Ailanto

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Ailanto, via Colombaia (foto 2015)Ailanthus altissima si presta per una riflessione botanica, e non solo botanica.
È il terrore di chi vuole mantenere il controllo del proprio giardino o del proprio bosco senza avere molto tempo per farlo. Se ti capita in giardino e non lo eradichi repentinamente non te ne liberi più. Ha una straordinaria capacità di riproduzione sia per seme, trasportato dal vento anche a grandi distanze (come l’acero), sia attraverso i polloni emessi in gran quantità dall’apparato radicale (come la robinia). E’ sufficiente che nel terreno rimanga un pezzetto della sua radice e l’anno successivo sei punto e a capo con ailanti che ti spuntano da tutte le parti. Una volta a dimora non ha competitori, in quanto cresce bene in qualsiasi condizione, si sviluppa più rapidamente delle altre piante togliendo loro il sole, produce nel terreno sostanze allelopatiche (come il noce) che inibiscono la germinazione di altre piante, e per finire le sue foglie risultano sgradite agli erbivori e agli insetti fitofagi che di conseguenza non ne limitano in alcun modo la diffusione.
Come se non bastasse l’ailanto è anche nella lista nera degli archeologi. Il suo apparato radicale vigoroso ed esteso mette a repentaglio la conservazione dei fragili reperti che spesso sono situati in zone periferiche nelle quali l’ailanto si riproduce liberamente.
Liberarsene è un’impresa. E’ assolutamente sconsigliato fare quello che il buon senso suggerirebbe, ovvero strappare tutti gli ailanti che troviamo nel nostro cammino: se ne tagli uno, dalle sue radici lunghe anche 30 metri ne rispuntano un centinaio. La soluzione più usata è quella di irrorare le radici con grandi quantitativi di diserbanti, pratica che non è propriamente un toccasana per l’ambiente. Volendosene liberare la cosa migliore è non improvvisare e cercare i giusti consigli da persone competenti.
Insomma è una vera e propria bomba ecologica che sconvolge il naturale equilibrio degli ecosistemi.
Come non imprecare contro questa pianta straniera che mette a repentaglio la vita delle nostre querce, i nostri frassini, i nostri faggi?

Eppure dalle sue parti l’ailanto è una pianta nobile al punto da chiamarla Albero del paradiso. Di lei si parla nel più antico dizionario cinese, è utilizzata in falegnameria e in molteplici applicazioni della medicina tradizionale.
In Europa fu importata nella metà del 1700 ed ebbe successo per almeno quattro motivi.

  • Nei giardini ne era apprezzato il portamento elegante.
  • Per i rimboschimenti risultavano molto interessanti le qualità che oggi la fanno ritenere una pianta killer: facile adattamento, crescita veloce, apparato radicale molto esteso in verticale e in orizzontale per stabilizzare i terreni franosi.
  • Nel 1800 in Italia si tentò anche l’allevamento di un bombice che si nutre soltanto della foglia dell’ailanto, con il quale ricavare un particolare tipo di seta (a quei tempi era in corso un’epidemia che colpì i bachi da seta che si nutrono delle foglie dei gelsi). L’esperimento non diede i risultati sperati, della seta non si parlò più, ma rimasero gli alberi.
  • Nelle alberature stradali tornava utile il rapido accrescimento, l’adattabilità a spazi ristretti e le dimensioni tutto sommato contenute in quelle condizioni, l’assenza di malattie e più avanti nel tempo la resistenza all’inquinamento.

Che colpa vogliamo dare all’albero? Lui se ne sarebbe stato buonino buonino nelle sue terre, dalle quali nessun vento avrebbe potuto portare i semi fino in Europa. Una volta qui ha fatto quello che fanno tutti gli alberi, solo un po’ di più, come se dagli uomini che l’hanno portato qui avesse appreso l’ingordigia e la sopraffazione.

Una riflessione merita anche l’idea che si debba proteggere in tutti i modi le specie autoctone. In fondo qualcuno potrebbe dire che un albero è un albero: produce ossigeno, regola il clima, fissa il terreno, ci da legna e abbellisce i parchi. Se ce n’è uno più in gamba della quercia, peggio per la quercia. Anche gli alberi che oggi chiamiamo autoctoni a suo tempo hanno avuto la meglio su altre specie.
Non è così semplice. La scienza botanica oggi non ha dubbi a riguardo, anche se qualcuno ipotizza che le preferenze dell’uomo e la sua capacità di modificare l’ambiente debbano ormai essere riconosciute come uno degli elementi fondamentali del mix evolutivo delle specie viventi. Oggi sappiamo ciò che nel Settecento si ignorava, ovvero che l’introduzione di specie straniere possono sconvolgere in tempi brevi ecosistemi formatisi in molte migliaia di anni. Abbiamo gli strumenti per riconoscere quando questo avviene e a volte anche la coscienza per renderci conto che è quello che l’uomo fa sistematicamente con i propri simili e con tutte le altre specie viventi del pianeta.

A Rodengo Saiano Ailanthus altissima è presente in collina, dove alcuni volontari tentano di contrastarne il prevalere sulle altre specie:

In via Biline, sul muro che delimita il parcheggio antistante gli ambulatori. Nella foto di Google del 2011 l’albero non c’è: quindi l’albero della foto sotto non ha più di quattro anni. Un esemplare più grande si nota nel giardino di un’abitazione privata a pochi metri da lì:

Poco distante, all’inizio di via Cumartelli, c’è un filare di una ventina di esemplari:

In Parmesana, in via Brognolo, tutto intorno alla cascina Monticella, l’ailanto dimostra la sua capacità di diffondersi velocemente sui terreni abbandonati:

Addossato al muro dell’Abbazia olivetana, lungo la ciclabile che va verso Gussago:

In via Sandro Pertini come alberatura perimetrale di una proprietà privata:

Alla sinistra del parchetto in via Colombaia, dove si vede quanto tenace sia questa pianta, capace di competere anche con una fitta siepe. Vicino ai cassonetti cresce l’esemplare più grande (un metro e mezzo di circonferenza) che abbiamo visto in paese (foto sopra):

In via Pavoni, lungo la strada che conduce al calvario:

In via san Dionigi:

In via Gussago:

In via Risorgimento:

 

Divisione: Magnoliophyta
Classe: Magnoliopsida
Ordine: Sapindales
Famiglia: Simaroubaceae
Genere: Ailanthus
Specie: Ailanthus altissima