sicuti est hodie Iovis Tonantis aedis in Capitolio. nondum enim secti marmoris vestigia invenio in Italia. Plin. Nat. hist. 36, 24, 113-116 (113) Non patiar istos duos ne hac quidem gloria famae frui, docebimusque etiam insaniam eorum victam privatis opibus M. Scauri, cuius nescio an aedilitas maxime prostraverit mores maiusque sit Sullae malum tanta privigni potentia quam proscriptio tot milium. (114) in aedilitate hic sua fecit opus maximum omnium, quae umquam fuere humana manu facta, non temporaria mora, verum etiam aeternitatis destinatione. theatrum hoc fuit; scaena ei triplex in altitudinem ccclx columnarum in ea civitate, quae sex hymettias non tulerat sine probro civis amplissimi. ima pars scaenae e marmore fuit, media e vitro, inaudito etiam postea genere luxuriae, summa e tabulis inauratis; columnae, ut diximus, imae duodequadragenum pedum. (115) Signa aerea inter columnas, ut indicavimus, fuerunt [iii] numero; cavea ipsa cepit hominum [lxxx], cum pompeiani theatri totiens multiplicata urbe tantoque maiore populo sufficiat large [xxxx] sedere. relicus apparatus tantus attalica veste, tabulis pictis, cetero choragio fuit, ut, in tusculanam villam reportatis quae superfluebant cotidiani usus deliciis, incensa villa ab iratis servis concremaretur hs [30ccc]30. (116) aufert animum et a destinato itinere degredi cogit contemplatio tam prodigae mentis aliamque conectit maiorem insaniam e ligno. C. Curio, qui bello civili in caesarianis partibus obiit, funebri patris munere cum opibus apparatuque non posset superare Scaurum - unde enim illi vitricus Sulla et Metella mater proscriptionum sectrix unde M. Scaurus pater, totiens princeps civitatis et mariani sodalicii rapinarum provincialium sinus cum iam ne ipse quidem Scaurus sibi par esse posset, quando hoc certe incendi illius praemium habuit convectis ex orbe terrarum rebus, ut nemo postea par esset insaniae illi. 836 Druso minore sulla via Appia a Roma Daniele Manacorda Università degli Studi Roma Tre Abstract A fragmentary bronze inscription found on the via Appia (CIL VI, 31200) reports the decree of the Senate on the death of Drusus, son of Tiberius (23 AD). A review both of the text and the topography of the surrounding area makes it possible to evaluate the existence of an arch erected in honor of Drusus minor in that stretch of the via Appia, in an area that was rich in memories of the Julio-Claudian family. L’areale compreso subito all’interno della Porta di San Sebastiano, che si apre sulla via Appia nella cinta aureliana di Roma, oggi celebre per alcuni complessi archeologici, come il Sepolcro degli Scipioni e i tre Colombari di vigna Codini, fu sede di interessi antiquari sin dalla seconda metà del xv secolo1. A quest’epoca risale peraltro anche la prima raffigurazione dell’arcocosiddetto “di Druso2”, che ancora si erge a pochi passi dalla antica porta urbica3 e che da qualche tempo è oggetto di un riesame complessivo nel tentativo di raggiungerne una più chiara definizione topografica, prosopografica e cronologica4. Quello stesso areale fu al centro di continui e disordinati ritrovamenti, quando attorno alla metà del xvi secolo gli scassi per le vigne portarono alla luce porzioni vastissime dell’antica necropoli che si stendeva su un lato e l’altro della via Appia. Testimone oculare di molti di questi ritrovamenti, seguiti ine1 Da ultimi cfr. Spera-Mineo 2004; Manacorda, Santangeli Valenzani 2010; Manacorda, Balistreri-Di Cola 2017a. 2 Dovuta a Giuliano da Sangallo: cfr. Di Cola 2017, 118, fig. 8. 3 Pisani Sartorio 1993. 4 Di Cola 2010; 2017. 837 Daniele Manacorda sorabilmente dalla distruzione degli edifici dissotterrati, fu il pittore e antiquario napoletano Pirro Ligorio, che ci ha lasciato descrizioni amare ma preziose di quella fase di sterri tumultuosi5. Ligorio stesso ci dà notizia del ritrovamento in quell’area e in quegli anni anche di un monumento, o comunque di una memoria, relativa al “cavallo di Germanico Cesare”. In una pagina del suo Codice torinese, introducendo la trascrizione di un gruppo di epigrafi, sia false che genuine, relative a personale addetto alle biblioteche di Roma, Ligorio infatti annota6: Queste Tavolette di marmo sono state tolte dalle rovine delli sepulchri della Via Appia, li quali erano di dentro della porta che si intitola di San Sebastiano, le quali hebbe Ridolfo pio cardinale di Carpi et in parte ne furono raccolte da M. Sebastiano Gualtieri vescovo di Viterbo, e da egli donate a diverse persone, li cui monumenti erano appresso di quello del Cavallo di Germanico Cesare (fig. 1). Dopo questa premessa seguono nella stessa pagina otto iscrizioni ben impa- Fig. 1. Pirro Ligorio, Libro XVII dell’antichità, Cod.Taur., 15, f. 92v, dettaglio. ginate, ma trascritte senza il disegno del relativo supporto: tre compaiono solo qui (CIL VI, 1172*, 1670*, 2072*), una è ripetutamente citata in vari volumi della serie torinese ed assegnata alla collezione del cardinal di Carpi (CIL VI, 895*), una è ripresa anche nel Codice napoletano XIII B87, che la attribuisce al cosiddetto “Colombario ligoriano”8 (CIL VI, 859*), una è ripresa anche in un altro codice della serie torinese9, dove è detta proveniente “dalle rovine de sepulchri ch’erano nella via Appia a sinistra della via per andare alla porta di San Sebastiano Capena di dentro di Roma” (CIL VI, 921*)10, una è nota anche da 5 Sul personaggio cfr. Coffin 2003. 6 Pirro Ligorio, Libro XVII dell’antichità, Cod.Taur., 15, Archivio di Stato di Torino, ms. a.II.2, f. 92v. La pagina è intitolata Delli scrittori biblyothecari Palatini D. Apolline. 7 Cod.Neap. XIIIB8, f. 226v; Orlandi 2009, 304. 8 Balistreri 2017, 134, fig. 5. 9 Cod.Taur. 26, f. 137v. 10 L’iscrizione, riabilitata in CIL VI, 5884, è attualmente conservata presso il Museo Nazionale di Napoli (ILMN 2000, 91, n. 98). 838 Druso minore sulla via Appia a Roma altri testimoni, ma risulta di assai dubbia autenticità (CIL VI, 3047*)11, ed una infine, benché perduta, è ritenuta genuina perché legittimata da altri testimoni (CIL VI, 8743b). Il testo di quest’ultima iscrizione (Alexio / Caesaris / Aug(usti) ab / byblyothece) sembra dare valore alla testimonianza del Ligorio per quanto riguarda l’area di provenienza, che gli altri autori non tramandano. Negli scavi condotti da Giampietro Campana nel 1847, che misero in luce il Secondo colombario della vigna Codini12, fu infatti rinvenuta anche l’iscrizione CIL VI, 4636 (fig. 2; 7, 1), tuttora conservata all’interno dell’edificio, che reca la dedica posta a Philia, schiava di Giulia, da parte del fratello Alexio Caesaris ser(vus) (Philiae Iuliae / Alexio Caesaris ser(vus) / frater fecit). Il Mommsen13 riconosce nei due Fig. 2. a) Pirro Ligorio, Libro XVII dell’antichità, Cod.Taur., 15, f. 92v, dettaglio dell’iscrizione CIL VI, 8473b; b) Roma, Secondo colombario Codini, iscrizione CIL VI, 4636. 11 Anche questa è conservata presso il Museo napoletano (ILMN 2000, 184, n. 641). 12 Manacorda 1999. 13 CIL VI, 909. 839 Daniele Manacorda personaggi una schiava di Livia dopo la morte di Augusto ed uno schiavo di Tiberio. Se dovessimo identificare l’Alexio Caesaris ser. di CIL VI, 4636 con l’Alexio Caesaris Aug. di CIL VI, 8743b (come lascerebbe pensare anche il fatto che il contesto del Secondo colombario Codini restituisce numerose iscrizioni di schiavi addetti alle biblioteche imperiali14) potremmo forse riconoscere in lui eventualmente uno schiavo dello stesso Augusto e quindi nella sorella, forse, una schiava di sua figlia Iulia15. La notizia relativa al “Cavallo di Germanico Cesare”, con la quale si apre la pagina di Ligorio, fu ripresa all’inizio del xviii secolo da Francesco Bianchini con queste parole16: In poca distanza dal medesimo [scil. Arco di Druso] erano molti Monumenti e Sepolcri della sua casa [scil. di Augusto], e de’ suoi Liberti; anzi Ligorio […] narra essersi ritrovata la inscrizione ancora del Cavallo di Germanico Cesare. Dal medesimo luogo pochi anni sono fu estratto un frammento di Tavola di bronzo, che ora appresso di me si conserva, e indica gli onori decretati dal Senato Romano a Druso Figliolo di Tiberio dopo la di lui morte: siccome cento anni prima fu estratto un frammento maggiore della medesima Tavola, che ho veduto nel Museo de’ bronzi antichi della Eccellentissima Casa Borghese. Bianchini si rese dunque conto che i tre frammenti di tavola bronzea rinvenuti nella stessa area in diverse occasioni appartenevano allo stesso manufatto17. I primi due, non combacianti tra di loro, erano entrati per tempo nella collezione Borghese, dove saranno segnalati solamente dal Maffei18 per poi finire, dopo vari passaggi, il primo alla Biblioteca Vaticana (CIL VI, 912a = 31200b) e il secondo (già in possesso di un canonico polacco, presso il quale fu visto dal Marini e in seguito segnalato dall’Amati ancora nel 1823) ai Musei di Berlino (CIL VI, 912c = 31200a)19. Il terzo frammento, rinvenuto apparentemente soltanto ai tempi di Bianchini, finì invece trasferito con le sue cose al Museo di Verona, dove lo vide Maffei e dove si conserva tuttora (CIL VI, 912b = 31200c) 20. 14 CIL VI, 4420, 4431-4435, cfr. anche 5188-5190. 15 PIR2, IV, 298-301, I634. 16 Bianchini 1727, 2-3. 17 CIL VI, 912 (p. 841, 3070, 4305, 4340) = CIL VI, 31200; Buonocore 1987, 32-37, n. 8; EDR105655. Lebek 1993; AE, 1993, 115. 18 Maffei 1749, 313, 1. 19 Registrato a Berlino già nelle schede del Kellermann prima del 1837 (CIL VI, 31200 ad loc.), era stato segnalato nel 1823 dall’Amati al Borghesi, che aveva avuto già modo di osservare anche il frammento poi passato al Vaticano quando era “in potere del cav. De Rossi”: Borghesi 1831. Distrutto durante la seconda guerra mondiale: Crawford 1996, 510-511. 20 Maffei 1749, 96, 3; Buonopane 2014, 4740. 840 Druso minore sulla via Appia a Roma Fig. 3. Ricomposizione dei frammenti dell’iscrizione bronzea CIL VI, 31200, b (Verona, Museo Maffeiano) e c (Musei Vaticani) (elaborazione V. Di Cola). I tre frammenti — riconsiderati da Mommsem e Bormann presso i Musei di Berlino, da De Rossi ed Huelsen presso la Biblioteca Vaticana e da Mommsen e Huelsen presso il Museo di Verona — sono stati accolti dunque in CIL VI, 912 e, con una diversa proposta di impaginazione, nei suoi Additamenta (CIL VI, 31200). Il frammento di Berlino (31200a) conserva una porzione iniziale della colonna destra, e i due frammenti combacianti, conservati ai Musei Vaticani e a Verona (31200b/c), una parte delle colonne sinistra e destra di un unico testo, inciso nel bronzo, relativo agli onori decretati dal Senato alla memoria di Druso, figlio di Tiberio, dopo la sua morte nel 23 d.C.21 21 PIR2, IV, 173-176, I219. 841 Daniele Manacorda Ligorio, come abbiamo visto, parla invece del rinvenimento del “cavallo di Germanico Cesare”, del quale non vi è peraltro alcuna citazione nel testo epigrafico. Il nome di Germanico Cesare compare comunque nel frammento veronese (912b = 31200c), dove non è traccia testuale riconducibile alla citazione ligoriana di un “cavallo”. Questa è invece presente alla l. 8 del frammento vaticano (912a = 31200b), dove è fatta menzione di una “statua eques(tris)”, a due sole righe di distanza dalla citazione di Germanico che si fa alla l. 10 del testo ricomposto dai due frammenti. Ciò implica che al momento della scoperta, di cui dobbiamo attribuire la prima testimonianza a Ligorio, il frammento maggiore (912a) si presentava ancora integro, o comunque ricomponibile, cioè comprensivo delle due porzioni poi giunte separate alla Biblioteca Vaticana e al Museo di Verona, sì da permetterne la lettura contestuale da parte di Ligorio (fig. 3), che avrà ritenuto di poter associare la menzione di una statua equestre a quella sottostante del nome di Germanico. Nella collezione Borghese ebbero ad entrare però sia il frammento 912a = 31200b che il frammento 912c = 31200a, poi passato a Berlino, ma non il frammento 912b = 31200c, che dobbiamo dunque ritenere abbandonato sul luogo di rinvenimento e lì rimasto sino al tempo del Bianchini, che dovette certamente perlustrare quei luoghi durante il suo soggiorno romano. A lui stesso dobbiamo infatti la registrazione nel 1722 di nove iscrizioni provenienti da una vigna presso l’arco di Druso22 sul lato sinistro dell’Appia, quindi nell’area che sarà da lì a breve occupata dalle vigne Sassi e Codini. Ligorio parla dunque esplicitamente di un “cavallo di Germanico”, alludendo implicitamente alla statua equestris citata nel testo epigrafico, ma non dà alcun indizio circa la eventuale presenza di qualche resto monumentale tra le “rovine delli sepulchri della via Appia, li quali erano di dentro della porta che si intitola di San Sebastiano”. L’iscrizione in bronzo doveva comunque essere stata eretta in relazione con una qualche memoria connessa alla figura di Druso minore. Da questo punto di vista gli indizi non mancano e sembrano essere di una certa consistenza, anche se — per il momento — evitiamo di prendere in considerazione la vistosa esistenza in loco del cosiddetto Arco di Druso, sulla cui pertinenza a Druso maggiore, zio di Druso minore, la critica è divisa, benché a me sembri che — specie dopo gli ultimi lavori di Valeria Di Cola23 — vi possano essere pochi dubbi circa la sua identificazione con l’arco marmoreo 22 Si tratta delle iscrizioni CIL VI, 10243, 11519, 13043, 14932, 15750, 18105, 23557, 27227, 27477, rinvenute “in vinea adhaerente arcui Drusi prope portam Capenam intra urbem sinistrorsum exeuntibus” (F. Bianchini, ms. Veron. 348, f. 109). 23 Di Cola 2010; 2017. 842 Druso minore sulla via Appia a Roma dedicato dal Senato sulla via Appia in onore di Druso dopo la sua morte nel 9 a.C. 24 Analogamente, lasceremo in disparte la vexata quaestio concernente l’attribuzione alla Porta Appia della cinta aurelianea o, in alternativa, ad una porta urbica di Ticinum (Pavia)25 della serie di dieci iscrizioni onorarie relative a membri della famiglia giulio-claudia, una delle quali dedicata a Druso minore26, registrate dall’Anonimo di Einsiedeln, che, se attribuibili effettivamente a quel tratto specifico della via Appia, lo qualificherebbero come un vero e proprio locus memoriae del gruppo, quali testimonianze, nell’viii secolo ancora in situ, di un possibile monumento onorario27. La mente va invece al celebre sepolcro, nelle cui numerose iscrizioni, raccolte in quello che fu il primo scavo antiquario condotto nell’area interna alla porta di San Sebastiano poco dopo la metà del xv secolo28, Theodor Mommsen riconobbe i materiali pertinenti ad un colombario29, quod videtur fuisse familiae liberorum Neronis Drusi 30, dei liberti cioè e dei servi dei figli di Druso maggiore (38 a.C. – 9 a.C.)31. I personaggi citati in molte delle iscrizioni risultano infatti variamente legati a diversi membri della famiglia imperiale giulio-claudia, ricordati in 38 iscrizioni, mentre in altre 17 è comunque attestato personale della domus Augusta32, con particolare riferimento alla discendenza di Germanico33. Anche la struttura compositiva delle iscrizioni testimoniate dal codice e 24 Suet., Cl. 1.3: marmoreum arcum cum tropaeis via Appia decrevit. 25 Bibliografia in De Spirito 1999. 26 CIL V, 6416, 2; ILS, 107. 27 Kleiner 1990; Rose 1990; contra Gabba 1990; Billanovich 1992/1993. 28 La fonte principale, cioè il manoscritto Marucelliano A79, f. 27r-44v, si data intorno al 1460: cfr. Ziebarth 1905, 214; Meloni 2012, 593 nota 3. 29 CIL VI, p. 899: “Titulos hos in uno monumento fere omnes fuisse apparet”. 30 CIL VI, 4327-4413, sezione Monumenta inter viam Appiam et Latinam intra moenia eruderata. 31 PIR2, II, 194199, C857. 32 Meloni 2012, 594. 33 I testi fanno riferimento a Livia, indicata già come Augusta (CIL VI, 4352, 4358, 4390), a Tiberio imperatore (4339, 4341, 4351, 4352, 4353, 4354, 4358, 4398, 4409), ad Antonia moglie di Druso, morta nel 37 d.C. (4327, 4332, 4350, 4365, 4383, 4387, 4402), a Germanico, Cesare dal 4 d.C. e morto nel 19 (4328, 4372, 4399, 4401), a sua moglie Agrippina (4387), morta nel 33, a Nerone Cesare, probabilmente il figlio di Germanico (CIL VI, p. 899; PIR2, IV, 187-189, I223.) morto nel 30 (4342, 4343, 4344), a Druso Cesare, probabilmente il figlio di Germanico piuttosto che di Tiberio (4337, 4349), a Caio Cesare futuro imperatore (4331, 4357), ad una delle tre Giulie figlie di Germanico, cioè Agrippina minore, Livilla o Drusilla (4352), a Livia moglie di Druso Cesare e nuora di Tiberio, morta nel 31 (4349) e infine a Claudio prima della nomina ad imperatore (4334, 4338, 4340, 4345, 4346, 4348, 4356, 4359, 4376). Compaiono inoltre dieci 843 Daniele Manacorda l’aspetto esteriore delle lastre verificabile nei casi superstiti34 operano in favore della provenienza da un contesto relativamente unitario, che rinvia ad una datazione compresa fra il primo e il secondo quarto del i secolo d.C.35 Una analisi complessiva dei materiali trascritti nel Codice Marucelliano A79 indica come del tutto plausibile che gli scavi dovettero imbattersi anche in altri sepolcri singoli o collettivi36, ma ciò non toglie peso all’indicazione di un preciso contesto di ritrovamento, cioè iuxta moenia urbis inter portam Apiam et Latinam in quodam loco quadrangulato ubi quam plurima reperiuntur epitaphia e che il compilatore della raccolta abbia visto di persona o abbia avuto dirette informazioni sul contesto dal quale stava registrando i reperti: se ne ricava dunque l’impressione che l’eventuale appartenenza di altri materiali ad un contesto diverso dal locus quadrangulatus sarebbe stata esplicitamente notata37. È assai probabile che il colombario della familia di Druso fosse stato messo in luce attorno al 1460 in una delle vigne che fiancheggiavano la via Appia sul lato sinistro subito prima di Porta San Sebastiano, destinate a far parte dalla metà del xviii secolo della futura vigna Codini38. Quello stesso areale doveva essere già stato perlustrato da Ciriaco de’ Pizzicolli39, se dal suo apografo dipende la trascrizione che leggiamo nel Codice Vallicelliano40 di un vetustum epitaphium nuper inventum via Appia fere ad urbis muros, che attesta la prepersonaggi, che si definiscono Germaniciani, passati dunque dopo la morte di Germanico a Tiberio o ai suoi figli (4337, 4339, 4341, 4344, 4351, 4353, 4357, 4398, 4409). 34 Si tratta delle iscrizioni CIL VI, 4329, 4345, 4348, 4353, 4356, 4357, 4360, 4362, 4380, 4383, 4396, 4400 conservate presso i Musei Vaticani. L’iscrizione CIL VI, 4403 è conservata al Museo di Bologna insieme con una sua copia (CIL XI, 101*, 153-154). 35 Manacorda 1978/1979. 36 Meloni 2012, 598 giunge a ipotizzare l’eventualità che il codice raccolga in questa sezione “iscrizioni provenienti da aree e monumenti diversi, sebbene comunque relativamente prossimi, posti lungo tutto il primo tratto della via Appia, dall’attuale Porta San Sebastiano fino alla basilica omonima” e addirittura che si tratti complessivamente di “epigrafi sparse sul terreno” piuttosto che pertinenti “ad uno o due edifici”. 37 L’indicazione è registrata nel f.27r del codice Marucelliano, che trascrive anche la prima iscrizione del gruppo (4385). A questa fanno seguito al verso del foglio altre quattro iscrizioni introdotte dal più semplice “eodem loco in quodam alio marmore” e poi dal solo “in alio marmore”, evidentemente riferibili allo stesso contesto. Dal f. 29r si susseguono gli altri epitaffi, tutti preceduti, fino al f. 43r, dall’indicazione “in alio marmore”, che il CIL assegna infatti al locus quadrangulatus. Che quella sia la loro pertinenza, almeno nelle intenzioni del compilatore della silloge, appare evidente dal fatto che nei fogli successivi (f. 43v-44r) segue il testo di una iscrizione (CIL VI, 4410), che è preceduta dall’indicazione “eodem loco sed in alio quodam tumulo in fronte huius tumuli / in quodam marmore hoc reperitur e pitaphium”. 38 Da ultimo cfr. Manacorda 2016 e 2017. 39 Ciriaco visitò la città nel 1424 e poi di nuovo tra il 1432 e il 1433 (CIL VI, xl-xli). 40 Cod. Vallicell. G 47, f. 42bis, che trascrive Ciriaco (CIL VI, xli). 844 Druso minore sulla via Appia a Roma senza di un sepolcro relativo a personaggi dell’entourage di Druso Cesare, secondo figlio di Germanico. Il testo (CIL VI, 944941) ricorda infatti un liberto di M. Lepido, Pudens, che si definisce grammaticus e procurator di Lepida nonché sua guida morale (moresque regebam), sì che, fintanto che lui visse, Lepida restò nuora di Cesare, cioè di Tiberio. A l. 4 è il nome del dedicante, Philologus discipulus. Si tratta con grande probabilità dello stesso Ti. Claudius Augusti lib. Philologus ab epistulis che dedica la tomba alla moglie Decimia L.l. Liberalis e al suo primo marito M. Aemilius Felix, che si definisce a sua volta liberto di un M. Lepido, che conosciamo da un’altra iscrizione (CIL VI, 8601.8602)42 conservata alla fine del secolo xv nella collezione Porcari, formatasi a partire dai rinvenimenti effettuati nella vigna posseduta da quella famiglia sul lato destro della via, di fronte a quella dove era stato da poco scavato il citato locus quadrangulatus43 (fig. 7, 2). Sembra quindi assai plausibile che le due iscrizioni — databili almeno all’età di Claudio quella della Collezione Porcari, l’altra a partire dalla tarda età tiberiana - provengano dallo stesso areale della via Appia fere ad urbis muros, se non addirittura dallo stesso sepolcro; e siano ricollegabili a Emilia Lepida, figlia del M. Lepido cos. 6 d.C., sposa di Druso Cesare, secondo figlio di Germanico44. Sempre in questo stesso areale interno alla cinta aureliana abbiamo notizia, sin dal 1547, di nuovi ritrovamenti epigrafici e della messa in luce di gran quantità di sepolcri segnalati ancora da Pirro Ligorio, che riferisce in particolare di un monumentum familiae Liviae Augustae, sulla cui consistenza edilizia è legittimo dubitare45. Dagli stessi paraggi proviene comunque anche l’iscrizione CIL 41 CIL VI, 9449 (p. 3470, 3895) = CIL V, 592*; ILS, 1848; AE, 1999, 24: Pudens M(arci) Lepidi l(ibertus) grammaticus / procurator eram Lepidae moresq(ue) regeban / dum vixi mansit Caesaris illa nurus / Philologus discipulus. Per la sua presenza nella collezione di antichità di Pomponio Leto cfr. Magister 1998, 181, n. 38. 42 CIL VI, 8601.8602; AE, 2000, 132: [Dec]imiae L(uci) l(ibertae) / [Li]berali / [Ti(berius) C]laudius / [Au]gusti lib(ertus) / [Phil]ologus / [ab epist]ulis uxori / [in ho]norem // M(arco) Aemilio / Lepidi lib(erto) / Felici / nomenclatori / viro priori / Decimiae L(uci) l(ibertae) / Liberalis. Il marmo è conservato ai Musei Vaticani (Gall. Lap. Off. II; Di Stefano Manzella 1995, 221, n. 43). 43 Manacorda 2017, 90-93. 44 Se M. Lepido è il console del 6 d.C. (PIR2, I, 60-61, A3619), Lepida può essere la figlia che sposò Druso Cesare, figlio di Germanico (PIR2, I, 71, A421; Raepsaet-Charlier 1987, 51-52, n. 30). Incriminata da Seiano per adulterio si uccise nel 33 (Tac., Ann. 4.60.2; 6.40.3). La dedica sepolcrale di 9449 sembra dunque conoscere già gli esiti “immorali” della vicenda di Lepida, tenendoli separati da quello che era stato il compito svolto da Pudens. 45 Sulla complessa esegesi del cosiddetto“colombario ligoriano” cfr. Balistreri 2017. Il sepolcro, che Ligorio definisce monumentum familiae Liviae Augustae, anche qualora fosse mai esistito nella forma rappresentata da Ligorio, restituiva materiali epigrafici solo parzialmente 845 Daniele Manacorda VI, 2668046, riportata due volte nel Codice napoletano XIIIB8, dove Ligorio aggiunge alla localizzazione del rinvenimento (“prima che si arrivi alla Porta di san Sebastiano, dentro de li muri della città”) una nota che colloca la scoperta nel tempo “a questi giorni”, contestualizzandola nello spazio “ove sono stati i sepolchri delli liberti d’Augusto”47, ovvero — come si legge in altra parte del codice — “certi belli sepolchri pieni di molti epitafij di liberti, tra i quali vi si leggeno quelli de la fameglia di Livia Drusilla moglie di Augusto”, di cui tratteggia un elenco distinguendo analiticamente per mansioni gli schiavi e le schiave di Livia dagli schiavi di Augusto48. L’elenco è preceduto dai disegni di tre iscrizioni accompagnate dalla seguente didascalia: Ne la Via Ardeatina, ciò è dentro della Porta di San Sebastiano, a questi giorni sono stati spianati almeno vinti tempietti da sepolchri, da li quali sono state tolte molte inscrittioni, parte intere et parte rotte et le megliori d’esse n’ho posta qui la copia: le quali sono di diversi sepolchri. Fig. 4. Trieste, Musei civici, iscrizione CIL VI, 21415. riferibili alla familia di Livia, accanto a testimonianze molto diversificate, estranee all’ambiente di corte augusteo. 46 L’iscrizione, già inserita tra le falsae Ligorianae 2769*, è stata riabilitata in CIL VI, 26680; cfr. CLE, 1173 (passata in casa Maffei, è andata in seguito perduta). 47 Cod.Neap. XIIIB8, f. 168v; Orlandi 2009, 219: truovata a questi giorni, scritta in una tavoletta di marmo, pria che si arrivi alla Porta di san Sebastiano, in Via Appia, dentro de li muri della città; f. 214r; Orlandi 2009, 283: ove sono stati i sepolchri delli liberti d’Augusto. 48 Cod.Neap. XIIIB8, f. 224v-225r; Orlandi 2009, 299-301. 846 Druso minore sulla via Appia a Roma Si tratta in particolare delle iscrizioni CIL VI, 13992, che Ludovicus Budaeus annota già presso il card. Cesi nel 154749, 2015050, poi passata a Villa Giulia51, e 2141552. Quale fosse, fra i venti e più sepolcri “spianati” in quella circostanza, quello che Ligorio identifica con il monumentum familiae Liviae Augustae non è dato sapere, ma l’iscrizione 21415 (fig. 4), autentica e conservata tuttora, ci dà indubbia testimonianza dell’esistenza effettiva del sepolcro e della sua consistenza architettonica. Si tratta di una lapide di dimensioni cospicue, adatta a comparire bene in vista sulla fronte del sepolcro cui apparteneva. Il testo (Ex domo / Caesarum et / Liviae / libertorum et servorum) presenta problemi esegetici relativi alla identificazione dei due Cesari cui si fa riferimento, variamente identificati con i nipoti di Augusto, Gaio e Lucio53, con Tiberio, Druso e Germanico54 o con generici rappresentanti della casa imperiale augustea55. In realtà, l’esplicita menzione di Livia ancora con il gentilizio dismesso dopo l’assunzione del nome di Iulia Augusta, che indica una datazione precedente il 14 d.C., permette di identificare preferibilmente nei Caesares nominati dal testo sia il figlio stesso di Livia, Tiberio56, che assunse il nome di Tiberius Iulius Caesar in occasione della sua adozione da parte di Augusto nel 4 d.C., sia suo figlio Druso minore57, che assunse nella stessa circostanza il nome di Drusus Iulius Caesar, sia anche lo stesso Germanico58, nipote di Tiberio e cugino di Druso, che per volere di Augusto venne a sua volta adottato da Tiberio assumendo il nome di Germanicus Iulius Caesar59. L’iscrizione si data dunque verisimilmente al decennio 4-14 d.C. e riguarda il sepolcro della famiglia dei servi e liberti di personaggi direttamente legati alla discendenza di sangue di Livia60. 49 Metellus, Vat.lat. 6039, f. 254 (l’iscrizione è perduta). 50 L’iscrizione è perduta. 51 Riprodotta anche in Cod.Neap. XIIIB8, f. 91v; Orlandi 2009, 89. 52 CIL VI, 21415 (p. 3526, 3916); ILS, 117. Il marmo pochi anni dopo il suo rinvenimento fu segnalato sulla facciata di una casa in via del Corso, passato il cosiddetto Arco di Portogallo, sulla destra in direzione della Piazza del Popolo; attualmente è conservato presso i Civici Musei di storia e arte di Trieste: Mainardis 2004, 92-93, n. 39 (n. inv. 13868); cm 116 x 74 x 13 (ricomposta da più frammenti) . 53 Chantraine 1967, 36. 54 Bormann 1890, 105-111. 55 Sul tema cfr. Fishwick 1987, 231-234. 56 PIR2, II, 219-225, C941. 57 PIR2, IV, 173-176, I219. 58 PIR2, IV, 178-185, I221. 59 Fonti principali: Suet., Tib. 15; Cass. Dio 55.13. 60 Alla stessa conclusione giunge già Bormann 1890, in part. 109-111, che include anche Augusto nel novero dei Caesares. 847 Daniele Manacorda Per quanto riguarda l’areale di provenienza un altro testo epigrafico mutilo (CIL VI, 5818), raccolto nel 1726 in quella che sarebbe diventata da lì a venti anni la Vigna Codini, può fornire qualche indizio (fig. 5). Il marmo è perduto, ma ne restano un bel disegno del Ghezzi ed un appunto del Gori61, che confermano la lettura proposta dal CIL VI: Ex d[omo] / Caesarum [---] / libertorum [et servorum] / qui in hoc m[onumentum] / contuler[unt ---] / nomine T[---]. Il CIL non propone l’integrazione della lacuna a l. 2, che sulla base del testo di 21415 potrebbe essere supplita con [et Liviae], integrazione che comporterebbe una datazione alla tarda età augustea62. La lacuna presente a l. 6 è di più incerta integrazione63. Per la T testimoniata dal Ghezzi appare difficile ipotizzare un rapporto con i tabernacularii citati in altre due iscrizioni, che sono state già messe in relazione con 2141564, generando talora qualche confusione rispetto al contesto di pertinenza del marmo65. Le iscrizioni 9053 (domo Caesarum / libertor(um) et servor(um) / quod est collegi /tabernaclariorum) e 9053a (Ex domo Caesarum / libertorum et / servor(um) cot(!) est / collegi / tabernaculariorum), note entrambe a partire dalla seconda metà del xvi secolo, sono di incerta provenienza. La prima, incisa su di una lastra di dimensioni ragguardevoli (cm 74 x 37), si conserva al Museo di Bologna, l’altra, di dimensioni più ridotte (cm 56 x 28), in quello di Napoli66. I due testi richiamano nella prima parte la formula Ex domo Caesarum presente nell’iscrizione 21415; se ne discostano invece nella seconda parte, nella quale Livia non è citata67. Nonostante alcune divergenze, la somiglianza dei testi, la cui provenienza dall’areale della futura vigna Codini appare probabile, fa presumere che le due lastre appartenessero 61 Ghezzi 1731, tav. XXXVI; Id. Roma, Biblioteca Angelica, ms. 2136, f. 34 e 118; Gori, Cod. Marucel. A6, 142. Il Gori trascrive il frammento già parzialmente mutilo dell’angolo inferiore destro. 62 Cfr. già Bormann 1890, 107-108. La datazione alla tarda età augustea è avvalorata, ma non certo provata dall’uso della I longa (Ricci 1992, 7-8) alla l. 3 del testo, ben documentata dal disegno del Ghezzi e analoga a quella attestata in 21415. 63 Bormann 1890, 108 nota 6 supplisce nomine t[utelae] in base a CIL VI, 1896; cfr. anche CIL VI, 21771 (qui ad id tuendum contulerunt). 64 Bormann 1890, 110-111. 65 Nonostante la didascalia di Ligorio, l’iscrizione è stata attribuita al complesso del celebre Colombario dei servi e liberti di Livia al II miglio della stessa Via Appia (Mainardis 2004, 92), con il quale non sembra però aver nulla a che fare. 66 ILMN 2000, 94 n. 112. 67 Bormann 1890, 111 le riferisce per questo motivo ad una data posteriore alla morte di Augusto, ma forse l’esclusione del nome di Livia può dipendere dal collegamento dei due testi con il collegium tabernaculariorum. 848 Druso minore sulla via Appia a Roma Fig. 5. Pier Leone Ghezzi, copia dell’iscrizione CIL VI, 5818; Roma, Biblioteca Angelica, ms. 2136, f. 118, dettaglio. allo stesso contesto monumentale e topografico, ma non necessariamente a quello al quale apparteneva l’iscrizione relativa ai servi e liberti anche di Livia68. Le iscrizioni 21415 e 5818 sembrano comunque riferirsi ad un complesso, al quale potrebbe essere riconnesso in via di ipotesi un terzo marmo frammentario, che reca l’iscrizione CIL VI, 4420 (fig. 6), oggi conservato presso il Secondo Colombario Codini, ma del quale si ha traccia solo a partire dalla segnalazione che ne fece lo Henzen a qualche anno di distanza dal ritrovamento del sepolcro69. Contrariamente all’integrazione proposta dubitativamente dal CIL alla 68 Conosciamo assai poco del collegio dei tabernacularii, di cui l’iscrizione CIL VI, 9054 = 33759; ICVR IX, 25069, proveniente dal cimitero di Priscilla sulla via Salaria, cita un praepositus. È quindi rilevante constatare che l’unico altro praepositus noto è attestato proprio da un’iscrizione, databile al ii secolo avanzato, che proviene dal Terzo colombario della Vigna Codini (CIL VI, 5339: dicuntur reperti intra monumentum, dubitamus num recte; nunc sunt affixi ad muros externus; ma la pertinenza del marmo al contesto è avvalorata dalla sua trascrizione ancora all’interno del colombario registrata in Archivio di Stato di Roma, Camerlengato, Parte II, Titolo IV, b.212, f. 1460. 21 luglio 1852. “Descrizione del colombario ultimamente scoperto nella vigna Codini, colle iscrizioni, e gli altri oggetti quivi esistenti nel Luglio 1852”, n. 143. Rivestimento orizontale. Iscrizione mossa e frammentata [5339]. Vi è posto un teschio e frammenti di pilastrini e di piccole cornici). Dallo stesso sepolcro giunge peraltro anche l’iscrizione CIL VI, 5138b di C. Iulius Chrysantus aedituus collegi tabernac(u)lariorum, tutt’ora in situ ed anch’essa databile al pieno ii secolo. 69 Henzen 1856, 14, 39; CIL VI, 4420: [---]arum / [---]et servor(um) / [---]harop(inus) ad byblio/[tecam ---]ius Hyacintus / [---e]t puteum. Il marmo conserva solo sul lato destro un segmento della cornice costituita da un listello e da una gola rovescia; il campo epigrafico restituisce le parti finali di cinque righe di scrittura, a caratteri maggiori la prima, minori la seconda e ancor minori le altre tre. 849 Daniele Manacorda l. 1 ([?Libertorum et libert]arum), è plausibile che le quattro lettere superstiti costituiscano la parte finale del termine [Caes]arum e che l’integrazione libertor(um) vada invece supplita nella parte mancante della l. 2. Questa lettura implica la probabile perdita della prima riga originaria del testo, che andrebbe integrata con la formula Ex domo, in analogia a quanto già visto nelle iscrizioni 21415 e 5818. I personaggi che seguono, ai quali si deve probabilmente attribuire l’offerta di alcuni benefici al collegio funerario di appartenenza, tra cui l’allestimento di un puteum, dovrebbero pertanto appartenere alla familia imperiale ed essere di condizione libertina. Fig. 6. Roma, Secondo colombario Codini, iscrizione CIL VI, 4420. Il riconoscimento in 4420 di una ulteriore attestazione epigrafica relativa a un sepolcro dei servi e liberti della casa imperiale non implica che le iscrizioni 21415, 5818 e 4420 dovessero necessariamente appartenere tutte al medesimo contesto, anche se l’ipotesi non può essere scartata. È comunque verisimile che i diversi edifici, uno dei quali sulla scorta di Ligorio potremmo definire come monumentum familiae Caesarum et Liviae, sorgessero nelle immediate vicinanze gli uni degli altri, verisimilmente tutti sul lato sinistro della via Appia subito prima delle mura. C’è anzi da domandarsi se questo sepolcro direttamente riferibile all’entourage di Livia e della sua discendenza di sangue (il figlio Tiberio, il nipote Druso minore e l’altro nipote Germanico, figlio di Druso maggiore) non possa essere identificato con il già ricordato colombario quod videtur fuisse familiae liberorum Nerosi Drusi, i cui materiali vennero recupe- 850 Druso minore sulla via Appia a Roma rati nella stessa zona nel xv secolo, tanto da potersi congetturalmente supporre che l’iscrizione 21415 ne rappresentasse l’insegna. Riepilogando, la presenza di questi sepolcri facenti capo alla dinastia regnante si può collocare in un tentativo di lettura ricostruttiva delle proprietà terriere di quel settore urbano in età augustea, che non possiamo sviluppare in questa sede, ma che può giovarsi di una serie concomitante di indizi non trascurabili, che fanno corona all’indizio suggerito dalla lastra bronzea relativa agli onori attribuiti a Druso minore. In quel tratto del primo miglio della via Appia, non ancora cinto dalle mura aureliane, e dalla cui sommità, passato l’antico sepolcro degli Scipioni, si scorgeva a breve distanza la mole del tempio di Marte affacciato sulla valle dell’Almone70, si erano infatti addensate proprietà e memorie dei nuovi padroni dell’impero: il sepolcro della familia di Livia e dei suoi figli e nipoti, il sepolcro della familia delle due Marcelle, figlie della sorella di Augusto, Ottavia minore, ed anche le memorie relative a membri della familia di Antonia minore71, figlia anche lei di Ottavia72, nuora di Livia e esempio di virtù vedovile dopo la morte del marito Druso maggiore73. Si intravede così un vasto areale, dove le memorie pubbliche presenti sulla via si affiancavano a quelle private presenti nei terreni adiacenti, che dovevano in diversa misura essere entrati a far parte delle proprietà dei vari rami della famiglia imperiale. Un cippo rinvenuto nel corso degli scavi della via Imperiale, ma non posizionabile in pianta, indicava il confine fra gli horti di Asinia Quarta74 e quelli di Druso Cesare75. L’area (un fronte di oltre 60 metri da un lato e di oltre 20 dall’altro) è di modeste dimensioni, forse riferibili ad un contesto sepolcrale, ma quel che qui interessa è il fatto che i due vicini non erano certo 70 Coarelli 2006; Dubbini 2015. 71 Locus quadrangulatus: CIL VI, 4327, 4361, 4387 (sulle quali cfr. p 3416; AE, 2012, 181), 4402 (AE, 2012, 181). Secondo colombario Codini: 4563, 4693. Scavi Ferrua presso il Secondo Colombario Codini: AE, 1975, 25. Tra Appia e Latina 1731/33: 19475. Si segnalano anche alcuni materiali a villa Corsini a Firenze (CIL VI, 8817, 24944, 29624), forse riferibili agli anni degli scavi documentati da J.-J.Bouchard nel 1639/41 presso Porta San Sebastiano, su cui cfr. Manacorda 2000. Andrebbe inoltre approfondita la presenza di iscrizioni che citano servi di Antonia Drusi nelle collezioni Guicciardini e Ricciardi a Firenze (CIL VI, 9065, 24944, 29624; 22895) e un tempo nella collezione Orsini a Monte Giordano a Roma (CIL VI, 14051, cfr. p. 3514; Lanciani 1902, 114). 72 Manacorda 2013. 73 PIR2, I, 172-173, A885. Una volta vedova di Druso Maggiore, la donna si era trasferita presso la casa di Livia, sua suocera: Val. Max., 4.3.3; Ios., Ant. 18.180. 74 Assente in PIR2 e in Raepsaet-Charlier 1987. 75 Avetta 1985, 255-256: ------ / Asinia[e] / Quart[ae] / L(atum/-ongum) p(edes) CCI // ----- / Drusi / [C]aesar(is) / L(atum/-ongum) p(edes) LXIX. Druso Cesare è identificabile con il figlio di Tiberio, cioè Druso minore, anche se non è possibile escludere con certezza che potesse trattarsi del figlio di Germanico. 851 Daniele Manacorda degli estranei: Druso era infatti figlio di primo letto di Vipsania Agrippina, poi moglie di C. Asinio Gallo76, e quindi fratellastro di Asinio Salonino, che morirà nel 22, un anno prima di lui77. Gli horti Asiniani, già di C. Asinio Pollione e poi del figlio Gallo78, si stendevano lungo la Via Appia probabilmente nella fascia di confine fra la regio I e la XII e furono poi assorbiti dai possedimenti imperiali79, se su una parte almeno della loro estensione sorsero le terme Antoniniane80. Non se ne conosce lo sviluppo verso meridione tra il tracciato della via Appia e quello della Via Ardeatina81, che possiamo però ricercare seguendo le tracce del sepolcro collettivo della loro familia di servi e liberti. Infatti, se non possiamo localizzare con precisione il cippo di Asinia Quarta, è tuttavia assai verisimile che il sepolcro dei servi e liberti degli Asinii sorgesse non lontano dall’area di cui ci stiamo interessando, e più in particolare nella porzione di terreno estesa approssimativamente dirimpetto all’area del Sepolcro degli Scipioni. Molti materiali pertinenti a quel colombario (perduto ma ricco di iscrizioni) furono infatti schedati da J.-J.Bouchard alla metà del ’600 senza indicazione di provenienza82; ma altre epigrafi, probabilmente pertinenti allo stesso contesto, furono dissepolte già all’inizio del ’500 nella vigna del medico Giovanni da Macerata sulla via Appia: un terreno che solo di recente abbiamo potuto localizzare verisimilmente all’interno di quella che poi diventerà la vigna Moroni83 (fig. 7, 4). La cartografia dei confini delle vigne moderne riportata sulla pianta del Nolli (1748) potrebbe addirittura aver cristallizzato, nel viale che divide in due le proprietà della futura vigna Moroni, poi unificate nel corso del Cinquecento, o lungo il limite che separerà in seguito la vigna Moroni dalla attigua vigna Casali84, quello che forse era stato un confine assai più antico, che separava molti secoli prima le proprietà della grande famiglia senatoria da quelle della regnante casa giulio-claudia85. 76 PIR, III, 443, V462; Raepsaet-Charlier 1987, 632-634, n. 811. Cfr. anche CIL VI, 40321; AE, 1985, 50; AE, 1992, 182, su cui Granino Cecere 2001; e CIL VI, 41068; AE, 1992, 184. 77 PIR2, I, 256, A1253. 78 PIR2, I, 245-249, A1229. 79 Forse già dopo la morte di Asinio Gallo nel 33 d.C. 80 Frontin., aq. 21; Lanciani 1901, tav. 42; Grimal 1984, 157; Avetta 1985, 255-256; La Rocca 1998, 237; Chioffi 1996; Bariviera 2012, 379 (XII 176). 81 Per un tentativo di localizzazione cfr. Carandini, Carafa 2012, tav. 153. 82 Manacorda 2000; 2016, 363-364. 83 Manacorda c.s.. 84 Nell’Archivio Casali (Tomo L, 549: non consultato) è conservata una dissertazione sugli Horti Asiniani che li localizza in quella stessa vigna (Santolini Giordani 1989, 66), confinante con la vigna Moroni sul lato sia sud che ovest. 85 Cfr. in proposito la breve analisi degli allineamenti confinari prospettata in Maira 2010, 80. 852 Druso minore sulla via Appia a Roma Fig. 7. Planimetria ricostruttiva dell’area della via Appia interna alle mura con i nomi degli enfiteuti o affittuari presenti nel 1510, seguiti dai nomi dei possessori al tempo di Pirro Ligorio attorno alla metà del xvi secolo (elaborazione V. Di Cola-D. Manacorda). 1) Sito dove verrà scoperto il Secondo Colombario Codini nel 1847; 2) sito della vigna Porcari tra xv e xvi secolo; 3) sito della fondazione in blocchi di tufo e travertino vista nel 1931; 4) indicazione approssimativa del sito dove sorgeva il sepolcro dei servi e liberti degli Asinii. Queste variegate presenze, che indicano una salda proprietà patrimoniale in quel tratto strategico della più prestigiosa via sepolcrale dell’immediato suburbio romano, possono gettare maggiore luce sulla motivazione della erezione esattamente in quel luogo di un monumento votato dal Senato in memoria di Druso maggiore nel 9 a.C. ed anche della possibile esistenza di un più comples- 853 Daniele Manacorda so apparato destinato a onorare le glorie della famiglia giulio-claudia mediante la serie di dediche registrate “in porta papia” dall’Anonimo di Einsiedeln86. Di che cosa poteva mai trattarsi? Contestando l’attribuzione a Ticinum delle dieci dediche onorarie riportate dall’Anonimo, Lucos Cozza aveva attirato l’attenzione su di una fondazione in blocchi di tufo e travertino vista nel 1931 in un sondaggio condotto tra l’Arco “di Druso” e la Porta San Sebastiano, che aveva dubitativamente assegnato “ad un monumento di età augustea”87 (fig. 7, 3). Lasciamo all’esame di Valeria Di Cola l’analisi del complicato contesto, che dovette certamente svilupparsi in questo tratto della via Appia prima e dopo l’erezione delle mura. Qui possiamo tentare di mettere a frutto alcuni indizi presenti nel testo — pur assai mutilo — dell’iscrizione bronzea da cui ha preso le mosse questa ricerca, per segnalare che le onoranze previste dal Senato in memoria di Druso minore dopo la sua morte nel 23 d.C.88 prevedevano onori ancor maggiori di quelli decretati per la morte del fratello adottivo Germanico89: tra questi era menzionata anche anche una statua a cavallo (fr. b/c, col. I, ll. 9-10: statua eques[tris]90), in un contesto al quale, analogamente a quanto era già stato prescritto in memoria dello zio Druso maggiore (l. 11-12: --Ge]rmanici Caesaris d[e]dica[retur --- Neronis Drusi Germani]ci patrui eius), non era estraneo un carattere funerario91. Il decreto del Senato prevedeva anche certamente l’erezione di un arco (ianus?92). La sua menzione doveva trovarsi prima delle prime quattro righe superstiti del decreto e fare riferimento, analogamente a quanto disposto per Germanico, ad un sito provinciale, forse nell’Illirico93. Ma questo arco non era il primo della lista, che doveva probabilmente citarne altri due, almeno il pri- 86 A queste dediche, o a qualche monumento ad esse correlato, apparteneva forse anche il blocco iscritto inserito nella muratura esterna della Porta San Sebastiano, nel quale si riconosce la scritta: NERON (Di Cola 2017b, che corregge la lettura NEPOS a suo tempo proposta dal Lugli e ripresa dal Richmond: Richmond 1930, 130). 87 Cozza 1990. 88 Tac., Ann. 4.7.11; Suet., Tib. 39; 62.1; Dio, 57.22.1-3. 89 Tac., Ann. 4.9.2: memoriae Drusi eadem quae in Germanicum decernuntur, plerisque additis, ut ferme amat posterior adulatio. 90 Statuae equestres, in questo caso di avorio, erano previste negli onori decretati in occasione della morte di Germanico e testimoniati dalla Tabula Siarensis (AE, 1991, 20, in part. p. 20). 91 Il testo allude a cerimonie di parentatio (l. 5-6: publice facerent re]m divinam paren[tantes), che nel decreto per gli onori conferiti a Germanico dopo la sua morte nel 19 d.C. sono riferite ad ambiente provinciale (Lebek 1989, 90). 92 Sul concetto di ianus cfr. Lebek 1991b, 58-61. 93 Anche sulla base di Tac., Ann. 2.83 relativo agli onori decretati per Germanico (Lebek 1989, 84-91; AE, 1991, 20, in part. p. 22). 854 Druso minore sulla via Appia a Roma mo dei quali da erigersi a Roma94, in luogo a noi sconosciuto, ma certamente esplicitato nel decreto95. Dell’arco romano eretto in memoria di Druso minore non abbiamo testimonianza diretta nel testo epigrafico bronzeo superstite96; resta però — come noto — nei Fasti Ostienses la citazione di un arcus Drusi dedicato nel 30 d.C.97, che ci permette di confermarne l’esistenza in Roma stessa, sia pure in luogo imprecisato98. Se, in analogia al decreto in onore di Germanico, anche Druso ricevette l’onore dei tre archi99, due dei quali da erigersi forse in Roma stessa, a titolo esclusivamente congetturale sarebbe interessante valutare la possibilità che uno degli iani eretti in onore di Druso minore sorgesse a breve distanza da quello dello zio, decretato dal Senato nel 9 a.C. sulla via Appia. Di questo possibile o presunto arco di Druso minore via Appia non abbiamo traccia alcuna, né ce ne restituiscono il ricordo i Cataloghi regionari, che nel iv secolo attestano la presenza in loco di tre soli archi dedicati a Druso, Traiano e Lucio Vero100. Non è, dunque, se non pura congettura che il monumento in onore di Druso minore potesse sorgere eventualmente sulla linea stessa di quelle mura, che a 250 anni dalla sua erezione ne avrebbero comportato la distruzione101, dopo che quel fornice avrebbe potuto fors’anche svolgere il ruolo di porta del dazio, come altre porte del confine urbano preaurelianeo102. In conclusione, al di là di queste fantasiose congetture, il “cavallo di Germanico” certamente non fu visto né da Ligorio né da altri antiquari prima e dopo di lui, ma questi ebbero invece tra le mani ciò che restava di un’iscrizione in bronzo, che era la porzione superstite di un cippus aeneus decretato dal Senato103 per la morte di Druso minore. L’iscrizione doveva essere esposta lungo la via Appia in un luogo carico di memorie legate alla famiglia di Livia, dei suoi figli e nipoti, fors’anche in relazione con una statua equestre dello stesso Druso, i cui onori postumi investivano anche la cerimonia della transvectio equitum, che annualmente prendeva le mosse proprio da quel tratto della via Appia che 94 Druso era stato già onorato insieme con Germanico tramite l’erezione di due archi nel Foro di Augusto ai lati del tempio di Marte Ultore (Tac., Ann. 2.64.1; CIL VI, 911 = 31199; De Maria 1988, 276-277; Alföldy 1992, 101-110; La Rocca 1994, in part. 85-86. 95 Lebek 1991b, 55. 96 De Maria 1988, 111, 279 n. 66 ; Palombi 1993. 97 Degrassi 1947, 187, l. 9-10: IIII Idus Mart. arcus Dru[si] / dedicatus; Vidman 1982, 13, 36. 98 Bargagli, Grosso 1997, 26 lo collocano nel Foro di Augusto. 99 Lebek 1989, 87. 100 Valentini, Zucchetti 1940, 91, 165; Nordh 1949, 74. 101 A differenza dell’antistante arco di Druso, ormai trasformato in fornice dell’aqua Antoniniana diretta alle terme di Caracalla. 102 Lanciani 1892. 103 Reintegrato a l. 4 del fr. a del SC sulla base della analoga citazione presente nella Tabula Siarensis (AE, 1991, 20, in part. p. 16). 855 Daniele Manacorda collegava il Tempio di Marte alla città (CIL VI, 31200, fr. b/c, col. II, l. 11-1: Utique clupeus argenteus c[um imagine Drusi Caesaris praeferretur equitibus Romanis, cum transvehe]rentur Idib(us) Iul(iis))104. Quale che essa fosse, questa memoria potrebbe essere stata elevata in quel sito proprio dirimpetto all’arco sormontato dalla statua equestre dello zio, certamente esistente e a noi meglio nota grazie alle emissioni monetali di Claudio che ce ne conservano l’immagine105. Abbreviazioni bibliografiche Alföldy G. 1992, Studi sull’epigrafia augustea e tiberiana di Roma, Roma. Avetta L. 1985, Roma – Via Imperiale, Roma. Balistreri N. 2017, Il columbarium ligoriano tra epigrafia, archeologia e codicologia, in Manacorda D., Balistreri N., Di Cola V. 2017, 129-150. Bargagli B., Grosso C. 1997, I Fasti Ostienses. Documento della storia di Ostia, Roma. Bariviera C. 2012, Regione XII. Piscina Publica, in Carandini A., Carafa P. (a cura di), Atlante di Roma antica, 1, Milano, 375-387. 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Many of them were found in the second half of 18th century during the rule of duke Ferdinando di Borbone and his minister Guillaume Du Tillot, and considered not only historical documents, but also a contribution “al maggiore decoro del paese”. Further finds occurred in the following centuries allowing documentation of a varied and constant re-employment of materials. Non c’è tempo, né luogo senza riutilizzo di reperti antichi. La loro scoperta è, per così dire, una storia in fieri, in continua evoluzione, che rende difficile un bilancio o una classificazione del fenomeno. Anche a Parma il recupero, per lo più casuale, di antiche pietre riutilizzate in impieghi impropri e per questo non identificate per secoli, è frequente ancora ai giorni nostri. L’ultimo eccezionale rinvenimento, risale alla fine del 2009, quando lavori di ordinaria manutenzione nel pavimento del Duomo hanno permesso di ritrovare due lastre medievali scolpite, di grande importanza: una, in marmo bianco e 1 Cfr. Santoro 2009, 501; come esemplificazione del fenomeno, in questo contributo sono esaminati alcuni recuperi, di differente periodo e tipologia, effettuati prevalentemente a Parma e nel Parmense. 861 Maria Giovanna Arrigoni Bertini grigio, rinvenuta nel presbiterio, della cui recinzione in origine, presumibilmente, faceva parte, è attribuita a Nicolò, architetto e scultore formatosi nell’officina di Wiligelmo, chiamato dal vescovo Bernardo degli Uberti ad operare per la costruzione della Cattedrale2. La lastra, che rappresenta al centro una mano benedicente entro un clipeo (fig. 1), corrisponde per misure e anche, per alcune, modanatura ad angoli smussati, alle sei rinvenute, insieme ad altre frammentarie, nel 1983 nello stesso edificio, pure ritenute costituenti in origine la recinzione preantelamica del presbiterio del Duomo, e quindi tutte attribuite al xii secolo3. Ancor più suggestivo il rinvenimento della parte mancante Fig. 1. Nicolò (?), Lastra con mano benedicente. Parma, Museo Diocesano. 2 Fava 2010, 4; Mendogni 2010, 5. 3 127 x 86 x 7 le misure della lastra di Niccolò; le altre lastre, di misure analoghe, ma di differente materiale (marmo rosso di Verona, pietra grigia), alcune delle quali reimpiegate nella pavimentazione rinascimentale del Duomo, rappresentano scene bibliche (Sansone che smascella un leone), scene di vita dei santi (S. Martino), o decorazioni fitomorfe, cfr. Quintavalle 1983, 3; 1984, 63-76, con riproduzioni fotografiche; Fava 2004, 72-77, con riproduzioni fotografiche; una di queste lastre, presenta, al centro, un busto entro un clipeo analogo a quello nel quale si inserisce la mano benedicente nella lastra di recente rinvenimento; due di queste lastre furono rinvenute all’inizio del Novecento murate nel sottotetto della Cattedrale, Fava 2006, 53; tutte si conservano nel Museo Diocesano di Parma. 862 Il “consumo” delle antiche pietre della Majestas Domini di Benedetto Antelami. La porzione maggiore di questa importante lastra in marmo bianco di Carrara era riemersa, agli inizi del secolo scorso, spezzata in varie parti, durante i lavori di ristrutturazione della Chiesa del Carmine4, dove era stata riutilizzata capovolta, nel secolo xviii, come lastra sepolcrale di Giovanni Battista Cicognara (nel verso il nome e lo stemma del dedicatario)5, con scalpellatura del bassorilievo antelamico, ma non completa eliminazione delle immagini raffigurate, ancora in parte leggibili (un angelo, i simboli degli Evangelisti, i Padri della Chiesa, e, al centro, Cristo benedicente in mandorla)6 (fig. 2). Nel 2009, il recupero della parte mancante, con angelo stante raffigurato come l’analogo angelo nella parte sinistra della lastra, riutilizzata come chiusino dell’antica tomba dei canonici nel pavimento dell’atrio Fig. 2. Benedetto Antelami, Lastra Majestas Domini. Parma, Galleria Nazionale e Museo Diocesano. 4 L’autorizzazione ad eseguire i lavori di trasformazione della chiesa in sala da concerti per il R. Conservatorio di Musica venne rilasciata dal Ministero della Pubblica Istruzione, in data 23.9.1911, a seguito della documentata relazione inviata dall’Arch. Lamberto Cusani il 19.1.1911, Archivio Soprintendenza SABP per le Province di Parma e Piacenza, Archivio Beni Immobili Tutelati, Chiesa del Carmine Parma, b.76 I (ringrazio la dott. Chiara Burgio per la gentile disponibilità). 5 Un foro passante, che interessa la figura dell’angelo, fissava probabilmente, nella parte superiore del rovescio della lastra, un altro stemma o la protome del dedicatario, entro la cornice ovale ancora evidente. 6 Per la data esatta del ritrovamento, convenzionalmente indicata 1913, non è stato possibile rinvenire più precisi riscontri documentari; la lastra è stata “donata” dall’Amministrazione dello Stato, proprietaria della Chiesa del Carmine, all’allora Museo di Antichità di Parma, il 30.6.1913, cfr. Parma, Museo Archeologico Nazionale, Album dei doni (1867-1927 [sic], 176 ; a seguito della Disposizione Ministeriale prot. n. 11334 Serv. III Div. Musei del 7.9.1964, insieme ad altro materiale non archeologico, venne trasferita alla Soprintendenza ai Beni Artistici e Storici della città, probabilmente, sulla base di elenchi parziali dattiloscritti, conservati nell’Archivio del Museo, e datati dal 14 giugno al 2 dicembre 1966 (ringrazio Flavia Giberti per la competente disponibilità). La Majestas Domini si conserva ora in Parma, Galleria Nazionale, inv. 1824, cfr. Branchi 1997, 8-11, con bibliografia. 863 Maria Giovanna Arrigoni Bertini davanti alla cappella di Sant’Agata in Duomo7. Un grosso foro al centro della figura dell’angelo testimonia l’inserimento di un anello per sollevare la lastra. Insieme alla celebre Deposizione di Benedetto Antelami (che reca, com’è noto, la data 1178), ora inserita nel muro del transetto destro del Duomo, e ad una terza lastra, finora non ritrovata, con ogni probabilità la Majestas Domini, di uguali misure, con analoga cornice a niello e simile impostazione delle figure, apparteneva ad un “evangelistario” eretto in Cattedrale su quattro alte colonne sorrette da altrettanti leoncini, identificati con buona, anche se non certissima, probabilità, con i leoni stilobati conservati nel Museo Diocesano di Parma8. Quattro leoncini stilofori, probabilmente gli stessi appartenenti in origine all’“evangelistario”, sono rappresentati dal Sanseverini ai lati delle due porte laterali nella facciata del Duomo: un provvisorio riutilizzo funzionale-decorativo9. Insieme alla recinzione del coro, l’ambone era stato demolito nel 1565 per adeguare la chiesa alle disposizioni del Concilio di Trento con la costruzione dell’ampia scalinata collegante la navata centrale al presbiterio10. Determinante, per l’interpretazione delle lastre, la testimonianza, del 1572, di poco successiva alla trasformazione dell’area presbiteriale, del cronista Angelo Maria di Edoari da Erba, opportunamente richiamata da Ireneo Affò11. Ancora, nel pavimento rinascimentale del presbiterio furono utilizzate, capovolte, due lastre marmoree analoghe, con croce su globo, sormontata da conchiglia con colomba e 7 81,5 x 70 x 5, mancante dell’angolo inferiore destro; si conserva in Parma, Museo Diocesano; Pelicelli 1929, 40 aveva quantificato con buona approssimazione in cm 76 la parte mancante della lastra; già Branchi 1997, 10, aveva ipotizzato che la scena dovesse essere conclusa da “un altro grande angelo, simmetrico a quello di sinistra”. Auspicabile, ora, il ricongiungimento della lastra e la sua conservazione in un unico Museo. 8 Pelicelli 1929, 42; Quintavalle 1974, 345-355, con ricco apparato critico e bibliografia; Zanichelli 1990, 352-353; pure riferiti all’evangelistario i tre capitelli medievali conservati in Parma, Galleria Nazionale, inv. n. 1814; 1815; 1816; per il problema attributivo, cfr. Branchi 1997, 11-16, nr. 11-13; il quarto capitello, come affermato da Pelicelli 1929, 43, sarebbe stato diviso in due parti e, secondo la testimonianza dell’antiquario Brasi, venduto all’estero per 250 Lire. 9 Raccolta Sanseverini, (sec. xvii-xix), ms., vol. I/41g, (= 1997, 134a); Pelicelli 1937, 14 li dice collocati “fuori” nel secolo xvi, cioè al tempo della distruzione del pulpito; in seguito essi furono “ricoverati” in Duomo, nella Cappella Bernieri, cfr. Pelicelli 1929, 42; Testi 1934, 72 = 2005, 192. 10 Pelicelli 1929, 39 s.; i lavori furono conclusi nel 1568, cfr. Tonelli 2006, 52 s., con trascrizione di fonti di archivio e ampia bibliografia. 11 Da Erba 1572, ms., c. 231 v. “[Antelami] di basso rilievo, e minutiss(im)o taglio in tre tavole di marmo bianco di Carrara, scolpì tutti li misteri della passione di Nostro Signore e l’eresse in forma di Teatro sopra quattro Colonne…”; Affò, III, 1793, 17; la Deposizione, tuttavia, è in marmo rosa di Verona; differenza di materiale si nota, oltre che per le lastre citate, anche per i quattro leoni stilofori, due di marmo rosso di Verona, uno di marmo bianco, uno di breccia di Verona. 864 Il “consumo” delle antiche pietre agnello, attribuite alla basilica paleocristiana precedente12. Altre sono le lastre medievali recuperate in Duomo ed ancora prive di una adeguata collocazione13, e altre, con ogni probabilità restano da scoprire. La identificazione in città, e in particolare sotto il Vescovado, di alcune calcare utilizzate per ricavare calce da materiale lapideo di recupero, lascia anche presupporre un consumo, in questo caso, distruttivo di materiali antichi14. Oltre alle pietre romane, probabilmente dall’anfiteatro, di cui si suppone il reimpiego nei grandi pilastri della Cattedrale 15, in evidenza altri reperti romani ivi impiegati, quali le colonne della cripta “di marmi rari e preziosi”, pur non più riconoscibili per decenni dal 1781, quando “s’ingrossarono”16 facendole sembrare di mattone intonacato, nonostante testimonianze antiche ed i “sarcasmi dell’Affò”17 (fig. 3). La differenza di materiale, determinante la temporanea intonacatura delle colonne per una probabile esigenza di uniformità, testimonia l’impiego di reperti ritrovati in loco, ed utilizzati per prevalenti motivi di economicità, analogamente a quanto attuato per il Duomo di Modena18, dove tuttavia il reperimento di materiali della antica colonia romana, coeva a Parma, fu visto come frutto di ispirazione divina, oltre che come testimonianza delle antiche origini, e continuazione della sua storia millenaria19. A Parma, in Cattedrale, un altorilievo di probabile epoca classica, di provenienza ignota, è murato lungo la scala a chiocciola che conduce al matroneo “degli uomini”: nella figura, acefala, è stato identificato un Pan giovinetto, o Dioniso per la fistula che regge nella mano sinistra20, e forse il suo collocamento in una zona nascosta del tem12 Quintavalle 1983, 3; Fava 2004, 60; 2006, 76, segnala la identificazione, sotto il sagrato del Duomo, di laterizi romani reimpiegati nella ecclesia precedente la cattedrale romanica; “blocchi lapidei romani di reimpiego” sono visibili nel grande portale della torre a Nord-Ovest del vescovado, Fava 2006, 78. 13 Quintavalle 1984, 67; Zanichelli 1990, 344-345; Tonelli 2006, 53; Fava 2006, 181 s., n. 45. 14 Catarsi Dall’Aglio 2004, 26 s., 58: foto di calcara venuta alla luce sotto il Palazzo Vescovile durante lo scavo Catarsi 2002. 15 Quintavalle 1974, 19: in alcuni di essi si notano anche lettere incise. 16 Testi 1934, 24; 145, nota 5 = Testi 2005, 25, nota 4. 17 Gazzetta di Parma, n. 57, 16.7.1834, 240: cfr. Affò 1794, 50, in riferimento alla Chiesa della Steccata: “… ogni secolo à le sue mode. Una volta i muri si dipingevano a marmo, oggidì i marmi s’imbiancano acciò appariscano muro”; il recupero delle colonne di marmo della cripta fu promosso dal conte canonico don Giovanni Bernieri, ma la segnalazione dell’effettivo materiale delle colonne fu precedentemente fatta dal chierico capitolare Vito Giuseppe Martini, Cornazzani 1937, 200 ss. 18 Rebecchi 1984, 319-353; Uggeri 1985, 609-627; evidentemente reimpiegate anche le colonne del Battistero di Parma. 19 Settis 1986, 392 s.; Esch 1998, 880. 20 Testi 2005, 106. 865 Maria Giovanna Arrigoni Bertini Fig. 3. Colonne antiche reimpiegate. Parma, Cripta della Cattedrale. pio cristiano è dovuta al carattere tipicamente pagano del soggetto. Misura che non ha impedito di reimpiegare in seguito, nel secolo xvi, nell’altare maggiore della stessa chiesa, un frammento di sarcofago romano, attribuito al iii secolo d.C., con figura di erote simboleggiante il genio dell’Abbondanza21, utilizzato, nel retro, per la dedica delle reliquie di quattro santi, incisa con regolarità ed inserita in cornice modanata. All’Antelami, agli inizi del secolo xiii, si attribuisce la “cristianizzazione” della statua di un togato romano, in marmo lunense, trasformato in Arcangelo Michele, e collocato nella nicchia a destra del portale nord del Battistero22. L’intervento, determinato dall’opportunità di riutilizzo, crea una sorta di “conti21 Santoro 2009, 547; la lastra, cm 109,5 x 37 x 9, databile al iii sec. d.C., si conserva ora in Parma, Museo Diocesano; Fava 2004, 61 e Catarsi Dall’Aglio 2009, 373, vi vedono piuttosto il simbolo dell’estate. 22 Rockwell 1992, 229 s.; Zanardi 1992, 262 s.; la statua, attribuita al i-ii sec. d.C. è ora conservata in Parma, Museo Diocesano; cfr. Bianchi 2004, 85; Catarsi 2009, 372; nella parte posteriore si nota ancora la lavorazione con tecnica a scalpello, tipicamente romana, Santoro 2009, 536. 866 Il “consumo” delle antiche pietre nuità tra il mondo classico e quello medioevale”23, con operazione non dissimile da quella che, a Verona, nel secolo xiv, trasformò nella “Madonna Verona” di Piazza delle Erbe una statua romana del i sec. a.C., completata con restauro, al fine di celebrare il ripristino della fonte monumentale al centro della quale è collocata, e per richiamare, nel contempo, le antiche origini della città24. Così a Roma, alla fine del secolo xvi, una statua di Giulio Cesare venne riutilizzata, con opportuno rifacimento della testa, per la celebrazione in Campidoglio di Alessandro Farnese subito dopo la sua morte, nel 1592: operazione determinata da economicità, ma certamente con il risultato di accrescere il prestigio del celebre condottiero con il riferimento emblematico all’alto exemplum classico25. A Parma anche in epoca moderna non mancò il ricorso a statue antiche con svariate finalità: quelle ritrovate nel 1761 nella basilica di Veleia, sull’Appennino piacentino, relative nella maggior parte a personaggi della famiglia giulioclaudia, trasferite nella Accademia di Belle Arti di recente costituita26, divennero per più di un secolo modelli da imitare per gli allievi del corso di plastica27, ed esse stesse oggetto di esercitazioni con restauri di non condivisa opportunità28; una utilità didattica, dunque, diversamente da quella relativa alle due statue colossali in basanite di Ercole e Dioniso, rinvenute “a pezzi e frammenti” negli scavi del Palatino nei primi decenni del 1700 e collocate da Francesco Farnese, dopo la ricomposizione eseguita dallo scultore Giuliano Mozzani, nel giardino della reggia di Colorno con evidente finalità ornamentale29. La quantità di marmi antichi policromi, ivi riutilizzati nel palazzo ducale, ed in particolare nella cappella del SS. Sacramento e nel pavimento dell’altare maggiore della attigua Real Chiesa di San Liborio, avvalorano l’ipotesi che anche questo materiale provenisse dagli scavi farnesiani del Palatino30. 23 Dall’Aglio 2006, 161. 24 Gargiulo 2003, 144-148. 25 La statua venne prelevata dal giardino dei Cesarini, dove era collocata, Biblioteca Vaticana, ms. Urb.Lat. 1061, cfr. Rossi Pinelli 1986, 192 ss. 26 L’Accademia di Belle Arti di Parma è fondata nel 1752 (le Costituzioni sono del 2 dicembre 1757); sul ciclo statuario di Veleia, cfr. Saletti 1968, passim; 1972, 182-190; 1993, 365-390. 27 Quattro di queste statue, tuttavia, sono documentate, nel 1819, “agli ingressi e al Museo, ed alle scale”, Voghera 1819, ms. ; Antolini 1819, I, 34; Saletti 1968, 19. 28 Le integrazioni, probabilmente operate nel Settecento dallo scultore Boudard, e nel secolo successivo, saranno poi rimosse da G. Marzoli negli anni 1962-1963, Saletti 1968, 20. 29 Lombardi 1938 = 2011, 102 = 435; Bertini 1993, 57; Franzoni 1984, 316 s.; Sénéchal 1995, 123-131; Ascione, Bertini 015, 19 (fig. 10); ora le due statue, fortuitamente non trasferite a Napoli da Carlo di Borbone, sono esposte nella Galleria Nazionale di Parma. 30 Lombardi 1938, 101 = 2011, 434 s., che cita anche le ottanta statue e duecento blocchi di marmo lavorato in parte provenienti dal Palatino, Lombardi 1953 = 2011, passim; a proposito della cappella del SS. Sacramento, cfr. Bertini 1993, 82 e nota 88, in cui riporta la didascalia 867 Maria Giovanna Arrigoni Bertini Un’ara romana, anepigrafe, ornata con festoni e bucrani, è divenuta fonte battesimale nella chiesa abbaziale di S. Giovanni Evangelista in Parma, dopo essere stata utilizzata come vera da pozzo nell’orto del convento benedettino annesso alla chiesa31. Anche in questa città appare, infatti, ampiamente diffuso l’utilizzo di cippi romani come pozzali: la Confraternita della Beata Vergine di Capo di Ponte utilizzava a questo fine un bel cippo sepolcrale romano ornato, con protome del dedicatario, C. Fannius M. f. Frater, esempio emblematico di reimpiego strumentale32: solo nel 1815 Pietro De Lama era riuscito a recuperarlo a fatica, con la restituzione di due dipinti, per il Museo di Antichità, di cui era direttore, e dove ora il reperto si conserva33 (fig. 4). Ancora al De Lama si deve il recupero della stele del liberto T. Sallustius Pusio, tonsor34, riutilizzata nel pavimento di una villa, probabilmente suburbana, e trasferita in Museo per “collocarla nel nicchio preparato” prima dell’imminente arrivo di Maria Luigia d’Asburgo, nuova sovrana dei ducati di Parma, Piacenza e Guastalla: la visita della duchessa al Museo avverrà, infatti, pochi giorni dopo il suo ingresso in città35. La stele arricchisce il lapidario parmense, in quanto documenta una famiglia di liberti, di recente manomissione da differenti patroni: l’attività di Fig. 4. Cippo sepolcrale di C. Fannius M. f. Frater (CIL XI, 1085). Disegno del Deputato G.P. Regalia, Lettera del 13.7.1767. ASPr, Archivio Comune, Congregazione Edili, Carteggio 1767, b.774/248. esposta [di Lombardi] “capolavoro dell’architetto Petitot eseguito in parte coi marmi provenienti dagli scavi farnesiani del Palazzo dei Cesari sul Palatino”; Leandri 2015, 101. 31 Marini Calvani 1978, 228; Arrigoni Bertini 1993, 123. 32 Di Stefano Manzella 1987, 72, nota 86. 33 CIL XI, 1085, cfr. De Lama 1815, ms.; Arrigoni Bertini 1986, 90, n.73; 1993, 133.; 2004, 144; 2009, 324, nota 82. 34 CIL XI, 1071, cfr. De Lama 1816, ms. 35 Maria Luigia entra in Parma il 20.4.1816; essa visiterà il Museo di Antichità, la Biblioteca Palatina, l’Accademia di Belle Arti ed il teatro Farnese il 22 dello stesso mese, Gazzetta di Parma, n. 34, 27.4.1816, 1-2. 868 Il “consumo” delle antiche pietre barbiere, o di tosatore di pecore, poteva avere assicurato una buona disponibilità finanziaria a T. Sallustius, tanto da giustificare, forse, l’acquisto della emancipazione non solo per sé, ma anche per la probabile coniunx Cassia Catulla e per il figlio Gavius Lalus36. Tormentata la vicenda del grande blocco di pietra calcare con iscrizione dedicatoria in gran parte perduta per le ripetute riutilizzazioni. Un blocco di queste dimensioni, di difficile reperimento nella pianura padana, non poteva essere destinato ad un solo reimpiego: esso fu infatti trasformato prima in mortaio, come dimostrano le quattro grandi anse ricavate nello spessore del reperto, divenuto rotondo, ma che doveva essere in origine parallelepipedo, forse base di statua; in ultimo anch’esso fu utilizzato come pozzale. L’iscrizione superstite, mancante probabilmente di alcune linee centrali per il grosso foro praticato, testimonia un seviro Augustale, ingenuo, Q. Octavius, L. f., che fu forse anche flamen, per il cui cognomen si è proposta, da ultimo, l’integrazione in M[us]a, testimoniato nella regio VIII e ancora presente a Parma37. Non sempre tuttavia è possibile identificare l’uso originario dei numerosi reperti, soprattutto di epoca romana, riutilizzati in periodi successivi, rinvenuti a Parma. Molte sono state le proposte di interpretazione delle quattro porzioni di fregio d’armi in calcare nummulitico veronese38, di cui, due murate nel parapetto del ponte Caprazucca, con funzione forse strutturale, certamente ornamentale, e probabilmente già per un intento di conservazione: in questo modo infatti veniva riattribuito un certo decoro al pezzo antico “rendendolo nuovamente visibile e sottraendolo, soprattutto, ai contini spostamenti, e perciò alla distruzione”39. Un altro blocco con fregio, fu rinvenuto nel 1833 in Strada Santa Lucia, “sepolto nel medioevo quale materiale da costruzione”40, ed un quarto, rinvenuto in Strada Santa Croce 19, era stato incavato e riutilizzato come vasca41: in origine elementi decorativi per un arco onorario o per un propileo, o parte di un sontuoso monumento funerario? Sara Santoro accoglie quest’ultima attribuzione, suffragata dalle immagini incise, quali il grifo, animale fan36 Cfr., da ultimo, Arrigoni Bertini 2009, 319 (fig. 123). 37 CIL XI, 1063add.; cfr., in particolare, Arrigoni Bertini 2004, 35-38; il reperto si data tra l’età augustea e l’inizio del ii sec.d.C. 38 Santoro 2009, 544. 39 Parma, Museo Archeologico Nazionale, inv. S 44, cfr. Catarsi 2009, 442 s. (fig. 218); Franzoni 1984, 354; i due blocchi vennero trasferiti in Museo da Pietro De Lama nel 1821. 40 Parma, Museo Archeologico Nazionale, inv. S 38, dove fu fatto trasferire da Michele Lopez, Pigorini 1873, 2; Catarsi 2009, 443, riprendendo la scheda del Museo, lo dice, diviso in due frammenti, reimpiegato “nelle murature del tardo-medievale Palazzo del Governatore”. 41 Parma, Museo Archeologico Nazionale, Inv, S 45; quest’ultimo reperto, conservato spezzato in un cortile della casa dei fratelli Bertocchi, fu acquisito, per dono di Tolommeo (sic) Rondani, da Luigi Pigorini nel 1873: cfr., per i quattro reperti, Pigorini 1873, 2. 869 Maria Giovanna Arrigoni Bertini tastico, che appoggia la zampa su di un vaso, il tripode del Sole, motivo tipicamente funerario di matrice ellenistica42. Altri elementi iconografici scolpiti nel fregio, come le armi, non rispondenti a tipologie in uso, confermano la destinazione funeraria. La raffigurazione, poi, dell’alto trofeo di armi, e l’uso a Parma della pietra veronese orienterebbero per una datazione agli inizi del ii secolo d.C.43 L’iscrizione incisa sull’ara sepolcrale di L. Petronius Sabinus documenta un Parmensis libero, cittadino romano, la cui carriera politica, dal sevirato e decurionato fino alla carica di duoviro e poi di pontefice, conferma l’organizzazione municipale della colonia. Le misure dell’area sepolcrale, cinquanta piedi per lato, le più grandi documentate a Parma, testimoniano anche una buona disponibilità finanziaria del committente-destinatario44. La trasformazione in età imprecisata dell’ara in sarcofago cristiano, come denuncia lo svuotamento del blocco e la croce incisa all’interno, se ne ha compromessa la destinazione originaria, con la probabile eliminazione anche di decorazioni esterne, ha permesso tuttavia di conservare un documento di grande importanza per la storia di Parma romana nel i secolo d.C. Per questo motivo, probabilmente, già nel secolo xviii il reperto figurava davanti alla facciata del Duomo. Prima ancora, infatti, che venissero assunti provvedimenti ufficiali per raccogliere resti del passato al fine della loro conservazione, ed anche per contribuire con questo al maggior decoro del paese, alcuni reperti romani, ritenuti prestigiosi per la storia della città, erano stati collocati davanti, o, addirittura, inseriti nella facciata della Cattedrale. Significativo il noto disegno del Sanseverini che riproduce la facciata del Duomo45, nella quale figurano la lastra di un sarcofago cosiddetto di Macrobio, con iscrizione metrica celebrante la felicità coniugale46, e l’epigrafe dei Munatii, con le protomi dei dedicatari, precedentemente riutilizzata in periodo medievale in posizione orizzontale, come dimostrano la decorazione a tralci e foglie nel lato sommitale e nel fianco sinistro47. Davanti alla facciata, oltre all’ara di L. Petronius Sabinus, era collocato il grande cippo privo della parte superiore, forse un’originaria base di statua, documentante un patrono della col(onia) Iul(ia) Aug(usta) Parm(ensis/ae) e dei tre maggiori collegi artigianali dei fabri, dei centonarii e dei dendrophori, precedentemente posta, secondo le testimonianze codicografiche, a reggere la mensa dell’altare 42 Santoro 2009, 544 s.; precedentemente Polito 1998, 200 ss. 43 Santoro 2009, 544 s.; Catarsi 2009, 443 li ritiene di età augustea-tiberiana; Polito 1998, 201, aveva proposto una datazione tra gli ultimi decenni del i ed i primi del ii sec. d.C. 44 CIL XI, 1064; Arrigoni Bertini 1986, 147, n. 169; 1993, 130. 45 Sanseverini, vol. I/41g, cfr. 1997, fig. 134 a, scheda 324. 46 CIL XI, 1122b, cfr. 1251; Arrigoni Bertini 1993, 137 ss. 47 CIL XI, 1092, cfr. Frova 1965, 153 (tav. XCI); Arrigoni Bertini 1986, 127, n. 135; 112, n. 110; 130, n. 141; 1993, 134; ancora visibile nella facciata del Duomo l’impronta, poi tamponata, della stele monumentale. 870 Il “consumo” delle antiche pietre nella cripta della Cattedrale48 (fig. 5). Ancora oggi nella facciata del Duomo sono inseriti alcuni marmi medievali, quali le lastre del sepolcro di Biagio Pelacani, a decoro dell’edificio, ma, soprattutto a ricordo di figure ritenute di prestigio per la città49. Fig. 5. Cippo del patronus (CIL XI, 1059). Parma, Museo Archeologico Nazionale (da M. Ferrarini, ms. Regg. C 398, c.96v.). La Congregazione degli Edili, costituita nel marzo del 1767 per volere del ministro Du Tillot con fini prevalentemente di controllo e rinnovamento urbanistici50, contribuisce anche al recupero dei reperti antichi: dopo la scoperta 48 CIL XI 1059; Ferrarini (fine sec. xv), c. 96 v.; Arrigoni Bertini 1986, 200 ss., n. 247; 1993, 128 ss.; 2004, 55-58; Dall’Aglio 1988, 241-244 suppone che il reperto, per l’importanza del personaggio, potesse originariamente essere collocato nel foro della città. 49 Biagio Pelacani (1347-1416), medico, fu anche filosofo e matematico insigne; le lastre di marmo superstiti costituivano il fianco e la fronte del suo sarcofago, originariamente collocato presso l’ingresso principale del Duomo, cfr., da ultimo, Lasagni 1999, 843-845. 50 La Costituzione viene pubblicata con Avviso a stampa del 3 marzo 1767, ASPr (Archivio di Stato di Parma), Edilità dello Stato, b.1, fasc. 1, sottofasc. 3; a Guillaume-Léon Du Tillot (17111774), segretario di Stato, Guerra, Grazia e Giustizia del duca Filippo di Borbone dal 1759, e in seguito del duca Ferdinando, si deve un’importante opera riformatrice in tutti i settori della vita dei ducati, cfr., da ultimo, Fiaccadori, Malinverni, Mambriani 2012; Maddalena 2008, 113 ss. 871 Maria Giovanna Arrigoni Bertini di due antiche iscrizioni, ai deputati preposti ai quattro quartieri, in cui era stata suddivisa la città, viene raccomandato infatti di incaricare i capimastri muratori, che eseguono le fabbriche, “a dover invigilare se si trovano antichità di qualsiasi sorta” e di darne “avviso ai Sig.ri Deputati per assicurarle, e perché rimanghino alla suprema disposizione di S.A.R.”51. La supervisione del Paciaudi52 è documentata, già per i primi due reperti epigrafici ritrovati, nella valutazione delle relazioni, spesso ingenue, e non sempre concordi, che li segnalano : “La Pietra posta nel muro della casa, che si fabbrica all’incontro della Chiesa dell’Annonziata”, e di cui si forniscono le misure, “è stata posta in un angolo della muraglia con le lettere alla parte interiore; onde non essendosi potuto ricavare alcun lume, né congettura, se n’è ricercata notizia al Capo M.ro Muratore, ed a’ vicini, e si è inteso, vi fossero scolpite due sole parole, che dicevano = Aurum, et Gemme =”. A fianco il Paciaudi annota che differenti sono le notizie a lui da altri riferite, ma che, comunque “nè Oro nè Gemme son voci frequenti nella lapidaria”, e conclude: “In queste cose il volgo non è da ascoltarsi, perché non le intende” 53. Evidentemente la lapide era stata reimpiegata nei muri della casa come materiale da costruzione e mai recuperata, perché non risulta acquisita tra i reperti epigrafici parmensi. Differenti le vicende che riguardano l’altra “pietra” contemporaneamente ritrovata, la stele funeraria di Postumia Felicitas, già reimpiegata probabilmente per una fontana, come dimostra il foro per il getto dell’acqua in corrispondenza della bocca della protome femminile in essa rappresentata: al momento della sua identificazione era stata trasferita “presso il Piccapietre abitante rimpetto allo Spedal Grande della Misericordia”: la levigatura del retro documenta l’intento imminente di un’ulteriore utilizzazione54 (fig. 6). Anche in questo caso il Paciaudi riprende il relatore che vede in coniugi un’allusione a “nozze”, commentando “cioè a 51 ASPr, Archivio del Comune, Congregazione degli Edili, Ordinazioni, registro 771, c. 25 r.e. v., cfr. Dall’Acqua 1986, 84. 52 Il teatino Paolo Maria Paciaudi (1710-1785), dotto archeologo piemontese, fu a Parma bibliotecario e antiquario dei duchi Filippo e Ferdinando di Borbone; fondamentale il suo contributo per la costituzione della Biblioteca Palatina, del Museo di Antichità, e per la riforma della Università e degli studi, cfr. Bertini 1982-1983; un profilo biografico e l’elenco dei corrispondenti in Farinelli 1985, 14-22. 53 ASPr, Edilità dello Stato, b.2; cfr. Dall’Acqua 1986, 84; la Relazione, benché anonima, è da attribuirsi al Deputato soprintendente al quarto quartiere della città, Andrea Dubois, cfr. ASPr, Archivio Comune di Parma, Congregazione Edili, b.771. 54 ASPr, Archivio del Comune, b.774/243; nella Relazione anonima sopra citata, si dice che la pietra la “ha lo scultore in vicinanza de’ Cappuccini”, se ne forniscono le misure e si precisa che si tratta solo di metà di una iscrizione: il testo conservato è infatti delle sole prime cinque righe, ma tutta l’iscrizione è nota attraverso la tradizione manoscritta e a stampa; CIL XI, 1057; si conserva in Parma, Museo Archeologico Nazionale, cfr. Arrigoni Bertini 1986, 150, n. 173; 1993, 128. Datazione proposta: fine del ii-inizio del iii sec. d.C. 872 Il “consumo” delle antiche pietre Fig. 6. Stele di Postumia Felicitas (CIL XI, 1057). Parma, Museo Archeologico Nazionale. dire in occasione di Funerali, perché è noto a tutti che le sigle D.M. voglion dire Diis Manibus, e gli Dj Inferi, o Mani non hanno mai avuto che fare colli sposi”55. A Ramoscello di Sorbolo, nel parmense, un sarcofago romano era utilizzato come vera da pozzo nella “possessione del Castello” di proprietà delle monache benedettine di S. Alessandro in Parma. Già noto alla fine del secolo xvii56, venne trasferito a Parma solo un secolo dopo: il deputato al terzo quartiere Giovanni Pietro Regalia aveva comunicato la spontanea disponibilità del Padre Economo a fare “condurre in città” il reperto, previo il rifacimento “in quadrelli” del pozzale. Dopo il sopralluogo di Francesco Permòli, che delinea un preciso disegno del reperto, già diviso in due parti collegate da grappe di ferro, ma ancora completo anche della parte posteriore57 (fig. 7), esso è documentato a Parma dall’Affò “entro il recinto di S. Alessandro qual fu già guasto”, ma con l’iscrizione quale ancora oggi si può leggere58. Essa testimonia la dedica ad una liberta, Agnia Grata, posta da vivo da [-] Decim[i]us C(ai) f(ilius) 55 ASPr, Edilità dello Stato, b.2; Dall’Acqua 1986, 85. 56 Bacchini 1686, 27-29. 57 ASPr, Edilità dello Stato, b.2, fasc. 1, IX, 18 luglio 1767. 58 Affò I, 1792, 55 ss.; il reperto, diviso in due parti, e privo delle parte posteriore, si conserva a Parma, Museo Archeologico Nazionale, dove fu trasferito solo nel 1811. 873 Maria Giovanna Arrigoni Bertini P[ol(lia tribu)], duovir Bononie[ns(ium?)]: se si accetta la integrazione della P come indicazione della tribù, anziché come lettera iniziale del cognome, e lo scioglimento Bononie[ns(ium?)], si può ipotizzare, anche per il luogo della conservazione del reperto, un’origine parmense, o comunque non bolognese per Decimius, che avrebbe però ricoperto l’alta carica cittadina a Bologna presumibilmente nel i sec. d.C.59 Non lontano, presso la pieve di Sorbolo, un cippo romano inscritto, a sviluppo verticale, casualmente rinvenuto nel 1950, appare oggetto di un duplice utilizzo, prima per celebrare la consacrazione della chiesa60, poi, probabilmente, capovolto, come gradino dell’ingresso della canonica. La iscrizione originaria ricorda un libero, C. Metellus M.[f.] Vitor, ascritto alla tribù Arnensis, e quindi probabile cittadino della vicina Brixellum: questo può indurre ad ipotizzare un’originaria collocazione anche della pietra, recuperata per cronica carenza di materiale, e trasportata quindi a Sorbolo per il primo e poi il secondo, meno prestigioso, riutilizzo61. Fig. 7. Francesco Permòli, Sarcofago romano di Decimius C. f. (CIL XI, 1065). ASPr, Edilità dello Stato, b.2, fasc.1, sottofasc. IX. 59 CIL XI, 1065; Donati 1967, 113 ss., n. 248*; 1969, 465; Arrigoni Bertini 2008, 131 s.; Criniti 2009, 1-9. 60 L’iscrizione, mancante della parte destra, menziona un [--B]arono [---]++sbite[ro] identificabile con Ulisse Baroni, arciprete della chiesa dal 1611 al 1630, Arrigoni Bertini 2008, 131. 61 Sul reperto, ora conservato presso la pieve di Sorbolo, il suo ritrovamento e considerazioni sulla denominazione del personaggio, Arrigoni Bertini 2008, 129-131. 874 Il “consumo” delle antiche pietre Fig. 8. Stele del purpurarius C. Pupius Amicus (CIL XI, 1069a). Parma, Museo Archeologico Nazionale. Le vicende che hanno interessato la grande stele a pseudoedicola del liberto C. Pupius Amicus, purpurarius, sono eloquente testimonianza della storia spesso fortunosa dei reperti antichi e della casualità e precarietà della loro conservazione. Già ritrovata a Sanguigna, presso Colorno, e pubblicata nei secoli xv e xvi62, sarebbe stata in seguito perduta e riscoperta nel 1677 durante la costruzione della chiesa di Sanguigna “nel rompere una muraglia”63; resecata in tre parti per ricavarne paratie per la irrigazione dei campi, venne di nuovo ritrovata, ricomposta e murata ai fini di conservazione in un edificio di Colorno, ed infine, nel 1814, trasferita nel Museo Archeologico di Parma, dove ora si conserva64 (fig. 8). Il riuso, direi abuso, del reperto non ha fortunatamente determinato danni irreparabili, permettendone ancora la lettura nei suoi elementi epigrafici, simbolici e decorativi: oltre alla protome del dedicante/dedicatario, esso presenta gli strumenti di mestiere, matasse di lana, boccette di tintura, bilancia 62 Ferrarini (fine sec. xv), c.95 r.; Angeli 1591, 749. 63 Ursato 1719, 230. 64 CIL XI, 1069a; cfr., da ultimo, Arrigoni Bertini 2009, 327. 875 Maria Giovanna Arrigoni Bertini del purpurarius, operante in una zona di produzione di lane pregiate, di cui egli evidentemente curava il tinteggio; per la monumentalità della stele si può verosimilmente ipotizzare un’attività imprenditoriale su più ampia scala, quale l’allevamento degli ovini e lo smercio del prodotto lavorato attraverso le vicine vie d’acqua65. Sara Santoro, in rapporto al contesto economico e sociale, di cui il reperto è testimonianza, richiama l’attenzione non soltanto alla perizia del lapicida autore della stele, che non aveva in questo caso “un repertorio codificato a cui attingere”, ma anche, soprattutto, al fatto che egli “eseguiva evidentemente una richiesta specifica da parte dei committenti” (da notare che C. Pupius Amicus commissiona la stele sibi et suis, da vivo), e vede in questo “un atteggiamento caratteristico di queste classi medie cisalpine”. La stele, presentando gli attrezzi del lavoro quali insegna di bottega, richiama l’attenzione a considerare l’“ampiezza del peso economico e culturale che il ceto imprenditoriale medio e piccolo” ebbe in Cisalpina. A differenza delle affermazioni detrattive delle fonti letterarie antiche nei riguardi delle attività produttive, che hanno condannato “all’invisibilità un’intera classe”, solo attraverso le testimonianze epigrafiche è attestata, anche in questa provincia, la diffusione e l’importanza della classe artigianale (e, aggiungo, in particolare, libertina), ed anche “la sua orgogliosa autorappresentazione” nel contesto sociale66. Bibliografia Affò I. 1792-1795, Storia della città di Parma, I-IV, Parma (rist. anast. Bologna, 1980). Affò I. 1794, Il parmigiano servitor di piazza ovvero dialoghi di Frombola, Parma (rist. fotolitografica Bologna – Parma, 1972). Angeli B. 1591, La Historia della città di Parma, et la descrittione del fiume Parma, Parma. Antolini G. 1819, Le rovine di Veleja misurate e disegnate, I, Milano. Arrigoni Bertini M. G. 1986, Parmenses. Gli abitanti di Parma romana, Parma. Arrigoni Bertini M. G. 1993, Regio VIII. Aemilia. 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Another common character of these three pieces is being (almost) completely de-contextualized from the archaeological point of view: the first of them was recovered after a sort of “miraculous fishing”; the second was occasionally retrieved occasional along a beach; the third was the product of a somewhat daring affair held between ‘800 and ‘900. A series of thin wires could tie these three pieces, two by two, and could therefore contribute to weaving a new plot to read a part of the history of this territory. It goes without saying that we have – at the moment – no evidence about the realty of these connections; but, on a closer examination, such hypothetical links appear not much more improbable than the absolute absence of ties. * Sara Santoro mi onorava della sua amicizia e della sua stima anche perché, diceva, apprezzava il mio modo “irriverente” di porre questioni cui non ero sempre in grado di offrire una risposta compiuta. Mi piace quindi pensare che avrebbe gradito come omaggio questa piccola 881 Enrico Zanini Però, nulla è mai davvero come sembra, ma almeno sette volte più complesso. A. Fo, Mancanze, Torino 2014 Premessa Quelle che seguono sono, in larga misura, solo congetture e non avrebbero quindi diritto di cittadinanza in una pubblicazione “scientifica”1, se non fosse che sono proprio le congetture il nostro unico strumento concettuale per provare a dare un senso ad alcune evidenze archeologiche, tanto interessanti quanto disperatamente isolate, della tarda Antichità nel territorio dell’antica Populonia, nell’Etruria tirrenica. La considerazione da cui prende l’avvio questo ragionamento congetturale è l’esistenza, nel raggio di poco più di una decina di chilometri, di tre reperti straordinari — una celeberrima anfora d’argento tardoantica, un tesoro di monete d’argento di epoca tardoimperiale e un enigmatico mosaico con diverse fasi di vita, apparentemente scaglionate tra tarda Antichità e alto Medioevo — che raccontano altrettanti frammenti della vita di quel paesaggio umano in un’epoca che oggi sempre più percepiamo come assai più complessa rispetto a quanto pensavamo in un passato anche molto recente. Due fattori complicano la questione e aprono lo spazio al ragionamento congetturale: 1) tutti e tre questi reperti sono potenzialmente ricchi di significati simbolici e quindi testimonianza di comportamenti umani complessi; 2) tutti e tre sono (quasi) completamente decontestualizzati dal punto di vista archeologico. Il primo — l’anfora d’argento — in quanto frutto di una sorta di “pesca miracolosa” giacché nel 1968 rimase appesa a un ancorotto di una barca da pesca, senza che sia mai stato possibile identificare l’eventuale relitto di provenienza; il secondo — il tesoretto — recuperato fortunosamente nel 2002 in mare da alcuni bagnanti in prossimità della riva; il terzo — il mosaico — ritornato alla luce nel 2014 alla fine di un lungo e rocambolesco percorso che si dipana tra ‘800 e ‘900 e che ha reciso nella quasi totalità le connessioni stratigrafiche con il resto del sito archeologico da cui proviene. provocazione che cerca di esplorare il confine sottile tra ipotesi credibili, semplici congetture e ucronie. Sono sicuro che avrebbe risposto con un sorriso divertito, una battuta fulminante e con un invito a discuterne in un seminario con i suoi studenti. 1 Il tema è, come noto, al centro di un celeberrimo saggio di Carlo Ginzburg (Ginzburg 1979), che diede origine a un denso dibattito critico protrattosi per alcuni anni e discusso in Ginzburg 2007. 882 Tre “pezzi in cerca di contesto” e un impossibile calcolo della probabiblità Tre manufatti isolati dunque, ma legati tra loro da una generica “contemporaneità” (sono stati tutti prodotti nell’arco di più o meno un secolo, anche se non conosciamo l’epoca della loro deposizione originaria nella stratificazione archeologica da cui sono così fortunosamente usciti), dalla collocazione spaziale (tutti, come si diceva, nel raggio di poco più di 10 km) e da una serie di altri fili più o meno sottili che potrebbero legarli almeno a due a due. Molto poco, forse troppo poco, per provare a ipotizzare un concreto legame tra di essi; ma, per contro, forse troppe “coincidenze” per poter scartare a priori e a cuor leggero ogni congettura circa un loro possibile rapporto. In un impossibile calcolo delle probabilità, l’ipotesi di totale assenza di relazioni è più o meno altrettanto improbabile di quella che cerca invece una relazione e, allora, tanto vale provare a esplorare questa seconda ipotesi. 1. L’anfora di Baratti Con il nome convenzionale di “anfora di Baratti” ci si riferisce a un grande vaso d’argento decorato che venne fortunosamente recuperato nel braccio di mare antistante la spiaggia di Rimigliano, a qualche chilometro a Nord di Baratti, da un pescatore professionista nel 19682 (fig. 1). Il vaso, che un lungo e complicato restauro ha restituito al suo aspetto originario, a eccezione delle due anse che erano perdute al momento del recupero, è importante già per le sue dimensioni fisiche: si tratta infatti di una grande fiasca ovoidale, alta 61 cm e con una circonferenza massima di 109 cm, realizzata interamente in argento massiccio, per un peso complessivo di oltre 7,5 kg. Un oggetto intrinsecamente prezioso, quindi, il cui valore è enormemente accresciuto dalla qualità della manifattura, che gli studi fanno risalire a un’officina ubicata in Siria o forse anche nei Balcani e a un’epoca da collocarsi indicativamente negli ultimi decenni del iv secolo d.C.3 Si tratta poi di un oggetto decisamente raro, giacché appartiene a una tipologia di manufatti tutt’altro che frequentemente attestati nei contesti archeologici: l’unico confronto realmente pertinente è infatti con un’anfora d’argento proveniente da Conçesti in Moldavia, oggi conservata all’Ermitage di San Pietroburgo. A queste tre caratteristiche di pregio intrinseco (materia, qualità, rarità) fa infine riscontro un ulteriore elemento di straordinario interesse, rappresentato dalla decorazione, consistente in un complicato sistema di 132 medaglioni ovali, ciascuno dei quali con una sola figura a rilievo, che sono disposti su dieci fasce complessive, sette sul corpo del vaso e tre sul lungo collo. 2 3 La vicenda del recupero è ricostruita in Arias 1986, v-vi. Arias 1986; Baratte 2000. 883 Enrico Zanini Fig. 1. L'anfora di Baratti (Museo Archeologico del Territorio di Populonia – Piombino). La mancanza di una scena unitaria rendere per molti aspetti difficile una immediata interpretazione del significato complessivo della decorazione. Sul collo dell’anfora compaiono venti medaglioni divisi in tre fasce, due da sei personaggi e una, quella inferiore, da otto. Nelle prime due fasce compaiono figure non ben differenziate che hanno un elemento comune nel fatto di indossare il berretto frigio, con una chiara allusione quindi a quella regione che in età imperiale e tardoantica è un po’ il nucleo generativo da cui si originano molti culti misterici o iniziatici, a partire da quello di Cibele e da quello di Mitra. Il numero dei personaggi in queste prime due fasce e la loro non differenziazione morfologica ha portato alcuni studiosi a identificarli come Mesi o anche segni dello Zodiaco4. Se questa interpretazione cogliesse nel segno, la presenza dei Mesi costituirebbe un indizio anche per l’identificazione delle figurine della terza fascia, dove compaiono altri quattro personaggi con il berretto frigio (forse le Stagioni) e quattro figure più problematiche, ritratte senza berretto, in cui alcuni studiosi hanno proposto di identificare le quattro regioni del mondo antico. Le sette fasce che decorano il corpo del vaso sembrano invece alludere, nel loro insieme, a un corteo dionisiaco, introdotto dai bambini e dai fanciulli (maschi e femmine) danzanti che occupano le due fasce in alto e le tre fasce in basso. Nelle due fasce centrali, le principali, caratterizzate da medaglioni 4 Arias 1986, 8-15. 884 Tre “pezzi in cerca di contesto” e un impossibile calcolo della probabiblità più grandi, sembrano invece trovare posto delle scene più articolate, composte ognuna da più personaggi, ciascuno ospitato nel proprio medaglione. Secondo la lettura iconografica di Paolo Enrico Arias, vi si riconoscerebbero i miti di Rea e Crono; di Arianna e Dioniso; di Cibele e Attis; di Ares, Afrodite e Adone; di Apollo, Giacinto e Dafne; di Apollo, Artemide e Niobe; di Elena, Leda e i Dioscuri; di Paride e Afrodite5. Il filo rosso che legava tra loro tutte queste raffigurazioni era evidentemente chiarissimo sia a chi produsse l’anfora e a chi la acquistò per usarla sulla sua tavola; lo è molto meno a noi contemporanei che dobbiamo provare a decifrare un messaggio che era evidentemente e volutamente misterico in antico ed è quindi particolarmente misterioso per noi. Il possibile riferimento al succedersi ciclico dei mesi e delle stagioni presente nei medaglioni del collo potrebbe essere confermato dalla presenza, in uno dei medaglioni centrali del corpo dell’anfora, di una figura di vecchio barbuto e discinto, in cui si potrebbe identificare una delle possibili iconografie di Aiôn, personificazione appunto del tempo ciclico e infinito6. Se così davvero fosse, l’anfora nel suo insieme avrebbe molto a che vedere, sotto il profilo iconografico e della rete di credenze/culti/suggestioni cui l’iconografia allude, con un altro manufatto d’argento celeberrimo: la pàtera di Parabiago (oggi conservata al museo del Castello Sforzesco di Milano), che condivide con l’anfora di Baratti anche la cronologia di produzione, almeno a grandi linee7. Il senso di “mistero” che accompagna la nostra anfora se la esaminiamo nella sua qualità di manufatto antico, si infittisce decisamente quando passiamo a considerarla nella sua qualità di reperto archeologico. Come abbiamo accennato, infatti, il suo ritrovamento è frutto — almeno a quel che è dato saperne — di un assoluto accidente del destino; giacché l’anfora stessa sarebbe stata recuperata fortuitamente nel corso di una normale attività di pesca, salpando un ancorotto che si era incastrato nella sua pancia, deformandola pesantemente. Le circostanze del ritrovamento rimangono per molti versi indefinite: nessuno fu mai in grado di precisare la posizione della barca al momento del recupero dell’ancora8 e di conseguenza vani furono i tentativi di localizzare un eventuale relitto sommerso cui l’anfora poteva appartenere, come oggetto tra- 5 Ibid., 44-75. 6 Ibid., 49-51. 7 Musso 1983. 8 La scomparsa del protagonista del ritrovamento, il pescatore professionista Gaetano Graniero, avvenuta nel giugno del 2015 ha cancellato definitivamente la possibilità di nuove indagini basate su una sua testimonianza. 885 Enrico Zanini sportato a fini commerciali o come oggetto in uso direttamente sull’imbarcazione. La totale decontestualizzazione fa sì che sia altrettanto impossibile avanzare ipotesi credibili sulla cronologia del momento in cui il manufatto si trasformò in un reperto archeologico, ovvero il momento in cui la nave che trasportava la nostra anfora fece naufragio o quello in cui l’anfora stessa poté finire in mare, a seguito di una volontà deliberata di sbarazzarsene o di un incidente cui non si poté porre rimedio a dispetto del pregio intrinseco e del valore commerciale dell’oggetto. Questo momento poté quindi essere molto vicino al momento della produzione (nel caso del naufragio di una nave commerciale, che magari seguiva una rotta di cabotaggio sotto costa) o anche sensibilmente lontano, nel caso invece l’anfora sia finita in mare in una fase diversa della sua vita. In ogni caso, per questo evento possiamo avere quindi solo un terminus post quem legato alla data di produzione, che praticamente tutti gli specialisti che se ne sono occupati indicano all’ultimo quarto del iv secolo. 2. Il tesoro di Rimigliano Il cosiddetto “tesoro di Rimigliano” ha una storia per molti versi simile a quella dell’anfora di Baratti, giacché anch’esso fu ritrovato in mare in circostanze del tutto fortuite. Fig. 2. Il tesoro di Rimigliano prima della pulitura (da De Laurenzi 2004.) 886 Tre “pezzi in cerca di contesto” e un impossibile calcolo della probabiblità In questo caso, era l’agosto del 2002, fu un bagnante a incappare a pochi metri dal bagnasciuga in un grosso oggetto metallico del peso di ca. 17 kg, che si rivelò essere un ammasso di monete d’argento di età romana, tenute insieme dalla concrezione marina e dagli ossidi di rame derivanti dalla frazione di questo metallo contenuta in lega nelle monete stesse9 (fig. 2). Il numero delle monete che compongono il tesoro è solo stimato — indicativamente, tra le 3.000 e le 3.500 unità — poiché, per una serie di ragioni del tutto condivisibili, si è deciso di non procedere alla separazione dei singoli pezzi, ma di conservare nell’esposizione museale (al Museo del Territorio di Populonia a Piombino) l’informazione circa l’aspetto d’insieme al momento del ritrovamento. A fini di studio, sono quindi state isolate solamente il 10% ca. delle monete e di queste solo una parte sono state fin qui pulite e studiate (100 pezzi, corrispondenti al 30 % delle monete isolate e al 3% del totale stimato). Il campione, la cui attendibilità rispetto all’insieme complessivo è ovviamente argomento di possibile riflessione, è risultato quasi omogeneamente composto da cosiddetti antoniniani o radiati, vale a dire le monete d’argento del peso di un denario e mezzo e del supposto valore di due denari, che vennero introdotte da Caracalla nel 215 e che andarono progressivamente a sostituire il denaro come moneta argentea circolante nel corso del iii secolo. In particolare, nel campione sono state riconosciute le seguenti emissioni: 1 moneta di Lucio Vero (161-169), 1 di Caracalla (211-216), 1 di Iulia Maesa (218-223), 19 di Gordiano III (238-244), 14 di Filippo l’Arabo (244-249), 4 di Filippo II (244249), 2 di Decio (249-251), 13 di Treboniano Gallo (251-253), 4 di Volusiano (251-253), 15 di Valeriano (253-260), 1 di Quieto (260-263), 1 di Mariniana (254), 1 di Valeriano II (255-258), 139 di Gallieno (253-268), 43 di Salonina (256-268), 63 di Postumo (259-268). Stando almeno al campione preso in esame, la dinamica di formazione del “tesoro” sarebbe abbastanza chiara, giacché le emissioni appaiono concentrarsi quasi tutte nell’arco di un trentennio, dall’epoca di Gordiano III a quella di Postumo, con sole due evidenti eccezioni, rappresentate dai denari di Lucio Vero e di Caracalla, che potrebbero essere stati tesaurizzati in maniera selettiva in virtù del loro valore intrinseco dato dalla percentuale di argento contenuta nella lega di queste monete prima della riforma di Caracalla. La dinamica di formazione dell’insieme sembra dunque avere le caratteristiche di una tesaurizzazione “lenta”, non legata quindi a un evento immediato che spinge a raccogliere tutta la moneta in circolazione, ma piuttosto in relazione a una cassa “aperta”, in cui le monete entrano ed escono a seguito di una normale circolazione, mentre una frazione di esse — presumibilmente quelle 9 De Laurenzi 2004. 887 Enrico Zanini con un migliore tenore di argento — vengono accantonate per la tesaurizzazione. La stessa dinamica sembra poi suggerita dalla posizione delle monete all’interno dell’ammasso e dalla forma del blocco stesso: il profilo circolare di uno dei lati dell’ammasso suggerisce un originario posizionamento all’interno di una cesta o di un sacco, mentre la disposizione delle monete in piccole “pile” composte di 10 pezzi ciascuna sembra indicare che ciascun gruppetto di monete fosse inserito originariamente in un involto, forse di tela, con lo scopo di evitare il mescolarsi delle monete e di facilitare le operazioni di conteggio dell’ammontare complessivo del tesoro stesso. Il quadro d’insieme ha quindi suggerito a coloro che hanno fin qui studiato il tesoro l’immagine di un accumulo di tipo “commerciale”, in cui le monete potessero aver viaggiato con funzione di cassa per i pagamenti; anche se non sono in prima battuta escludibili spiegazioni diverse, come, per esempio, la pertinenza del “tesoro” a un carico di monete ritirate dalla circolazione e destinate a una zecca per essere rifuse in vista della coniazione di nuova moneta. Nell’un caso e nell’altro dovremmo comunque immaginare una imbarcazione che trasportava le monete e quindi cercare le tracce di un relitto in questa zona. Vista la posizione di rinvenimento dell’ammasso quasi a ridosso della battigia, è stata avanzata l’ipotesi che il relitto sia da ricercare più al largo, su un fondale più profondo, e che l’ammasso sia stato spostato dalla sua deposizione originaria da subacquei clandestini, che lo avrebbero lasciato presso la riva in attesa di condizioni adatte per il recupero di un manufatto pesante e voluminoso10. Non ci sono evidentemente argomenti per valutare il grado di verosimiglianza di questa ipotesi, ma si può sottolineare come, in questo caso, i subacquei clandestini avrebbero agito nel caso del “tesoro” di Rimigliano esattamente come l’ancorotto della barca che, trentasei anni prima, nello stesso tratto di mare, aveva strappato dal fondale l’anfora di Baratti, restituendocela sotto forma di prezioso reperto completamente decontestualizzato. Di conseguenza, anche per il nostro ammasso di monete valgono le considerazioni espresse per l’anfora per quel che riguarda la cronologia: un terminus post quem per la “chiusura” dell’accumulo è rappresentato, almeno nel campione rappresentato, dalle monete di Postumo, con un limite teorico dunque al 268. Davvero difficile è invece valutare quanto tempo dopo questa data si sia verificato l’evento che determinò la caduta in mare del contenitore che ospitava le monete: una interpretazione come testimonianza di una pratica commerciale porterebbe logicamente a indicare tra la fine del settimo e gli inizi dell’ottavo decennio del iii secolo la data più probabile. Come si è detto, si tratta della 10 888 Camilli 2004. Tre “pezzi in cerca di contesto” e un impossibile calcolo della probabiblità spiegazione più semplice e quindi, almeno potenzialmente, di quella che ha maggiori probabilità di avvicinarsi alla realtà, ma dinamiche di altro tipo non possono essere escluse a priori. 3. Il mosaico di Vignale Nel settembre del 2014, nell’area archeologica di Vignale, posta nell’entroterra di Piombino e a una quindicina di km di distanza dalla spiaggia di Rimigliano, è ritornato alla luce, in circostanze ancora una volta fortuite, un importante mosaico pavimentale di epoca tardoantica11. Il mosaico era già stato scavato in occasione dei lavori eseguiti intorno al 1830 per la costruzione della nuova “Strada Regia” voluta dal granduca di Toscana Leopoldo II nel quadro del suo progetto di risanamento delle paludi maremmane12. Dopo la scoperta, il mosaico fu protagonista di una vicenda molto complessa che non è stato ancora possibile definire in tutti i suoi dettagli: scomparve dalla documentazione fin da subito e finì per essere deliberatamente occultato sotto il pavimento rustico di un capannone agricolo, costruito con buona probabilità tra la fine del xix e gli inizi del xx secolo. Le ragioni di questo occultamento rimangono misteriose, ma questo episodio costituì la circostanza principale che determinò la conservazione del manufatto, giacché le strutture del capannone — abbattuto nel 1960 in occasione dell’allargamento della strada statale — protessero il mosaico pavimentale dalle arature profonde che negli anni successivi interessarono questa porzione del campo in cui è ubicato il sito archeologico di Vignale. Proprio queste arature hanno determinato il virtuale isolamento del mosaico dal suo contesto stratigrafico di pertinenza, giacché le fasi tardoantiche e altomedievali del sito di Vignale furono in larga misura cancellate dai lavori agricoli e possono quindi essere ricostruite solo in maniera largamente ipotetica sulla base dei pochissimi frammenti rimasti in situ o comunque riconducibili a una posizione stratigrafica e topografica in qualche maniera definita13. Il mosaico pavimentale si qualifica già a prima vista come un manufatto di straordinario interesse e largamente “inatteso” in questo contesto: si tratta infatti di un mosaico molto grande, la cui la dimensione originaria era di ca. 100 mq, anche se il manufatto presenta estesissime lacune, mentre la parte figurata si sviluppa su una fascia di ca. 3 x 9 m. Si tratta poi di un manufatto 11 Giorgi, Zanini 2015; 2016. 12 La strada divenne in seguito parte del tracciato della SS 1 – Aurelia e, dopo la costruzione della nuova variante che porta questo nome, è stata riconvertita in strada provinciale (detta “Vecchia Aurelia; SP 152 in provincia di Grosseto e SP 39 in provincia di Livorno). 13 Zanini, Giorgi 2014. 889 Enrico Zanini di grandissima qualità esecutiva, tanto da permettere di ipotizzarne la realizzazione da parte di maestranze africane, i cui dettagli esecutivi trovano confronto soprattutto nei grandi cicli musivi tardoantichi della Sicilia e dell’Italia meridionale. Terzo elemento di interesse è una datazione a partire dalla fine del primo quarto del iv secolo d.C., assicurata dalla presenza di una moneta di Costantino I (datata preliminarmente al 324-330) nello strato di allettamento delle tessere (fig. 3). Fig. 3. Il mosaico tardoantico di Vignale. Il carattere di eccezionalità è poi confermato dall’iconografia originaria della porzione figurata e dalla circostanza che questa iconografia venne nel corso del tempo riorganizzata a seguito di almeno due — ma forse anche tre — interventi di rifacimento, resisi necessari in conseguenza di eventi complessi, di cui non sappiamo ancora definire con precisione la natura. Al momento della sua realizzazione originaria, il mosaico si presentava diviso in due grandi aree: la prima, a Sud, più estesa (ca. i 2/3 della superficie totale) e decorata a motivi geometrici di eccellente qualità; la seconda, a Nord, organizzata in tre riquadri, di cui i due laterali presentavano intrecci di cornici geometriche che racchiudevano tondi forse figurati, mentre il pannello centrale, punto focale dell’intero sistema decorativo, presentava una scena unitaria con cinque figure14. 14 890 Giorgi, Zanini c.s. Tre “pezzi in cerca di contesto” e un impossibile calcolo della probabiblità Secondo uno schema ben noto nei mosaici pavimentali di quest’epoca, soprattutto per l’appunto in area africana15, ai quattro angoli sono riconoscibili le personificazioni delle Stagioni: partendo dall’angolo in basso a sinistra e procedendo in senso antiorario, si riconoscono infatti l’Autunno, l’Estate, la Primavera e l’Inverno. Le figure originarie (pervenute molto deteriorate da distruzioni parziali e da interventi di rifacimento) appaiono disposte su uno sfondo omogeneo bianco, alternate, lungo i lati sud e ovest (in basso e a sinistra nelle immagini), a xenia che fanno probabilmente riferimento ai prodotti che la villa che ospitava il mosaico poteva offrire agli ospiti del suo agiato proprietario: un gruppo di due grandi pesci che si incrociano e un cesto di vimini ricolmo di frutta, su cui si poggiano due uccellini intenti a nutrirsene. La disposizione delle personificazioni delle Stagioni negli angoli e degli xenia negli spazi intermedi suggerisce una tematica complessiva per il mosaico relativa al ciclo del Tempo e permette quindi di identificare con certezza la figura che è presente al centro, in alcuni aspetti non del tutto leggibile a causa degli interventi successivi. Al centro compare dunque la figura di un giovane discinto, con il braccio destro sollevato e appoggiato a un arco formato da una fascia di tessere di colore giallo carico, in cui non è difficile identificare una delle formulazioni iconografiche della personificazione del Tempo ciclico —Aiôn/Tempus/Saeculum — nell’atto di muovere l’anello del tempo16, secondo una tipologia decorativa molto diffusa in epoca tardoantica, soprattutto nelle grandi sale da banchetto e/o di rappresentanza di residenze di prestigio17. In questo schema iconografico, che è per molti versi “normativo”, risalta dunque in maniera ancora più evidente l’anomalia costituita dal fatto che il personaggio principale, che di norma — nei numerosi casi fin qui noti — è raffigurato o in piedi o seduto su uno scranno o su una roccia, sia qui seduto su un globo celeste, perfettamente reso attraverso l’impiego di tessere di pasta vitrea in cinque diverse sfumature di colore, dal verde all’azzurro. Al momento, almeno a mia conoscenza, si tratta dell’unico esempio di questa versione del tema iconografico; una versione che apre evidenti problemi di lettura e interpretazione, giacché il tema del personaggio seduto su un globo celeste ha una storia lunga, che comincia con gli imperatori romani del ii e iii secolo d.C.18 e finisce con le immagini del Cristo cosmocrator nelle raffigurazioni cristiane a partire dal v secolo19. Una storia all’interno della quale l’esempio di Vignale potrebbe costituire l’unico esempio fin qui noto di un 15 16 17 18 19 Ghedini 1991. Musso 2008. Gualtieri 2008. Estiot 2004, 38; Gnecchi 1912. Della Valle 2002. 891 Enrico Zanini punto di intersezione tra due serie iconografiche distinte (quella imperiale e quella cristiana) oppure di un comune archetipo da cui possano originare tutte e tre le tipologie: imperatore, Cristo e, appunto, Aiôn. La piena comprensione del tema iconografico principale è infine ostacolata da una circostanza specifica, costituita da un’ampia rottura che il mosaico originale subì in un momento della sua vita non determinabile con precisione. A seguito di un evento anch’esso indeterminabile, quasi la metà del tappeto centrale originario andò distrutta, a partire da una linea di frattura che parte dall’angolo superiore sinistro e termina in quello inferiore destro e che determinò la perdita dell’intera figura dell’Inverno, di oltre metà di quella della Primavera e di quasi tutta quella dell’Estate, nonché dei campi intermedi e degli xenia che dovevano decorarli. Anche la figura centrale venne parzialmente distrutta: della testa rimase solo il mento e andò perduta la parte destra del corpo e la porzione di globo celeste su cui questa si appoggiava. La rottura venne in seguito risarcita con un rifacimento che interessò tutte le figure (per intero l’Inverno e quasi tutta l’Estate, in parte la Primavera), che comportò la stesura di un nuovo sfondo tra le figure, questa volta caratterizzato da una ricca decorazione a girali vegetali che si dipartono da due coppie di uccelli affrontati, e che culminò con il rifacimento del volto e del corpo della figura centrale. Le caratteristiche di questo rifacimento, che pone evidentemente molti problemi iconografici proprio nella figura centrale, non saranno oggetto di discussione in questa sede: quello che è invece qui utile sottolineare sono gli aspetti tecnici di questo intervento, perché costituiscono un elemento fondamentale per lo sviluppo del nostro ragionamento congetturale. Il rifacimento del tappeto centrale del nostro mosaico venne realizzato a distanza di tempo dalla parziale distruzione del mosaico precedente, come testimonia l’uso di tessere di buona qualità e di un’ampia scala cromatica, ma ben più grandi rispetto a quelle originarie, che dovevano evidentemente essere andate perdute tra il momento del danneggiamento e quello del rifacimento. Al momento, si diceva, non siamo in grado di assegnare una cronologia assoluta a questo rifacimento, che, in termini di cronologia relativa si colloca dopo la stesura originaria e prima di uno — o forse anche due — ulteriori rifacimenti intervenuti ancora successivamente. L’unico elemento che abbiamo è, per l’appunto, una direi solida certezza di uno iato fra la prima parziale distruzione del mosaico e il conseguente rifacimento; su questo elemento ci baseremo dunque. 892 Tre “pezzi in cerca di contesto” e un impossibile calcolo della probabiblità 4. Una sintesi intermedia e la produzione progressiva di contesti possibili La rapida presentazione dei manufatti oggetto di questa riflessione evidenzia quindi una comune situazione almeno dal punto di vista della loro collocazione macrostratigrafica. In tutti e tre i casi disponiamo di una data relativamente precisa per la “produzione” del manufatto (l’ultimo terzo del iii secolo d.C. per il tesoro di Rimigliano; la seconda metà del iv secolo per l’anfora di Baratti; il secondo quarto del iv secolo per la prima fase del mosaico di Vignale), ma, stanti le circostanze del ritrovamento, per almeno due di essi non abbiamo una data certa di ingresso nella stratificazione archeologica. L’anfora di Baratti potrebbe essere finita in mare subito dopo la sua produzione, magari a seguito del naufragio della nave che la trasportava insieme ad altre merci di grande pregio verso la sua destinazione commerciale; ma potrebbe anche aver fatto del corredo di bordo di una imbarcazione di proprietà di un personaggio molto facoltoso, o perfino, stanti le condizioni dell’oggetto al momento del rinvenimento, essere divenuta parte di un carico di manufatti d’argento danneggiati e/o fuori moda destinati alla rifusione, forse proprio per farne monete. Dal canto suo, la prima fase del mosaico di Vignale potrebbe aver continuato a vivere per molto o per pochissimo tempo, prima di subire quel danneggiamento così radicale e il successivo rifacimento certamente lontano nel tempo. Apparentemente meno complicata è la questione per il tesoro di Rimigliano, che in linea di principio in quanto ammasso di monete all’interno di un contenitore non dovrebbe aver vissuto troppo a lungo al di là del momento di fine dell’accumulo e che quindi potrebbe semplicemente essere la traccia di un naufragio avvenuto negli anni subito dopo il 268. In questi casi, normalmente, tutto dipende dal contesto di deposizione, che è il solo a offrire indizi spesso decisivi sulle circostanze e sui tempi in cui è realmente avvenuta la trasformazione di un manufatto in una cosa destinata a divenire dopo molti secoli un reperto archeologico. Ma in tutti e tre i casi è proprio il contesto di deposizione che ci manca. Non resta quindi che affidarsi ancora una volta alle congetture per provare a ricostruirne uno almeno possibile. E dato che le congetture sono un prodotto della nostra contemporaneità e della nostra capacità di istituire reti di relazioni tra oggetti che di per sé non ne palesano, possiamo provare a lavorare sulla costruzione progressiva di questo possibile contesto, lavorando su una valutazione — del tutto empirica e quindi non scientificamente verificabile — del suo grado di probabilità. Al momento del ritrovamento del primo dei nostri manufatti la decontestualizzazione era assoluta. L’anfora di Baratti venne fuori dal mare nel 1968 893 Enrico Zanini letteralmente come un pesce preso all’amo e non saprei quindi indicare un caso di maggiore decontestualizzazione archeologica. Questo aspetto è stato ovviamente ben colto da tutti gli studiosi che se ne sono occupati e che hanno di conseguenza concentrato tutta l’attenzione sull’analisi morfologica, tipologica e stilistica del manufatto in sé, per arrivare a determinarne data e area di produzione e, con margine ancora maggiore di ipoteticità, status sociale e cultura di un reale o potenziale acquirente/utilizzatore. Questa decontestualizzazione assoluta si è un pochino attenuata nel 2002, perché il rinvenimento del tesoro di Rimigliano ha creato almeno un primo punto di riferimento. I due manufatti sono certamente molto distanti tra loro nel tempo, ma sono invece molto vicini tra loro nello spazio (entrambi vengono dal braccio di mare antistante la spiaggia di Rimigliano e l’abitato costiero di San Vincenzo) e sono comunque accomunati dalla qualità del materiale di cui sono composti, l’argento. Si tratta di due legami esili — il mare di San Vincenzo è grande abbastanza per due relitti e di argento nel mondo tardoimperiale/tardoantico ne circolava moltissimo — ma due legami, per quanto esili, sono comunque qualcosa di più rispetto a una totale decontestualizzazione. Pesare la forza di questi legami esili non è affatto facile: la distanza cronologica è un argomento difficilmente superabile, ma forse l’ipotesi di una completa estraneità tra i due manufatti non è molto più probabile. Possiamo provare allora a riflettere sul grado di probabilità che due relitti, indipendentemente dal loro carico, si trovino nello stesso, ristretto, braccio di mare. Il fenomeno dei cosiddetti “cimiteri di navi”, luoghi cioè dove nel corso dei secoli si accumularono relitti derivanti da naufragi diversi, è molto noto e la cosa in sé non costituirebbe quindi un problema, anche se questi cimiteri sono quasi sempre collocati in prossimità di punti focali della navigazione (porti particolarmente attrattivi, approdi naturali ecc.) e più raramente lungo le coste sabbiose come nel nostro caso20. Non lontano dal nostro braccio di mare c’è una concentrazione di relitti in prossimità del porto di Baratti (4 relitti con datazioni tra l’epoca etrusca e il i secolo a.C.)21, mentre in corrispondenza dello specchio d’acqua antistante San Vincenzo è attestato un solo relitto, presumibilmente di epoca bassomedievale, più, forse, un secondo, la cui ubica20 Merita di essere osservato che sulla carta di distribuzione dei relitti in generale e su quella dei “cimiteri di navi” in particolare pesa moltissimo la variabile delle forme della scoperta: gran parte dei relitti viene scoperta casualmente nel corso di immersioni subacquee, di conseguenza il tasso di relitti per km2 di mare dipende anche molto dall’intensità delle attività subacquee in quel tratto di mare. Anche a questo si deve quindi la densità di relitti in prossimità delle isole minori, che erano certamente nel passato luoghi di approdo fondamentali soprattutto in caso di maltempo, ma che sono anche oggi tra i luoghi privilegiati da chi pratica gli sport subacquei. 21 Cfr. Parker 1992, nr. 89, 145, 869, 898. 894 Tre “pezzi in cerca di contesto” e un impossibile calcolo della probabiblità zione potrebbe però essere il prodotto di una confusione con uno dei relitti di Baratti22. Nel caso i nostri due manufatti subacquei provenissero da due relitti distinti, dovremo quindi registrare un raddoppio o addirittura una triplicazione del numero dei naufragi in quest’area nel lungo periodo. E più o meno lo stesso valore avremmo esaminando il numero di relitti di epoca tardoromana/tardoantica nell’area delle isole toscane. Insomma, anche in questo caso, l’improbabile calcolo delle probabilità non risolve la questione, ma lascia aperte entrambe le ipotesi. Per cui converrà abbandonare per un momento questo aspetto e ritornare alla nostra anfora d’argento. Al di là degli aspetti legati alle circostanze del suo inabissamento, l’anfora di Baratti è apparsa fin da subito un manufatto di difficile contestualizzazione anche sotto il profilo del suo uso possibile. Un oggetto di grande pregio, forse anche in grado di costituire una attestazione di prestigio per colui che lo usava sulla sua mensa, ma che appare totalmente estraneo alla immagine che le fonti storiche e quelle archeologiche permettono — o meglio, fino a qualche anno fa permettevano23 — di costruire per il territorio in prossimità del quale l’anfora è stata rinvenuta. Da qui l’ipotesi che si trattasse di un manufatto “in transito”, partito da lontano e destinato ad andare lontano, il cui viaggio si interruppe bruscamente proprio in questo braccio di mare in maniera del tutto occasionale. Dal 2014, il mutare della nostra percezione complessiva di quel territorio in età tardoantica ha reso questa ipotesi non più l’unica possibile. La scoperta del grande mosaico tardoantico di Vignale sta di fatto obbligando tutti noi a costruire una immagine del territorio molto diversa da quella tradizionale. L’immagine della decadenza del sistema insediativo romano e del precoce e rapido formarsi di quel paesaggio paludoso e malsano che questa zona ha conservato fino alle bonifiche ottocentesche e novecentesche è oggi contrastata dalla circostanza che nel pieno iv secolo questo territorio fosse stato scelto come residenza di un aristocratico di alto livello e che questa condizione si sia apparentemente mantenuta per un discreto arco di tempo, di cui non sappiamo definire la durata, ma che, sulla base dei diversi rifacimenti del mosaico, stesso sembra prolungarsi per almeno qualche decennio e forse anche oltre. Il iv e il v secolo (e chissà mai anche almeno una parte del vi) ci appaiono ora un periodo da studiare in una luce nuova, a partire dalla immagine della presenza delle residenze e delle attività produttive di esponenti di altissimo livello dell’aristocrazia urbana, come del resto è attestato dalla grande villa dei Cae22 Ibid., nr. 1023, 1024. 23 Ciampoltrini 1988. 895 Enrico Zanini cina poche decine di km più a Nord di Vignale e pochissimi km a Nord di San Vincenzo e del suo mare24. Ma non è evidentemente solo questione di cronologia degli insediamenti o di potenziale economico delle famiglie cui appartenevano; è anche questione della cultura che questi ceti dominanti in questo periodo esprimevano. Da questo punto di vista, il mosaico di Vignale con il suo tema iconografico principale ancora unico e comunque suscettibile di interpretazioni molto complesse costituisce davvero un punto di riferimento importante. Soprattutto in relazione alla nostra anfora, perché non può sfuggire che tra il tema iconografico del mosaico e quello dell’anfora ci sia una relazione piuttosto evidente: in entrambi i casi il tema centrale è quello del Tempo e del suo scorrere ciclico; in entrambi i casi il motore primo di questo tema è la personificazione di Aiôn/ Tempus/Saeculum, anche se proposta in due declinazioni iconografiche differenti e con sviluppi narrativi che nell’anfora sono evidentemente assai più complessi che non nel mosaico, come d’altronde è lecito immaginare sulla base della differente natura intrinseca dei due manufatti25. Ciò naturalmente non vuole affatto dire che l’anfora e il mosaico debbano necessariamente avere qualcosa a che fare tra loro: quello del Tempo ciclico è uno dei grandi temi iconografici del mondo tardoantico26, come dimostrano, per esempio, il già citato piatto di Parabiago nel campo dei manufatti mobili di altissimo pregio e molti tappeti musivi soprattutto nel contesto culturale e artistico dell’Africa settentrionale tardoromana. L’unica cosa che possiamo dire con una qualche sicurezza è che quell’anfora sarebbe stata perfettamente in tono con l’ambiente fisico e umano della sala di rappresentanza della villa di Vignale nei decenni in cui il mosaico era visibile nella sua configurazione iniziale: entrambi, anfora e mosaico, fanno infatti evidentemente riferimento allo stesso milieu socio-economico e culturale e, sotto questo profilo, anche la differenza di cronologia dei due manufatti potrebbe tranquillamente riassorbirsi. Tutti siamo abituati a ricevere i nostri amici nella sala da pranzo che abbiamo allestito magari trent’anni fa — o anche che abbiamo ereditato dai nostri genitori/nonni — e a mostrare loro, in quell’ambiente, il nostro ultimo acquisto prezioso. 24 Donati 2012. 25 In questa prospettiva, sarebbe davvero interessante sapere che cosa era raffigurato nei riempitivi circolari delle cornici a intreccio che decoravano i due tappeti laterali del mosaico; ma quei riempitivi sono andati in parte perduti e in parte volontariamente rimpiazzati da altri e per elaborare anche solo una ipotesi sarà necessaria uno studio iconografico e iconologico particolarmente complesso, stante proprio l’apparente unicità del tema centrale che ci priva di sicuri termini di riferimento. 26 Levi 1944; Musso 1994. 896 Tre “pezzi in cerca di contesto” e un impossibile calcolo della probabiblità Anche in questo caso dunque siamo di fronte a una valutazione del grado di probabilità assai complicata: a prima vista la probabilità di una relazione tra i due manufatti è bassissima — diciamo meglio, altrettanto bassa di quella di una completa estraneità — ma mi sembra di poter dire che in questa valutazioni giochi moltissimo il fattore percezione, generato dalla distanza fisica tra i due reperti e dai diversi contesti di ritrovamento. Forse, se l’anfora l’avessimo trovata interrata a qualche decina di metri di distanza dal mosaico, dove all’epoca c’era una laguna e dove quindi le condizioni di deposizione potevano essere più o meno le stesse, la nostra percezione sarebbe stata diversa. Nella “brutale” realtà probabilistica, siamo più o meno nelle condizioni di chi è indeciso sull’acquisto dei biglietti di una grande lotteria: che ne compriamo uno o tre o anche cinque le nostre probabilità di vincita non cambiano concretamente. Quella che cambia è solo la nostra percezione della possibilità di vincere. 5. Un supercontesto? Alla fine di questa rapida analisi delle possibili relazioni emerge dunque che i tre manufatti così disperatamente decontestualizzati potrebbero trovare una loro, ancorché ipoteticissima, relazione associandoli a due a due: l’anfora con il tesoro e l’anfora con il mosaico. Va da sé che l’anfora ha in questo schema un ruolo centrale perché partecipa di tre dimensioni diverse: quella materiale e quella di collocazione al momento del rinvenimento, che la associano all’agglomerato di monete d’argento, e quella iconografica che la lega invece al mosaico. Nessun legame sembra invece possibile istituire, almeno in prima battuta, tra il mosaico e le monete, che sono molto distanti tra loro per cronologia, spazio e possibile contesto originario di riferimento. A maggior ragione, sembra mancare un elemento che tenga insieme tutti e tre i nostri elementi: l’arco cronologico della loro produzione è decisamente troppo ampio e lo spazio in cui sono distribuiti è sì circoscritto, ma ancora una volta troppo dilatato. A meno che non ci si sforzi di pensare a un evento esterno a tutti e tre questi elementi: un evento con forza e caratteristiche attuative tali da creare le condizioni perché i nostri tre manufatti così distanti tra loro possano esserne stati contemporaneamente interessati. Per questo eventuale e fortemente ipotetico evento abbiamo una data certa post quem, determinata ovviamente dalla data di produzione del manufatto più recente tra i tre, quindi l’anfora con la sua cronologia nella seconda metà o negli ultimi decenni del iv secolo. 897 Enrico Zanini A questo elemento si può aggiungere un carattere socio-economico del nostro ipoteticissimo evento, giacché tutti e tre i nostri manufatti sono accomunati dall’avere un elevato valore intrinseco e nel rappresentare quindi con ogni probabilità la presenza e l’attività di esponenti di un ceto sociale di alto livello, in grado di abitare in residenze di prestigio, di usare manufatti di pregio e di accumulare anche ricchezza in forma di depositi di monete. Il nostro evento potrebbe quindi essere stato un momento di rottura di questo equilibrio, una fase negativa che avrebbe potuto condurre alla distruzione del mosaico, alla perdita dell’anfora e, nella stessa o in un altra occasione, anche alla rimozione del tesoro di tardoimperiale dalla sua originaria collocazione. Territorio ed epoca suggeriscono probabilmente più di una possibile circostanza, ma una sopra tutte appare teoricamente — del tutto teoricamente — plausibile. Com’è universalmente noto, il territorio di cui ci stiamo occupando subì, agli inizi del secondo decennio del v secolo — quindi in una data del tutto compatibile con il post-quem imposto dall’anfora — un evento che è potenzialmente di scala e di natura tale da determinare degli effetti così distanti nello spazio. Nel 412, i Visigoti, guidati da Ataulfo dopo l’improvvisa morte di Alarico in Calabria, intrapresero il lungo cammino che li avrebbe portati a stabilirsi in Gallia, risalendo la penisola seguendo proprio il percorso tirrenico. Ad essere particolarmente colpita dal impatto negativo dell’esercito in marcia fu proprio l’Etruria e in special modo l’antica Via Aurelia — Aemilia Scauri e i territori a essa immediatamente contigui. Ce ne ha lasciato una testimonianza eloquente Rutilio Namaziano, che, muovendosi a sua volta verso la Gallia tre o cinque anni dopo, decide di compiere via mare almeno la prima parte del percorso, fino a Pisa e Luni, proprio perché reputa la via terrestre faticosa e insicura. Le sue parole, in un celeberrimo passo del De reditu, sono eloquenti: “Postquam Tuscus ager postquamque Aurelius agger / perpessus Geticas ense uel igne manus, / non siluas domibus, non flumina ponte coercet, / incerto satius credere uela maris”27. Dunque un riferimento specifico ai saccheggi, alle distruzioni e agli incendi che in quella circostanza colpirono la Tuscia e soprattutto la sua fascia costiera, quella in cui correva l’antica Aurelia. Proviamo a tornare al mosaico di Vignale. Abbiamo detto che questo mosaico subisce, in una data indeterminata dopo il suo originario allestimento nel secondo quarto del iv secolo, una devastazione, che comporta la perdita del tessuto originario di una buona metà del tappeto figurato centrale, seguita da una fase prolungata di abbandono, che comporta la perdita delle tessere 27 898 Rut. Nam., De reditu 1, 39-42. Tre “pezzi in cerca di contesto” e un impossibile calcolo della probabiblità originarie, al punto da richiedere l’impiego di nuovo materiale al momento del rifacimento. Un quadro che si attaglierebbe molto bene per cronologia, natura e “intensità” del fenomeno testimoniato nella stratificazione dei tessellati a un evento come quelli cui accenna Rutilio. Non è quindi impossibile immaginare nella cesura della vita del mosaico di Vignale e nello iato che ne segue una distruzione violenta della villa che lo conteneva, seguita da una prolungata fase di abbandono che avrebbe creato per l’appunto le condizioni per la dispersione delle tessere originarie. Stanti le circostanze, non esiterei a definire questa relazione tra effetto testimoniato archeologicamente e causa potenziale come sufficientemente probabile. Su questa base di relativa probabilità è quindi possibile provare a immaginare in che modo questo evento potrebbe aver determinato o contribuito a determinare le altre due tracce che abbiamo a disposizione. Se il nostro punto focale è divenuta una villa costiera assaltata dai Visigoti, allora la presenza di un anfora in mare a non molta distanza dalla villa stessa diviene un po’ meno improbabile: sia che l’esito ultimo (l’inabissamento dell’imbarcazione che trasportava l’anfora) sia il prodotto di una fuga precipitosa dei proprietari della villa nel tentativo di mettere in salvo se stessi e almeno la frazione trasportabile dei propri beni, sia invece che sia la traccia di un episodio opposto, come il tentativo da parte di un gruppo di Visigoti di trasportare via mare una parte consistente del bottino che si andava progressivamente accumulando nelle loro mani. Di congettura in congettura, se entriamo nella ipotesi interpretativa della messa al sicuro di beni (siano essi di legittima proprietà o frutto di una razzia prolungata nel tempo e nello spazio), anche la presenza dell’accumulo di monete d’argento potrebbe — sia pure con qualche evidente maggiore difficoltà — rientrare nel quadro. È vero che l’accumulo del cosiddetto tesoro di Rimigliano si sarebbe chiuso — sulla base delle analisi fin qui condotte — quasi centocinquant’anni prima delle vicende cui ci riferiamo, ma non è del tutto impossibile che un tesoro ad accumulo lento e selettivo come quello di cui stiamo parlando possa aver avuto una vita molto lunga, magari con un accantonamento protrattosi per diverse decine di anni. Quando si discute della data di “chiusura” di un tesoro non si discute necessariamente anche della data del suo occultamento. Fine dell’accumulo, data dell’occultamento e durata dell’occultamento stesso sono evidentemente tre cose diverse, che possono naturalmente coincidere — soprattutto nel caso di eventi violenti che spingono ad azioni immediate per salvare il salvabile — ma che possono anche tranquillamente non coincidere, perché traccia di comportamenti assai più complessi. 899 Enrico Zanini Nel processo di accumulo e nella sua fine entrano, per esempio, elementi molto diversi, come, per esempio, le dinamiche di variazione del titolo di fino all’interno della lega delle monete28. In una fase come quella tardoantica in cui la percentuale di argento puro tende invariabilmente a scendere, non è affatto impensabile che monete di qualità relativamente buona possano essere state tesaurizzate anche come forma di accumulo di ricchezza da recuperare e reinvestire in un secondo momento. Esattamente come è accaduto in tempi anche recenti con la tesaurizzazione privata di monete auree o di argento. Un’altra possibilità è che a compiere questa operazione di tesaurizzazione “economica” possa essere stato non un privato cittadino ma una entità pubblica, che potrebbe aver tesaurizzato moneta di buona qualità al momento del suo ritiro dalla circolazione in vista di un riuso in forme diverse e in momenti diversi. Questa ipotesi si attaglierebbe piuttosto bene, per esempio, per il grande tesoro di Misurata, in Libia, di natura analoga a quello di Rimigliano ma di una scala dimensionale estremamente più grande29. Che l’amministrazione pubblica ricorresse a espedienti di questo genere sembra inoltre confermato dall’ormai noto fenomeno della ri-circolazione estensiva nel corso del vii secolo di monete di bronzo coniate nel iv secolo: un fenomeno testimoniato dalla anomala commistione di monete di epoche diverse nelle stratificazioni archeologiche di molti siti del Mediterraneo protobizantino e che attende ancora una spiegazione definitiva da parte degli specialisti. Se visti in questa luce, dunque, anche i due punti estremi — dal punto di vista spaziale, temporale e funzionale — del nostro set di reperti decontestualizzati possono avere qualche cosa in comune: un filo tenuissimo che può collegarli per strapparli alla loro desolante collocazione iniziale. Va da sé che nel seguire il filo sottile delle congetture occorre non perdere mai di vista la condizione di partenza: di fronte a manufatti così isolati e virtualmente privi di riferimenti ci si può serenamente accontentare di limitarsi alla loro semplice descrizione analitica, sicuri di aver reso comunque un servizio alla conoscenza materiale del passato, oppure avventurarsi alla ricerca di un contesto che, per quanto ipotetico, provi a spiegarne la compresenza spazio-temporale e culturale. Anche in questo secondo caso, si può fare professione di serenità: per quanto azzardate siano, le nostre ipotesi non hanno un tasso di improbabilità significativamente superiore a quello di quasi tutte le ipotesi che avanziamo nell’interpretazione archeologica, che è per sua natura basata sulla relazione tutt’altro che definita tra eventi realmente accaduti e loro concrete tracce materiali conservate nella stratificazione. Descrizione e interpretazione sono ai due 28 29 900 Camilli 2004. Garraffo, Mazza 2015. Tre “pezzi in cerca di contesto” e un impossibile calcolo della probabiblità estremi del paradigma conoscitivo in archeologia e in quale punto fermarsi tra questi due estremi è questione di scelte personali: Ludwig Wittgenstein avrebbe scritto che “su ciò di cui non si può parlare si deve tacere”, Umberto Eco avrebbe replicato che “di ciò di cui non si può teorizzare, si deve narrare”. Sara Santoro avrebbe scelto, come sempre, una sua originalissima pista di ricerca, pronta a cambiare idea se e quando nuovi materiali o nuove ipotesi avessero generato nuove possibilità interpretative. Le ricerche sulla tarda Antichità del territorio di Populonia sono ancora in corso: staremo a vedere che cosa porteranno di nuovo, pro o contro il nostro (im)possibile calcolo delle probabilità. Bibliografia Arias P. E. 1986, L’anfora argentea di Porto Baratti, Roma. Baratte F. 2000, Anfora con decorazione figurata, in Ensoli S., La Rocca E. (a cura di), Aurea Roma. Dalla città pagana alla città cristiana, Roma, 502-503. Camilli A. 2004, Un rinvenimento monetale nel territorio populoniese. Prime considerazioni sul tesoretto di Rimigliano e sul valore dell’Antoninianus, in Gualandi M.L., Mascione C. (a cura di), Materiali per Populonia 3, Firenze, 259268. Ciampoltrini G. 1988, L’agro cosano fra tarda antichità e alto medioevo: segnalazioni e contributi, Archeologia Medievale, 15, 519-526. De Laurenzi A. (a cura di) 2004, Un tesoro dal mare: il tesoretto di Rimigliano dal restauro al museo, Pontedera. Della Valle M. 2002, Il Cristo assiso sul globo nella decorazione monumentale delle chiese di Roma nel Medioevo, in Guidobaldi F., Guiglia Guidobaldi A. (a cura di), Ecclesiae Urbis: Atti del Congresso Internazionale di Studi sulle chiese di Roma (iv-x secolo), Città del Vaticano, 1659-1684. Donati F. 2012, La villa romana dei Cecina a San Vincenzino (Livorno): materiali dello scavo e aggiornamento sulle ricerche, Ghezzano. Estiot S. 2004, Monnaies de l’Empire romain, Paris-Strasbourg. Garraffo S., Mazza M. (a cura di) 2015, Il tesoro di Misurata (Libia): produzione e circolazione monetaria nell’étà di Costantino il Grande, Atti del convegno internazionale di studi, Roma, 19-20 aprile 2012, Catania. 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Zanini E., Giorgi E. 2014, Dieci anni di ricerche archeologiche sulla mansio romana e tardoantica di Vignale: valutazioni, questioni aperte, prospettive, Rassegna di Archeologia, 24, 23-42. 902 – VII – ARCHEOLOGIA DEI BALCANI Il rilievo architettonico dell’anfiteatro di Durazzo: il contributo per la conoscenza e la comprensione di un’architettura archeologica Paolo Giandebiaggi, Chiara Vernizzi Università degli Studi di Parma Abstract Started in 2003 on the subject of the Roman amphitheatre, the “Project Durrës” highlighted the need to expand and integrate the knowledge concerning the architecture of the monument. In cooperation with the Polytechnic University of Tirana, the project of internationalization “Rilievo dell’anfiteatro di Durazzo: conoscenza di un monumento per la valorizzazione del patrimonio culturale mondiale”, started in 2005 and was coordinated by prof. Paolo Giandebiaggi. Initiated in 2004, the survey and study works continued through the collaboration between Italian and Albanian partners. Primary objective of the survey conducted by the team of the University of Parma was to obtain formal and metric data to understand the original configuration of the building. In addition, the graphic analysis and the comparison with similar artefacts have been used to hypothesize the size of the plan and the functional hierarchy of the spaces. Different types of surveys were carried out during the missions conducted from 2004 to 2015: survey of the archaeological excavations, survey of the architectural elements, survey extended to the urban context. The integrated methods of detection, ranging from the use of topographic instruments, to those typical of the direct survey, to the more recent three-dimensional survey, using laser scanner and photo-modelling. 905 Paolo Giandebiaggi, Chiara Vernizzi Introduzione A partire dal “Progetto Durrës” coordinato da Sara Santoro, allora docente all’Università degli Studi di Parma, e dalle collaborazioni avviate nel 2003 attorno al tema dell’anfiteatro romano, è emersa l’esigenza di ampliare ed integrare le conoscenze non solo sulla parte archeologica del monumento, ma anche sulla parte architettonica, al fine di un recupero funzionale e della sua valorizzazione all’interno di un più ampio processo di riqualificazione urbana. Fin da subito, è emersa con evidenza la necessità di un rilievo topografico ed architettonico del monumento come base conoscitiva su cui costruire ogni ipotesi interpretativa, prima, e progettuale, poi. Nel 2005 è stato cofinanziato dal MIUR e dall’Università di Parma un progetto di Internazionalizzazione, coordinato da Paolo Giandebiaggi, in cooperazione con il Politecnico di Tirana, relativo al “Rilievo dell’anfiteatro di Durazzo: conoscenza di un monumento per la valorizzazione del patrimonio culturale mondiale”, nell’ambito del quale i lavori di rilievo e di studio iniziati nel 2004 sono proseguiti attraverso la collaborazione tra diversi partners italiani e albanesi. Obiettivo primario del rilievo condotto sull’anfiteatro dall’équipe dell’Università degli Studi di Parma è stato quello di disporre di dati metrici e formali che consentissero di comprendere la configurazione originaria del manufatto, utilizzando anche gli strumenti concettuali dell’analisi grafica ed il confronto con manufatti analoghi per ipotizzare le dimensioni del sedime d’impianto e delle gerarchie funzionali degli spazi dell’anfiteatro. Ulteriore obiettivo del rilievo è stato quello di rendere disponibile la documentazione di base necessaria alla conservazione di un monumento di tale importanza, verificando la possibilità della valorizzazione della parte in vista attraverso un congruo riuso funzionale e soprattutto attraverso la programmazione di interventi di restauro e manutenzione che ne consentissero la messa in sicurezza e la conservazione. Ogni operazione di restauro di parti del manufatto è stata, infatti, valutata sulla base del rilievo geometrico a scala architettonica dell’intero monumento, che ha consentito di evidenziare in modo puntuale le zone che necessitavano di varie tipologie di interventi. La mancanza di documentazioni precise riguardo al manufatto e agli edifici limitrofi ha richiesto fin da subito la redazione di un rilievo topografico dei limiti fisici degli edifici circostanti nonché della geometria delle parti scavate del manufatto su cui elaborare una prima proposta di messa in sicurezza. Nelle varie missioni sono stati rilevati, mediante metodologie integrate (dirette, topografiche, con laser scanner e fotomodellazione), i ritrovamenti degli scavi effettuati dagli archeologi nel settore meridionale; è stato inoltre 906 Il rilievo architettonico dell’anfiteatro di Durazzo effettuato il rilievo integrato a scala architettonica delle strutture murarie già da tempo rimesse in luce del monumento (cavea e gallerie), nonché la posizione delle recinzioni e degli edifici che si trovano nell’immediato intorno del monumento, sia quelli esistenti lungo il perimetro delle parti scavate sia quelli che sorgono sopra la parte non ancora scavata. L’anfiteatro di Durazzo L’anfiteatro di Durazzo (fig. 1) è uno dei più grandi della penisola balcanica e per ora l’unico dell’Albania. È situato nel settore ovest della città antica, adiacente alle mura bizantine. È parzialmente addossato alla collina e per la restante parte è costruito su sostruzioni concamerate. E’ stato scoperto nel 1966 dal padre dell’archeologia di Durrës, Vangjel Toçi e scavato dagli archeologi albanesi negli anni immediatamente successivi per due terzi della sua estensione1. L’arena, messa in luce in minima parte, era cinta da un podium; la cavea era articolata in maenianum primum e secundum separati fra loro da una praecintio poco pronunciata, mentre una più ampia li separava da una probabile summa cavea2, di cui sembra non restare traccia. L’edificio è costruito in opus coementicium e rivestito di opus mixtum di bande di laterizi e incertum in Fig. 1. Viste dell’anfiteatro di Durazzo (foto di Chiara Vernizzi). 1 Toçi 1971, 40-41. 2 Golvin 1988. 907 Paolo Giandebiaggi, Chiara Vernizzi pietra; le gradinate, in calcare, sono state completamente asportate, ma ne restano parzialmente le impronte sulla struttura in opus caementicium. Secondo lo scopritore, la costruzione dovrebbe essere avvenuta sotto Traiano (98-117 d.C.), quando la città fu dotata anche di una biblioteca, con un intervento urbanistico imperiale che assecondava da una parte le esigenze di divertimento più popolare, dall’altra il profilo culturale della città3. Il suo abbandono a partire dalla seconda metà del iv sec. d.C. sembra essere stato determinato non solo dalla proibizione di mettere in scena spettacoli gladiatorii ma ancor più dai danni causati dal terremoto del 346 d.C.4, ai quali comunque si cercò di rimediare con interventi di restauro il cui riconoscimento ha costituito uno degli obiettivi del programma di ricerche. Cessata la funzione di luogo per spettacoli, e non chiarita un’eventuale funzione difensiva assunta in rapporto alle mura bizantine, costruite fra la fine del v e gli inizi del vi sec. d.C.5 e che corrono adiacenti al suo perimetro esterno, l’arena e le gallerie dell’anfiteatro divennero area di necropoli (a partire almeno dal vii secolo6), ma forse anche di abitazione, e comunque sede di culto cristiano: fra vi e x secolo, in una delle camere interne, in corrispondenza dell’asse minore fu costruita una piccola cappella, decorata da pitture e mosaici molto interessanti ma di controversa interpretazione e datazione. Una seconda cappella, interamente affrescata con pitture di x-xiv secolo ormai illeggibili, si trova sul lato opposto. Una terza piccola cappella, un piccolo spazio rettangolare absidato, si apre come la precedente sul corridoio anulare di servizio, il più basso, probabilmente a livello dell’arena; attualmente non presenta alcun rivestimento. L’anfiteatro era conosciuto, e forse in parte visibile, ancora nel 1508: è citato dal Barletius nella sua Biografia dello Scanderbeg7; poi scomparve, sepolto dal terreno della collina. Sul pendio e sui pochi ruderi emergenti furono costruite case, sia in epoca turca che ancora nel xx secolo; l’andamento delle strade del quartiere ricalca l’ovale dell’edificio. Gli scavi condotti da V. Toçi nel 1966, a seguito di un rinvenimento fortuito, riportarono in luce parte della cavea, dell’arena e delle gallerie. Le strutture furono allora restaurate in modo integrativo, anche modificando il sistema di circolazione interna a causa di gallerie crollate completamente, ma con criteri di buona riconoscibilità degli interventi moderni, che sono anche sufficiente3 L’ipotesi, accolta anche dal Golvin, si basa sul materiale prevalente trovato negli scavi, sulla tecnica edilizia e su un ragionamento induttivo che parte dall’iscrizione CIL III, 607 oggi perduta e di trascrizione incerta, che cita un munus gladiatorium. 4 Sui terremoti di Durazzo: Guidoboni, Comastri, Traina et al. 1994; Santoro, Hoti, Monti, Shehi 2003. 5 Gutteridge, Hoti, Hurst 2001, 391-410. 6 Toçi 1971. 7 Bartletius 1508-1510. 908 Il rilievo architettonico dell’anfiteatro di Durazzo mente documentati. Limitati interventi di scavo e restauro sono stati condotti negli anni successivi. Di questi purtroppo manca ogni documentazione, e le informazioni sono affidate solo alla memoria di chi allora operò, certo in condizioni molto difficili. Le dimensioni8 e l’articolazione, interna ed esterna, dell’edificio non erano chiare a causa dello scavo parziale, che aveva rimesso in luce solo una limitata porzione di perimetro dell’arena, e dell’anomalia costruttiva determinata dal parziale appoggiarsi dell’edificio alla collina, con un sistema di percorsi interni realizzati per un terzo (quello meglio conservato) scavando gallerie e per la restante parte entro le sostruzioni concamerate ad anelli concentrici, con scale e vomitoria non simmetrici. Della grande galleria settentrionale che si addentra nella collina non si conosce ancora la funzione (passante o di deposito cieco) né l’eventuale corrispondente meridionale, fanno sì che non sia chiara né l’esatta dimensione dell’edificio e la sua articolazione in cunei ed arcate né l’articolazione e il sistema di distribuzione interno. Uno dei temi di ricerca importanti riguardanti questo monumento era costituito quindi dalla ricostruzione della geometria dell’edificio e dallo studio dei sistemi distributivi interni. Esso è stato trattato dall’équipe della Facoltà di Architettura di Parma, di cui il Prof. Paolo Giandebiaggi è stato il coordinatore scientifico, attraverso il rilievo, la restituzione e lo studio geometrico architettonico, parallelamente alla ripresa degli scavi archeologici nell’ambito del “Progetto Durrës”, Accordo di Cooperazione Internazionale per la salvaguardia del patrimonio archeologico di Durazzo, stipulato tra Università di Parma, UNOPS, Museo Archeologico di Durazzo, Istituto di Archeologia dell’Accademia delle Scienze, Municipalità di Durazzo e Istituto dei Monumenti di Cultura del Ministero dello Sport e Giovani della Repubblica di Albania, a cura degli archeologi allora attivi presso l’Università di Parma coordinati e diretti dalla Prof. Sara Santoro. Le prime campagne di rilievo La mancanza di indicazioni precise riguardo alla stabilità del manufatto e degli edifici limitrofi, in relazione ad un loro possibile uso pubblico diverso da quello esclusivamente museale, nonchè la scarsa attendibilità e frammentarietà della documentazione grafica esistente, hanno richiesto la redazione di un rilievo topografico dei limiti fisici dell’edificato e delle proprietà circostanti nonché della geometria delle parti scavate del manufatto su cui elaborare una prima proposta di messa in sicurezza. 8 In letteratura si presume un asse maggiore lungo m 136, ed una capienza di 15-20.000 spettatori: Golvin 1988, 203. 909 Paolo Giandebiaggi, Chiara Vernizzi Proprio la sovrapposizione e continuità tra i resti dell’edificio antico e il tessuto edilizio della città ottomana, situata all’interno di un recinto fortificato ben riconoscibile ed in parte tuttora esistente ha evidenziato la necessità di iniziare da un rilievo topografico dei resti del manufatto antico comprendente tutto l’intorno urbano. Il rilievo è stato suddiviso quindi in una parte di rilievo urbano che prevedeva l’inquadramento dell’oggetto architettonico attraverso il ridisegno e la delimitazione dei confini del nucleo più antico della città ottomana, seguita dall’individuazione, misurazione ed analisi dei vari isolati anche attraverso un accurato rilievo di tipo fotografico ed una schedatura delle unità edilizie; la seconda parte ha riguardato il rilevamento indiretto dell’anfiteatro ed il suo inserimento nel contesto. Fig. 2. Planivolumetrico dell’area circostante l’anfiteatro scala originale del disegno 1:200 (elaborazione grafica Andrea Ghiretti). L’acquisizione dei dati planimetrici è stata quindi finalizzata all’individuazione dell’ossatura che descrive il profilo planimetrico dell’anfiteatro, delle tracce degli elementi generatori di tale profilo (fig. 2). Le modalità operative di questo rilievo, che per ragioni logistico-organizzative si è svolto contemporaneamente per la parte topografica e la parte urbana, 910 Il rilievo architettonico dell’anfiteatro di Durazzo sono state quelle classiche del rilievo indiretto basate sull’utilizzo di una stazione totale. A partire dalla poligonale chiusa esterna all’anfiteatro, costituita da 9 vertici sono stati individuate ulteriori stazioni all’interno dell’arena, con aggiunta di ulteriori punti definiti secondo il concetto della “stazione libera”, vincolati alla compensazione fatta durante il calcolo della poligonale principale, e ad essa collegati. Questi punti che si potrebbero definire come vertici di una poligonale aperta di ordine secondario, sono stati ritenuti indispensabili per poter entrare da strette aperture, anche all’interno delle gallerie, fornici ed ambulacri, già scavati negli anni ’60 per offrire un futuro collegamento a rilievi diretti di dettaglio. Nel complesso è stata rilevata la posizione topografica di oltre 1.000 punti. Per il rilievo dell’edificato circostante l’anfiteatro è stato definito il perimetro della recinzione e dei muri che delimitano direttamente l’area di scavo, e la posizione delle costruzioni (muri di cinta ed edifici abitati) che si trovano oltre i percorsi e le aree aperte che circondano la parte scavata o ricoprono la base di quella crollata. La scala prescelta (1:200 – 1:500) offre contemporaneamente una discreta leggibilità delle forme dell’architettura e il controllo dell’intorno urbano. A questi, si aggiungono altri elaborati tecnici di rilievo, che permettono di individuare la posizione dei punti topografici e il tracciato della poligonale principale, di quelle secondarie e delle stazioni libere, dalle quali sono stati rilevati alcuni elementi emergenti, considerati importanti per definire l’inserimento urbano del manufatto, come l’andamento delle mura o la posizione di punti facilmente riconoscibili di edifici importanti. La posizione degli edifici situati all’interno delle proprietà chiuse è stata rilevata dalla stazione posta sul belvedere della torretta meridionale della fortezza ottomana, dalla quale si controlla visivamente l’intera area, rilevando i vertici delle terrazze, delle gronde e dei colmi delle coperture, o il loro andamento quando i primi non erano visibili. Purtroppo le condizioni di rilievo (eccessiva distanza, presenza di vegetazione che ostacolava la misurazione indiretta o scarsa riflessibilità di alcune superfici) non hanno permesso la determinazione geometrica dell’intero perimetro di tutti gli edifici, e pertanto in alcuni è stato necessario ricostruirne la forma, sulla base del confronto della cartografia esistente, dell’osservazione dall’alto e, dove possibile, mediante il rilievo diretto. Anche la divisione interna dei lotti è stata determinata quando possibile con il rilievo geometrico oppure reinserendo nella restituzione del rilievo le partizioni ricavate dalla cartografia disponibile. 911 Paolo Giandebiaggi, Chiara Vernizzi La frequente inaccessibilità, anche visiva, alle corti non ha permesso una verifica puntuale delle partizioni interne e della presenza di piccoli fabbricati e superfetazioni esistenti al loro interno. Il rilievo topografico è risultato sovrapponibile solo in alcune zone alla cartografia comunale, nella restituzione dell’intorno e delle partizioni interne alle proprietà circostanti, pertanto è stato talvolta necessario integrare i dati di rilievo geometrico con elementi desunti dalla cartografia per rendere più leggibili le forme dell’architettura. Come nel rilievo delle parti interne e in quelle più minute dell’anfiteatro (descritto più avanti), anche nel rilievo dell’ambito di pertinenza, così come è stato perimetrato per la redazione del Piano di Recupero, si è fatto ricorso a metodologie integrate di rilevamento, che partendo dalla base misurata topograficamente hanno consentito di completare la definizione di elementi più circoscritti mediante tecniche di rilievo diretto, applicate utilizzando semplici strumenti di misurazione come la cordella metrica, il metro da muratore e il distanziometro laser. In particolare si è intervenuti integrando in modo puntuale le informazioni soprattutto nelle abitazioni poste sul lato est dell’anfiteatro, in alcuni casi accessibili grazie alla disponibilità dei proprietari, rivelando alcuni particolari molto interessanti, come le cantine ricavate nei fornici dell’anfiteatro, che sono state speditivamente misurate, rivelando e confermando il “passo” delle strutture teatrali in zone non visibili dall’esterno e mai rilevate prima. Tutte le tecniche di rilevamento utilizzate hanno evidenziato criticità ed incongruenze, già di per sé assai evidenti, come la presenza incombente degli edifici al contorno (e all’interno), che condizionano la possibilità di percepire da lontano il monumento in tutta la sua maestosità ed importanza. Per quanto riguarda l’anfiteatro è stata definita la geometria e la posizione esatta dei resti della struttura antica e degli edifici circostanti, che in parte ricade all’interno della superficie già occupata dall’arena e dalle sue gradinate; il lavoro pertanto ha riguardato la parte già scavata e le strutture murarie evidenti dei resti del monumento archeologico, nonché la posizione delle recinzioni e degli edifici che si trovano nell’immediato intorno dell’attuale area archeologica, quelli esistenti lungo il perimetro delle parti scavate e quelli che sorgono sopra la parte non ancora scavata, che corrisponde circa a metà dell’arena e ad un terzo della cavea (parte sud-est). A questa prima campagna di rilevamento ne sono seguite altre che attraverso parziali rilievi diretti (fig. 3-4) hanno consentito di restituire le forme delle gradinate già portate alla luce, la porzione visibile del muro del podio, che circonda la parte maggiormente scavata dell’arena, le gallerie interne conosciute e percorribili, l’andamento dei setti murari radiali della parte nord-est, 912 Il rilievo architettonico dell’anfiteatro di Durazzo Fig. 3. Sovrapposizione planimetrica dei vomitori e degli ambulacri ai vari livelli, scala originale del disegno 1:200 (elaborazione grafica Andrea Ghiretti). Fig. 4. Semi-sezione trasversale sul fornice n. 53 nella zona sud-ovest, scala originale del disegno 1:200 (elaborazione grafica Andrea Ghiretti). dove si riconoscono accessi a gallerie sotterranee di uso privato o non accessibili. Particolare attenzione è stata rivolta al rilievo della galleria nord, che individua l’asse maggiore dell’ovale e alla determinazione e verifica dell’asse minore, che pare coincidere con l’asse della cappella ricavata nella parte occi913 Paolo Giandebiaggi, Chiara Vernizzi dentale. In particolare un cunicolo in fondo alla galleria nord ha permesso di raggiungere e di rilevare, anche se in modo approssimato, la posizione probabile del perimetro esterno. È importante notare come, in modo simile ad altri casi più conosciuti, sulle rovine dell’anfiteatro, col tempo, siano sorti numerosi edifici che ne hanno coperto le tracce, nonostante il tessuto urbano mostri evidenti relazioni con la presenza di un manufatto a tracciamento curvo e di assi radiali. Molti degli edifici tutt’ora esistenti sul sedime dell’anfiteatro, hanno utilizzato come cantine le gallerie non accessibili. È inoltre evidente dalle planimetrie redatte dopo la restituzione, che molte di queste case hanno utilizzato i muri dell’antico complesso come fondazioni o come muri dei piani inferiori su cui gli abitanti hanno proseguito l’edificazione dei piani superiori. La scansione di alcuni di questi setti radiali posti sotto l’intorno è ben intuibile ma non è stata rilevata durante le prime fasi per l’impossibilità di accesso alle aree private. Tutte le aree interne del monumento, data la complessità dello stato di fatto e lo stato di conservazione dei paramenti murari, necessitavano di particolare attenzione e quindi di un rilievo condotto prevalentemente in modo diretto, rimandando l’uso di strumentazione elettronica solo al collegamento delle misurazioni con alcuni punti noti appartenenti al rilievo topografico precedentemente citato. Una stazione totale è stata utilizzata per ricavare il profilo esterno delle gradinate dell’anfiteatro, evidenziandone il progressivo aumento di pendenza salendo dalla ima cavea verso la summa cavea e per ricavare una sezione dell’alzato dell’anfiteatro per ognuno dei cunei accessibili della zona sud-est. Queste sezioni, con andamento radiale, sono state prodotte integrando le misurazioni dirette, prese principalmente nei locali coperti, con i punti presi mediante l’utilizzo della stazione totale, atti a descrivere l’andamento informe della parte esterna della cavea, costituito ormai solo da opus cementicium e quindi non più dalle gradinate (elementi di cui sarebbe stato possibile effettuare un più semplice rilievo diretto). Le sezioni radiali restituite in seguito a questa campagna di rilievo sono state 12 e documentano in maniera esaustiva tutta l’area dell’attuale ingresso, spesso utilizzata per le visite del pubblico e per mostre temporanee. A conclusione di queste campagne di rilievo il quadro dei resti dell’anfiteatro poteva dirsi sostanzialmente completo. Tuttavia molti punti risultavano ancora dubbi ed alcuni interrogativi irrisolti. Non essendo emerse strutture chiaramente appartenenti alla facciata del monumento, la posizione della stessa risultava ancora incerta e quindi non determinata esattamente la sua dimensione complessiva. La stessa sua organizzazione funzionale non si poteva dire 914 Il rilievo architettonico dell’anfiteatro di Durazzo risolta, essendo le parti rilevabili quelle posizionate nelle zone di raccordo tra la parte costruita in elevazione e la parte di anfiteatro adagiata al fianco della collina. Questo rende tali strutture anomale rispetto alla scansione presumibilmente regolare delle altre parti, dovendosi confrontare con le irregolarità morfologiche del terreno. Il rilievo integrato La notevole irregolarità geometrica di tutte le superfici antiche dell’anfiteatro, dovuta all’azione millenaria degli agenti atmosferici, degli smottamenti e delle depredazioni, hanno reso tuttavia solamente immaginabile attraverso un’idealizzazione astratta, l’andamento originario delle murature e quindi delle forme così come si presentavano all’epoca della loro realizzazione. La ricostruzione delle loro forme attuata attraverso un rilievo diretto, seppur supportato da punti topografici, non ha consentito una precisione sufficiente per poter discernere le leggere differenze tra una forma ovale piuttosto che una forma ellissoidale, così come le lievi irregolarità geometriche delle parti ricostruite in seguito a riusi successivi. Solo le possibilità offerte da strumenti di rilievo avanzati come i laser scanner, che danno la possibilità di acquisire in poco tempo milioni di punti in modo indifferenziato fino a ricoprire tutte le superfici, in questi casi, consentono un’analisi in fase di restituzione in cui si può mantenere una visione complessiva dell’opera e si può essere supportati da allineamenti più ampi. Questi i motivi che hanno portato nel 2012 a procedere con un’ulteriore campagna di rilievo sull’anfiteatro. Essendo già in possesso di un rilievo topografico molto dettagliato che inquadrava tutta l’area e gli edifici adiacenti attraverso una poligonale chiusa descritta in precedenza, si è scelto di concentrare le stazioni di scansione intorno alla zona dei nuovi scavi, al centro dell’arena e negli ambienti voltati. Anche queste stazioni sono state concatenate tra di loro sempre a formare triangoli chiusi ed in alcuni casi ricalcano punti stazione ancora presenti dal vecchio rilievo del 2006. Il risultato finale, dato dall’unione delle 22 nuvole di punti provenienti dalle scansioni, ha permesso di avere una visione tridimensionale (fig. 5) complessiva dell’intero monumento e dell’immediato intorno con margini di errore molto bassi, contenuti al di sotto del centimetro. In questa nuvola complessiva si possono leggere tutte le strutture dell’anfiteatro: parte del muro che delimita l’arena, il podium, gran parte della cavea che ha perso il rivestimento e le gradinate probabilmente in marmo e che attual- 915 Paolo Giandebiaggi, Chiara Vernizzi mente si presenta come una superficie continua in opus caementicium9, alcuni dei muri radiali che delimitavano i fornici e tutte le gallerie anulari, gli ambulacri, scavati e liberati dal terreno nell’ultimo secolo. Elemento ancor più utile, al fine di una lettura della geometria del monumento, la nuvola di punti del laser scanner consente di leggere tutti questi elementi contemporaneamente, in una sorta di radiografia del costruito che rende semitrasparenti le strutture superficiali lasciando intravvedere le parti sottostanti. Fig. 5. Veduta tridimensionale del modello a nuvola di punti derivante dalla campagna di rilievi del 2012 (elaborazione grafica Andrea Ghiretti). Nella zona degli scavi archeologici, mai rilevati prima, sono evidenti i due muri che delimitano la galleria centrale, allineati ed opposti alla grande galleria nord ancora voltata, anche se in parte ricostruita; alla destra di questi, parti di scale e dei primi 4 fornici. A Sud della cappella bizantina, di datazione incerta, dal vi al x sec.10, sui muri del fornice perpendicolare all’asse centrale, sono riconoscibili 10 muri delimitanti altrettanti fornici. 9 Sulle tecniche costruttive utilizzate nell’anfiteatro: Adam 1988, 79 ss.; Lugli 1957, 514 ss. 10 Toçi 1971, 40. 916 Il rilievo architettonico dell’anfiteatro di Durazzo Quest’area, compresa tra l’asse trasversale ovest e l’asse centrale sud, sembra essere la parte di monumento più riutilizzata e rimaneggiata a scopo militare, sacrale ed in fine abitativo fino al xiii sec.11, poi oggetto di scavi e ricostruzioni dal maggio del 196612. A parte molte anomalie dovute a queste trasformazioni, si legge bene la successione dei fornici che tuttavia appaiono di larghezza maggiore rispetto a quelli rilevati nei pressi dell’asse longitudinale. Un’ulteriore serie di muri radiali sono presenti nel settore nord-est. Anche questi presentavano larghezze diverse da quelli delle altre zone. Ad integrazione della campagna di rilevamento tramite laser scanner 3D condotta nel luglio 2012, nel maggio 2015 è stata effettuata una ulteriore serie di scansioni, al fine di completare la descrizione dell’area nord-est, a suo tempo ancora in parte inaccessibile, soprattutto nella zona dei vomitori ancora oggi in parte utilizzati come cantine da residenze private. A fronte di nuove tecnologie e competenze a disposizione del gruppo di ricerca e maturate nei tre anni, sono state proposte nuove metodologie di indagine e rilievo integrato per affrontare aree del complesso ritenute maggiormente impegnative e problematiche. Il rilievo, inoltre, si proponeva di mettere alla prova le stesse metodologie in un’ottica di indagine prestazionale. Per completare i dati già rilevati tramite 22 scansioni nel 2012, sempre utilizzando lo scanner Leica Scanstation C10 in dotazione al DIA dell’Università degli Studi di Parma, sono state effettuate ulteriori 14 scansioni sia all’esterno, nella zona della cavea, sia all’interno di vomitori, ambulacri e cappelle presenti nell’area nord-est. Le scansioni sono poi state collegate tra loro e con quelle eseguite nella campagna di rilievo del 2012, costituendo un unico modello 3D a nuvola di punti, successivamente elaborato con il software Cyclone. Sono state inoltre effettuate altre 3 scansioni nella zona degli scavi posti a Sud-Est, già rilevati nel 2012, come aggiornamento ed integrazione dei nuovi ritrovamenti effettuati da allora. L’utilità di rilievi condotti a distanza di tempo sullo stesso oggetto e con lo stesso strumento è anche quella legata al monitoraggio delle trasformazioni e dei degradi cui la struttura è sottoposta. Una ulteriore scansione 3D è stata effettuata all’interno della cappella bizantina, nella zona dei mosaici del vi secolo d.C., dei quali sono state scattate anche una serie di foto con una reflex Nikon D3X poi trattate con Agisoft Photoscan. Sebbene le tecniche di scansione laser forniscano una delle soluzioni più diffuse ed efficaci per affrontare il compito di documentare grandi siti archeologici complessi, dove l’irregolarità e la complessità dell’oggetto richiedono una 11 12 Santoro 2003, 193; Bowes, Hoti 2003, 388-393. Toçi 1971. 917 Paolo Giandebiaggi, Chiara Vernizzi descrizione tridimensionale completa, i dispositivi di solito mancano di flessibilità (in termini di precisione, risoluzione ed esattezza radiometrica) e portabilità (ad esempio, lo scanner Leica C10 pesa più di 25 kg e richiede un treppiede topografico stabile). Inoltre, negli ultimi dieci anni, gli approcci fotogrammetrici sono diventati sempre più utilizzati per diversi motivi: innanzitutto la pipeline fotogrammetrica, originariamente lunga e tecnicamente complessa, è stata notevolmente semplificata da algoritmi innovativi che automatizzano l’orientamento del blocco di immagini e delle fasi di ricostruzione del modello 3D13; le fotocamere digitali off-the-shelf, grazie ad una crescita esponenziale della qualità e risoluzione del sensore, costituiscono oggi una soluzione molto economica ma al tempo stesso affidabile per l’acquisizione delle immagini. Le funzionalità offerte da un rilievo fotogrammetrico di solito coprono una vasta gamma di prodotti possibili: ortofoto, 3D Digital modelli di superficie, etc. Inoltre, a seconda della precisione e risoluzione del rilievo da cui deriva la scelta della scala immagine e della geometria di presa, la fotogrammetria fornisce una tecnica molto versatile se devono essere documentati oggetti di diverse dimensioni. In altre parole, con lo stesso hardware (ad esempio una fotocamera di tipo consumer reflex digitale con una certa lunghezza focale e ottica fissa), possono essere eseguite le due indagini a scala dell’edificio (con precisione compresa in un intervallo di 5-20 mm e risoluzione sub-centimetrica) e a scala di dettaglio o su reperti archeologici di medie e piccole dimensioni (con precisione e risoluzione fino a 0,05 millimetri)14. Infine, anche se deve essere sempre fornita una certa attenzione alle esigenze tecniche (ad esempio una corretta calibrazione della telecamera, una corretta progettazione del blocco di immagini, ecc.), l’acquisizione di immagini può essere eseguita talvolta anche da operatori non qualificati. In questo contesto, il rilievo dell’anfiteatro Durazzo si è rivelato un caso studio interessante da un punto di vista metodologico: da un lato il gruppo di ricerca ha a disposizione un cospicuo materiale fotografico, acquisito in tutte le diverse fasi del lavoro (anche documentando fasi successive dello scavo archeologico); dall’altro, alcuni dettagli più piccoli (ad esempio i mosaici del vi secolo situati nella cappella bizantina all’interno dell’anfiteatro) richiederebbero un livello molto più elevato di precisione e risoluzione di quella ottenibile con il laser scanner C10. In questo senso, per ottenere una ricostruzione 3D da materiale fotografico, durante l’ultima campagna di rilevamento svoltasi nel maggio 2015, è stata effettuata una prova di acquisizione di immagini di tutta la cavea dell’anfitea13 14 918 Roncella et al. 2001. Re et al. 2011. Il rilievo architettonico dell’anfiteatro di Durazzo tro, utilizzando una Nikon D3X (risoluzione di 6000 x 4000 pixel) con ottica 35 mm (fig. 6). La sequenza di immagini è stata acquisita muovendo la fotocamera lungo un percorso ellittico seguendo i bordi del podio interno, con basi di presa quasi costanti tra fotogrammi successivi e mantenendo il piano immagine verticale e approssimativamente parallelo alla sezione dei passaggi raffigurato nell’immagine. La geometria di imaging non è quella ideale per diversi motivi: in primo luogo, fotogrammi consecutivi hanno asse ottico divergente, il che comporta che il ricoprimento fra due immagini successive è solitamente ridotto anche con piccole basi di presa, il che richiede un numero molto più elevato di foto e ottiene una precisione inferiore rispetto ad un blocco fotogrammetrico tradizionale pseudo-nadirale o convergente. Allo stesso tempo, essendo il piano immagine inclinato rispetto all’oggetto per via dell’inclinazione della cavea, la scala immagine è molto differente alla base e alla sommità dei gradini. Questo porta ad una variazione notevole del livello di precisione e di risoluzione della restituzione finale (la precisione si riduce in modo quadratico e la risoluzione linearmente a seconda della distanza dall’oggetto) tra la parte inferiore e superiore dell’anfiteatro. Fig. 6. Ricostruzione fotogrammetrica della cavea (elaborazione grafica Riccardo Roncella). In questo caso, sono stati privilegiati la facilità e la rapidità delle operazioni di acquisizione poiché l’obiettivo principale della ricostruzione era quello di fornire una panoramica generale corredata da dati metrici di media precisione dell’anfiteatro. La sequenza di immagini finale è costituita da 49 immagini, orientate automaticamente mediante il software Agisoft Photoscan. 919 Paolo Giandebiaggi, Chiara Vernizzi Per definire il sistema di riferimento della restituzione e orientare in modo assoluto il blocco di immagini, sono stati estratti alcuni punti d’appoggio dalla nuvola di punti prodotta dal scanner laser. Alla fine del procedimento di orientamento (structure from motion), con lo stesso pacchetto software, è stato prodotto il DSM dell’anfiteatro. Per la ricostruzione del mosaico, sono state acquisite due sequenze pseudonadirali rettilinee, a circa 1,5 metri dall’oggetto, utilizzando la stessa ottica 35 mm utilizzata nell’esempio precedente. La dimensione del pixel sull’oggetto (Ground Sampling Distance) era quindi molto piccola (0,25 mm circa), consentendo una risoluzione molto elevata e una buona precisione nella restituzione finale. Per collegare meglio le due sequenze, piuttosto che fare affidamento sulla rete di punti di appoggio fornito dalla scansione laser ad alta risoluzione, che è stata realizzata esclusivamente per definire la scala dell’oggetto, sono state acquisite alcune immagini lungo un percorso circolare per inquadrare le pareti del mosaico. Il DSM finale del mosaico, ottenuto con la pipeline Agisoft Photoscan, è costituito da più di 6,9 milioni di facce; da esso, sono state realizzate due ortofoto ad alta risoluzione (dimensione del pixel 0,5 mm). Il censimento del sistema edilizio circostante l’anfiteatro Al fine di ottenere una conoscenza il più possibile approfondita sui singoli fabbricati costituenti il sistema edilizio circostante l’anfiteatro, è stato effettuato un censimento mirato, sulle diverse unità individuabili, concentrandosi sui singoli volumi edilizi distinguibili a prescindere dalle eventuali suddivisioni relative alle proprietà. Tale censimento è stato condotto riconoscendo le singole unità volumetriche e raccogliendo in schede preliminarmente ed appositamente predisposte una serie di dati di varia natura, tutti concorrenti alla conoscenza il più possibile completa dei caratteri degli edifici. In dettaglio, le schede vedono la seguente strutturazione: una prima parte (Scheda A) informativa delle unità minime di intervento e una seconda (Scheda B) di diagnosi e progetto delle unità minime di intervento. La prima parte della scheda A contiene innanzi tutto una serie di dati necessari all’identificazione dell’edificio, quali un numero identificativo del fabbricato, attribuito in modo da codificarlo in modo univoco, l’indirizzo e il numero civico (entrambi dati non sempre facilmente individuabili); oltre a questi dati, la prima parte della scheda contiene due diverse tipologie di inquadramento, uno cartografico ed uno fotografico. 920 Il rilievo architettonico dell’anfiteatro di Durazzo Quello cartografico, basato sulla cartografia ufficiale, è riferito al perimetro del comparto urbano oggetto di analisi, e consente l’individuazione planimetrica dell’edificio; una foto del fronte principale del fabbricato completa questa prima fase descrittiva. Nella seconda parte della scheda A sono invece indicati i dati quantitativi sia dell’edificio principale (residenza, uffici o commercio), che degli eventuali accessori come autorimesse e cantine, espressi secondo i seguenti parametri: superficie coperta (in metri quadrati), altezza (in metri) e numero dei piani fuori terra. È inoltre individuata l’epoca di costruzione, utilizzando come soglie storiche significative quelle riferite alla cartografia disponibile: ante 1928, 19281937, 1938-1992, post 1992. Viene successivamente evidenziata la destinazione d’uso prevalente tra residenza, commercio, artigianato e terziario, stimando in modo approssimativo il numero dei locali contenenti le varie funzioni e sottolineando anche il numero dei locali non utilizzati. Conclude la scheda A la segnalazione di eventuali elementi di pregio, come decorazioni, elementi di valore architettonico e/o archeologico. La Scheda B analizza in dettaglio i sistemi costruttivi, suddivisi in chiusure verticali e coperture. Per entrambe le categorie sono descritte le principali caratteristiche costruttive riscontrate tra le pareti di tamponamento, i rivestimenti esterni e tinteggi. Per ognuna di queste caratteristiche costruttive sono state individuate le principali patologie e, dove possibile, le relative cause. Lo stesso tipo di lettura viene effettuato sulle coperture, individuandone la diversa tipologia a falde o piana. Si rileva anche, ove possibile, la tipologia del manto di copertura e di elementi decorativi presenti nei cornicioni, nei camini o negli abbaini e delle principali patologie riscontrate. La seconda parte della scheda (B) si concentra in modo peculiare sulle caratteristiche costruttive e decorative di ogni singolo edificio, dedotte mediante una lettura a vista e quasi sempre senza un accesso interno al fabbricato, nella maggior parte dei casi rivelatosi impossibile. La redazione della cartografia tematica Per consentire una migliore leggibilità e confrontabilità dei dati puntualmente raccolti sui singoli edifici appartenenti al comparto urbano dell’anfiteatro, sono state redatte alcune carte tematiche (fig. 7) che sintetizzano i diversi aspetti in merito ai quali il patrimonio urbano è stato analizzato e schedato. 921 Paolo Giandebiaggi, Chiara Vernizzi Fig. 7. Carta tematica: datazione degli edifici, scala originale del disegno 1:500 (elaborazione grafica Andrea Ghiretti). Le carte tematiche più significative risultano senz’altro quelle relative alla datazione degli edifici, alla presenza di elementi di pregio ed alla mappatura delle funzioni insediate. Su uno stralcio cartografico in scala 1:500, viene sempre individuato il perimetro del settore indagato, così come vengono evidenziati i principali elementi del comparto, quali l’anfiteatro, le mura e gli elementi fortificati della città storica. Per ogni edificio, del quale viene riportato il codice numerico univoco attribuitogli in scheda, viene indicato il numero di piani e la funzione residenziale e commerciale prevalente. 922 Il rilievo architettonico dell’anfiteatro di Durazzo A seconda delle diverse funzioni, mediante un’apposita simbologia, viene sottolineata l’accessibilità carrabile o pedonale, sia essa a funzioni di tipo residenziale o commerciale. Tale carta evidenzia la netta prevalenza della funzione residenziale negli edifici all’interno del comparto dell’anfiteatro, con una forte presenza di attività commerciali di vario genere (bar, alimentari, abbigliamento, servizi vari) lungo il corso Epidamnos e, in misura minore, lungo la strada Kalase. Nella carta tematica della datazione, effettuata sempre sulla cartografia in scala 1:500 munita della descrizione del perimetro del settore indagato e dei principali elementi del comparto (anfiteatro, mura ed elementi fortificati) sono cartografati gli esiti dell’analisi storica condotta per soglie significative. Tale studio evidenzia come la maggior parte degli edifici presenti nel comparto sia frutto di interventi precedenti al 1937. Solo pochi elementi risultano esito di operazioni di probabile ricostruzione avvenuta tra il 1938 e il 1992 o addirittura dopo tale data. Su questa carta tematica sono stati inoltre messi in evidenza gli elementi di pregio, siano essi costituiti da particolari decorazioni architettoniche o artistiche o da facciate ritenute di valore storico testimoniale e come tali sottoposte a vincolo (tutte quelle del corso Epidamnos). L’analisi grafica Nel tentativo di ricostruire la geometria complessiva dell’anfiteatro, queste differenze nella larghezza dei fornici hanno inizialmente posto molti dubbi per risolvere i quali si è dovuto ricorrere ad un confronto con gli altri anfiteatri studiati per cercare di comprendere quali erano le costanti e quali le variabili di questa tipologia architettonica così caratteristica ma anche così varia sia per dimensioni che per localizzazione geografica. Punto di partenza è stato il confronto bibliografico con gli anfiteatri di simili dimensioni, in cui il libro L’Amphithéâtre romain di J.-C. Golvin15 è stata la fonte privilegiata: la larghezza dei fornici è sempre costante sulla facciata, con l’eccezione di quelli sull’asse principale che rappresentavano le due grandi porte di ingresso e uscita. La necessità di avere un passo costante sulla facciata del monumento è sicuramente dovuta alla volontà di creare una ripetizione regolare del modulo di facciata articolato in ordini sovrapposti di arcate a tutto sesto. La larghezza della cavea, negli anfiteatri di dimensione maggiore, è costante. Esempi in cui si ha un restringimento della parte di cavea nei pressi dell’asse 15 Golvin 1988, 284-288. 923 Paolo Giandebiaggi, Chiara Vernizzi maggiore si trovano solo in anfiteatri piccoli di epoca repubblicana o situati nelle province più lontane in contesti militari16. Dai dati desumibili dal rilievo è stato possibile identificare e tracciare un asse longitudinale partendo dall’asse della grande galleria nord e prolungandolo fino ad arrivare al centro dei due muri delimitanti la galleria sud scoperti dai recenti scavi. La corrispondenza e l’allineamento son risultati pressoché perfetti. Spiccando una perpendicolare dalla mezzeria di quest’asse, si arriva precisamente sulla mezzeria della cappella bizantina. Gli assi dei muri delimitanti i fornici a Sud nei pressi dei nuovi scavi archeologici, puntano tutti verso una piccola area posta sull’asse longitudinale dell’anfiteatro. Con piccolissime approssimazioni si è potuto dedurre un punto di incrocio sull’asse stesso. Gli assi dei muri delimitanti i fornici nella zona della cappella bizantina si incrociano in un punto sull’asse trasversale. In questo caso, l’approssimazione nell’identificazione del punto di incrocio è stata maggiore e la causa potrebbe essere dovuta alle maggiori ricostruzioni ed alterazioni subite dalle strutture di questa zona. Le strutture fin ora emerse dagli scavi archeologici e rilevate non identificano con certezza una facciata e quindi il perimetro esterno del monumento. La sintesi delle precedenti considerazioni ha portato a cercare il punto in cui tutti i muri radiali arrivavano ad avere una distanza costante tra di loro. Gli assi dei fornici infatti non puntano tutti sullo stesso centro bensì su quattro centri diversi, i centri dell’ovale che genera il perimetro sia dell’arena che del complesso stesso. Questo fatto porta a una riduzione delle differenze di passo tra i muri, più ci si allontana dai centri su cui convergono fino a trovare una regolarità nella scansione dei fornici che suddividono in cunei la cavea dell’anfiteatro, sulla facciata. Un modulo costante nella suddivisione del perimetro dell’anfiteatro si ha solo in facciata e si perde negli ambulacri più interni: oggi la facciata è completamente scomparsa e possiamo rilevare solo parti interne ed a distanze diverse dal perimetro esterno. Per trovare il numero dei fornici in cui è diviso l’anfiteatro era quindi indispensabile partire dalla facciata. Per individuarne la posizione si è partiti dalla più facile identificazione del perimetro dell’arena, ripercorrendo un ipotetico processo di tracciamento del monumento avvenuto prima del reale processo costruttivo. Dai quattro centri identificati sugli assi si sono trovate le porzioni di cerchio che meglio approssimavano i muri di confine dell’arena esistenti. Avendo rile16 924 Wilson Jones 2007, 5-6. Il rilievo architettonico dell’anfiteatro di Durazzo vato almeno una metà di questo perimetro si è potuto dedurre l’ovale dell’arena con buona precisione operando per simmetria per chiuderne il profilo. Sul rilievo sono poi stati identificati una serie di punti che rappresentavano la massima estensione del monumento emerso: un punto a Nord, fuori dall’attuale recinto dell’anfiteatro. I lavori di ammodernamento della piazza della bashkia hanno infatti messo in luce una piccola porzione di muro chiaramente databile all’epoca romana. Un altro punto rappresentato dalla massima estensione della volta della galleria centrale nord. Un terzo nel grande muro tangente le mura bizantine ad Est, a fianco dell’attuale ingresso alla zona archeologica. L’ultimo nella struttura più esterna emersa dai recenti scavi. Tutti questi punti, pur non descrivendo da soli né una curva né un profilo, si trovano perfettamente allineati su un ovale parallelo a quello dell’arena. Prolungando gli assi dei fornici trovati fino a definire questo ovale si è riscontrata la regolarità del modulo di facciata potendo a questo punto dividere l’ovale stesso in 72 cunei uguali, la cui larghezza corrisponde a quella dei fornici. A conferma di questa impostazione geometrica si è verificato che il triangolo formato da due dei quattro centri dell’ovale e dall’incrocio dei due assi principali, il cosiddetto triangolo generatore, la base per il tracciamento dell’anfiteatro, è un triangolo rettangolo con i lati in rapporto 3:4:5. Un triangolo di questo tipo è stato sempre presente nella tradizione ed era noto come “triangolo sacro”, le cui dimensioni formano la prima terna pitagorica utilizzata spesso per assicurare l’ortogonalità degli angoli ed elementi geometrici facilmente misurabili ma soprattutto esprimibili con numeri composti da una quantità finita di cifre. Distendendo i cateti di un triangolo rettangolo sui semiassi di un sistema di riferimento, possiamo considerare gli estremi dell’ipotenusa come i luoghi dei centri degli archi di circonferenza che compongono l’ovale. Sul prolungamento dell’ipotenusa si trova il punto di raccordo tra i due archi. Se si utilizzavano poi misure intere per l’asse maggiore e per i cateti anche l’asse minore risultava intero17. Utilizzando un triangolo sacro si tracciano ovali che hanno, tra loro, rapporti tra gli assi identici a quelli definiti proprio dal tetracordo18. Costruendo, secondo quanto illustrato, un ovale i cui centri sono situati sugli estremi delle ipotenuse dei quattro triangoli sacri disposti simmetricamente con gli angoli retti sull’origine degli assi, utilizzando misure intere per i raggi degli archi di circonferenza che hanno centro sull’asse maggiore, si ottiene una serie di ovali concentrici con misure degli assi espresse da numeri interi. 17 Dotto 2002, 34-36. 18 Ibid., 21-25. 925 Paolo Giandebiaggi, Chiara Vernizzi Il cateto pari a tre moduli veniva disteso sull’asse maggiore e quello pari a quattro moduli sull’asse minore. La differenza tra le misure degli assi in ognuno di questi ovali, si manteneva costante e pari a 2 moduli, e via via che le lunghezze degli assi incrementavano, nella costruzione di tali curve tra loro parallele, le curve stesse apparivano sempre più simili ad una circonferenza. Molti dei principali anfiteatri hanno un rapporto tra larghezza e lunghezza dell’arena che tende a 5/3, rapporto generato proprio dall’uso del triangolo pitagorico19. Per continuare a ripercorrere il processo di tracciamento utilizzato dai gromatici romani per impostare sul terreno le basi del monumento, un altro problema si è imposto come non trascurabile. Nel caso specifico di questo anfiteatro, il terreno su cui sorgeva non è piano. Circa la metà della cavea si adagia al fianco di una collina prospiciente il mare e la pianura su cui sorge la città. I progettisti romani hanno sfruttato questa situazione per ridurre la parte realizzata interamente in elevazione sfruttando la pendenza naturale del terreno per realizzare le gradinate della cavea. Se questo posizionamento ha portato indubbi risparmi dal punto di vista costruttivo e, possiamo immaginare, dal punto di vista economico, ha sicuramente complicato il progetto iniziale, spezzandone la completa regolarità e simmetria compositiva e obbligando a trovare soluzioni specifiche per risolvere i punti di raccordo tra terreno e architettura. Voler mantenere una perfetta regolarità nella scansione compositiva della facciata e dell’impianto planimetrico nonostante i problemi legati alle specificità della conformazione orografica del sedime, deve aver complicato notevolmente il processo di tracciamento iniziale sul terreno e condizionato la scelta della metodologia scelta. Parliamo di metodo di tracciamento riferendoci alla scelta dell’ellisse piuttosto che dell’ovale in quanto in realtà la differenza tra le due curve può ridursi a valori trascurabili rispetto alle dimensioni complessive della costruzione, soprattutto nel caso di ovali realizzati con l’ausilio di 8 centri. Alla fine la scelta dell’ovale o dell’ellisse condizionava più il tracciamento sul terreno che non la forma dell’anfiteatro. Come già accennato in precedenza, un primo sommario orientamento ci viene fornito dall’analisi comparata di tutti gli anfiteatri fin ora studiati da cui si rileva che la forma ellittica sembra essere spesso utilizzata nei casi più piccoli localizzati in contesti provinciali o militari posti su terreni piani. In questi casi infatti il metodo del giardiniere20 può funzionare perfettamente e risulterebbe 19 Wilson Jones 2007, 9. 20 La proprietà che identifica (o definisce) l’ellisse è che per ogni suo punto la somma dei segmenti che uniscono il punto ai due fuochi è costante ed è uguale all’asse maggiore (l’ellisse è il luogo dei punti per i quali risulta costante la somma delle distanze da due punti interni detti 926 Il rilievo architettonico dell’anfiteatro di Durazzo rapidissimo, non creando problemi legati alla lunghezza delle funi necessarie e trascurabili dilatazioni della cavea in corrispondenza dell’asse minore21. Questo non funziona per gli anfiteatri più importanti, di dimensioni maggiori come quello di Durazzo, città che nel i secolo era sicuramente un importantissimo porto alla partenza della via Egnazia a pochissima distanza da Roma. In tutti questi anfiteatri la cavea ha dimensioni costanti, i setti radiali convergono sempre in quattro aree nei pressi degli assi e tracciamenti basati su fuochi risulterebbero assai difficili a causa delle dimensioni e di terreni spesso irregolari. Anche le testimonianze di epoca romana supportano questa teoria; uno dei mensores aedificiorum, coloro che si occupavano di edilizia nell’antichità, di nome Balbo, sebbene in epoca posteriore all’edificazione del Colosseo, nell’insegnare le regole di costruzione geometrica da applicare alla sua arte, afferma che “ex pluribus circulis forma sine angulo ut harenae ex quattuor circulis” cioè che “di più cerchi si può fare una forma senza punti angolosi, come sono le arene, fatte di quattro cerchi, saldati con continuità”. Questa testimonianza va tenuta in grande considerazione tenendo presente che la filosofia progettuale dei romani era sempre improntata all’uso di procedure semplici, razionali, utili sia in fase progettuale, sia realizzativa. I diagrammi ovali sono diventati poi archetipi e modelli teorici citati nei successivi trattati rinascimentali. In questi libri, gli ovali sono sempre paragonati alle ellissi: l’ellisse considerata come conoscenza teorica di base per il disegno, l’ovale come schema più “volgare” per la pratica dei costruttori. Tra tutti gli autori, Serlio è colui che si è dimostrato più esaustivo nell’affrontare questo argomento. Nel Primo Libro del suo trattato intitolato De Geometria, egli offriva diversi esempi di progetti di ponti e volte, basate sul disegno di una curva ellittica. Ma la parola ellisse non è mai menzionata. Affermava poi che tale curva era simile alle forme ovali disegnate col compasso. Dopo questo, proponeva quattro possibili modi per disegnare le forme ovali basate su diversi schemi e differenti proporzioni22. In queste costruzioni tuttavia il problema del tracciamento di figure in cui gli assi abbiano tra loro un rapporto armonico non è di immediata soluzione. fuochi). Questa proprietà può essere messa in pratica per disegnare l’ellisse col metodo del giardiniere: si piantano in terra due pioli ad una certa distanza tra loro e si uniscono con una cordicella più lunga della distanza stessa; si tende poi la cordicella spingendola con un terzo piolo che viene spostato verso destra e verso sinistra per disegnare prima mezza ellisse e poi l’altra metà. L’asse maggiore sarà uguale alla lunghezza della cordicella usata. 21 Non è possibile disegnare due ellissi parallele a se stesse senza variarne i fuochi. Quindi utilizzando un metodo di tracciamento basato sui fuochi, come quello del giardiniere, si ottengono ellissi che tendono al cerchio. 22 Duvernoy 2002, 92. 927 Paolo Giandebiaggi, Chiara Vernizzi Dati gli assi, si possono costruire infiniti ovali a quattro centri, modificando opportunamente il triangolo generatore. Solo associando queste costruzioni con la costruzione del triangolo sacro è possibile ottenere questi ovali, sia con rapporti armonici, sia con varie dimensioni caratterizzate da numeri interi. Le matrici progettuali degli anfiteatri sono quindi raffinate combinazioni delle conoscenze matematiche e geometriche più antiche e sofisticate con lo scopo di ottenere lo schema più semplice e pratico per la realizzazione di edifici così complessi. Come accennato in precedenza, è plausibile pensare che l’ovale a quattro centri venisse utilizzato durante le prime fasi di progettazione ed ideazione della matrice progettuale di un singolo anfiteatro mentre la fase esecutiva e di cantiere fosse basata sull’ovale ad otto centri, una semplice modifica successiva del precedente. Nel caso specifico di Durazzo si propende quindi decisamente per la forma ovale: una volta individuato l’asse longitudinale N/S, su terreno piano, poteva essere impostato l’asse trasversale, almeno fino ai margini dell’arena, assicurandone la perpendicolarità per mezzo del triangolo pitagorico, probabilmente lo stesso utilizzato poi per individuare i 4 centri dell’ovale. Non a caso tutti 4 i centri generatori si trovano all’interno del terreno sicuramente piano dell’arena. Il centro dell’arco di cerchio maggiore si trova a 18,97 m sull’asse trasversale dall’incrocio dei due assi. L’altro centro è sull’asse longitudinale a 14,23 m. Si ritiene di grande interesse ricondurre le misure dei rilievi all’unità di misura utilizzata all’epoca, i piedi romani, per conoscere a pieno la filosofia progettuale degli antichi anche nella definizione degli spazi secondari, per un’analisi storico-critica, per l’attribuzione e la datazione delle opere23. Il sistema di misure adottato e diffuso nel periodo dell’Impero romano risulta di derivazione greco-attica; i Romani adottarono come unità di misura lineare il “piede”, identico a quello attico che veniva prevalentemente usato nel mondo greco e misurava 29,65 centimetri. Allo stesso tempo il piede romano in quanto appartenente a un sistema antropometrico, variava alquanto in relazione alle misure medie di una popolazione, alla tradizione e, nel tempo, per effetto di varie cause. Considerate tutte queste circostanze, perciò, si è soliti operare all’interno di un ambito di diverse possibilità con un valore compreso tra 29,3 e 29,8 centimetri. Nel caso specifico di Durazzo si è considerando un coefficiente di trasformazione piede/metro lineare pari a 29,64 cm praticamente coincidente con la misura standard. 23 Ibid., 81. 928 Il rilievo architettonico dell’anfiteatro di Durazzo Dividendo le due misure precedenti per 29,64 si scopre che il centro dell’arco di cerchio maggiore si trova esattamente a 64 piedi sull’asse trasversale mentre l’altro centro è a 48 piedi. Considerando che queste sono e misure dei due cateti del triangolo 3:4:5 è semplice ricavare il modulo di base uguale a un numero intero di piedi romani pari a 16. Ad ulteriore conferma della correttezza delle ipotesi fatte scopriamo che la misura del modulo corrisponde esattamente alla larghezza della galleria principale. Individuati sul terreno gli assi principali, si poteva finalmente procedere con il tracciamento del perimetro dell’arena probabilmente utilizzando semplici funi e picchetti per segnare gli archi di cerchio. In queste prime fasi le distanze erano ancora contenute e la superficie dell’arena sempre sicuramente piana. Il processo di tracciamento, non potendo prescindere dalla facciata principale, ipotizziamo potesse procedere con il tracciamento del perimetro esterno come “offset” delle curve dell’arena. Questa fase era sicuramente più complessa dovendo portare la curva del perimetro su terreni non orizzontali. Solo a questo punto era possibile dividere il filo esterno della facciata in un numero finito di parti uguali. Prolungando gli spezzoni di muri radiali rilevati fino ad incrociare la facciata esterna si è potuto trovare una misura che divideva esattamente in 72 parti uguali la facciata dell’anfiteatro. Riflettendo su cosa poteva aver determinato la scelta di tale numero è risultato che dividendo in 72 parti il perimetro esterno si otteneva una misura pari a circa 4,7 m ovvero 16 piedi romani, ritrovando ancora una volta il modulo iniziale (fig. 8). Questo sembra confermare definitivamente la correttezza dell’impostazione geometrica. A questo punto poteva iniziare il tracciamento definitivo della facciata attraverso la ripetizione del modulo avente una misura così limitata da non creare problemi anche in presenza di terreni irregolari o pendenti. È possibile anche che tale processo fosse fatto solo per la metà dell’anfiteatro su terreno piano, per poi operare per simmetria ribaltando sulla parte scoscesa gli assi dei muri radiali con uno strumento presente in ogni cantiere romano quale la groma. L’anfiteatro di Durrës presenta una arena lunga 59,70 m e larga 40,74 m. Una cavea con una larghezza planimetrica di 6 moduli cioè 28,45 m che portano ad una dimensione complessiva dell’anfiteatro di 116,60 m per 97,64 m. La nuvola di punti ottenuta con la scansione ha consentito anche una minuziosa analisi di varie sezioni altimetriche soprattutto delle parti del monumento in cui la cavea è ancora intatta perché adagiata sulla collina. Questo ha permesso di verificare la costanza della pendenza della cavea a conferma della costante 929 Paolo Giandebiaggi, Chiara Vernizzi Fig. 8. Vista planimetrica della nuvola di punti prodotta dal laser scanner sulla quale si evidenzia lo schema geometrico fondamentale dell’anfiteatro: la divisione in 72 fornici, i quattro punti, centri delle circonferenze generatrici gli ovali, il triangolo formato dagli stessi punti e il modulo alla base della realizzazione del monumento (elaborazione e analisi grafica Andrea Ghiretti). larghezza della stessa. A riconferma della correttezza della ipotesi di tracciamento sopra riportata, si ribadisce l’impossibilità di tracciare ellissi parallele a se stesse con gli stessi fuochi. Utilizzare un metodo basato sui fuochi di un’el930 Il rilievo architettonico dell’anfiteatro di Durazzo lisse, al di là dei problemi legati alla lunghezza delle funi necessarie, porterebbe ad una cavea più stretta sull’asse maggiore e soprattutto ad una maggiore pendenza della stessa in quei punti. Questo poteva probabilmente essere un fattore trascurabile negli anfiteatri di piccole dimensioni ma determinante nel caso di Durazzo in cui la cavea risulta avere già una notevole pendenza sull’asse minore24. Considerazioni conclusive La conoscenza di un organismo complesso come quello dell’anfiteatro romano difficilmente può dirsi conclusa in un dato momento, in quanto ogni studio settoriale condotto su di esso, in tempi e con modalità diverse, continua ad accrescere il patrimonio di informazioni che si sono stratificate nei secoli, chiarendo o, talvolta, confondendo le interpretazioni che nel tempo sono state date ad un monumento così articolato, sia negli aspetti distributivi che negli aspetti utilizzativi che si sono succeduti. Il processo di conoscenza diviene così strumento operativo, sistema di regole generali e pratiche attuative in grado di orientare l’azione di chi istituzionalmente è chiamato ad intervenire al fine della valorizzazione del monumento, affrontando la sfida di far convivere le ragioni della tutela con quelle dello sviluppo. Gli aspetti procedurali, gli impegni programmatici e le indagini conoscitive non sono altro che le operazioni fondamentali, i passi essenziali da seguire per garantire la buona riuscita e soprattutto la qualità di ogni intervento mirato, che abbia come obiettivo la salvaguardia, la tutela e la valorizzazione di un patrimonio di grandi valenze storiche e culturali per una comunità. Nel caso specifico dell’archeologia di un’architettura, il rilievo architettonico, restituito nei modi della figurazione, assume il ruolo delicatissimo di costituire la base su cui costruire ogni intervento di restauro e valorizzazione. Il problema è sempre quello di trovare, al di là delle tecniche e delle forme di rappresentazione utilizzate, la giusta relazione tra i contenuti e il linguaggio grafico, entrambi legati alla scala di rappresentazione prescelta, atti a restituire la complessità strutturale dell’oggetto indagato. Al tempo stesso è essenziale che le successive operazioni conoscitive abbiamo un carattere di scalabilità nel tempo, affinché le informazioni si armonizzino fra loro accrescendo, ma non sostituendo, i dati ottenuti in campagne precedenti. Il continuo evolversi delle tecniche di rilevamento dei dati quanti24 Sul dibattito riguardante la forma planimetrica degli anfiteatri romani: Docci 2000, 2332; De Rubertis 2000, 99-105; Michetti 2000, 89-98; Migliari 2000, 33-50; Sciacchitano 2000, 107-116; Trevisan 2000, 117-132; Migliari 1995, 93-102. 931 Paolo Giandebiaggi, Chiara Vernizzi tativi e soprattutto qualitativi, consente di acquisire ogni volta nuove informazioni, da integrare con quelle ottenute in campagne di rilevamento precedenti, andando a costituire un vero e proprio database sempre aggiornabile, che possa caratterizzarsi come un sistema aperto di conoscenze di varia natura sull’oggetto di studio. È quindi ancor più evidente come questo necessiti di un approccio intrinsecamente trasversale tra competenze diverse: archeologi, architetti, ingegneri e specialisti del restauro, topografi, ma anche sociologi, economisti e amministratori, soggetti coinvolti a tutti i livelli nella gestione di un manufatto così delicato, sia dal punto di vista materiale che immateriale. La Documentazione e l’Analisi della cosiddetta Architettura Archeologica (di quei manufatti, cioè, in cui i valori architettonici e archeologici sono di fatto inscindibili) costituisce sempre un’attività molto impegnativa: in primo luogo, da un punto di vista culturale, per le competenze multidisciplinari che tale attività coinvolge; dall’altro, dal punto di vista tecnologico e procedurale poiché l’utilizzo di strumenti sempre più avanzati rende inevitabile un continuo feedback tra capacità operative e innovazioni sul piano strumentale. Ciononostante, analizzando la maggior parte delle ricerche sviluppate in questo settore, l’applicazione concreta di questo approccio cooperativo può essere considerato sicuramente un eccezionale punto di forza. In questo tipo di approccio multidisciplinare, la documentazione, l’analisi, l’interpretazione e la contestualizzazione di un elemento architettonico/archeologico continua a rappresentare il fondamento primo di ogni ricerca più vasta. Per questo, grazie ad un rilievo di tipo integrato che negli anni ha visto l’utilizzo di metodologie e tecniche diverse (3D scanning, fotogrammetria, topografia e rilievo diretto), insieme all’analisi delle strutture visibili, è stato possibile ipotizzare la ricostruzione della geometria e lo schema proporzionale del progetto originariamente concepito. Sul versante più propriamente archeologico, la lettura stratigrafica del monumento è stata completata dallo studio delle soluzioni tecniche adottate nel corso della costruzione e dei restauri già avvenuti, mediante il riconoscimento diretto sul campo e sull’edificio stesso, oltre che nella zona degli scavi, degli elementi capaci di fornire informazioni circa l’organizzazione delle fasi costruttive, le caratteristiche dell’esecuzione, ecc. Tutti questi aspetti hanno pertanto consentito di integrare concretamente le competenze dei vari ricercatori ed inquadrare al meglio, rispetto al passato, una serie di problematiche specifiche che rischiavano di restare nascoste dietro al fenomeno storico generale. Emerge quindi la convinzione che questa classe specifica di problemi, connessi con l’architettura archeologica, debba essere considerata più “culturale” 932 Il rilievo architettonico dell’anfiteatro di Durazzo che semplicemente “tecnica”, cosicché il rigore scientifico della fase di acquisizione e, insieme, una specifica sensibilità culturale, guidino quel processo di scelta finalizzato al raggiungimento di un livello di conoscenza più profondo e più strutturato dell’elemento studiato. L’utilizzo di diverse metodologie e strumentazioni per l’esecuzione delle varie tipologie di rilievo ha portato ad individuare una modalità di restituzione grafica che potesse caratterizzarsi come sintesi delle diverse elaborazioni ottenute, ovviamente molto diversificate a seconda delle tecniche di acquisizione utilizzate. Le elaborazioni tridimensionali, più o meno completate dalle immagine fotografiche, per quanto utili nella visualizzazione complessiva del monumento e nella comprensione dello stesso, non hanno infatti sostituito elaborati grafici bidimensionali di tipo più tradizionale che, con o senza prodotti fotogrammetrici sottesi, hanno costituito la base sulla quale è in corso di approfondimento un progetto di restauro volto alla conservazione ed alla messa in sicurezza delle parti più degradate dell’anfiteatro. Le nuove tecnologie possono giocare un ruolo decisivo in questo scenario: l’acquisizione 3D, la modellazione, le tecniche di fotomodellazione, concorrono a migliorare il Livello di Conoscenza generale. L’approccio conoscitivo utilizzato, che ha visto l’integrazione di vari strumenti e metodi di rilievo in funzione delle diverse caratteristiche e scale dimensionali degli elementi oggetto di indagine, si è rivelato come l’unica strada percorribile per giungere ad una conoscenza multi scalare dei vari aspetti dell’anfiteatro. Il rilievo topografico, unitamente alle scansioni tridimensionali, ha consentito di legare le letture a scala urbana a quelle a scala architettonica, integrate dal rilievo diretto; così come la fotomodellazione ha consentito l’analisi del monumento nella sua interezza ma anche la focalizzazione su alcuni aspetti più minuti delle decorazioni pittoriche o dei mosaici, impossibili da cogliere con le altre strumentazioni utilizzate. Ancora una volta il rilievo, nella sua accezione più ampia, si dimostra l’espressione primaria di elaborazioni e percezioni di un testo, ovvero dell’insieme di segni legati da nessi funzionali e perciò di comunicazione finalizzata alla conoscenza, comprensione, valorizzazione del progetto di conservazione e tutela del bene esaminato. Sempre più, infatti, nella lettura di realtà complesse nella loro intrinseca configurazione così come nelle relazioni con il contesto e con gli aspetti di dettaglio, il rilievo condotto mediante l’integrazione di strumenti, metodi e tecnologie differenti si caratterizza come l’unica metodologia che può condurre ad una conoscenza scientificamente fondata e sempre più completa del bene 933 Paolo Giandebiaggi, Chiara Vernizzi indagato, soprattutto se il bene è una architettura archeologica caratterizzata da discontinuità e parti mancanti, che rendono di difficile interpretazione l’oggetto di indagine. La possibilità di interfacciarsi costantemente con competenze disciplinari diverse, che riguardano l’archeologia e la geologia, l’urbanistica ed il restauro è stata, inoltre, un punto di forza del lungo lavoro svolto sull’anfiteatro, che ha consentito mediante un continuo confronto tra i diversi “punti di vista” di aumentare il livello di conoscenza globale su un manufatto di tale complessità, anche attraverso numerose tesi di laurea e attività connesse al Dottorato di ricerca che negli anni sono state svolte sull’anfiteatro, con particolare riferimento all’individuazione di congrue modalità di riutilizzo e rifunzionalizzazione del monumento, immaginando per il manufatto nuove modalità di fruizione attraverso la sua valorizzazione. Crediti Prima campagna di rilievo topografico (2004): resp. scientifico prof. Paolo Giandebiaggi; prof.ssa Michela Rossi, arch. Andrea Ghiretti, arch. Cecilia Tedeschi, geom. Gabriele Campanini. Attività di rilievo architettonico e urbano legate al Progetto di Internazionalizzazione (2005-2007): resp. scientifico prof. Paolo Giandebiaggi; coordinamento scientifico di tutte le attività: prof.ssa Chiara Vernizzi e arch. Andrea Ghiretti; arch. Maria Melly, arch. Andrea Zerbi, arch. Ilaria Fioretti, arch. Daniela Paltrinieri, arch. Cecilia Tedeschi, arch. Maria Carmen Nuzzo, arch. Daniela Bozzarelli, arch. Sabrina Capra, arch. Elisa Mattei, arch. Valeria Sdraiati. Prima campagna di rilievo tridimensionale (Laserscanner, 2012): resp. scientifico prof. Paolo Giandebiaggi; coordinamento scientifico di tutte le attività: prof.ssa Chiara Vernizzi e arch. Andrea Ghiretti, arch. Claudia Ceruti. Analisi grafica: arch. Andrea Ghiretti. Seconda campagna di rilievo tridimensionale (Laserscanner e fotomodellazione, 2015): resp. scientifico prof.ssa Chiara Vernizzi, prof. Riccardo Roncella, prof. Andrea Zerbi. 934 Il rilievo architettonico dell’anfiteatro di Durazzo Bibliografia25 Adam J.-P. 1988, L’arte di costruire presso i Romani. Materiali e tecniche, Milano. Barletius M. 1508-1510, Historia de vita e rebus gestis Epirotarvm Principis Scanderbeghi, Roma. Bianchini C. 2012, La documentazione dei teatri antichi del Mediterraneo. Le attività del Progetto Athena a Mérida, Roma. Bowes K., Hoti A. 2003, An Amphitheatre and its Afterlives: Survey and Excavation in the Durrës Amphitheatre, Journal of Roman Archaeology, 16, 380-394. Campana S., Francovich R. 2006, Laser scanner e GPS. Paesaggi archeologici e tecnologie digitali, Firenze. De Rubertis R. 2000, Un enigma avvincente: il tracciato planimetrico ellittico del Colosseo, Disegnare idee immagini, 18-19, Roma, 99-105. Docci M. 2000, La forma del Colosseo: dieci anni di ricerche. Il dialogo con i gromatici romani, Disegnare idee immagini, 18-19, Roma, 23-32. 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La bibliografia indicata si riferisce a numerosi studi non sempre citati in modo puntuale nel testo, ma che costituiscono, in senso più ampio, un riferimento culturale e scientifico imprescindibile nell’affrontare un tema complesso e articolato per interdisciplinarità, come quello sopra descritto. 935 Paolo Giandebiaggi, Chiara Vernizzi Recovery and Archaeological Excavation, in Boriani M., Gabaglio R., Gulotta D. (a cura di), “BUILT HERITAGE 2013 Monitoring Conservation and Management” – Atti on line del Convegno Internazionale di studi “Built Heritage 2013. Monitoring Conservation and Management” – Milano, 18-20 novembre 2013, Milano, 524-533. Giandebiaggi P., Vernizzi C., 2014, Il rilievo architettonico dell’anfiteatro di Durazzo: la conoscenza per i progetti di restauro e rifunzionalizzazione, in Belli Pasqua R., Menghini A.B., Pashako F., Santoro S. (a cura di), Conoscere, curare, mostrare. Ricerche italiane per il patrimonio archeologico e monumentale dell’Albania, Roma, 45-50. 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The research is based on comparative analysis of various disciplines: the documentary sources available from 58 BC until today; geological seismic data (structural scheme, micro seismic zoning, geophysical data, geomorphological evidence) and archaeological traces, mostly identified in the amphitheater (collapses and victims) but also in other sites. The multidisciplinary analysis allows to interpret differently the legendary founding of the town by Heracles, whose cult was significantly established to dominate the damaging effects of earthquakes. The frequent-recurring succession of seismic events highlights the danger level of the area, densely populated today and brutally urbanized over the past 15 years. 939 Barbara Sassi Io tremo, e vi accorgerete che sono pur sempre la dura terra. Terra selvaggia. Terra che ancora si muove, che scarta e strappa, nonostante la camicia di forza in cemento armato che le avete stretto addosso. Wu Ming 2 + TerraProject, 4, 2014 Premessa Le ricerche sui terremoti storici della città di Durrës in Albania, e l’impatto che essi ebbero sulle dinamiche di trasformazione urbanistica e sociale della città, rappresentano uno dei più recenti filoni di ricerca cui iniziò a dedicarsi Sara Santoro1, e che trovarono terreno fertile nell’Università di Chieti-Pescara dove Sara giunse poco dopo il terremoto che colpì L’Aquila il 6 aprile 2009. Gli studi sulla città antica e medievale, avviati e poi cresciuti grazie alle lunghe e coinvolgenti riflessioni fatte con Sara Santoro, consentono oggi di raccogliere e interpretare numerosi indizi riguardanti la sismologia storica e l’archeosismologia della città e del suo territorio. Metodologicamente la sismologia storica, ovvero lo studio dei terremoti del passato, rappresenta in Italia un settore di ricerca avanzato e riconosciuto a livello internazionale2. L’approccio interdisciplinare utilizza gli strumenti conoscitivi propri della ricerca storica, finalizzato a chiarire le conoscenze scientifiche dei terremoti per poterle utilizzare in ambito geofisico. Senza ambire a tali pretese, e con i mezzi multidisciplinari della ricerca storica ed archeologica, questo lavoro intende delineare la successione di eventi sismici che interessarono la città di Durazzo nell’Antichità e nel Medioevo, sperando di far emergere un interesse per altri settori della storiografia e per la tutela del patrimonio archeologico ed architettonico durazzino. La collazione delle fonti documentarie, geologiche ed archeologiche che interessano Durazzo permette di presentare un caso di studio di sismologia storica e di archeosismologia, da cui si svela la complessità delle strutture mitiche costruite dai Greci per giustificare la fondazione di nuove colonie in territori già abitati da altre popolazioni. Geologia e sismologia 1 Ricordo a questo proposito le Giornate di sismologia storica, sismotettonica e archeosismologia, organizzate da Sara Santoro presso l’Università degli Studi “G. D’Annunzio” di Chieti-Pescara nei giorni 26 e 27 febbraio 2013, cui non seguì la pubblicazione degli atti. L’intervento di Santoro ebbe ad oggetto “I terremoti di Durazzo (Albania). Ambiguità ed evidenze archeologiche e geologiche”. 2 Cfr. da ultima Guidoboni 2009, 177-189. Per un caso di applicazione con riferimento a Eracle/Ercole: Pirro, Cipollari 2014. 940 Sulle faglie il mito fondativo: i terremoti a Durrës dall’Antichità al Medioevo La città di Durazzo (fig. 1) si colloca su un promontorio ai margini meridionali di una dorsale collinare di formazione sedimentaria instabile, al bordo di una piana alluvionale formata dai depositi del fiume Erzen. Geologicamente, la regione di Durazzo è situata nella Zona Tettonica Ioniana, caratterizzata da una successione sedimentaria di evaporiti permotriassiche a cui seguono sedimentazioni carbonatiche di piattaforma neritica del Triassico superiore-Giurassico medio3. Dal Giurassico medio all’Eocene, la Zona Ioniana diventa un bacino a prevalente sedimentazione pelagicocarbonatica, mentre i depositi torbiditici oligocenici perdurano fino al Miocene medio. Questa porzione della Zona Ioniana è formata dalla depressione tettonica Peri-Adriatica, che abbraccia tutta la costa centro-settentrionale albanese, caratterizzata da basse colline che sono ciò che rimane delle porzioni erose di anticlinali e sinclinali, riempite da sedimenti plio-pleistocenici (argille, conglomerati, arenarie). I sedimenti quaternari di fondovalle e di piana sono invece prevalentemente composti da argille, sabbie e limi, che possono raggiungere anche i 50 m di spessore4. Contestualmente e successivamente ai piegamenti e ai sovrascorrimenti connessi all’orogenesi, dall’Oligocene (circa 50 milioni di anni B.P.) si formò il Fig. 1. Fotografia aerea della città di Durrës, da Ovest. deposito di molasse, rocce clastiche sollevate dalle spinte orogenetiche. 3 Harta Gjeologjke, disponibile tramite il servizio WMS dal geoportale ASIG, Autoriteti Shteteror per Informacionin Gjeohapsinor. 4 Argnani et al. 1996; Moderato 2017, 11-15. 941 Barbara Sassi La deformazione derivante dalla tettonica recente è interpretata come un sistema ad horst e graben5, in cui Durazzo appare attraversata da due faglie attive. La prima segue l’andamento del promontorio da Porto Romano a Curilla, mentre la seconda passa lungo la dorsale collinare Rashbull-Arapaj. La piana paludosa appare creata dal movimento delle fosse di affondamento plio-quaternarie, il cui movimento subsidente continua tutt’ora6. Da un punto di vista geomorfologico7, il versante litoraneo occidentale e meridionale dell’area urbana è caratterizzato da un elevato gradiente di pendenza (che dai 184 m s.l.m. della collina di Currilla raggiunge rapidamente il mare) e dalla presenza di una nicchia di distacco continua e grossomodo parallela alla linea di costa, con forme di erosione attive caratterizzate da un fitto reticolo di solchi e vallecole: il disfacimento interessa direttamente il substrato argilloso ed è prodotto dal ruscellamento superficiale delle acque meteoriche, accelerato dal disboscamento antropico attestato già in antico. Il versante orientale è invece contraddistinto da pendenze più graduali che seguono l’immersione delle unità del substrato, solcato e modellato da una serie di bacini idrici, orientati E-W con drenaggio verso Est, all’interno dei quali si producono e si accumulano depositi di colluvio superficiale in cui si sono evoluti paleosuoli brunastri, che testimoniano momenti di stabilità dei versanti. La piana, infine, presenta un potente accrescimento formato da depositi alluvionali dovuto agli apporti del fiume Erzen dove si sono evoluti che rappresentano i momenti di stasi che consentirono la frequentazione umana. I terremoti di Durazzo: fonti documentarie e archeologiche Il territorio di Durazzo (fig. 2) fu popolato almeno a partire dall’Eneolitico e poi, dalla protostoria, da popolazioni illiriche8. Nel 626-25 a.C. coloni di Corinto, Corcira e gruppi dorici fondarono Epidamnos-Dyrrachion9, il cui 5 Santoro, Sassi, Hoti 2010, 301-305. 6 Sciarra 2005, Moderato 2017, 23-24. 7 Santoro, Sassi 2010, 37-39; Dyrrachium III, 43-50; Sassi, Pavia c.s. 8 Tracce di frequentazione risalenti all’Eneolitico e all’età del Bronzo sono testimoniate da asce levigate, industria litica (lame e raschiatoi in selce) e asce in bronzo, parzialmente esposti nel Museo Archeologico cittadino. Su base archeologica, è noto un tumulo funerario datato agli inizi dell’viii sec. a.C. scoperto nel 1981 nel villaggio di Hamallaj in località Toka e Kuqe: Hoti 1993. Le fonti (Thuc., 1, 24, 1; App., BC 2, 39, 156-157; Ael., De nat. anim. 14, 1) sono concordi nell’affermare che il territorio epidamniota fu popolato prima dai Brygi tornati dalla Frigia, poi dai Taulanti, quindi dai Liburni, infine scacciati da “coloro che strinsero alleanza con i Corciresi”: App., BC 2, 39, 153. 9 Thuc., 1, 24, 1. La data è fissata da Eusebio (Euseb., Chron., ed. Schoene II 88-89) alla 38° Olimpiade, ossia al 626-25 a.C. 942 Sulle faglie il mito fondativo: i terremoti a Durrës dall’Antichità al Medioevo doppio nome fu determinato dalla presenza di un insediamento illirico preesistente collocabile presumibilmente sui rilievi collinari (Epidamnos), mentre nella piana, occupata in antico da una laguna comunicante con il mare10, si crearono le condizioni favorevoli per un porto naturale (Dyrrachion). La colonia greca fu quindi fondata in un territorio insediato da tempo da altre popolazioni, su uno stretto promontorio circondato dal mare che diede alla città le sembianze di un’isola11. Fig. 2. Il territorio di Durrës su Digital Terrain Model (DTM) con curve di livello a 90 m (da Moderato 2017). 10 La laguna fu bonificata nel 1962 per essere coltivata a riso e cotone, e recentemente cementificata da un’aggressiva urbanizzazione. Sul condizionamento dell’impianto urbano antico e del suo territorio in rapporto con la palude: Myrto 1998; Santoro, Sassi 2010; Sassi 2010, 112-115. 11 Luc., Phars. 6, 25; Strabo, 7, 5, 8.23; Dio. Cass., 12, 50, 3; ; Ael., De Anim. nat. 14, 1; Malch., Fragm. 28, 411-413-415.. 943 Barbara Sassi Nei secoli, la città subì profonde trasformazioni morfologiche a causa di terremoti12, frane, subsidenza e regressione marina, cui si è aggiunto negli ultimi 15 anni un intenso e disordinato sviluppo edilizio. Le notizie storiche sulla sismicità a Durazzo rivelano come più volte la città fu colpita da terremoti distruttivi, in particolare nel 58 a.C., 345-346 d.C., 521, 1270 e 1816. Del secolo scorso si ricordano due importanti terremoti, il 17 dicembre del 1926 e il 15 aprile 1979. Nel terremoto del 1926 (magnitudo 6-6.3 ed intensità sismica del IX grado) si manifestò un importante fenomeno di liquefazione e la città fu seriamente danneggiata: crollarono abitazioni, alcune mura antiche, ed anche strutture in calcestruzzo; alcuni villaggi limitrofi, tra i quali Romanat, Ndrog e Bozaxhias, furono interamente distrutti. Il terremoto del 1979 ebbe effetti disastrosi in quasi tutta l’Albania, ma i danni a Durazzo furono limitati13. Negli ultimi anni si sono registrati sciami sismici di varia durata e intensità, tra cui quelli del 20 gennaio 2014 e del 27 marzo 2016, entrambi di magnitudo 4.5. Nonostante la sismicità dell’area ionica orientale e le tracce di paleoterremoti visibili nel substrato collinare durazzino14, si ha una sola notizia relativa ad un terremoto verificatosi in età antica15, ricordato da Plutarco a proposito dell’esilio di Cicerone a Durazzo nel 58 a.C.16: “si racconta che quando egli [Cicerone] fece la traversata in direzione di Durazzo ed era sul punto di attraccare, si verificò un terremoto e insieme un sollevamento del mare”. Il passo suggerisce che l’evento sismico fu accompagnato da un maremoto, o meglio, che si trattò di un terremoto tsunamogenico17. La tessitura argillosa del substrato e il denudamento del suolo determinato dai disboscamenti, testimoniati almeno dalla prima età ellenistica18, provocarono, forse, anche fenomeni di liquefazione dei versanti collinari. La notizia successiva è relativa al terremoto del 345-346 d.C.19 ricordato da Eusebio20 insieme ad altri verificatisi in Italia centrale: “Dyrrachium terrae motu conruit et tribus diebus ac noctibus Roma nutavit plurimaeque Campa12 13 14 15 16 17 18 19 20 944 Sulla pericolosità sismica della città di Durazzo: Sciarra 2005. Guidoboni, Comastri 2005: per i dettagli bibliografici, cfr. infra. Dyrrachium III, 44-46 e fig. 24; Sassi, Pavia c.s. Guidoboni 1989, 655 n. 073. Plut., Cic. 32, 4. Cfr. Guidoboni 1989, 102. Guidoboni 2014, 239. Sassi, Pavia c.s. Guidoboni 1989, 675 n. 130. Eus., Hieron. Chron. 236, 14-16. Sulle faglie il mito fondativo: i terremoti a Durrës dall’Antichità al Medioevo niae urbes vexatae”. Teofane21 riprende Eusebio fornendo la data dell’anno del mondo 5837, ossia il 345 d.C., e Cedreno22 lo colloca nel nono anno dell’impero di Costanzo II: essendo salito al trono il 9 settembre 337, la data del terremoto è confermata al 345-346. Un altro terremoto è documentato nel 52123. Malala24 ricorda che “Giustiniano molto offrì per la ricostruzione della stessa città di Durazzo che prima era detta Epidamno; e ugualmente anche ai superstiti offrì doni”. Cedreno25 fissa l’evento al quarto anno dell’impero di Giustino, ossia al 521-522. Teofane26 ne precisa la cronologia all’anno del mondo 6014, ossia al 521: “In quell’anno Durazzo, città del Nuovo Epiro, nell’Illiria, ebbe a subire l’ira divina. L’imperatore donò molto denaro per la ricostruzione della città”. Malala, Cedreno e Teofane ricordano i terremoti di Durazzo e Corinto durante il regno di Giustino, ponendo l’accento sulla tempestività dell’intervento imperiale. Per distanza geografica, dobbiamo pensare a due eventi ravvicinati ma distinti. I passi di Malala e Teofane appaiono di particolare interesse da un punto di vista storico ed urbanistico: il terremoto generò massicci interventi di ricostruzione voluti dal potere centrale e che possiamo inquadrare nel secondo quarto del vi secolo d.C.27 Ne è un esempio la basilica paleocristiana di Gjuricaj, costruita agli inizi del v secolo in sinistra del fiume Ishem e che secondo H. Myrto28, che vi condusse lo scavo archeologico, fu distrutta da un forte terremoto. Passando al Medioevo, Durazzo subì un violento evento sismico una notte del marzo 127029, quando la città si trovava sotto il controllo del Despotato di Arta che riuscì a sottrarre la città ai Veneziani tra 1216 e 125330. Disponiamo di una lunga e dettagliata descrizione di questo terremoto in Pachymeres31, uno storico bizantino contemporaneo ai fatti. La parte della città maggiormente scossa è descritta come “trasversa” e il terremoto percepito come un “palpito”. Dal momento che le persone furono consapevoli del violento movimento verticale, il sisma dovette attivarsi probabilmente molto 21 Teoph., 37, 32. 22 Cedren., 522-523. 23 Guidoboni 1989, 690 n. 169. 24 Malal., 417-418. 25 Cedren., 638. 26 Teoph., 168, 8-11. 27 Sulla base di queste informazioni, alcune cronologie relative a edifici pubblici o residenziali attribuiti in modo ormai automatico agli imperatori Anastasio o Giustiniano, potrebbero essere riviste alla luce di questo episodio, che fu certamente traumatico per la città. 28 Myrto 1989. 29 Guidoboni, Comastri 2005, 279-283, n. 126. Il terremoto è stimato di IX-X grado della scala Richter. 30 Acta et Diplomata, 140; Acropolites 1903, XIV, 10. 31 Pachymmeres 1835, V, 7. 945 Barbara Sassi vicino alla città. Durante i giorni immediatamente precedenti, furono uditi forti e frequenti lamenti del bestiame. Il terremoto, accompagnato da uno tsunami, fece sprofondare la laguna chiudendo la sua comunicazione con il mare e trasformandola in palude. Quanto ai danni, alcune case furono solo parzialmente danneggiate, ma nessun edificio fu interamente risparmiato, e solo l’acropoli resistette al terremoto. Il bilancio delle vittime, stimato in 24.000 abitanti, fu aumentato dal fatto che le case nella città erano molto vicine e ciò rese difficile la fuga. La città fu abbandonata dai sopravvissuti per circa quindici anni e parte della popolazione superstite trovò rifugio a Berat e a Brindisi. Lo stato di abbandono della città dopo il terremoto tsunamogenico del 1270 è menzionato in due documenti degli archivi angioini. In un atto del 18 dicembre 127332 si fa menzione degli abitanti di Dyrrachium che erano fuggiti “per timore del terremoto, che spesso scuoteva la città”. Quattordici anni dopo, il 14 ottobre 128433, Carlo I d’Angiò (1266-1285) cercò di incoraggiare coloro che avevano lasciato Durazzo dopo il terremoto a rientrare in città riprendendo possesso delle loro proprietà. Un’altra importante fonte documentaria è rappresentata dall’Itinerarium Symonis Semeonis, un racconto di viaggio a Gerusalemme intrapreso da due frati irlandesi, che registrarono, più di mezzo secolo dopo il terremoto, le conseguenze dell’evento e il bilancio delle vittime. Nell’agosto del 1323, i due frati raggiunsero Dyrrachium in nave da Pola: “[...] e via mare giungemmo a Durazzo, città un tempo famosa e potente per mare e per terra, possedimento degli imperatori greci [...]. Questa città è racchiusa in un amplissimo circuito di mura, ma gli edifici sono piccoli e miseri, perché una volta fu totalmente distrutta da un terremoto, durante il quale i ricchi cittadini e gli abitanti, in numero di 24.000, così ci viene detto, furono sepolti sotto i loro stessi palazzi e uccisi. Ora è poco popolata e da persone di diverse religioni, usanze e lingue. Vi abitano infatti Latini, Greci, perfidi Ebrei e barbari Albanesi”34. Questa testimonianza trova su base archeologica riscontri di grande interesse. Gli scavi programmati condotti nell’area meridionale dell’anfiteatro di Durazzo a partire dal 2004 e diretti da Sara Santoro, prima per l’Università degli Studi di Parma quindi da quella “G. D’Annunzio” di Chieti-Pescara, hanno infatti consentito di riconoscere vari elementi, anche di una certa straordinarietà, pertinenti ai terremoti di Durazzo e in particolare al terremoto del 1270. In corrispondenza delle gallerie meridionali dell’anfiteatro, su unità databili tra la fine del xiii e gli inizi del xiv secolo, erano posizionate in giacitura di 32 Acta Albaniae, 88-89, n. 305. 33 Acta Albaniae, 147-148, n. 492. 34 Itiner. Symon. Sem., 38. 946 Sulle faglie il mito fondativo: i terremoti a Durrës dall’Antichità al Medioevo crollo massicce ed ingombranti porzioni dell’edificio anfiteatrale, in particolare parti di volte in opera cementizia e di piedritti in opera laterizia (fig. 3). Nella zona nord-occidentale dell’area di scavo, le aree cortilive con focolari e punti di fuoco apparivano nettamente sigillate da un colluvio limoso con pochi frammenti ceramici fluitati (US 14), distribuito per uno spessore di 5-20 cm, che seguiva la pendenza morfologica senza entrare all’interno degli ambienti coperti. Immediatamente sopra US 14, coevi al colluvio erano due imponenti porzioni di volte dell’anfiteatro in posizione di caduta verticale. Fig. 3. Anfiteatro di Durrës, scavi 2006. I livelli medievali della grande galleria sull’asse maggiore dell’anfiteatro sono ingombri di porzioni delle volte crollate con il terremoto del 1270 (da Santoro, Hoti, Sassi 2009). Nell’area sud-orientale dello scavo, erano presenti almeno sei-sette ambienti che articolavano un edificio medievale35 (fig. 4) che prosegue di poco oltre l’area recintata dell’anfiteatro36 affacciandosi sulla strada che, seguendo la volumetria curvilinea dell’anfiteatro, attraversa ancora oggi le mura bizantine tramite una 35 L’edificio fu costruito nella prima metà del xii secolo con una prima fase repentinamente interrotta dal terremoto del 1270. Quindi fu modificato planimetricamente con suddivisioni dei grandi ambienti, restauri e rialzamenti delle murature, tamponamenti di porte e rifacimenti delle pavimentazioni fino al xvi secolo e parzialmente fino all’età moderna, come evidenziato dai dati raccolti nel corso delle campagne di scavo degli anni 2005-2007. 36 Il dato è emerso dalle prospezioni georadar e microgravimetriche: Dyrrachium I, 735-740. 947 Barbara Sassi posterula. È in particolare negli ambienti dell’edificio denominati A-C ed F che sono emersi dati materiali riferibili all’evento sismico del 127037. Nell’ambiente A-C si è individuato uno strato molto disgregato del xiii secolo (US 658) che copriva un pavimento in piastrelle di cotto. Inglobati in US 658 si sono rinvenuti i resti scheletrici di quattro individui in buono stato di conservazione, la cui giacitura anomala e la cui collocazione all’interno di un’abitazione ha da subito fatto pensare a corpi insepolti. Circa al centro dell’ambiente, erano semisdraiati una femmina di circa 30 anni con una falange nel setto nasale (“vittima 2”) e, a circa un metro di distanza, un maschio di +50 anni (“vittima 3”) con un bambino di sesso maschile di 2-3 anni (“vittima 4”) posizionato tra le gambe dell’uomo (fig. 5). Più a Sud, davanti all’ingresso dell’ambiente verso la strada, era una bambina di 7-8 anni supina con il ginocchio destro contro il petto (“vittima 1”). I corpi non erano accompagnati da reperti, ad eccezione del maschio adulto che portava una stretta collana in ferro al collo, forse indicativa di condizione servile. L’analisi antropologica38 ha riscontrato nel maschio adulto un’infezione ossea aspecifica a livello della tibia sinistra, perdite dentarie, carie e un’osteite in vita, mentre la femmina adulta e il bambino mostrano anemie ferro-prive. Questi elementi rivelano condizioni di vita caratterizzate da fatti perturbatori dello stato di salute e di alimentazione e da cattive abitudini igienico-sanitarie, che porterebbero a confermare la condizione servile del maschio adulto. L’ambiente F presentava una complessa situazione di crollo con segni di fuoco: il crollo delle tegole e dei coppi del tetto, quindi i travi e travetti della capriata a doppio spiovente bruciata. Il crollo del tetto poggiava su abbondante concotto e ceramiche di xiii-xiv secolo, pertinenti ai resti della fase d’uso tra il crollo e il pavimento; esse si mescolavano all’abbondante argilla in parte scottata, resto delle pareti crollate e parzialmente bruciate. Queste si appoggiavano ad una pavimentazione in terra battuta da cui provengono materiali di fine xiii e inizi xiv secolo. La stratigrafia appena descritta risultava impostata direttamente sotto il battuto pertinente alla “ricostruzione” di fine xiii-inizi xiv (per cui vedi infra). Nell’area a sud-occidentale (fig. 4), sotto alcuni blocchi crollati e su superfici pertinenti ad uno spazio all’aperto databili a non oltre la metà-fine del xiii secolo, erano presenti resti umani riferibili ad almeno tre individui, due di sesso maschile di 30-40 anni ed uno femminile di 40-50 anni, oltre ad altri frammenti appartenenti ad individui adulti non associabili ai primi due. L’interpretazione 37 Per quanto interessa la ricerca affrontata in questo contributo, si riprendono i dati stratigrafici rilevati nelle campagne dal 2005 al 2007: Dyrrachium I, 747-749, 763-766, 771-772; Santoro, Hoti, Sassi 2009, 1253-1263. 38 Salvadei 2007; Santoro, Buglione, De Venuto, Sassi, Iacumin, Salvadei 2015.. 948 Sulle faglie il mito fondativo: i terremoti a Durrës dall’Antichità al Medioevo di questi resti disconnessi rimane piuttosto difficoltosa: in base alla posizione stratigrafica essi possono ascriversi a resti di sepolture pertinenti alla necropoli altomedievale che in parte occupò l’anfiteatro e che fu parzialmente distrutta dal terremoto, oppure effettivamente ai resti di corpi schiacciati dalle volte crollate con il terremoto e che subirono poi importanti perturbazioni postdeposizionali39. Fig. 4. Gli scavi 2006-2007 nell’anfiteatro di Durrës hanno consentito il ritrovamento di quattro vittime del terremoto del 1270 all’interno dell’edificio medievale e, nell’area aperta adiacente all’edificio, dei resti ossei pertinenti ad almeno tre individui (pallini neri) (elaborazione B. Sassi). Nel complesso, il contesto appena descritto, caratterizzato da crolli imponenti, da un colluvio e da almeno quattro vittime, tutti dislocati su superfici omogeneamente databili tra la fine del xiii e gli inizi del xiv secolo, è stato riferito da Sara Santoro e da chi scrive ad un unico e traumatico evento, cronologicamente e tipologicamente coerente con il terremoto tsunamogenico del 1270 ricordato da Pachymeres e dalle fonti trecentesche. Il quadro più sugge39 Salvadei 2007. 949 Barbara Sassi stivo messo in luce dagli scavi, con le quattro vittime di modeste condizioni che tentarono, senza riuscirvi, di scappare dalla casa che crollava, ben si adatta alla testimonianza dell’Itinerarium Symonis Semeonis che ricorda che “i ricchi cittadini e gli abitanti […] furono sepolti sotto i loro stessi palazzi e uccisi”. Fig. 5. Anfiteatro di Durrës, scavi 2007, ambiente A-C. Le vittime del terremoto del 1270 sepolte nell’edificio medievale: in primo piano il maschio adulto e il bambino di 2-3 anni rannicchiato tra le gambe dell’adulto e, in secondo piano, la donna di circa 30 anni (foto S. Margottini). Anche per quanto riguarda gli anni del dopo terremoto, i dati archeologici e le fonti documentarie offrono informazioni riguardanti una fase di ricostruzione e di intensa attività edilizia. Sopra lo strato che obliterava le vittime e sulle unità coeve, si sono evidenziate in stratigrafia almeno due superfici d’uso formate da riporti livellati di terra e materiali di risulta di xiii secolo ed utilizzate come “piani di cantiere”. Su queste superfici fu impostata la messa in opera di nuovi setti murari e pavimentazioni in terra battuta, quasi sempre in appoggio diretto a crolli che, per le loro ragguardevoli dimensioni, non furono rimossi. Le strutture murarie furono costruite con una tecnica omogenea a corsi suborizzontali poco connessi di elementi lapidei eterogenei, evidentemente frettolosa e con l’impiego quasi esclusivo di materiali di recupero. Sebbene non sia chiarita del tutto la specifica destinazione d’uso di ciascuno di questi ambienti (comunque a vocazione abitativa), il loro orientamento coerente con la strada che delimita a Sud l’anfiteatro e l’irregolarità planimetrica dettata dall’adattamento alla volumetria anfiteatrale, fanno pensare ad una ricostruzione delle case crollate con il sisma. Per la cronologia della ricostruzione, difficile da definire su base archeologica, soccorrono le fonti documentarie angioine che, 950 Sulle faglie il mito fondativo: i terremoti a Durrës dall’Antichità al Medioevo ricordando che la città restò in stato di abbandono per almeno una quindicina di anni, consentono di fissare la ricostruzione a partire dal 1285 circa. I terremoti di Durazzo: una rilettura del mito dalla fondazione arcaica al Medioevo e oltre Oltre alle notizie storiche che ricordano eventi sismici disastrosi avvenuti a Durazzo, appare di particolare interesse, in chiave sia sismologica sia antropologica, riprendere il racconto fornito dalle fonti riguardo la fondazione greca di Epidamno40. Tucidide41 ricorda: “Epidamno è una città sulla destra di chi entra con la nave nel golfo ionico: ai suoi confini abitano i barbari Taulanti, di stirpe illirica. Fu fondata dai Corciresi, ma l’ecista fu Falio, figlio di Eratoclide, di origine corinzia e discendente da Eracle, fatto venire dalla metropoli conformemente all’antica usanza. Colonizzarono la città anche alcuni corinzi e altri della stirpe dorica”. Oltre al passo di Tucidide, che introduce con approccio storico la causa prossima del conflitto peloponnesiaco, disponiamo di una lunga digressione erudita di Appiano42, a premessa della descrizione della battaglia di Durazzo del 48 a.C. tra Cesare e Pompeo. Egli racconta che la città fu fondata dal re illirico Epidamnos, mentre il nipote Dyrrachos, figlio di sua figlia Melissa e di Poseidone, costruì un porto e lo chiamò Dyrrachion. Combattuto dai fratelli, Dyrrachos fu aiutato da Eracle di ritorno da Eritia, al quale fu promessa parte della terra. Nel corso della battaglia, Eracle uccise per errore Ionios, figlio di Dyrrachos, che il “dio” non riconobbe. Durante il funerale, Eracle gettò il corpo di Ionios nel mare, che da lui prese il nome. Appiano conclude: “Gli abitanti di Durazzo considerano fondatore della loro città Eracle in quanto proprietario di parte della loro terra, senza peraltro ripudiare neppure Dyrrachos, ma appuntando il loro orgoglio su Eracle perché dio”. Storici e archeologi43 hanno concentrato l’analisi sulle motivazioni della fondazione corinzio-corcirese su ragioni prevalentemente geopolitiche ed economiche, ovvero sul bisogno dei coloni di disporre di un emporion come avamposto settentrionale per le rotte commerciali adriatiche, per disporre di un terminale della principale via di comunicazione transbalcanica (che nel 40 Sulla lettura del mito fondativo di Epidamnos-Dyrrachion: Antonetti 2007; Sassi 2010, 51-53; Santoro 2012, 9-11; Dyrrachium III, 59-61. 41 Thuc., 1, 24, 1. 42 App., BC 2, 39, 153-155. Cfr. Dio. Cass., 41, 49, 2; Paus., 6, 10, 8. 43 Antonetti 2001; Antonelli 2002, 190; Cabanes 2001; Antonetti 2007; Sassi 2010, 117-120; Santoro 2012, 9-11; Dyrrachium III, 59-61. 951 Barbara Sassi ii secolo a.C. sarà strutturato nel tracciato della via Egnatia) e di un collegamento trasmarino con la Magna Grecia tramite la rotta del canale d’Otranto. Il luogo, scelto in questo tratto della costa fra Illiria meridionale ed Epiro grazie alla presenza del porto naturale e di vallate di penetrazione verso l’entroterra, rispondeva all’esigenza di avere un centro per l’intermediazione commerciale, sebbene in un territorio da tempo insediato da altre popolazioni e ai “confini” del mondo greco. Da qui derivò la necessità di predisporre un racconto mitico, solido e soprattutto condivisibile da parte dei gruppi illirici. Per prima, Claudia Antonetti44 ha fornito una lettura del passo di Appiano interpretando le divinità originarie della polis in chiave colonizzatrice, coerentemente con l’interpretazione storiografica della fondazione: Poseidone fu scelto perché dio originario dei Feaci corciresi, in relazione dunque con la madrepatria Corcira, e il mito di Eracle fu inserito come metafora del possesso della terra, tenuta in comune con le popolazioni indigene. La provenienza del dio-eroe da Eritia (sede dei buoi di Gerione, in Epiro) suggerirebbe pertanto il percorso della colonizzazione corinzia da Sud verso Nord. Per giustificare l’occupazione di una terra già abitata, il mito fondativo richiese l’approvazione divina (Eracle è “dio” e non eroe) e l’introduzione di una tradizione favorevole agli indigeni (il re Epidamnos è illirico). L’interpretazione del racconto mitico della fondazione di Epidamno si è quindi concentrata, e con giustezza, su Eracle nella sua connotazione di civilizzatore del percorso coloniario, rivelando la necessità da parte dei coloni greci di legittimare con l’intervento divino un diritto di proprietà su terre già occupate e di cui i Greci non potevano rivendicare l’autoctonia45. La genealogia della fondazione di Durazzo vede dunque tra i fondatori uomini illirici (prima il re illirico Epidamnos, poi il nipote Dyrrachos), uomini greci (il corinzio Falio, discendente di Eracle), eroi (Eracle cui fu data parte delle terre) e dèi (Poseidone, quale padre di Dyrrachos). Il sorgere di una tradizione mista con aspetti apparentemente divergenti (Eracle è “dio” e greco / il re Epidamnos e il nipote Dyrrachos sono illirici) fu probabilmente determinato dalla percezione di un’azione sacrilega attuata dai coloni, che solo una nuova tradizione eroica e divina avrebbe potuto giustificare. Considerando il processo di ellenizzazione cui aderirono precocemente le aristocrazie illiriche, potremmo ipotizzare che questa tradizione sia stata costruita sia dai coloni sia dalle popolazioni taulantine ellenizzate, che forse assunsero il ruolo di co-autori nell’elaborazione del mito fondativo. L’anello di congiunzione è rappresentato proprio da Eracle, in quanto antenato dell’ecista corinzio Falio e possessore di parte delle terre donategli dall’illirio Dyrrachos. 44 Antonetti 2001; 2007, 93-96. 45 Lamboley 2005; Vattuone 2006; Antonetti 2007; Sassi 2010; Santoro 2012; Dyrrachium III, 59-61. 952 Sulle faglie il mito fondativo: i terremoti a Durrës dall’Antichità al Medioevo A conferma di questa lettura sinecistica del mito, Eracle e Poseidone vanno considerati anche nei loro attribuiti di divinità preposte alla protezione di eventi naturali, ossia di figure che i coloni potevano utilizzare per l’elaborazione di un nuovo mito in un territorio che, anche per le popolazioni illiriche, necessitava di protezione. Vediamo allora più nel dettaglio questi aspetti di Eracle e di Poseidone. Eracle è una divinità di grande complessità, derivata da elaborazioni che nel lunghissimo periodo hanno portato a stratificazioni di miti e culti difficilmente distinguibili, il cui nucleo potrebbe risalire al Neolitico passando al mondo minoico-miceneo e, attraverso la mitologia greco-romana, giungere al Medioevo. Come abbiamo visto, Eracle è senza dubbio eroe civilizzatore, in quanto nemico degli animali selvatici, delle cavallette, delle mosche e dei serpenti (assumendo quindi una valenza sanatrice), bonificatore di territori incolti, realizzatore di canali, dighe, gallerie sotterranee e regolatore di fiumi. Ma egli, percuotendo il suolo con la clava di oleastro, causa movimenti tellurici, cambia il percorso dei fiumi e crea le montagne46 (forse perché ne era stato osservato il comportamento anomalo in caso di terremoto). Inoltre Eracle è anche divinità pastorale, e come tale segue gli itinerari della transumanza salvaguardando gli averi dei pastori, ossia gli armenti talvolta persi, ricercati e, nei racconti mitici, ritrovati dall’astuzia e dalla forza dell’eroe. In questa accezione fu forse ancor meglio accolto dalle popolazioni illiriche, accomunate da un punto di vista economico da attività prevalentemente agro-pastorali basate sulla transumanza47. Considerando anche questo ulteriore attributo del semidio, sembra insomma confermarsi una scelta sinecistica condivisa dai coloni greci e dalle aristocrazie taulantine, già in parte ellenizzate in età arcaica. Quanto a Poseidone, oltre ad essere il dio del mare, rappresenta la principale divinità preposta ai terremoti e ai maremoti, e sovrintende alle acque sotterranee e alle sorgenti in quanto ritenute in comunicazione con gli abissi della terra48. Egli è infatti ricordato nei poemi omerici come il dio che scuote le montagne, solleva la pianura e fa sprofondare le coste49. Il maremoto, che invadeva la pianura rendendola sterile alle coltivazioni a causa del sale marino, era sentita come una disgrazia operata da Poseidone. La formazione improvvisa di una laguna salmastra in terre basse, che aggravava i danni di un terremoto tsunamogenico rendendo i campi inadatti alle coltivazioni, è ricordata da Plu46 Pirro, Cipollari 2014, 332. 47 Cabanes 2010, 81. 48 Guidoboni 2014, 241. 49 Odissea 4, 505-510. 953 Barbara Sassi tarco50 e, a proposito del racconto mitico di Troia, da Ovidio51. Applicando il fenomeno a Durazzo, non può sfuggire che la subsidenza in corrispondenza della piana occupata dalla laguna, attestata dall’età romana e determinata da fenomeni geodinamici, dovette verificarsi anche in età protostorica e arcaica, ed essere trasferita nella narrazione mitica. Poseidone e Eracle, dunque, rappresentano le due figure cui i Greci attribuivano il potere di scatenare l’energia terrestre e le uniche che potevano proteggere dai fenomeni geodinamici, quali i terremoti, i maremoti e la subsidenza. Per raccontare e giustificare la fondazione di Epidamnos-Dyrrachion, furono quindi inseriti in posizione preminenti addirittura entrambe le divinità preposte alla protezione dagli eventi sismici, il dio Poseidone e il semidio Eracle, rivelando la preoccupazione da parte dei Greci di elaborare una struttura del mito che le popolazioni illiriche potessero condividere e di cui sentissero fortemente la necessità. La complessità del culto di Eracle riscontrabile attraverso l’analisi del mito fondativo stride con le testimonianze archeologiche disponibili ad oggi, che si limitano ad un rilievo con Eracle trovato a Shijak intorno al 1950, databile tra vi e v secolo a.C. (fig. 6)52 e recante una dedica al dio su due linee parallele verticali in alfabeto corinzio53, rappresenta al momento l’iscrizione più antica nota in città. Eracle è rappresentato anche nel donario degli Epidamnii ad Olimpia54, le cui decorazioni architettoniche trovano un confronto stringente55 con quelle del tempio arcaico messo in luce sulla collina del cimitero moderno56. Anche nei secoli successivi, l’impellenza di disporre di culti a soccorso degli eventi geodinamici è testimoniata da pochi ma significativi indizi. 50 Plut., Mor. 248 A-C. 51 Ov., Met. 11, 199-215. 52 Dyrrachium III, 68, fig. 48. 53 Myrto 1981, 70-71, fig. 5; Cabanes, Drini 1995, 69-70 n. 1; Antonetti 2007, 94. 54 Il donario, dedicato come ex-voto nel 516 a.C. da Kleosthenes di Epidamno, vincitore della 66° Olimpiade nella corsa delle quadrighe e allevatore di cavalli è descritto da Paus., 6, 19, 8. Il primo tesoro, opera dello scultore argivo Ageladas, rappresenta il vincitore e la quadriga; i nomi dei cavalli, inscritti sul gruppo bronzeo, erano Phoinix, Korax, Knakias e Samos. Il secondo tesoro, opera del lacedemone Teocle figlio di Egilo, in legno di cedro, rappresenta la volta celeste sorretta da Atlante. Nel terzo tesoro, realizzato da Pirro e dai suoi figli Lacrate ed Ermone, è raffigurato Eracle, l’albero delle Esperidi (un melo) e un serpente avvinghiato all’albero. Le cinque Esperidi, spostate dagli Elei ed ancora visibili nello Heraion al tempo di Pausania, vengono localizzate presso il Fiume Eridano, che secondo il mitografo ateniese Ferecide, fr. 61 e 65, equivale al fiume Po. Il legame tra Epidamno e l’Eridano/Po evoca precoci contatti con l’Italia settentrionale ed in particolare con la pianura padana: Antonetti 2007; Santoro 2012, 15-16. 55 Miraj 2002, 458; Santoro 2003, 180 e nota 91. 56 Zeqo 1986; 1989. 954 Sulle faglie il mito fondativo: i terremoti a Durrës dall’Antichità al Medioevo Fig. 6. Museo Archeologico di Durrës. Copia del bassorilievo arcaico raffigurante Eracle armato di clava con il braccio sinistro teso in avanti, vi-v secolo a.C. (foto B. Sassi). In età romana, la protezione da terremoti e maremoti era invocata, oltre che da Nettuno e ancora da Ercole, anche da divinità legate alla Terra, come Cerere, la Bona Dea e Tellus. A Durazzo, in occasione dei lavori dell’ex cinema “Iliria” lungo il centrale Bulevardi Dyrrah, venne in luce nel 2003 un esteso edificio di iv-v secolo d.C., del quale si individuò un ambiente dotato di un’ampia abside, all’esterno della quale si recuperarono elementi architettonici in marmo (capitelli, cornici, una colonna) e la porzione inferiore di una statua di Tellus databile tra i e ii secolo d.C.57 (fig. 7) il cui basamento era connesso alla pavimentazione. La statua, in marmo pentelico e di verosimile committenza imperiale traianea o antonina, raffigura a tutto tondo e in grandi dimensioni la dea italica seduta, che regge con le mani i lembi del mantello con cui tiene in grembo abbondanti frutti con ai lati due bambini seduti (karpoi), a rappresentare la madre della terra che dà la vita e nutre. La posizione, seduta e frontale, ripete l’antichissimo 57 Santoro, Monti 2004, 572, n. 57; Santoro 2010, 30 e fig. 8; Santoro, Sassi, Hoti 2010, 316; Dyrrachium III, scheda n. 57; Santoro c.s. 955 Barbara Sassi stereotipo della dea-madre Terra che garantisce fecondità, ricchezze agrarie e minerarie e protezione per i defunti: è noto che la religiosità tellurica rappresentata con le sembianze di una figura femminile seduta è diffusa a partire dal Neolitico fino alla Vergine Maria. Sebbene la statua di Tellus trovata a Durazzo rappresenti esplicitamente la dea nella sua accezione di Tellus mater, simile alla Saturnia Tellus dell’Ara Pacis58, è suggestivo pensare che a Dyrrachium potesse essere diffuso il culto della dea anche nel suo attributo di divinità preposta alla protezione dai terremoti. Fig. 7. Museo Archeologico di Durrës. Statua in marmo pentelico raffigurante la dea Tellus, i-ii secolo d.C. (foto B. Sassi). Nel Medioevo, gli eventi sismici e i maremoti furono attribuiti interamente a Dio, mostrando il persistere del racconto mitico anche nella tradizione giudaico-cristiana. Nei testi relativi ai terremoti di Durazzo, le testimonianze assegnano esplicitamente all’ira di Dio l’evento del 521. Questo testo, al pari di 58 Oltre che nell’Ara Pacis, Tellus è raffigurata sulla parte bassa della lorica dell’Augusto di Prima Porta e sulla fascia superiore a destra della Gemma Augustea. 956 Sulle faglie il mito fondativo: i terremoti a Durrës dall’Antichità al Medioevo quelli antichi, non andrebbe considerato lacunoso o ambiguo, quanto piuttosto elaborato in una sfera semiotica e semantica diversa dalla nostra. Con questo approccio, e focalizzandoci nell’individuare tracce certe e razionali di eventi naturali, ciò che emerge in secolare continuità con il racconto mitologico antico, è la modalità magico-religiosa rivolta, in ultima analisi, a scongiurare nuovi disastri. Come sottolinea Emanuela Guidoboni59, “la consapevolezza di questa distanza semantica e semiologica può rendere più rispettose le interpretazioni e forse anche aprire nuovi spiragli per l’uso, mai facile, di queste fonti”. Proseguendo in questo excursus cronologico alla ricerca di indizi storici sulla sismicità durazzina, troviamo che dal Settecento, ma forse anche prima, si diffuse capillarmente in Italia centrale il culto di Sant’Emidio d’Ascoli quale protettore dai terremoti. La devozione è concentrata in Abruzzo e Molise, ma si diffuse in Puglia e in Croazia, e risulta attestata anche in aree non cattoliche, tra cui Belgrado, Ragusa-Dubrovnik e Smirne60. La distribuzione dei luoghi di culto dedicati a Sant’Emidio sembrerebbe ricalcare quella antica per Ercole, sebbene le strutture per il culto antico siano, come ovvio, attestate in quantità assai minore rispetto a quelle moderne (in Albania, ad esempio, il culto di Sant’Emidio non sembra testimoniato, forse per ovvie ragioni politiche). Si potrebbe comunque avanzare l’ipotesi suggestiva che la devozione a Sant’Emidio abbia sostituito, mediante un processo di sincretismo religioso, quella antica per Ercole in aree ad elevato rischio sismico, dove da sempre la necessità di proteggersi dai terremoti è stata percepita come particolarmente necessaria ed urgente. Conclusioni Il racconto greco della fondazione mitica ed eroica di Durazzo da parte di Eracle e Poseidone e alcuni culti successivi come quello di Tellus e forse di Sant’Emidio, fanno trapelare nella struttura mitologica evidenti elementi geodinamici, che sembrano suggerire la traccia di eventi sismici perduti, ripresi dai fondatori greci attingendo da antiche memorie collettive religiose greche ed illiriche. La tradizione mitologica della fondazione di Epidamnos-Dyrrachion potrebbe riferirsi a terremoti realmente avvenuti, rievocati nel mito e la cui consistenza sembra corroborata dal contesto geologico e dalle testimonianze successive. Trattandosi di contesti letterari, religiosi e magici dai significati ambivalenti, in questa interpretazione razionalistica va posta tutta la cautela del caso, come ben avverte Emanuela Guidoboni61. 59 Guidoboni 2014, 243-244. 60 <https://santemidionelmondo.wordpress.com>. 61 Guidoboni 2014, 242. 957 Barbara Sassi Nel caso durazzino, l’approccio multidisciplinare tra scienze della terra e antichistica rivela su diversi livelli tracce di fenomeni geodinamici che si impongono all’attenzione per la loro frequenza e continuità. Dalla protostoria al Medioevo, le comunità che si insediarono in questo territorio elaborarono storie mitiche per scongiurare fenomeni sismici e maremoti, per allontanare eventi futuri e per rendere amiche le divinità che li scatenavano. L’analisi delle fonti documentarie antiche e medievali che citano o narrano eventi sismici a Durazzo consente, se associata ad altre fonti di carattere geologico, geomorfologico, archeologico e archeometrico, di arricchire il quadro delle trasformazioni spesso traumatiche che la città subì nella sua storia millenaria. In questo senso appare emblematico il ritrovamento, durante gli scavi nell’anfiteatro di Durazzo, di quattro vittime sepolte con il terremoto del 1270, il cui contesto archeologico collima con la narrazione fatta dai viaggiatori trecenteschi62. Bibliografia Acropolites G. 1903, Hronike Syngrafe, in Heisendberg A. (rec.), Georgii Akropolitae opera, Lipsiae. Acta et Diplomata = Thalloczy L., Jirecek C., Sufflay E. (eds.) 1913-1918, Acta et Diplomata res Albaniae mediae aetatis illustrantia, Vindobonae. Antonelli L. 2002, Corcira arcaica tra Ionio e Adriatico, in Braccesi L., Luni M. (a cura di), I Greci in Adriatico 1. 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Mentre osserviamo strette analogie coi vetri prodotti a Raqqa (Siria), tra viii e ix secolo, non abbiamo trovato corrispondenza coi vetri siriani più tardi. Riteniamo quindi inverosimile che l’attività della fornace si sia protratta oltre la fine del x secolo. Sono inoltre emerse caratteristiche composizionali tipiche dei vetri riciclati. Grazie alla ridefinizione della cronologia è stato possibile mettere in relazione la fornace con i contesti residenziali e, forse, commerciali, impostati sulle rovine dell’anfiteatro, convertito in spazio dedicato al culto cristiano e alle pratiche funerarie. Foreword: on changing your plans, while digging During one morning break of the 2006 fieldwork season at the amphitheater of Durrës, one of my excavation fellows, Claudia Corradi, made me 963 Cristina Boschetti, Cristina Leonelli notice some vitrified bricks, reused in a later wall, a few meters away from the trench we were digging. Looking around, we saw other bricks and, with my great surprise, a concentration of glass drippings emerging from the soil. At the time, my experience in ancient glass technology was still very limited and indicators of glass production were something I had seen only in books. Needless to say, the glittering glass drippings, sadly outside the borders of area to be investigated, become immediately my object of desire. I do not know how many site directors would have listened a recently graduated member of the mission, but what happened after some negotiation with Professor Sara Santoro and Barbara Sassi, the site supervisor, was that one week later a new trench was opened and I was happily digging a small glass-blowing site. In the same days, Marco Martini and Emanuela Sibilia from the University of Milan were visiting our mission for performing thermoluminescence dating on the bricks of the city walls and the Roman structures. They kindly agreed to expand their duties taking charcoal for radiocarbon analysis and bricks for thermoluminescence. Paola Iacumin, from the University of Trieste, was performing isotopic analysis on human remains and welcomed also the addition of few glass samples. Myself, I took glass samples for being analysed at the University of Modena and Reggio Emilia with Cristina Leonelli. One year later, we prepared a paper, discussing the context with the results of the scientific analysis.1 Despite the find was far from being sensational, we had the opportunity to document, for the first time, glass-working in ancient Albania. Changing plans during a University dig is not common, but Professor Santoro, la Prof, as we used to call her, was a rare open minded person and did not dislike at all unpredictable things. This paper is intended to be an update for the short 2008 publication which, I think, deserves a revision, thanking la Prof for agreeing to open an unplanned trench, back in 2006. C.B. Durrës amphitheater, the archaeological context Large buildings like amphitheaters have suffered in the past the consequences of excavations aiming at reaching as far as possible the Roman structures, ripping out the later phases of use and providing a poor or totally lacking documentation. Excavations at Durrës amphitheater started in 1966 and continued for two decades under the direction of Vangel Toçi, who cleared the area from the Ottoman and modern houses, occupying the space of the cavea.2 Clearing part of the galleries, Toçi discovered the main Christian chapel and the cem1 Boschetti et al. 2008. 2 Toçi 1971. 964 Crafts inside the amphitheater: an interdisciplinary analysis of medieval glass-working etery, datable since the 7th century.3 Later, investigations continued for other twenty years, under the direction of Lida Miraj, who excavated until 20024. Proper stratigraphic investigation started only in 2004, with the first campaign directed by Sara Santoro.5 Besides being a precious occasion for documenting a large sector of an amphitheater stratigraphically,6 investigations at Durrës are particularly meaningful, if we consider the importance of the town, in the context of Roman and Byzantine Adriatic sea. Durrës was an emporium, hosting a busy commercial harbour, being one of the main stops on the Adriatic sea-route connecting northern Italy to Dalmatia and the Ionian Greek islands. According to the strategic position on the land, the town was located at the end of Via Egnatia, the road linking Rome to Costantinople, from the Late Antiquity to the Byzantine period.7 In this paper we are re-interpreting the evidence of glass-working excavated in 2006, according to the picture of a dynamic site, interested by an intense movement of goods and people. In order to discuss the glass-working evidence in the context of the Medieval phases at the amphitheater, we will summarize briefly the history of the site, with a special attention to the period comprised between the dismission of the amphitheater and the 1253 earthquake.8 The amphitheater was built during the 2nd century AD, under the empire of Trajan and was located at the borders of the western sector of the town. A severe earthquake stroke the town in 345-346 damaging the amphitheater, but the building continued to be used until the second half of the 4th century, as 3 On tombs excavated inside the amphitheater cfr. supra, 40; Miraj 1988. 4 Miraj 1988. 5 Santoro, Hoti, Sassi 2008. Results of the following campaigns are published in: Santoro, Hoti, Sassi 2009; Santoro, Hoti 2014. The complex work behind the scenes of this project, especially in the difficult earlier years and human side of creating and directing an international and interdisciplinary research team is told perfectly in Santoro 2012 and, in this book, in the paper by Afrim Hoti. 6 The problem of collecting new data, in order to date and survey accurately spectacle buildings already investigated in the past has been at the centre of several recent excavation projects, during the last couple of decades. In this book, see Basso, on the amphitheater of Aquileia. We mention here also the excavation projects at the amphitheaters of Caesarea Maritima Porath 1998, Tarragona Godoy Fernández 1999, Padova Ruta, Tuzzato, Zanovello 2009, Cividate Camuno Mariotti 2004, Catania Beste, Becker, Spigo 2007 and at the theatre of the Pytheion, Gorthyna, Crete Bonetto et al. 2011. The excavation and reconstruction of the theatre is one the main strands of broad project carried out, since 1957, by the Italian mission at Hierapolis, Frigia Masino, Sobrà 2012. 7 Santoro 2009. 8 This section of the paper is based essentially on data published in Santoro, Hoti 2014; Santoro, Hoti, Sassi 2009; Santoro, Hoti, Sassi 2008. For an updated archaeological history of the town of Durrës see also Sassi 2017. 965 Cristina Boschetti, Cristina Leonelli attested by repairs observed in the walls9. This intervention is a useful evidence, for attesting the continuation of gladiator games for decades10, although they were officially banned in the whole Empire.11 Immediately after the dismission, the building was used for quarrying stones and for making lime. The reuse of building material was a long-period process, likely intensified during the Byzantine period when, between the end of the 5th and the beginning of the 6th century, a new circle of city walls was built, using as foundations part of the external wall of the amphitheater.12 The main gate of the new city-walls was located in proximity to the dismissed spectacle building. Following this intervention, this sector of the town become a busy area, obliged passage for who was arriving in town from the sea. At the same time, the Roman structures were completely re-converted and the space occupied by the amphitheater become a sector of the town, articulated into dwelling, funerary and religious spaces, organized around the cavea, transformed into a public square.13 Possibly as early as the 5th century, a first Christian chapel was built in the galleries, followed by a second chapel and one ossuary, in use until the 16th century.14 The earliest and main chapel, known as St. Stephanos chapel is identified both as martyrium or as private funerary shrine, belonging to a local aristocratic family.15 The chapel was decorated initially by paintings, but in a second time, the southern and eastern walls were covered by mosaics. The date of these two decorative interventions has always been very controversial, with dates spanning from the late 5th to the 9th century. A recent scientific investigation conducted on glass mosaic tesserae demonstrated that they were made essentially by colouring cullet datable, according to the chemical composition, between the 6th and the late 8th century.16 9 Santoro, Hoti, Sassi 2008; Santoro, Hoti 2014, 564. 10 The history of Epidamnos-Dyrrachium, a town built in a high-risk seismic area is marked by a sequence of earthquakes. The impact of these natural events on both the ancient town and the amphitheater is discussed in this volume by B. Sassi. 11 Gladiators games were prohibited by Constantine in 325 (Cod. Theod. 15.12. 1; Cod. Iust. 11.44), but continued to take place for approximately one century. For an updated debate on moral and social implications related to gladiator games in the Roman society: Fagan 2015. 12 On the fortifications of Durrës: Santoro 2003, 160-167; Gutteridge, Hoti 2003; Shehi 2009. 13 Bowes 2014, specifically on the amphitheater of Durrës: 16-21. 14 Miraj 2003; Bowes, Mitchell 2009. 15 The chapel was possibly formerly dedicated to St. Asteios, bishop of the town, martyrized during the 2nd century: Bryer 1994. On prosecutions of Christians at Durrës, see Miraj 2003, 247-248. 16 Neri, Gratuze, Schibille 2017. 966 Crafts inside the amphitheater: an interdisciplinary analysis of medieval glass-working Consequently, the mosaic can be safely dated between the late 8th and the beginning of the 9th century, slightly before the date suggested by Mitchell,17 who locates the mosaic decoration during the 9th century. This date, accepted also by one of the last publications on the amphitheater18, fits very well with the scenario of economic growth registered in town since the 9th century, when Durrës become capital of the Byzantine Thema.19 As clarified by the investigations directed by Sara Santoro, we have now a documentation for the southern sector of the building in this period.20 From the 7th to the 11th century, the arcades of the amphitheater were still partially standing and acted as shelters for hosting low profile residential spaces and artisanal activities, including a pottery kiln and, later, the glass-working furnace.21 In the 9th century, the religious and funerary character of the area of the former amphitheater gained more importance, as attested by richer and more monumental burials and possibly also in relation to the nearby church of St. Nicholas, located 70 metres south. At the end of the 10th century, this residential-artisanal quarter is organized more systematically, occupying part of the space with a new building, used for a couple of centuries.22 This building is completely renovated during the second half of the 12th century, with further modifications at the beginning of the 13th century, before the collapse and subsequent reconstruction, following the severe 1270 earthquake.23 The town was affected dramatically by this event, entering in a deep crisis, leading to the decline of this prosperous centre. After the earthquake, the surviving structures of the amphitheater were covered by the edification of new houses integrated in the Venetian and, later, Ottoman town, gradually concealing and leading to the oblivion the Roman building.24 C.B. 17 Bowes, Mitchell 2009. 18 Santoro, Hoti 2014. 19 Norris 1993, 34. 20 Santoro, Hoti 2014; Santoro, Hoti, Sassi 2009; Santoro, Hoti, Sassi 2008. 21 The pottery kiln, dated stratigraphically before the 8th century, is quoted in Santoro, Hoti 2014, 566. The glass furnace was formerly dated 995-1160 AD: in this paper we are narrowing the chronology to the first period of this lapse of time, thanks to the interpretation of the chemical composition of glasses, see infra. 22 Santoro, Hoti, Sassi 2009. 23 Sassi in this book. 24 The amphitheater is mentioned by the sources for the last time in 1508, immediately after the Ottoman conquest: Barletius 1510, fol. 226; Dalmato 1570, c. 44-45. 967 Cristina Boschetti, Cristina Leonelli Glass-working evidence from the amphitheater Structures, finds and dating The glass-working waste was excavated in the southern sector of the site and all the glass-working indicators can be safely interpreted as in primary deposition.25 The finds, including glass drippings, droplets, and threads, as well as fragments of ceramic crucibles with glass coating were inside a fired clay level (SU 222) we interpreted as associated to the furnace (fig. 1). This SU might be what remains of the firing chamber of the furnace, whose walls did not survive: glass-working furnaces are usually small and not durable structures and it is not surprising that we could not find any remain of the dome. The only preserved structure related to this context was the nearby SU 235, a brick structure characterized by a shape comparable to a well. According to the shape, the clear sign of firing on the bricks, the fill made of ash and charcoals and the position, we interpreted SU 235, as the firing chamber of an annealing oven. The whole evidence allowed us read the context as a simple installation: a small furnace where glass was re-melted to be blown, associated with the annealing oven, necessary to prevent vessels from breaking, during the cooling process. Although the evidence of glass-blowing is clear, the absence of failed or discarded objects did not allow us to advance any hypothesis, suitable to identify the possible products of the furnace. Charcoals filling SU 235 were sampled and analysed by radiocarbon, yielding the date 995-1160 AD (+1 σ cal): we can therefore date the final activity of the furnace between the last years of the 10th century and the middle 12th. Thermoluminescence dating was performed on partially molten bricks, on crucibles and on the fired clay making the matrix of SU 222. The signal obtained was weak and not well reproducible, giving an indicative date, between the 9th and the 11th century. The date obtained analytically and stratigraphically points to locate the furnace at the time when the space of the dismissed amphitheater was hosting the cemetery, the Christian chapels and dwelling spaces. How can we interpret the presence of an artisanal activity, located at the borders of a space dedicated to religion? We will try to reply to this question, re-discussing the analytical data obtained on glass samples and suggesting a relationship between the Christian site and the artisanal activity. C.B. 25 968 For the context and tables with results of the analytical data see Boschetti et al. 2008. Crafts inside the amphitheater: an interdisciplinary analysis of medieval glass-working Fig. 1. A general view of the southern sector of the amphitheater, with the area investigated in 2006. SU 222, the fired clay level with glass-working waste, and the structure interpreted as annealing oven (STR VII, filled by SU 235) are highlighted in the image. On the left side, the walls of the Medieval residential building, in course of excavation (from Boschetti et al. 2008, 34, fig. 1a). Glasses samples: analytical results in context Glass is an artificial material produced by melting a batch containing three main mineral components: silica, the network-former, calcium, acting as a network-stabilizer and an alkaline fraction, added for lowering the melting point of the batch.26 In antiquity, these components were obtained by using different raw materials. Silica was added as silica-rich sand or as crushed quartz. Calcium and minerals rich in alumina, iron and other impurities are often present in sand and are consequently introduced into glass batches. Alkaline metal oxides were added as natron, a soda rich evaporitic mineral extracted in desert areas27 or as different species of halophytic plant ashes.28 The scientific characterization of glass is useful to obtain information on the raw materials used to make glass and on the provenance of glass. Glass samples analysed in 2008 are eight and are all drippings and lumps.29 The short paper published in 2008 presented the semi-quantitative chemical 26 27 28 29 On the essential notion of ancient glass raw materials: Sayre, Smith 1961. Shortland 2004. Barkoudah, Henderson 2006. Boschetti et al. 2008. 969 Cristina Boschetti, Cristina Leonelli composition obtained by scanning electron microscope on glass samples, but without a detailed discussion on the composition.30 The eight samples are all silica-soda lime glasses. Samples ALB 4, 6 and 9 show the typically greenish tinge of glasses naturally coloured by iron oxide, introduced into the batch, as impurity. The other five samples are decolorized by adding manganese oxide (0.6-1.7 wt%).31 According to the concentration in aluminium oxide, from 2 to 2.9 (wt %), we can understand that the all the glasses were made using sand, as silica source. Concentrations in calcium oxide vary quite widely, from 5.5 to 14.7 (wt%). The concentration in calcium oxide reflects the composition of sands and, in the case of plant ash glasses, of ashes too. The variation observed in samples from Durrës suggests the use of different raw materials. Plotting the concentrations of aluminium oxide, against calcium oxide, we can notice a main cluster at the centre of the graph, with two samples isolated at top left and one at bottom right (fig. 2). Fig. 2. Weight % alumina versus calcium oxide in glass samples from Durrës. 30 Scanning electron microscope (FEI/Philips Company; NL, model XL-30), equipped with a backscattered electron detector. X-ray microanalysis was performed using an energy dispersive spectroscopy (EDS), an Oxford Instruments, UK model INCA-350, calibrated with standards or semi-quantitative analyses (spectra were collected with an accuracy= ±0.1), at CIGS, University of Modena and Reggio Emilia (Modena, Italy). 31 On glass decolorisation: Henderson 2013, 76-77. 970 Crafts inside the amphitheater: an interdisciplinary analysis of medieval glass-working The concentration of magnesium and potassium oxides in glasses allows to identify the use of mineral or vegetal raw materials, as source of alkalis.32 In our samples, the content in magnesium oxide is comprised between 1 and 2.8 (wt%), while potassium oxide varies from 1.2 to 3.3 (wt%). According to the quite elevate content in potassium oxide, in 2008 we interpreted all the glasses as made using plant ashes, as source of alkalis. Plant-ash glasses are generally considered to be characterized by a content in both magnesium and potassium oxides, above the 1.5%.33 However, three of our samples (ALB 4, 10 and 12) show an unusual composition, with quite high potassium, but low magnesium oxide, as sown plotting the concentrations of magnesium versus potassium oxides in our samples (fig. 3). Fig. 3. Weight % magnesium versus potassium oxide in glass samples from Durrës. This anomalous composition can be clarified comparing our samples to literature values obtained for Islamic natron and plant ash samples from Raqqa, Syria dating between the 8th and the 11th century34 and including both glass from primary and secondary furnaces35. Plotting magnesium versus potassium 32 Sayre, Smith 1961. 33 Ibid.. 34 Henderson, McLoughlin, McPhail 2004, with updated discussion in Henderson 2013, 305. 35 Ibid. 971 Cristina Boschetti, Cristina Leonelli oxides in Durrës samples, compared to Raqqa glasses, we can observe the relationship between our samples and both natron and plant ash Islamic glasses (fig. 4). Sample DUR 4 shows the typical composition of natron glass, while DUR 10 is slightly outside this field, with higher concentration in potassium oxide. Despite this difference, this sample can still be safely considered a natron glass. DUR 12 is well outside the field of natron glass but, at the same time, is well separated from the plant ash group. An enrichment in potassium oxide is demonstrated to occur when glasses are contaminated by fuel vapours, during firing.36 This contamination becomes more evident when a glass is subjected to a repeated thermal treatment, a condition typically happening wen glass is recycled. Like DUR 4 and DUR 10, also DUR 12 can thus be interpreted as a natron glass and is very likely to be a recycled glass. All the other samples we analysed cluster together the group of Islamic plant-ash glasses. Because the concentration in potassium oxide can vary widely, according to the plant Fig. 4. Weight % magnesium versus potassium oxide in glass samples from Durrës, compared to glasses from Raqqa (data from Henderson, McLoughlin, McPhail 2004). 36 Alterations of the chemical composition of recycled glass include the enrichment in potassium and oxide and alumina, the decrease of chlorine (due to vaporization). A review on the literature about this subject can be found in Freestone 2015 and Boschetti, Mantovani, Leonelli 2016, 82, note 46. 972 Crafts inside the amphitheater: an interdisciplinary analysis of medieval glass-working species used to obtain the ashes,37 it is hard to establish weather a contamination occurred during the firing process. With this first comparison, the samples from Durrës, appear to overlap with glasses from 8th-9th Raqqua only. Comparing the concentrations in aluminium oxide versus calcium oxide in our samples, to Raqqa glasses, we can notice that ALB 10 and ALB 11 are separated from all the other samples, with sensibly high calcium oxide concentrations (fig. 5). These values are anomalous and can be explained again, as a result of contamination, occurred during re-melting for recycling. Although there is not any documented evidence for this practice during the Middle Ages, we can argue that this modification occurred as a consequence of the application of a paring layer of lime on the inner surface of crucibles, in order to prevent the contamination from the ceramic of the vessels.38 Fig. 5. Weight % alumina versus calcium oxide in glass samples from Durrës, compared to glasses from Raqqa (data from Henderson, McLoughlin, McPhail 2004). 37 Barkoudah, Henderson 2006. 38 This practice is documented during in Late Bronze Age Egypt: Smirniou, Rheren 2016, with previous literature. A new evidence was recently found also in 1st century BC Egypt: Boschetti 2018. We do not exclude that a similar productive process was in use also elsewhere and in different periods. 973 Cristina Boschetti, Cristina Leonelli Finally, the analysis conducted on raw glasses and vessels from Raqqa allowed to distinguish four compositional types for 9th to 8th century glasses (named Type 1 to 4), plus a further cathegory for 11th century glasses. This last category was named Raqqa Subtype 1, because, if considering the ratio magnesium oxide versus alumina only, it overlaps to Type 1. Raqqa Type 3 is a natron glass, while the other types are all plant ash glasses. For completing the comparison between the glass samples from Durrës and 9th-11th century glasses from Raqqa, we plotted the concentrations of magnesium oxide, versus aluminium oxide in our samples, compared to the results obtained for Raqqa glass, divided by type (fig. 6). Samples ALB 4, 10 and 12 overlap to Raqqa Type 3. This match is a further confirm to our hypothesis, identifying these three samples, as natron glasses. The other five samples can all be related to Raqqa type 2, while there is not any match between our samples and Raqqa Types 1 and 4 and Subtype 1. Fig. 6. Weight % magnesium oxide versus alumina in glass samples from Durrës, compared to glasses from Raqqa, divided by compositional types (data from Henderson, McLoughlin, McPhail 2004). Summarizing, we can state that glasses worked at Durrës amphitheater show the character of recycled glass and fit well with the chemical composition of 8th-9th century glass from Raqqa, while differ from 11th century glass. C.B., C.L. 974 Crafts inside the amphitheater: an interdisciplinary analysis of medieval glass-working Conclusions The improved discussion on the chemical composition glass-waste from Durrës characterized the workshop as a quite low-profile activity: a small furnace, possibly fashioning some raw glass, but surely recycling glass. This glass resulted to be compatible to the glass made and circulating in Syria, during the 8th-9th century. Radicarbon analysis on charcoals from the furnace yielded a date comprised between 995 and 1260, but he absence of glass showing compositions typical of the 11th century suggests to date the last activity of the furnace at the end of the 10th century, narrowing significantly the chronological window obtained analytically. This result is helpful, for trying to clarify the relationships between the furnace, the residential area and the Christian site and for advancing an hypothesis on the type of objects fashioned at the furnace. The association between dismissed Roman spectacle buildings and indicators of glass production is not unknown in literature. Large opened structures, like amphitheaters cirques and theatres, are frequently turned after the abandonment into dumping and-or farming sites.39 The lack of documentation does not help in tracing a general trend, but we can list few findings of glass-related activities from different sites. In Italy, the theatre of Catania yielded a large amount of glass-waste, datable to early Byzantine period.40 The amphitheater of Cividate Camuno produced a comparable evidence: glass-blowing waste, associated to fragments of glass vessels, of unclear date.41 Finally, also the abandonment phases of the theatre of Aquileia have yielded waste deriving from industrial activities, including glass-working.42 Outside Italy, another occurrence is from the circus of Arles, where blocks of raw glass were excavated.43 For all these contexts it is not clear if the glass finds come from a primary or a secondary deposits. According to the use of abandoned spectacle buildings, as dumping sites, it is even possible that glass was worked elsewhere and glass waste was deposited, following the cycle of rubbish disposal. What we can say quite reasonably is that dismissed theatres, amphitheaters or circuses might have been suitable spaces for installing high-temperature crafts, inside the urban space. This suggestion is more convincing if we think that until the walls of the dismissed buildings where visible, they could have provided a protection, minimizing the risk of propagating the fire, in case of accidents. 39 See the contribution, in this book, by P. Basso, on the amphitheater of Aquileia. 40 Di Bella et al. 2015. 41 Uboldi 2004. 42 Ghiotto et al. 2018. 43 Foy 2008. 975 Cristina Boschetti, Cristina Leonelli The context of the late 10th century Durrës amphitheater, when the glass furnace was active, is totally different and, for the moment, appears to be a quite unusual evidence. We are not in an abandoned and dumped area, but in a Christian funerary site combined, at least in the southern sector, to a low-profile residential area. This residential area was located between the chapels and cemetery and, outside the amphitheater, on the way to the church of St. Peter. More precisely, the furnace was located immediately outside the residential building, built during 10th century and maintained until the 1270 earthquake. If it is true that the St. Stephanos chapels was a martyrium, we should imagine the area as regularly visited by people and where travellers arriving in town were likely stopping, for bringing their regards to the chapels of the saints. Fig. 7. Antioch, Yakto complex, Megalopsychia mosaic, second half 5th AD. Two sections of the topographical border showing the perypathos with a street seller and dice players, followed by the martyrium, with a men drinking wine (photo from Levi 1947, elaborated by C. Boschetti). According to this interpretation, we might suggest that the residential area was likely also a commercial site, where spaces organized for living were combined to small commercial activities. These might have included shops for preparing and selling food and small workshops. The presence of the furnace can be perfectly integrated in the context of this dwelling and commercial area and we can suggest it was active in making and maybe selling simple blown objects, made for the religious consumption. These might have included votive lamps or oil flasks, bought by visitors, as souvenirs, of their visit.44 If our hypothesis is correct, was can imagine, that the Durrës amphitheater re-converted in cemetery-martyriun, was surrounded by low profile houses, but also commercial activities, designed to satisfy the request of a busy area of the town. This apparently inappropriate, but very practical association, between shops and workshop and a Christian site recalls the atmosphere evoked by the famous topo44 On glass souvenirs for pilgrims during the Late Antiquity: Foy 2010. On the meaning of eulogiae: Patrich 2011, 249-258. 976 Crafts inside the amphitheater: an interdisciplinary analysis of medieval glass-working graphical border of the Megalopsychia mosaic from Daphni, Antiochia. Here a synthetic, but precise view of the town is represented, with the main buildings labelled by inscriptions, facing a street peopled by travellers and inhabitants, engaged in different activities.45 Stalls of street sellers and taverns, with dice players are represented immediately before the martyrium “ΤΑ ΗΡΓΑΣΤΕΡΙΑ TOY MAPTYPIOY”, where a man, sitting in front of the entrance, is drinking wine, assisted by a servant, filling his cup (fig. 7).46 This kind of association, not well documented archaeologically, is raising and increasing attention, shaping the idea of the Byzantine town transformed, quoting Lavan, into a medina, with shops clustering around the church or the mosque.47 An archaeological proof of this model can be found in the Syrio-Palestine region48 and in Anatolia, as attested by shops associated to the ecclesiastic complex at Tyana, Cappadocia and the similar association identified a few years before at Sardis.49 In hear last years, Sara Santoro, who was a scholar of great intuition, was working on role of commercial activities in Classical towns and the different aspects of this subject were including the intriguing relationship between religious space and commerce50. This research strand is very promising and we believe that in the future we will achieve a different and more complex view of commercial activities, in the context of ancient towns. C.B. References Barkoudah Y., Henderson J. 2006, Plant Ashes from Syria and the Manufacture of Ancient Glass: Ethnographic and Scientific Aspects, Journal of Glass Studies, 48, 297321. Barletius M. 1510, Historia de vita et rebus gestis Epirotarum Principis Scanderbergi, Roma. Beste H.J., Becker F., Spigo U. 2007, Studio e rilievo sull’anfiteatro romano di Catania, Bollettino dell’Istituto archeologico germanico, sezione romana, 113, 595-613. Bonetto J., Ghedini F., Bressan M., Francisci D., Falezza G., Mazzocchin S., Schindler Kaudelka E. 2011, Gortyna di Creta, Teatro del Pythion. Ricerche e 45 The mosaic was part of the decoration of a 5th century country villa. The topographical border was firstly published and discussed in Levi 1947, vol. I, 323-345 and vol. II, plates LVLXXX (topographical border LXXIX-XXX). For a recent discussion see Matthews 2006, 79-88. 46 Ibid. 47 Lavan 2006. For an introduction to the subject see Carriè 2012. 48 Walmsley 2012, 321-324. 49 Lachin, Rosada 2016. 50 The proceedings of the conference she organized in 2013 on this subject are the last publication she edited: Santoro 2017. 977 Cristina Boschetti, Cristina Leonelli scavi 2007-2010, Annuario della Scuola Archeologica di Atene e delle Missioni Italiane in Oriente, 87, Serie 3, 9, II, 2009, 1087-1098. Boschetti C. (2018), Working Glass in Ptolemaic Egypt: a New Evidence from Denderah, Journal of Archaeological Science. Reports, (<https://doi.org/10.1016/j. jasrep.2018.04.029>). Boschetti C., Leonelli C., Corradi A., Iacumin P., Martini M., Sibilia E., Santoro S., Sassi B. 2008, Glassworking Evidences at Durrës, Albania: an Archaeological and Archaeometric Study, in Mursia Mascares S. (ed.) Journal of Cultural Heritage, 9, 33-36. 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In the early and middle imperial Roman age (at the beginning of the 1st and of the 2nd century AD), there are important developments in urban areas and in the surrounding landscape (such as in the viability and in the agricultural infrastructures). But these dynamics are rooted in the important changes that took place after the end of the Macedonian wars in the 2nd century BC, and maybe before, when Rome looks for the first time in this area of peripheral Greece at the end of the 3rd century BC. Introduzione Partecipare a un volume in ricordo di Sara Santoro a poco tempo dalla sua prematura scomparsa è un onore e certamente anche un’emozione specialmente per chi, come chi scrive, ha avuto modo di conoscerla come docente negli anni della sua attività all’Università di Bologna e poi di continuare a incontrarla sul campo nei vari progetti nei quali era attivamente coinvolta, sino 983 Enrico Giorgi a quello più recente di Durazzo. Proprio le attività delle Missioni archeologiche Italiane in Albania sono state a più riprese occasione di incontro e di confronto sui vari temi che accomunavano le ricerche di tanti colleghi italiani e albanesi e in particolare del gruppo di ricercatori dell’Università di Chieti-Pescara, coordinato appunto da Sara Santoro, e dei colleghi dell’Università di Bologna, a cui appartengo, coordinati da Sandro De Maria. Un recente convegno di studi tenutosi a Bari il 5 e il 6 maggio del 2016 è stato l’ultima occasione per rinnovare questa dialettica ancora una volta in maniera vivace e interessante. Anche per questa ragione è parso utile riprendere e approfondire proprio i temi trattati in quell’occasione anche in questo contributo, nella convinzione che certe idee continueranno a essere sempre stimolanti sia sul piano scientifico, sia su quello personale. Alcune riflessioni sull’Epiro settentrionale in età romana Nella storia degli studi sulla Caonia il tema dell’evoluzione delle città e del territorio in epoca romana veniva spesso sottovalutato e ricondotto essenzialmente al caso di Butrinto, che tanta fortuna aveva avuto grazie alle indagini della Missione Italiana diretta da Luigi Maria Ugolini e, dopo la sua morte, da Pirro Marconi e Domenico Mustilli1. Sino alle ricerche maturate nell’ambito della Missione Archeologica dell’Università di Bologna diretta da Sandro De Maria, non erano invece presenti studi recenti di ampio respiro che mettessero a fuoco l’evoluzione del paesaggio antico in epoca romana2. La sorte non particolarmente fortunata degli studi sul paesaggio di età romana e la tendenza — non scevra da condizionamenti ideologici — a concentrarsi sulle epoche più antiche, aveva dunque finito per concentrare l’interesse sull’età ellenistica e favorito il diffondersi dell’idea di un sostanziale declino successivo. Per alcuni ristretti ambiti territoriali, come nel caso dell’antica città di Antigonea nella valle del Drinos, questa tesi veniva avvalorata anche con una lettura poco attenta della tradizione storiografica antica. Com’è ben noto, infatti, le distruzioni e le deportazioni a cui furono soggetti gli Epiroti dopo la sconfitta subita a Pidna a opera dei Romani nel 168 a.C. rappresenta quasi un topos della letteratura in materia, non sempre assunto con sufficiente spirito critico3. For1 Sull’impegno degli archeologi italiani in Albania nel secolo scorso cfr. De Maria 2006. 2 Cfr. meridionale occorre ricordare almeno quello di Dhemosten Budina che ebbe il grande merito di pubblicare una preziosa carta archeologica, unica testimonianza organica dei grandi cambiamenti del paesaggio regionale intervenuti nel corso del periodo socialista: Budina 1971. Tra i lavori di sintesi più recenti dedicati invece a tutto il territorio albanese si può ricordare la recente Carta Archeologica dell’Albania: Cabanes et al. 2008. 3 Esemplare in questo senso l’intervento di Pierre Cabanes sulla sorte di Antigonea nella discussione a conclusione di Budina 1993, 122. In generale per l’interpretazione di questa fase 984 Alcune riflessioni sull’Epiro settentrionale in età romana tunatamente le indagini archeologiche più recenti da un lato e un’analisi più attenta della tradizione storiografica dall’altro, hanno contribuito a chiarire le differenti sorti che ebbero in quelle circostanze le varie regioni epirote e in particolare la sostanziale continuità di insediamento dei principali centri abitati della Caonia, anche dopo il passaggio sotto il dominio romano4. Questo rappresenta, anzi, uno dei temi principali delle nostre ricerche, sul quale torneremo più approfonditamente in seguito, cercando di evidenziare eventuali continuità e discontinuità, oppure cercando di chiarire i motivi che portarono ad esempio alla fortuna di Phoinike e Butrinto anche in epoca romana (fig. 1)5. Fig. 1. Carta geografica dell’Epiro con la localizzazione dei centri urbani principali. storica si rimanda ai molti fondamentali studi di Pierre Cabanes (cfr. da ultimi Cabanes 2007; 2012 con bibliografia). Per una sintesi del problema dal punto di vista archeologico cfr. Giorgi, Bogdani 2012, 397-416, con bibliografia. 4 De Maria, Bogdani, Giorgi 2017. 5 De Maria 2007; 2011. 985 Enrico Giorgi Phoinike e il suo territorio in età romana Dopo gli scavi dell’archeologo italiano Luigi Maria Ugolini sulla collina di Phoinike, negli anni Venti del secolo scorso, solo pochi edifici pubblici vennero riconosciuti come pertinenti all’epoca romana. Si tratta ad esempio di strutture di tipo funzionale, come le cisterne ellenistiche nell’area dell’acropoli (fig. 2; fig. 3, A), fortemente rimaneggiate in età romana, oppure dell’impianto termale individuato appena sopra la cavea del Teatro. Luigi Ugolini riteneva che il grosso della città romana si fosse sviluppato nella pianura ai piedi della collina in corrispondenza dell’attuale abitato di Finiqi, nella cosiddetta città bassa, dove si conservavano alcuni muraglioni in opera laterizia tradizionalmente assegnati all’epoca romana tardo-imperiale (fig. 3). Questa interpretazione veniva suffragata dalla lettura delle fonti letterarie. Infatti, nella tradizione storiografica sostenuta da Procopio (De aedificiis 4, 1, 37-39), solo al tempo di Giustiniano si sarebbe giunti a una nuova importante ripresa edilizia sulla sommità della collina di Finiqi a scapito della città bassa cresciuta in età romana6. Fig. 2. Veduta della collina di Phoinike da Ovest con la pianura circostante e la valle della Calasa in primo piano e le pendici meridionali (area C della città antica) sullo sfondo. 6 Anche il passo di Procopio deve probabilmente essere letto tenendo conto della funzione encomiastica nei confronti di Giustiniano che lo portano a ingigantire gli interventi dell’imperatore: Bowden 2006. Tuttavia, nel caso di Phoinike, l’archeologia non sembra contraddire la tradizione della rinascita dell’abitato di età giustinianea. 986 Alcune riflessioni sull’Epiro settentrionale in età romana Fig. 3. Planimetria dell’area di Phoinike con indicazione delle aree principali che contraddistinguono l’espansione urbana sulla collina di Finiqi. Come vedremo, sia l’archeologia sia una più attenta analisi della tradizione storiografica permettono di rivalutare questa interpretazione. In questo senso ciò che deve essere riconsiderato non è tanto la tendenza ad arroccarsi sull’altura collinare in età medievale, giustificata dalle circostanze storico-ambientali e non contraddetta dai resti archeologici, quanto piuttosto l’abbandono della collina in età romana. L’archeologia di Phoinike, infatti, mostra una sostanziale continuità di vita della città alta anche dopo la fortuna della città bassa. Le recenti indagini condotte dalla Missione italo-albanese sulla collina di Phoinike, a partire dall’inizio di questo secolo e tutt’ora in corso, mostrano una continuità dello sviluppo urbano anche in epoca romana. Non si tratta solo di mera continuità di vita degli edifici impiantati in età ellenistica, ma anche di fasi edilizie importanti o di vere e proprie nuove costruzioni anche nei complessi più monumentali e significativi della città. Nella seconda metà del ii sec. a.C., ad esempio, l’Agora fu profondamente rimaneggiata (fig. 3, B). Non solo, seppure le ricerche siano ancora in corso e dunque ogni considerazione in merito richieda una cerca prudenza, sembra che in epoca romana questo settore della città sia stato oggetto di un importante intervento edilizio che rivoluzionò profondamente l’urbanistica di questo settore centrale della città e ne mutò 987 Enrico Giorgi l’aspetto architettonico. Prima in età augustea e poi in età medio-imperiale, infatti, furono impiantate poderose strutture di contenimento che ampliavano e terrazzavano la piazza verso valle, non senza ricadute di carattere scenografico. Entro la metà del i sec. d.C., inoltre, fu edificato l’Edificio a portico nel Quartiere a terrazze dove sorgeva anche la Casa ellenistica dei due peristili, che pure venne profondamente rimaneggiata (fig. 3, C). Lo stesso contermine Edificio a portico, dov’è stata rinvenuta anche la statua di Artemide, subì un crollo nel ii sec. d.C. ma venne prontamente ricostruito e restò in uso almeno sino al iv sec. d.C. Anche solo i complessi edilizi appena citati ci permettono di tracciare un quadro di sostanziale continuità per tutta la zona centrale della collina e anzi un importante fase di sviluppo urbanistico dell’edilizia pubblica all’incirca tra l’età di augusto e quella di Traiano. Dobbiamo constatare, invece, una lacuna di informazioni nella zona più orientale dell’acropoli e nell’area occidentale della collina. Nel primo caso si tratta di un vuoto che interessa sostanzialmente tutte le fasi antiche e potrebbe essere in gran parte dovuto al “consumo” di età medievale. Nel secondo caso, al contrario, sembra che il deposito stratigrafico sia integro e che il colluvio più superficiale sigilli una rarefatta frequentazione di epoca augustea che copre direttamente i crolli delle strutture terrazzate ellenistiche. Questo per ora è stato riscontrato solo su un’area di scavo ma potrebbe essere rappresentativo di una zona più ampia, all’incirca corrispondente all’euchorion della città ellenistica (fig. 3, D)7. In estrema sintesi, pur con qualche semplificazione e in attesa di nuove ricerche, possiamo ipotizzare una sostanziale continuità di vita per la zona orientale e centrale della collina. Si tratta della parte di città all’incirca corrispondente all’acropoli, all’ampliamento dell’acropoli e alla parte superiore del pendio collinare (fig. 3, A, B, C). Possiamo, invece, supporre una frequentazione più rarefatta in epoca romana della zona più occidentale della collina (fig. 3, D). Se è dunque innegabile la necessità di una rivalutazione della fase romana nell’area della collina di Phoinike, tradizionalmente definita città alta, non si può neppure negare lo sviluppo in epoca romana della città bassa, ai piedi della collina presso l’odierno villaggio di Finiqi. Come abbiamo anticipato, in questa zona si trovano alcuni lunghi muri in opera laterizia in parte distrutti dall’incondizionata espansione edilizia recente. Si tratta di strutture conservate per nuclei tra loro distanti, ma chiaramente riferibili a un sistema urbanistico razionale concepito in epoca romana medio-imperiale. Tali strutture si inquadrano in un sistema di isolati terrazzati e ortogonali organizzati ai margini di un tracciato stradale orientato all’incirca come quello che ancora oggi corre 7 Giorgi, Bogdani 2012, 115-136. 988 Alcune riflessioni sull’Epiro settentrionale in età romana ai piedi della collina da Nord-Ovest verso Sud-Est. Sul limite occidentale di Finiqi si colloca la necropoli ellenistica. In questa zona le sepolture sembrano rarefarsi sino quasi a scomparire nel corso dell’età romana, quando però si ebbe l’impianto di un tempietto affacciato sulla via principale. Questo tracciato viario, diretto all’incirca verso la conca del Teatro, sembrerebbe rientrare nella medesima organizzazione razionale dello spazio urbano evidenziata dagli altri muraglioni in laterizio della città bassa. Altre due vie ortogonali completano l’organizzazione urbanistica dell’area di necropoli. I depositi archeologici qui riportati in luce hanno mostrato come questi assi stradali siano stati impostati su un rialzamento che copre una precedente fase ellenistica. Tali rialzamenti di quota si susseguono tra il i sec. a.C. e l’inizio del iii sec. d.C. e si configurano come successivi livelli di bonifica. Come vedremo, a loro volta tali assi viari sembrerebbero rientrare in un più esteso impianto di infrastrutture territoriali orientato in maniera coerente rispetto alla ripartizione urbana della città bassa. Per quanto riguarda il popolamento del territorio fenichiota, per brevità, possiamo concentrarci sulle dinamiche riscontrabili negli aggregati principali, ossia i siti d’altura e quelli rurali. La genesi e lo sviluppo dei siti fortificati d’altura di epoca ellenistica è già stata presentata in precedenza. La ricognizione condotta sul posto, anche a causa della scarsissima visibilità, non ha permesso di raccogliere informazioni determinanti e comunque non sono stati raccolti reperti riferibili all’età romana. Nello stesso tempo anche l’assenza di indagini stratigrafiche probanti non consente di trarre conclusioni inoppugnabili. L’unico caso noto è quello dell’abitato fortificato di Ripësi, dove non sono state riscontrate fasi chiaramente ascrivibili all’epoca romana. Dunque le considerazioni principali si fondano su riflessioni di carattere storico-topografico che sembrano orientare verso un sostanziale abbandono di questo tipo di abitati d’altura improntati a un sistema di controllo del territorio che viene meno con il dominio romano8. Per quanto riguarda le ville fortificate, si tratta di una tipologia di insediamento ben nota per l’epoca ellenistica che continua a caratterizzare anche il paesaggio della Caonia romana9. La loro funzione è legata allo sfruttamento del territorio con un sistema misto che vede una compenetrazione di agricoltura ed “economia dell’incolto” (pastorizia e raccolta del legname). L’esigenza di proteggersi dalle scorrerie di predoni ha reso necessario anche lo sviluppo di un apparato difensivo, con mura di cinta e torri centrali o angolari, a protezione di una serie di vani interni di carattere sia funzionale sia abitativo. Tali complessi edilizi si pongono sempre in posizioni rilevate (pianori sommitali o sui versanti collinari), seppure non troppo distanti dal fondovalle e in rapporto 8 9 Giorgi, Bogdani 2012, 107-108, 180-182. Bogdani 2012. 989 Enrico Giorgi con la viabilità, come per le ville di Çuka, Çumpora e Metoqi, lungo la via di crinale che domina la costa ionica10. Un caso a parte è poi quello di Dobra, su un ripiano terrazzato che domina la vicina valle della Pavla, lungo la via di collegamento tra Phoinike e Butrinto, dove si ravvisa la presenza di un tempio (fig. 4)11. Fig. 4. Mappa del territorio di Phoinike con indicazione della viabilità antica e dei siti principali del territorio. 10 Giorgi, Bogdani 2012, 108-114; 120-124. 11 Ibid., 93-194. 990 Alcune riflessioni sull’Epiro settentrionale in età romana Vale la pena avanzare qualche considerazione in più sul sito di Matomara perché si tratta dell’unico insediamento del territorio scavato recentemente12. Il sito sorge pochi chilometri a Nord-Est di Phoinike, ai piedi di una piccola dorsale collinare che delimita una vallecola secondaria. Come il sito di Dobra, l’insediamento di Matomara occupa i primi ripiani terrazzati che dominavano la pianura alluvionale, in connessione con un asse viario che si diramava dalla viabilità principale di collegamento tra Phoinike e Butrinto. Si tratta di un complesso piuttosto articolato, con nuclei sparsi nelle terrazze circostanti. La struttura principale si configura come un recinto fortificato con alcuni vani conservati nella zona d’ingresso verso valle, in direzione della strada. La funzione residenziale di parte del complesso è testimoniata da ceramica comune e fine da mensa del tutto simile a quella utilizzata nello stesso periodo nell’area urbana. Il sito è strettamente legato allo stoccaggio dei prodotti dell’agricoltura e al ricovero di greggi e armenti, mentre il collegamento con la viabilità doveva favorire le attività commerciali. La presenza di dolii, pesi da telaio e anfore locali e d’importazione, testimonia la lavorazione della lana e il commercio del vino e dell’olio, spia di un’economia della chora fenichiota fiorente e aperta al commercio a medio raggio già in epoche precoci. Infatti l’impianto di età ellenistica (iii-ii a.C.) si colloca in area che, in base alla cultura materiale, sembra presentare aspetti di continuità con la frequentazione precedente (vi-iv a.C.)13. Una seconda fase edilizia (ii-i a.C.), con poche trasformazioni planimetriche, attesta la continuità tra la fine dell’ellenismo e l’inizio dell’epoca romana. Subito dopo (fine i a.C.), alcuni livelli di crollo mostrano un declino ma non l’abbandono del sito, come attestano i seppur scarsi frammenti ceramici databili in epoca imperiale (i-ii d.C.; iii-iv d.C.). Il fatto che le ultime fasi abbiano restituito una minor quantità di resti non deve trarre in inganno, perché questa zona è stata oggetto di terrazzamenti agricoli moderni che hanno fortemente intaccato le stratigrafie più superficiali. La stessa presenza di una tomba tarda, se mostra un cambiamento nella destinazione di alcuni spazi (peraltro ben nota anche nel quartiere a terrazze della città alta), testimonia comunque una persistenza del popolamento in questa zona14. 12 Ibid., 323-338. 13 A Matomara sono presenti anfore di Corinto e Corfù (vi-v; iv a.C.), anfore e ceramica di impasto locale, ceramica attica (v-iv a.C.; Aleotti in Giorgi, Bogdani 2012, 339-351). 14 La longevità della rete itineraria a cui si collega Matomara è testimoniata dalla Tabula Peutingeriana. 991 Enrico Giorgi La centuriazione e la viabilità nel territorio di Phoinike Gli studi condotti nel circostante territorio fenichiota hanno portato già da tempo a ipotizzare un ampio catasto centuriale nel fondovalle attorno alla collina, ricostruibile soprattutto grazie all’analisi della cartografia storica dell’Istituto Geografico Militare Italiano15. Gli elementi che permettono tale ricostruzione non sono molti ma sufficientemente significativi. Ad esempio la divisione razionale archeologicamente riscontrata nell’area di Finiqi risulta coerente rispetto ad alcuni andamenti dell’idrografia antica che sembrerebbero conservare il profilo regolare delle centurie romane. La lettura integrata dei dati archeologici, specialmente quelli dedotti dall’indagine nell’area della necropoli meridionale, porterebbero a riconoscere un primo impianto di età augustea, quando abbiamo deduzioni coloniarie anche nelle vicine città di Butrinto e Nicopoli, successivamente ripreso e ampliato in epoca medio-imperiale, all’incirca al tempo dell’istituzione della Provincia sotto Traiano. Grazie alla centuriazione e alla strutturazione di un efficiente sistema di drenaggio superficiale, ampie porzioni di territorio, prima interessate da aree di ristagno e da paludi, furono guadagnate all’agricoltura. All’interno di questa regolarizzazione della campagna si dovette inserire anche la strutturazione del sistema stradale16. La strada che corre ai piedi della collina, lungo la quale si sviluppa il moderno villaggio di Finiqi, riprende all’incirca l’andamento di un asse antico. Si tratta di un tratto del diverticolo della via Egnazia che collegava Aulona a Nord e con Butrinto e Nicopoli a Sud. Secondo un’ipotesi recente la via individuata presso la Necropoli meridionale potrebbe rientrare, invece, nel sistema di collegamento con il porto di Onchesmos. Tutti questi itinerari si ramificavano sul territorio collegandosi ad altrettanti percorsi di risalita verso la città alta (fig. 5, 6). In conclusione di questa disamina sulla Phoinike di età romana, possiamo evidenziare alcuni spunti di riflessione. Innanzi tutto abbiamo visto che la città alta è caratterizzata da una sostanziale continuità di vita nel passaggio tra la fine dell’epoca ellenistica e l’età romana. Inoltre in età romana si attua l’espansione urbana della città bassa ai piedi della collina all’interno di un sistema di terrazzamenti ortogonali. Gli assi viari ortogonali della città bassa sono parte di una più ampia risistemazione delle infrastrutture del territorio che comprende l’impianto della centuriazione e il collegamento con la viabilità regionale. Dal punto di vista cronologico, infine, nell’ambito dell’epoca romana si individuano due fasi di importante impulso edilizio e di ristrutturazione delle infrastrutture territoriali collocabili in età alto e medio-imperiale. 15 16 992 Giorgi 2002; 2004; Giorgi, Bogdani 2012, 118-124. Giorgi, Bogdani 2012, 129-136. Alcune riflessioni sull’Epiro settentrionale in età romana Fig. 5. Mappa della Caonia con la ricostruzione della viabilità antica e dei siti principali. 993 Enrico Giorgi Alcune riflessioni su Butrinto romana Stando ai dati archeologici, anche a Butrinto il passaggio all’età romana è caratterizzato da una sostanziale continuità nello sviluppo urbano17. Anzi le note vicende della fine dell’età repubblicana, che videro consolidarsi su questo territorio importanti interessi economici romani sino alla deduzione della colonia cesariana-augustea, favorirono lo sviluppo urbano. In epoca imperiale il cuore civile, ossia il Foro, e quello religioso, con l’area del Santuario di Asclepio e del Teatro, furono oggetto di grandi interventi di monumentalizzazione che rinnovarono la fisionomia urbana. Ad esempio, in età augustea il Teatro fu arricchito del ciclo statuario che rendeva omaggio alla famiglia imperiale, mentre l’agora fu trasformata nel Foro della colonia. Parallelamente, tra l’età alto e medio-imperiale, si ebbe l’espansione nella piana di Vrina, sull’altra sponda del canale di Vivari, secondo i criteri dell’urbanistica ortogonale romana. Nell’ambito di questa grande addizione urbana furono costruiti l’acquedotto e il ponte che permetteva al principale asse viario proveniente da Nicopoli di attraversare il canale collegando la città romana cresciuta sulla pianura con il foro sviluppato ai piedi dell’acropoli. Furono costruiti anche nuovi edifici, come il cosiddetto ginnasio, la torre e il pozzo di Junia Rufina. Questo notevole sviluppo urbano non rimase isolato ma fu affiancato da una risistemazione del territorio, con la centuriazione che, con orientamento coerente rispetto agli isolati dell’area urbana, si espandeva da Vrina verso Sud, drenando ampie aree prima dominate dall’ambiente lacustre. Anche il sistema itinerario che si ramificava nella regione circostante si inseriva all’interno di questa organizzazione razionale dello spazio urbano e del paesaggio circostante. Nel territorio di Butrinto si collocano anche due importanti siti minori: la villa romana di Diaporiti e la villa fortificata ellenistica di Malathrea. Nel primo caso si tratta di un complesso residenziale sviluppatosi in epoca romana sulla riva del lago di Butrinto, in un’area già insediata in epoca ellenistica, sul tipo della villa marittima ampiamente diffusa in tante aree del mediterraneo romano. Nel secondo caso si tratta di un vero e proprio tetrapyrgos ellenistico che cinge e difende una corte centrale aperta, secondo un modello pure ampiamente attestato e diffuso. In epoca romana, la villa fortificata di Malathrea continua ad essere occupata e anzi in questa fase si collocano alcuni importanti sviluppi edilizi che travalicano l’area cinta dal muro difensivo18. 17 Cfr. Hansen, Hodges 2007; Hansen et al. 2013, con bibliografia. 18 Bogdani 2012; Bowden, Përzhita 2004; Çondi 1984. 994 Alcune riflessioni sull’Epiro settentrionale in età romana Fig. 6. Ricostruzione dell’appoderamento agrario romano nei bacini idrografici della Bistriza dove sorgeva l’antica città di Adrianopoli e del Drino dove si trovava Phoinike. 995 Enrico Giorgi Alcune riflessioni su Adrianopoli e la valle del Drino Le vicende che portarono alla distruzione di Antigonea e alla genesi di un nuovo baricentro urbano sul fondovalle del fiume Drino sono ben note e in parte ancora dibattute. In ogni caso in epoca romana il principale abitato di questo territorio, Adrianopoli sorto sulla sinistra del Drino, aveva saldamente soppiantato l’antico centro epirota di Antigonea, che prima dominava la valle da un pianoro di versante sul lato opposto. In base alle indagini archeologiche condotte dalla Missione Archeologica Italiana dell’Università di Macerata, diretta da Roberto Perna, nell’ambito del più ampio progetto Italo-Albanese di studio del sito e della valle del Drino, le prime fasi riferibili a strutture della città romana riscontrate nell’area di Adrianopoli sembrano risalire almeno al i sec. d.C., ma lo sviluppo urbano più consistente viene riferito all’epoca medioimperiale e in particolare all’età adrianea. In questo periodo si collocano ad esempio la costruzione del teatro e di un vicino complesso termale19. Anche in questo caso si ricostruisce un impianto centuriale organizzato per blocchi che si susseguono con orientamento differente per assecondare la naturale conformazione della valle. La centuriazione si sviluppa lungo il diverticolo della via Egnazia diretto a Nicopoli che percorre appunto la valle del Drino. La Caonia romana: conclusioni e spunti di ricerca In conclusione possiamo provare a evidenziare alcune riflessioni, mettendo a confronto le parabole dei tre centri della Caonia sinora esaminati. 1. A Phoinike e a Butrinto, il passaggio tra la tarda età ellenistica e l’epoca romana non presenta cesure ma piuttosto una continuità nello sviluppo urbano. Nel corso del ii sec. a.C. si osservano importanti interventi di riqualificazione urbana che riguardano punti nevralgici della città, come l’agora e altri importanti edifici pubblici. In questo periodo sembra che i due abitati conservino autonomia amministrativa attraverso le comunità dei Caoni raccolti attorno a Phoinike e dei Praisabi di Butrinto. 2. A Butrinto questo periodo si configura in maniera evidente come momento di revisione della forma urbana che adegua i complessi edilizi più significativi alla nuova funzione coloniale. 3. Nel caso di Adrianopoli la genesi del centro romano avviene successivamente e in un luogo completamente diverso rispetto alla città ellenistica. 19 Le ultime ricerche presentate da Roberto Perna in alcuni recenti convegni internazionali come quello di Tirana nel 2015 e di Macerata nel 2017, hanno mostrato ad Antigonea anche fasi di frequentazione precedenti. Per una sintesi cfr. Perna 2012, con bibliografia. 996 Alcune riflessioni sull’Epiro settentrionale in età romana 4. L’urbanistica romana in Caonia mostra un significativo sviluppo degli abitati di fondovalle. Nel caso di Phoinike e Butrinto si tratta di vere e proprie addizioni urbane nelle pianure contigue di Finiqi e di Vrina. Nel caso di Adrianopoli si tratta di un nuovo impianto nella pianura di Dropull. In ogni caso i centri sono organizzati secondo i criteri dell’urbanistica razionale romana, con isolati quadrati e vie ortogonali. 5. Tutti e tre i centri urbani si inseriscono all’interno di un disegno coerente a scala regionale che prevede anche la riorganizzazione del territorio circostante, con l’impianto della centuriazione e la riorganizzazione del sistema itinerario (fig. 5, 6). 6. Dal punto di vista cronologico, in tutti e tre i principali centri urbani della Caonia si ravvisano due importanti momenti di sviluppo urbano collocabili rispettivamente in età alto e medio-imperiale. Sin qui abbiamo presentato soprattutto una sistemazione di dati spesso già in gran parte noti, che tuttavia permettono di chiarire meglio la strategia unitaria che fu alla base della riorganizzazione del territorio epirota voluta dai Romani in età alto e medio imperiale. Qualche ulteriore riflessione può essere dedicata alla fase iniziale di strutturazione del dominio romano in Caonia e alle sue principali fasi evolutive anche avanzando alcune ipotesi in maniera preliminare e interlocutoria. Non si tratta, infatti, di considerazioni fondate su dati inoppugnabili ma piuttosto su tanti indizi che tuttavia meritano di essere sottoposti alla considerazione degli studiosi per una più attenta considerazione e ricostruzione sul piano delle dinamiche storiche e archeologiche che caratterizzano la Caonia in questa fase storica. Innanzi tutto dobbiamo rilevare una differenza tra i casi di Phoinike e Butrinto da un lato e quello di Adrianopoli dall’altro. Le prime due città, infatti, passano dalla fase del koinon epirota al dominio romano senza contraccolpi evidenti. Anzi, come abbiamo visto, il ii secolo a.C. si configura come un momento non trascurabile di sviluppo urbano. Ad esempio nel caso di Phoinike dobbiamo ricordare, anche solo dal punto di vista meramente statistico, che il picco di rinvenimenti numismatici, di importazione attica e di produzione di ceramica locale si colloca tra gli ultimi decenni del iii secolo a.C. e la metà del ii secolo a.C., ossia in questa fase di passaggio. Dal punto di vista politico non sappiamo quale fosse esattamente l’ordinamento amministrativo di questi centri epiroti per gran parte del ii a.C., ma possiamo supporre che avessero adeguato quello precedente alla nuova situazione: dopo Pidna non solo l’Epiro ma la stessa Caonia risulta frazionata in almeno due comunità principali raccolte attorno a Phoinike e Butrinto e presumibilmente legate a Roma da un patto di alleanza. Per quel che sappiamo, solo a Butrinto questa situazione ebbe un’evoluzione con la deduzione della colonia augustea. Più complesso è il caso della 997 Enrico Giorgi valle del Drino, per la quale non conosciamo con certezza un centro urbano di riferimento sino almeno al i sec. d.C. e sappiamo che la città di Antigonea fu distrutta alla fine della Terza Guerra Macedonica (168 a.C.), probabilmente nell’ambito di scontri tra diverse fazioni epirote20. Antigonea, dunque, seppure con notevoli differenze, risulterebbe l’unico episodio della Caonia che possa essere avvicinato alle distruzioni avvenute nel medesimo periodo in alcuni abitati della Tesprozia e soprattutto in Molossia21. Diverso è il caso di Phoinike e Butrinto che alla fine del conflitto si trovarono su posizioni più omogenee rispetto alla politica espansionistica romana e abbiamo già evidenziato le conseguenze positive che portano a sviluppi urbani ben documentati sul piano archeologico. Le ricerche condotte sul territorio di Phoinike, tuttavia, potrebbero lasciare intravvedere una dinamica storica più complessa in base alla quale l’evoluzione della città e del territorio di età romana si fondarono su una situazione maturata in precedenza. Infatti l’analisi del popolamento e in particolare la distribuzione del sistema di difese d’altura, unita ai dati stratigrafici raccolti sulla collina di Phoinike, fanno ricostruire un’organizzazione che sembra non tenere conto dei confini dell’Epiro a favore di quelli del solo territorio fenichiota, in un periodo compreso tra gli ultimi decenni del iii e la prima metà del ii secolo a.C. In estrema sintesi sembrerebbero sussistere sufficienti elementi per cui potrebbe non esser del tutto fuori luogo supporre che già sullo scorcio del iii secolo a.C. esistesse una precisa strategia politica romana capace di condizionare e indirizzare lo sviluppo di questa città della Caonia e forse non solo di questa. È probabile che tale dinamica debba essere inquadrata nell’ambito delle guerre di Roma contro gli Illiri e i Macedoni e trovi un punto fondamentale di svolta nella “prima diabasi” dell’esercito romano sulla sponda orientale del bacino adriatico-ionico nel 229 a.C. (Polibio 2, 2, 4). Mentre il punto d’arrivo può essere individuato nella riduzione di Macedonia, Grecia ed Epiro a province dell’impero Romano nel 146 a.C. Nel corso di questo periodo si osserva il dissolvimento del sistema di controllo del territorio del koinon degli Epiroti prima e di quello dei Fenichioti e dei Praisabi poi. Parallelamente si assiste alla strutturazione del dominio romano. In una prima fase la politica filo-romana fu promossa grazie all’accordo con alcune 20 In questo caso, tuttavia, ogni considerazione deve essere avanzata con particolare cautela e intesa in senso del tutto preliminare, dato che le importanti ricerche dell’Università di Macerata dirette da Roberto Perna stanno portando alla luce sempre nuovi dati che potrebbero cambiare del trutto la prospettiva che sino ad ora abbiamo avuto di questo territorio. 21 Come ho avuto già modo di dire, credo che la sorte di Antigonea si debba collegare proprio all’interesse che i Molossi hanno sempre avuto per la valle del Drino come possibile sbocco verso l’Adriatico: Giorgi, Bogdani 2012. 998 Alcune riflessioni sull’Epiro settentrionale in età romana fazioni epirote22. Nello stesso tempo alcuni facoltosi cittadini romani stabilirono le loro residenze e le loro fattorie in Epiro, i cosiddetti Epirotici homines ai quali era rivolto lo scritto agrario di Varrone. Costoro dovevano essere non solo ricchi residenti ma probabilmente anche veri e propri imprenditori, come Pomponio Attico presso Butrinto oppure Lucio Cossinio in Tesprozia. Con loro si dovette affermare anche un modo di vivere e di gestire le risorse del territorio che potrebbe avere esercitato una certa attrazione anche sugli Epiroti più abbienti. A questa temperie culturale si riferisce probabilmente la villa romana di Diaporiti, una grande villa residenziale sulle rive del lago di Vivari e in tal senso potrebbero spiegarsi i rinnovamenti architettonici di alcune ville fortificate già impiantate in epoca ellenistica che tuttavia si sviluppano anche in epoca romana aprendosi verso il territorio circostante e ampliando le funzioni residenziali e produttive, come quella di Malathrea presso Butrinto23. Le iscrizioni di manomissione reimpiegate nel teatro di Butrinto testimoniano nel medesimo periodo un aumento del numero di schiavi posseduti da una singola famiglia e potrebbero rappresentare una spia delle tendenze latifondistiche che questi ricchi possidenti esercitavano sul territorio, al pari dei loro colleghi italici. Nella seconda metà del ii secolo a.C., anche la strutturazione del sistema itinerario della via Egnazia consolida il domino romano in queste regioni. Tra l’età triunvirale e quella augustea, le esigenze di distribuzione di terre ai veterani dovettero portare a una profonda revisione del sistema di sfruttamento del territorio. La bonifica di ampie aree di fondovalle permise di guadagnare risorse fondamentali in tal senso e in questo contesto si inquadra probabilmente l’impianto delle centuriazioni di Phoinike, Butrinto e Antigonea. Con la creazione della provincia d’Epiro, nel 108 d.C., è possibile che questa medesima dinamica abbia trovato nuove applicazioni con la ripresa e lo sviluppo delle infrastrutture del territorio e in particolare dell’appoderamento agrario. In conclusione, nel periodo compreso tra la fine della Terza Guerra Macedonica e la creazione della Provincia d’Epiro si ebbero dunque profondi cambiamenti che portarono a importanti evoluzioni urbanistiche e a una profonda trasformazione del paesaggio antropizzato. L’ipotesi di ricerca che si è inteso presentare in questa sede è quella di considerare questo cambiamento come frutto di una dinamica precoce, innescata dalla politica romana in Caonia già nell’ambito delle guerre con Illiri e Macedoni, anche se gli sviluppi più significativi collegati allo strutturarsi della presenza di Roma in Caonia si ebbero certamente in epoche successive e in particolare in età augustea e traianea. 22 In questo senso la pace firmata a Phoinike nel 205 a.C. e poi la vicenda di Carope il giovane a Phoinike sono paradigmatiche: Cabanes 2012. 23 Bowden, Përzhita 2004; Çondi 1984. 999 Enrico Giorgi Bibliografia Bogdani J. 2012, Residenze rurali nella Caonia ellenistica. Note per una nuova lettura, Agri Centuriati, 8, 121-144. Bowden W. 2006, Procopius’ Buildings and the Late Antique Fortifications of Albania, in Bejko L., Hodges R. (eds.), New Directions in Albanian Archaeology. Studies Presented to Muzafer Korkuti, Tirana, 277-286. 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Catania g.cacciaguerra@ibam.cnr.it Marco Cavalieri Université catholique de Louvain Centre d’étude des Mondes antiques marco.cavalieri@uclouvain.be Tiziana Cividini Independent Researcher tiziana_cividini@yahoo.it Antonella Coralini Alma Mater Studiorum - Università di Bologna Dipartimento di Storia Culture Civiltà antonella.coralini@unibo.it 1004 Elenco degli autori Anika Duvauchelle Site et Musée romains d’Avenches anika.duvauchelle@vd.ch Dennys Frenez Alma Mater Studiorum - Università di Bologna - Ravenna Campus Dipartimento di Storia Culture Civiltà dennys.frenez@unibo.it Sauro Gelichi Università Ca’ Foscari, Venezia Dipartimento di Studi umanistici gelichi@unive.it Francesca Ghedini Università degli Studi di Padova Dipartimento di Archeologia francesca.ghedini@unipd.it Celestino Grifa Università degli Studi del Sannio Dipartimento di Scienze e Tecnologie celestino.grifa@unisannio.it Gabriella Guiducci Independent Researcher gabriella.guiducci76@gmail.com Afrim Hoti University “Aleksandër Moisiu” Durrës Centre for Albanian Archaeological Heritage afrimhoti@gmail.com Daniele Malfitana Consiglio Nazionale delle Ricerche Istituto per i Beni archeologici e monumentali - Catania daniele.malfitana@cnr.it Valentina Manzelli Soprintendenza Archeologia belle Arti e Paesaggio per la città metropolitana di Bologna e le province di Modena, Reggio Emilia e Ferrara valentina.manzelli@beniculturali.it 1005 Elenco degli autori Arnaldo Marcone Università degli Studi Roma Tre Dipartimento di Studi umanistici arnaldo.marcone@uniroma3.it Emiliana Mastrobattista Independent Researcher emimastro@virgilio.it Antonino Mazzaglia Consiglio Nazionale delle Ricerche Istituto per i Beni archeologici e monumentali - Catania a.mazzaglia@ibam.cnr.it Simonetta Menchelli Università degli Studi di Pisa Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere simonetta.menchelli@unipi.it Manuela Mongardi Alma Mater Studiorum - Università di Bologna Dipartimento di Storia Culture Civiltà manuela.mongardi2@unibo.it Iwona Modrzewska-Pianetti Uniwersytet Warszawski Instytut Archeologii iwonamodrzewska@poczta.onet.pl Nicolas Monteix Centre Jean-Bérard (USR 3133 - CNRS/EFR) nicolas.monteix@univ-rouen.fr Alberto Monti Independent Researcher albertom@iol.it Stefania Pesavento Mattioli Università degli Studi di Padova Dipartimento dei Beni culturali: Archeologia, Storia dell’Arte, del Cinema e della Musica stefania.mattioli@unipd.it 1006 Elenco degli autori Yolanda Picado Independent Researcher yolpicado@gmail.com Angela Pontrandolfo già Università degli Studi di Salerno Dipartimento di Scienze del Patrimonio culturale apontrandolfo@unisa.it Paola Puppo Independent Researcher paola.puppo@katamail.com Lorenzo Quilici già Alma Mater Studiorum - Università di Bologna Dipartimento di Archeologia lorenzo.quilici@gmail.com Isabel Rodà de Llanza Institut Català d’Arqueologia Clàssica Universitat Autònoma de Barcelona Departament de Ciències de l’Antiguitat i de l’Edat Mitjana iroda@icac.cat Monica Salvadori Università degli Studi di Padova Dipartimento dei Beni culturali: Archeologia, Storia dell’Arte, del Cinema e della Musica monica.salvadori@unipd.it Clelia Sbrolli Università degli Studi di Padova Dipartimento dei Beni culturali: Archeologia, Storia dell’Arte, del Cinema e della Musica clelia.sbrolli@gmail.com Eleni Schindler-Kaudelka Independent Researcher elenischindler@utanet.at Paola Ventura Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio del Friuli Venezia Giulia paola.ventura@beniculturali.it 1007 Elenco degli autori Massimo Vidale Università degli Studi di Padova Dipartimento dei Beni culturali: Archeologia, Storia dell’Arte, del Cinema e della Musica massimo.vidale@unipd.it Volume II Maria Giovanna Arrigoni Bertini già Università degli Studi di Parma Dipartimento di Storia mariagiovanna.arrigoni@unipr.it Marcello Barbanera Sapienza – Università di Roma Dipartimento di Scienze dell’Antichità marcello.barbanera@uniroma1.it Robert Bedon Université de Limoges Faculté des Lettres et des Sciences Humaines bedon.robert@wanadoo.fr Cristina Boschetti Institut de Recherche sur les Archéomatériaux, Centre Ernest-Babelon, UMR 5060, CNRS-Université d’Orléans cristina.boschetti@cnrs-orleans.fr Elena Calandra Direzione generale Archeologia belle Arti e Paesaggio Istituto centrale per l’Archeologia elena.calandra@beniculturali.it Marco Cavalieri Université catholique de Louvain Centre d’étude des Mondes antiques marco.cavalieri@uclouvain.be Isabella Colpo Università degli Studi di Padova Centro di Ateneo per i Musei isabella.colpo@unipd.it 1008 Elenco degli autori Paolo Giandebiaggi Università degli Studi di Parma Dipartimento di Ingegneria e Architettura paolo.giandebiaggi@unipr.it Enrico Giorgi Alma Mater Studiorum - Università di Bologna Dipartimento di Storia Culture Civiltà enrico.giorgi@unibo.it Cristina Leonelli Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia Dipartimento di Ingegneria “Enzo Ferrari” cristina.leonelli@unimore.it Daniele Manacorda Università degli Studi Roma Tre Dipartimento di Studi umanistici daniele.manacorda@uniroma3.it Emiliana Mastrobattista Independent Researcher emimastro@virgilio.it Mauro Menichetti Università degli Studi di Salerno Dipartimento di Scienze del Patrimonio culturale mmenichetti@unisa.it Maria Elisa Micheli Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo” Dipartimento di Studi umanistici maria.micheli@uniurb.it Frances Pinnock Sapienza – Università di Roma Dipartimento di Scienze dell’Antichità frances.pinnock@uniroma1.it Simone Rambaldi Università degli Studi di Palermo Dipartimento Culture e Società simone.rambaldi@unipa.it 1009 Elenco degli autori Guido Rosada già Università degli Studi di Padova Dipartimento dei Beni culturali: Archeologia, Storia dell’Arte, del Cinema e della Musica guido.rosada@unipd.it Barbara Sassi Independent Researcher progettazione@archeosistemi.it Chiara Vernizzi Università degli Studi di Parma Dipartimento di Ingegneria e Architettura chiara.vernizzi@unipr.it Giuseppa Z. Zanichelli Università degli Studi di Salerno Dipartimento di Scienze del Patrimonio culturale gzanichelli@unisa.it Enrico Zanini Università degli Studi di Siena Dipartimento di Scienze storiche e dei Beni culturali enrico.zanini@unisi.it 1010 Friends, Romans, countrymen, lend me your ears; I come to bury Caesar, not to praise him. The evil that men do lives after them; The good is oft interred with their bones; So let it be with Caesar. W. Shakespeare, Julius Caesar, act III, scene II