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Città e ghetti afroamericani: la segregazione residenziale

Nel 1954 la famiglia Wade cerca casa in un distretto afroamericano di classe media a Louisville, Kentucky, ma non riesce a trovare nulla adatto a loro. Così una coppia di loro amici, i coniugi Braden, decide di acquistare una casa a Shively, un sobborgo di famiglie bianche di classe media, e di cedergliela. Appena i Wade si traferiscono nella nuova casa, il vicinato protesta in massa contro i nuovi arrivati. Non possono accettare che una famiglia di neri si stabilisca nel loro quartiere: per un mese, sotto gli occhi della polizia che non fa nulla per ostacolarli, la folla insulta la famiglia, scaglia pietre e spara dieci colpi di pistola contro la casa. Gli atti vandalici terminano quando l’abitazione viene fatta esplodere con la dinamite e la famiglia è costretta a trasferirsi in un ghetto di soli afroamericani. Nessun americano bianco viene arrestato, mentre i coniugi Braden, insieme ad altri quattro, vengono accusati dalla Corte di aver istigato conflitti razziali vendendo una casa ad afroamericani in un quartiere per bianchi.

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La famiglia Wade

Questo caso è solo un esempio delle tante violenze che gli afroamericani hanno subito e ancora subiscono in America. Secondo uno studio del Pew Research Center del 2019, più di 4 americani su 10 pensano che il paese non abbia compiuto progressi sufficienti verso l’uguaglianza razziale; anzi, per il 56% l’amministrazione Trump ha peggiorato la situazione.

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Casa Wade dopo l’esplosione

Effettivamente i dati parlano chiaro: dal 2016 i crimini d’odio e razziali sono aumentati del 30% e le aggressioni sono moltiplicate (FBI); ad oggi si contano ben 940 hate groups, gruppi organizzati che inneggiano all’odio razziale. Il problema è stato risollevato negli ultimi mesi a seguito all’uccisione di George Floyd, il 46enne afroamericano ucciso il 25 maggio dalla polizia a Minneapolis dopo essere stato arrestato.

Un fattore determinante per la disparità fra neri e bianchi è la segregazione residenziale che caratterizza la maggior parte delle città americane, tra cui per esempio la stessa Minneapolis, ma anche Chicago e Atlanta. Quest’ultima, in particolare, è diventata l’emblema di una capitale in cui il capitalismo avanzato (Coca-Cola e CNN hanno qui le loro sedi) convive con l’apartheid residenziale. Dei suoi 500 milioni di abitanti, il 32% è costituito da afroamericani che vivono nei quartieri e sobborghi meridionali. Un’autostrada fa da limes territoriale, separandoli dai bianchi insediati nel nord della città.

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Veduta sull’autostrada di Atlanta

La divisione per razze di Atlanta, come di tante altre città, è palese e la domanda sorge spontanea: come si è arrivati a questo punto? Lo storico Richard Rothstein, nel suo libro The Color of Law: A Forgotten History of How Our Government Segregated America, ricostruisce il processo storico della ghettizzazione e ci mostra come le scelte politiche del passato abbiano determinato la morfologia delle città di oggi.   

La mentalità discriminatoria ha infatti guidato le politiche urbanistiche del ventesimo secolo: la cosiddetta “zonizzazione” (zoning) è stata una strategia economica adottata dai governi locali per la costruzione dei ghetti afroamericani. Questi hanno progettato delle città separando i quartieri residenziali, costituiti esclusivamente da villette monofamiliari con un alto prezzo di mercato, da quelli popolari, composti da condomini multifamiliari con un basso valore di mercato.

La separazione fra ricchi e poveri non è stata una condizione necessaria e sufficiente alla costituzione di città segregate: soprattutto dopo la Seconda guerra mondiale, molte erano le famiglie afroamericane di classe medio-alta e per questo motivo le istituzioni del governo federale sono state determinanti per escluderle dalle zone residenziali. Nel 1934 il governo Roosevelt ha fondato la FHA (Federal House Administration), un’agenzia governativa che garantisce ancora oggi mutui a tassi agevolati per la costruzione di case popolari e per l’acquisto di unità abitative. Se da un lato essa ha certamente contribuito a ovviare alla crisi del sistema immobiliare degli anni ’30, dall’altro lato ha rafforzato la mentalità discriminatoria che già era presente a livello locale, concedendo mutui con criterio restrittivo su base razziale. Nel caso delle imprese edili, otteneva un prestito con tasso agevolato soltanto chi presentava un progetto che prevedeva complessi distinti per bianchi e per afroamericani. Nel caso degli acquirenti, invece, potevano usufruire di tassi agevolati gli americani bianchi che volevano acquistare un immobile in un distretto di soli bianchi.

Per decidere quali richieste approvare, il governo federale ha realizzato le cosiddette residential security maps, mappature delle città americane in cui si evidenziavano i vari distretti con colori diversi, in base al tasso di rischio degli investimenti: il rosso indicava le aree a più alto tasso di rischio, che corrispondevano ai distretti abitati da afroamericani, il verde invece le aree “più sicure”, con popolazione esclusivamente bianca. Dalle accuse di esplicita discriminazione razziale, la FHA si è difesa giustificando i propri atti come economici e non socio-politici: la presenza di neri era considerata un fattore di rischio non soltanto per la convivenza pacifica, ma anche perché avrebbe abbassato il valore delle case dell’intero vicinato.

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Residential Security Map – Atlanta

L’ordine esecutivo emanato dal presidente Kennedy nel 1962, che condanna l’investimento di fondi federali in progetti segregati, non è bastato a contrastare la disparità fra neri e bianchi, che di fatto caratterizza il mercato immobiliare del ventunesimo secolo. I mutui concessi agli afroamericani prevedono infatti condizioni svantaggiose: tassi di interesse troppo elevati rispetto al loro reddito e sfratto in caso di una sola mensilità non pagata.

Gli studi approfonditi di Rothstein mostrano che quella americana è una segregazione de jure, perché è stata perpetuata da atti politici anticostituzionali, le cui conseguenze gravano sulla generazione di afroamericani che ancora oggi vive nei ghetti . Lì è esposta a violenze, a un’educazione di scarso livello e a condizioni di salute rese sempre più precarie a causa dell’aumento delle discariche costruite nella zona. Fattori, questi, che sommati costituiscono un sistema deterministico da cui è difficile uscire.

La situazione è resa ancora più drammatica dal paradosso che caratterizza la società americana oggi: se da un lato il reddito della maggior parte di lavoratori e classe media di ogni etnia è rimasto stagnante dal 1973, dall’altro i prezzi degli immobili aumentano sempre di più, rendendo quasi impossibile una mobilità sociale. Chi nasce povero, muore povero.

Le proteste che hanno seguito l’uccisione di George Floyd ci ricordano che uno sforzo collettivo da parte di cittadini e politici per favorire l’integrazione razziale è indispensabile e dovrebbe essere una delle priorità del prossimo governo che il 3 novembre 2020 verrà eletto alle presidenziali. Si tratta di un dovere morale e costituzionale, che è insieme un rimedio e un’opportunità per la società americana. Integrare significa rendere pieno ciò che è incompleto o insufficiente; una società è completa se e solo se le minoranze sono integrate in un tessuto sociale cooperativo, in cui il confronto tra prospettive diverse è lo stimolo per la ricerca di nuove soluzioni e il presupposto per una convivenza pacifica.

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