ATTI DISMISSIVI E RINUNCIA ABDICATIVA DEL DIRITTO DI PROPRIETà

ATTI DISMISSIVI E RINUNCIA ABDICATIVA DEL DIRITTO DI PROPRIETà

È dismissivo il negozio giuridico unilaterale con il quale un soggetto, volontariamente, abbandona un suo diritto assoluto o relativo, che fuoriesce dalla sua sfera giuridica con efficacia ex nunc (artt. 923 c.c.; 1070 c.c.; 1236 c.c.).

Da questa definizione è possibile trarre le caratteristiche principali dell’atto dismissivo, ovvero: l’unilateralità (artt. 1324 e 1334 c.c.); la natura attiva della situazione giuridica dismessa[1], in quanto non è consentito dismettere obblighi, o diritti strettamente correlati a posizioni debitorie; la circostanza che il diritto sia già acquisito al patrimonio del disponente e sia disponibile; la decorrenza ex nunc degli effetti estintivi.

Tali caratteristiche consentono di distinguere gli atti dismissivi dalle diverse fattispecie della rinuncia traslativa, del rifiuto, della prescrizione e della decadenza.

La rinuncia traslativa non è un atto unilaterale ma si inserisce all’interno di un contratto che vede da un lato un proponente che dismette un suo diritto, dall’altro l’oblato che accetta la proposta dell’altro contraente (art 769 c.c. e art 1333 c.c.).

Diversamente dall’atto dismissivo, il rifiuto incide su una posizione giuridica già perfetta ma non ancora definitiva, determinandone la cancellazione retroattiva (ex tunc).

La dottrina distingue, inoltre, tra rifiuto eliminativo e rifiuto impeditivo, laddove solo il primo elimina in via retroattiva gli effetti provvisoriamente prodotti in capo al disponente (artt. 1236, 1333 e 1411 c.c.), come accade per la rinuncia al legato che non necessita di accettazione (art 649,1^c. c.c.).

Viceversa, il rifiuto impeditivo preclude l'ingresso del diritto nella sfera giuridica del disponente, come ad esempio avviene con la rinuncia all’eredità (art 519 c.c.).

Si distinguono, ulteriormente, dagli atti dismissivi gli istituti della prescrizione e della decadenza, che sono modalità estintive del diritto ma non hanno carattere negoziale in quanto non derivano da una volontà abdicativa, bensì da una scelta ben precisa del legislatore che risponde all’esigenza di assicurare la certezza delle situazioni e dei rapporti giuridici.

Nella prescrizione la finalità di certezza del diritto si accompagna all'intento di sanzionare il privato per non aver esercitato il diritto in un lasso di tempo apprezzabile.

Ulteriore caratteristica dell’atto dismissivo è che questo non può mai riguardare un diritto indisponibile, come i diritti fondamentali della persona (art 18 Cost.), mentre sono di regola abdicabili i diritti patrimoniali ad eccezione del diritto di credito alimentare.

Un esempio di atto dismissivo del credito è rappresentato dalla remissione del debito, che per la giurisprudenza maggioritaria costituisce un negozio a causa neutra[2].

La remissione del debito ha carattere recettizio, in quanto la dichiarazione del creditore, avente ad oggetto la dismissione del credito, ha efficacia dal momento in cui essa perviene all’indirizzo del destinatario (art 1334 c.c.).

Viceversa, ad avviso della giurisprudenza prevalente non hanno natura recettizia le rinunce liberatorie ed abdicative di diritti reali.

Rientrano nel genus di rinunce liberatorie gli istituti disciplinati agli artt. 882, 1070, 1104 e 1118 c.c., poichè consentono al rinunciante la liberazione da obbligazioni e dagli oneri gravanti sul bene.

La rinuncia che ha ad oggetto diritti reali minori, come la rinuncia al diritto di servitù, all’usufrutto ed alla superficie, si qualifica invece come atto unilaterale di tipo abdicativo, non recettizio. In tutti questi casi, gli effetti della rinuncia si riflettono solo indirettamente sui terzi, ed in via automatica (ope legis), a causa dell'espandersi del diritto di proprietà (principio di elasticità del diritto di proprietà).

Parte della dottrina ha dubitato della possibilità di dismettere il diritto di enfiteusi a causa della sua componente obbligatoria (si pensi all’obbligo di migliorare il fondo o al pagamento del canone).

Negozio dismissivo per antonomasia è poi rappresentato dalla rinuncia al diritto di proprietà, che trova il suo antenato nell’istituto della derelictio, modo estintivo del diritto proprietà consistente nell’abbandono una res mancipi o nec mancipi.

Se non sussistono dubbi circa la configurabilità della rinuncia alla proprietà dei beni mobili (art 923 c.c.), maggiori incertezze si registrano rispetto ai beni immobili.

Sul punto il panorama giurisprudenziale appare, attualmente, diviso.

La giurisprudenza di legittimità è più propensa ad ammettere la rinuncia alla proprietà dei beni immobili, anche in assenza di un'espressa previsione legislativa e rispetto a settori in cui l'impronta pubblicistica è maggiormente accentuata.

Il dibattito giurisprudenziale si è, in particolare, soffermato sulla configurabilità della rinuncia al diritto di proprietà di un bene immobile in caso di occupazione illegittima del fondo da parte della P.A..

In particolare, la Corte di Cassazione a Sezioni Unite, sent. n. 735/2015[3] ha previsto che l’illecito spossessamento del privato da parte della p.a., seguito dall’irreversibile trasformazione del suo terreno per la costruzione di un’opera pubblica danno luogo all’acquisto dell’area da parte dell’amministrazione quando il privato decida di abdicare al suo diritto chiedendo il risarcimento del danno.

In altri termini, per la giurisprudenza di legittimità la proposizione della domanda di risarcimento in forma equivalente da parte del privato comporta la implicita rinuncia al diritto di proprietà sul fondo[4], in quanto del tutto incompatibile con la volontà di mantenere la proprietà del bene.

A supporto della tesi favorevole alla configurabilità della rinuncia abdicativa depongono numerose argomentazioni.

In primo luogo si evidenzia che la segmentazione tra la fase amministrativa, diretta all’annullamento del provvedimento espropriativo, e quella civilistica, incentrata sulla determinazione del quantum da corrispondere al soggetto espropriato, pregiudicherebbe il principio di concentrazione della tutela e di ragionevole durata del processo (art 111 Cost.).

In secondo luogo, sarebbe più conveniente per il privato ottenere il risarcimento del danno per equivalente in luogo del semplice indennizzo (parametrato al solo valore del bene perduto).

Peraltro, la soluzione favorevole sarebbe l’unica percorribile giacché il privato non avrebbe più interesse alla restituzione di un fondo irreversibilmente modificato.

A tale orientamento ha aderito anche il Consiglio di Stato, che ha individuato nella rinuncia abdicativa una delle cause di cessazione dell’illecito permanente da occupazione illegittima (Ad. Plen. n. 2/2016).

Tuttavia, la giurisprudenza successiva del Consiglio di Stato si è discostata dall'orientamento favorevole alla rinuncia abdicativa del diritto di proprietà, evidenziando numerose criticità.

L’atto di rinuncia sarebbe, infatti, privo di una base legale, in un settore come quello delle espropriazioni governato dal principio di legalità (art 42, co. 3 ^ Cost.);

La teoria dell’atto implicito varrebbe per i provvedimenti amministrativi e non per gli atti del privato.

La teoria della rinuncia implicita non spiegherebbe razionalmente il processo traslativo in base al quale la p.a. occupante acquisterebbe la proprietà del bene illegittimamente occupato, che sembra, invece confluire, in base all'art 827 c.c., nel patrimonio dello Stato.

Peraltro, l’atto difensivo non può valere da rinuncia implicita di un diritto immobiliare poichè carente dei requisiti di forma (artt. 1350 e 2643 n.5) c.c.) e della procura speciale a dismettere il bene immobile[5].

Decisiva è poi l’obiezione che evidenzia che la rinuncia implicita al diritto di proprietà, così come descritta dalla giurisprudenza, si risolverebbe in un’espropriazione indiretta in quanto non costituirebbe "uno dei casi previsti dalla legge" (art 42,3^co. Cost.).

Tale opzione esegetica è stata sostenuta dall’Adunanza Plenaria in più occasioni (Ad. Plen. nn. 2, 3 e 4 del 2020[6].

Ad ogni modo, le censure sollevate dal Consiglio di Stato rispetto alla teoria della rinuncia implicita non sembrano travolgere anche la rinuncia abdicativa del diritto di proprietà nel settore civilistico.

Depongono, infatti, a favore della rinuncia abdicativa al diritto di proprietà i principi di libertà dell’autonomia privata (art 41 Cost, art 1322, 2^co. c.c.), e di non discriminazione, in base al quale sarebbe irragionevole ammettere la rinuncia dei beni mobili (art 923 c.c.) e vietarla rispetto ai beni immobili (art 3 Cost.).

La rinuncia abdicativa al diritto di proprietà si sostanzierebbe, dunque, in un negozio unilaterale, patrimoniale, abdicativo, non recettizio, atipico ed a causa neutra (in quanto suscettibile di formare un atto di liberalità indiretta o un negozio unilaterale a titolo gratuito, a seconda che ricorra o meno lo spirito di liberalità), soggetto ai vincoli di forma e di pubblicità previsti agli artt. 1350 c.c. e 2643 n. 5 c.c..

In quanto negozio atipico la rinuncia abdicativa al diritto di proprietà è soggetta al controllo di meritevolezza, ai sensi dell'artt. 1322, 2^co. c.c..

Questo aspetto ha portato alcuni interpreti a dubitare della validità della rinuncia abdicativa del diritto di proprietà di beni esposti al rischio idrogeologico.

Infatti, attraverso la rinuncia abdicativa di beni immobili, il privato potrebbe porre in essere un negozio, esclusivamente, indirizzato a realizzare fini egoistici ed utilitaristici, come il trasferimento dei costi e delle spese per la demolizione di un bene immobile soggetto a rischio idrogeologico.

Al fine di salvaguardare l'interesso dello Stato, e con esso dell'intera collettività, la dottrina ha sostenuto più teorie.

Per un primo indirizzo lo Stato può promuovere l’actio nullitatis di una rinuncia di un bene immobile a rischio idrogeologico, facendo ricorso agli artt. 1322,co. 2 c.c., 1324 c.c. e 1418 c.c..

Infatti, ai sensi dell’art 1324 c.c. si applicano all’atto unilaterale, nei limiti di compatibilità, le norme previste per il contratto, tra le quali vi sarebbe l’art 1322, 2^ c.c. che prevede che il giudice eserciti un controllo di meritevolezza sui contratti atipici.

Ancora, la rinuncia abdicativa al diritto di diritto di proprietà, operata al solo fine di trasferire "un peso" all'itera collettività, sarebbe nulla per illiceità della causa (art 1345 c.c.) e per contrasto con l'art 42 Cost. (funzione sociale del diritto di proprietà).

Una diversa opzione esegetica ha evidenziato che la nullità della rinuncia del bene soggetto a rischio idrogeologico potrebbe derivare dalla combinazione delle disposizioni presenti agli artt 1345 e 1418, 2^co.c.c., che sanzionano con la nullità il contratto concluso per motivo illecito comune ad entrambe le parti.

La circostanza che, nella rinuncia abdicativa, il motivo illecito non sia comune a due soggetti non preclude l’applicazione dell’art 1345 c.c., dal momento che per gli atti unilaterali la regola da seguire è che il motivo illecito rende l’atto nullo se è l’unico che ha determinato il disponente a compiere il negozio giuridico (art 626 e 788 c.c.).

Per una diversa ricostruzione la rinuncia abdicativa, avente ad oggetto un bene a rischio idrogeologico, sarebbe un negozio nullo ai sensi dell’art 1343 e 1418, 2^co. c.c., poichè elusivo delle norme imperative sulla regolarità urbanistica e sull’ambiente e, pertanto, posto in frode alla legge (art 1344 c.c.).

Infine, un indirizzo ermeneutico ha sostenuto che la rinuncia del diritto di proprietà di un immobile esposto a rischio idrogeologico costituirebbe un abuso del diritto censurabile attraverso l’exceptio doli generalis (art 833 c.c.).








[1] A. PALERMO, Enfiteusi, cit., p. 316. Secondo ATZERI, Delle rinunzie secondo il codice civile italiano, cit., p. 118, la disposizione in esame, più che derogare al principio di generale rinunziabilità dei diritti reali, costituisce una applicazione della regola generale per cui nessuno può unilateralmente sciogliersi da un rapporto obbligatorio in cui assume la veste di soggetto passivo. Perché ciò sia possibile occorre o un accordo con il creditore ovvero una causa alla quale «la legge attribuisca l’efficacia di potersi liberare da tali obbligazioni, rinunziando ai diritti costituenti il loro corrispettivo»

[2] Corte di Cassazione, sent. n. 2921/1995: “in tema di remissione del debito, il carattere neutro della causa remissioria secondo la previsione tipica dell’art. 1236 c.c., rende conciliabile la figura con un più ampio assetto di interessi di più ampia portata perseguito pattiziamente dal creditore e dal debitore del rapporto, in cui la remissione si inserisca, e ciò indipendentemente da qualsiasi ipotesi transattiva”.

[3]Consiglio di Stato, Ad. Plen. n. 4/2020: “La tesi in discussione è stata per la prima volta organicamente e sistematicamente ammessa dalla giurisprudenza amministrativa con la sentenza del CGA 25 maggio 2009, n. 486 ed è stata ricostruita negli stessi termini dalla giurisprudenza della Corte di cassazione (cfr. Cass. civ., Sez. Un., 19 gennaio 2015, n. 735), per i casi devoluti alla giurisdizione del giudice civile, nei giudizi instaurati prima della entrata in vigore del-la legge n. 205-2000, che ha poi previsto la giurisdizione amministrativa esclusiva in materia espropriativa”.

[4] Corte di Cassazione, SS.UU., sent. n. 735/2015: “si deve escludere che il proprietario perda il diritto di ottenere il controvalore dell’immobile rimasto nella sua titolarità. Infatti, in alternativa alla restituzione, al proprietario è sempre concessa l’opzione per una tutela risarcitoria, con una implicita rinuncia al diritto dominicale sul fondo irreversibilmente trasformato; tale rinuncia ha carattere abdicativo e non traslativo; da essa perciò, non consegue, quale effetto automatico, l’acquisto della proprietà del fondo da parte dell’Amministrazione”.

[5] Consiglio di Stato, Ad. Plen. n. 4/2020: “Sul piano formale, poi, va considerato che la domanda di risarcimento del danno con-tenuta nel ricorso giurisdizionale amministrativo è una domanda redatta e sottoscrit-ta dal difensore e non dalla parte proprietaria del bene che ha la disponibilità dello stesso e che è l'unico soggetto avente la legittimazione ad abdicarvi, in quanto atto incidente e dispositivo di un bene immobiliare proprio della parte. Né è, altrettanto evidentemente rinvenibile una procura a vendere (rectius: a rinun-ciare) nel mandato difensivo della parte al proprio difensore, che non contiene nep-pure implicitamente una legittimazione al difensore a rinunciare al diritto di proprie-tà del proprio assistito.”.

[6] Consiglio di Stato, Ad. Plen. n. 4/2020: “la trasposizione della figura negoziale della rinuncia abdicativa dall’ambito privatistico all’ambito dell’espropriazione per pubblica utilità (…) genera un’irrazionalità amministrativa di tipo funzionale”.

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